tecnologie – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’umanità tra mistica e cultura digitale https://www.carmillaonline.com/2024/05/30/lumanita-tra-mistica-e-cultura-digitale/ Thu, 30 May 2024 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82581 di Gioacchino Toni

Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 212, € 17,00, ebook € 9,99

Nell’indagare la dimensione mediologica assunta ultimamente dal politico e l’immaginario attorno a cui si sviluppa, Guerino Nuccio Bovalino, nel suo volume Imagocrazia. Miti, immaginari e politiche del tempo presente (Meltemi 2018) [su Carmilla], ha messo in luce come alle figure deistiche, mitologiche, religiose e ideologiche a cui l’essere umano ha storicamente fatto ricorso per colmare il vuoto fra sé e il mondo che abita, si siano ormai sostituiti i media e [...]]]> di Gioacchino Toni

Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 212, € 17,00, ebook € 9,99

Nell’indagare la dimensione mediologica assunta ultimamente dal politico e l’immaginario attorno a cui si sviluppa, Guerino Nuccio Bovalino, nel suo volume Imagocrazia. Miti, immaginari e politiche del tempo presente (Meltemi 2018) [su Carmilla], ha messo in luce come alle figure deistiche, mitologiche, religiose e ideologiche a cui l’essere umano ha storicamente fatto ricorso per colmare il vuoto fra sé e il mondo che abita, si siano ormai sostituiti i media e gli immaginari derivanti dall’intrecciarsi di nuovi e vecchi simboli trasfigurati dalle nuove tecnologie.

Con il suo nuovo libro, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale (Luiss University Press, 2024), lo studioso continua la sua analisi indagando come, per affrontare le paure di questo mondo, gli esseri umani tendano sempre più ad affidarsi messianicamente alla tecnologia confidando nelle sue capacità salvifiche. Al centro del volume sono dunque le modalità contemporanee di sottrarsi alla realtà, tentativo che da sempre contraddistingue gli esseri umani «tra esodi e ritorni, tra terra e cielo, carne e spirito, beatitudine e dannazione, pesanti macchine e religioni eteree, algoritmi e preghiere». Modalità che oggi, sostiene Bovalino, guardano sempre più all’universo dell’intelligenza artificiale e, più in generale, al mondo delle tecnologie più avanzate come a potenze in grado di garantire una fuga dalla realtà, l’accesso al paradiso terrestre.

Con la Rivoluzione industriale prende il via il processo di colonizzazione dell’immaginario collettivo da parte delle macchine; l’essere umano, affogato in una massa indistinta, tenuto a vivere all’interno del sistema fabbrica/metropoli, si trova a vivere una situazione di spaesamento a cui non riesce più a dare risposta la proiezione salvifica personificata dalle tradizionali divinità.

Tale inedita configurazione dell’immaginario, scrive Bovalino, ha il suo mito fondativo nel frankensteiniano essere costituito con parti tratte da diversi corpi, efficace metafora «della massa indistinta che ha con-fuso gli esseri umani nel magma indistinto della nuova metropoli, e ibridato gli stessi con le macchine con le quali operano nelle fabbriche dalle quali sono agiti»1. Inoltre, il mostruoso frankensteiniano, non essendo più un’entità riconducibile al non-umano, si differenzia dall’idea di mostro propria dell’epoca pre-industriale. Non più figura pre-umana o dis-umana, il mostro si trasforma in un essere iper-umano o post-umano nella mitologia del cyborg e dell’androide. Si tratta di «una trasformazione sociale che sancisce la nascita di una relazione inedita tra organico e inorganico, carne e macchina»2. Come scrive Bovalino, si inaugura così una nuova idea di mostruosità non più fatta derivare da un qualche castigo divino, bensì proiezione di un disagio umano figlio delle trasformazioni introdotte dal processo di industrializzazione con la sua disseminazione di macchine.

L’avvento della fotografia sancisce il trionfo della dimensione immateriale su quella materiale; essa vampirizza il reale rendendo morto ciò che è vivo proiettandolo verso un’immortalità artificiale. La dilatazione delle esistenze determinata dall’eliminazione delle distanze spazio-temporali introdotta dalla metropoli trova nel cinema e, successivamente, nella televisione medium capaci di amplificare un processo che viene ripreso e amplificato dagli schermi dei computer e degli smartphone che, però, non rappresentano più una superficie trattenente ma un vortice, una vertigine risucchiante.

È ormai evidente la frattura tra l’essere sé stessi e l’essere ciò che si vuole apparire. I soggetti si muovono dentro le rete come fossero in esilio dal mondo fisico. Fuori dalla realtà cercano di ricostruire una verità alternativa di sé stessi e del mondo che li circonda. È l’affermarsi di una bolla, di un micromondo che il soggetto edifica lentamente, creando un ambiente digitale abitato molto spesso dai propri “simili”, coloro con i quali si condivide la visione del mondo o con cui, perlomeno, si reputa degno condividere le proprie idee3.

L’utopia digitale si è velocemente trasformata in distopia. «Lo splendore del consumo e il capitalismo gioioso si rovesciano, come katastrophé, in una fase cupa e crepuscolare caratterizzata dal controllo tecnologico e dallo sfruttamento dei dati degli utenti. È l’era della disillusione. Il crepuscolo delle tecnoutopie»4.

In Squid Game (2021-in produzione) di Hwang Dong-hyuk, nel suo presentarsi come “il gioco della fine”, suggerisce Bovalino, è possibile vedere una metafora della “fine dei giochi”, la catastrofe di un capitalismo che si manifesta direttamente nella sua crudeltà senza nemmeno mascherarsi dietro l’illusione spettacolare del consumo. L’universo messo in scena dalla serie coreana è costruito sulla colpa e sul debito. Chi partecipa al gioco mortale lo fa per ripagare i propri debiti così da poter essere reintegrato nel circuito perverso del consumo capitalista. Un circuito che non prevede via d’uscita non contemplando una reale espiazione del debito, della colpa: anche estinguendo il debito, il vincitore resta prigioniero delle atrocità commesse per raggiungere lo scopo.

Al capitalismo digitale si affida il compito di ordinare il mondo ma, scrive Bovalino, si tratta di un capitalismo triste e crepuscolare, palesante «una discrasia evidente fra le promesse di felicità e la rinuncia alla dimensione edonistica e onirica cui sottopone»5 l’essere umano.

La smaterializzazione digitale si trova ora costretta a confrontarsi con la percezione della fragilità umana, con la morte che, tra malattie e guerre, ha fatto irruzione nella realtà facendo riemergere il senso di finitudine umana. «Si tratta di un processo di ri-umanizzazione, fra androidi in lacrime perché bramano di divenire umani, guerre combattute sul campo, identità rinascenti, necessità di appartenenza e rinascita della più importante delle mitopoiesi realizzare dall’uomo: il ritorno del divino nella vita quotidiana»6.

Curiosamente, nel momento di massima espansione tecnologica, riemergono forme di vissuto arcaico in una variate che Vincenzo Susca ha definito tecnomagia [su Carmilla]: la dimensione magica viene riattivata dalla tecnologia. Alla smaterializzazione dei corpi umani succede l’umanizzazione delle macchine e l’intelligenza artificiale, con le sue capacità oracolari, si presenta come lo strumento di tale trasformazione, vera e propria tecno-magia.

La tecnologia non è la profezia ma “il profeta”: essa parla per conto dell’uomo nuovo, colui che vuole disintegrare ogni forma esistente e riconfigurare ogni ambito umano, ossia i nuovi creatori come Zuckerberg, Musk e Altman, i guru di Meta X e Open AI. Dio parla ai profeti come l’uomo parla alla tecnologia, la con-forma e le fa “pronunciare” le parole che costruiscono e configurano il tempo a venire. L’IA è l’oracolo che parla la lingua dell’ultima versione, il più recente upgrade dell’homo deus. Nel profetizzare i futuri stravolgimenti, essa trasforma il reale e come ogni nuova lingua costruisce una inedita architettura della realtà, la ri-forma7.

A ben guardare, suggerisce Bovalino, l’IA ricalca, estremizzandoli, i valori della società capitalista contemporanea – velocità, efficienza, semplificazione, funzionalità – indirizzati al profitto associandoli ad una dimensione del controllo iperstatalista.

È un capitalismo antilibertario costruito su un patto iniquo fra il singolo che elemosina illusioni social tecno-utopiche e le grandi aziende che gliele forniscono chiedendo in cambio di poter nutrirsi dell’intimità del soggetto sotto forma di dati, materiale che usano per rendere più efficienti le loro macchine disumanizzanti. È un processo surreale per cui l’uomo concede alle azione ciò che consente alle medesime di tenerlo sotto scacco8.

Il paradosso è che, come ormai tanta fantascienza di matrice distopica ha messo in scena, le ibridazioni tecno-umane finiscono per desiderare di essere soltanto umane. E ciò palesa l’incapacità dell’essere umano di immaginare qualcosa totalmente fuori da sé.

Opporsi alla nuova utopia/distopia del progressismo apocalittico, rimasta l’ultimo appiglio tattico cui aggrapparsi per sopravvivere dopo il fallimento definitivo del fideismo progressista, cesura che ci ha trasformati in zombie intenti a consumare la nostra residua energia nella lotta per scansare la fine. Soggetti e individui oppressi nell’ultima possibile narrazione: l’ideologia del penultimo. Il progressismo ormai ridotto alla stancante ricerca di estemporanee soluzioni utili a contrastare l’eterno non compiersi dell’apocalisse, che ci si prospetta di continuo sotto forma di mutanti di virus, catastrofi ambientali e nuove guerre nucleari. L’uomo si è cristallizzato nella figura tragica di un disperato che staziona inerme al bordo di un precipizio: schiavo della paura che scaturisce dalla percezione dell’imminenza della morte mentre cerca di eluderla9.

Se, come è sempre stato, l’essere umano si trova a fare i conti con il vuoto, ad essere profondamente cambiato è il contesto e, con esso l’essere umano stesso, costretto a confrontarsi con inedite e disorientanti tecnomagie.


  1. Guerino Nuccio Bovalino, Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale, Luiss University Press, Roma 2024, p. 39. 

  2. Ibid

  3. Ivi, p. 59. 

  4. Ivi, p. 115. 

  5. Ivi, p. 136. 

  6. Ivi, p. 139. 

  7. Ivi, pp. 183-184. 

  8. Ivi, p. 186. 

  9. Ivi, p. 194. 

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Ricchi in fuga https://www.carmillaonline.com/2023/04/19/ricchi-in-fuga/ Wed, 19 Apr 2023 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76651 di Gioacchino Toni

Cinque tra gli uomini più ricchi del pianeta invitano un massmediologo marxista in una località segreta nel deserto per ricevere una consulenza circa l’efficacia dei piani di fuga a cui stanno pensando in vista di quello che chiamano l’Evento, una non meglio definita catastrofe che prevedono si stia per abbattere sulla Terra.

Non si tratta di un romanzo o di un film. Questo è quanto è realmente accaduto a Douglas Rushkoff, docente di teoria dei media e di economia digitale presso il Queens College di New York, divulgatore sui temi dell’innovazione e dell’hi-tech e conduttore del celebre podcast [...]]]> di Gioacchino Toni

Cinque tra gli uomini più ricchi del pianeta invitano un massmediologo marxista in una località segreta nel deserto per ricevere una consulenza circa l’efficacia dei piani di fuga a cui stanno pensando in vista di quello che chiamano l’Evento, una non meglio definita catastrofe che prevedono si stia per abbattere sulla Terra.

Non si tratta di un romanzo o di un film. Questo è quanto è realmente accaduto a Douglas Rushkoff, docente di teoria dei media e di economia digitale presso il Queens College di New York, divulgatore sui temi dell’innovazione e dell’hi-tech e conduttore del celebre podcast “Team Human”.

Il volume di Douglas Rushkoff, Solo i più ricchi (Luiss University Press, 2023) si apre con lo stupore dell’autore per la bizzarra proposta ricevuta di raggiungere un lussuoso resort situato in una imprecisata località nel deserto al fine di fornire un suo parere sul “futuro della tecnologia” a un gruppo si uomini di affari. Trattandosi di un’offerta economicamente importante, lo studioso accetta pur attendendosi la classica raffica di domande volte unicamente a comprendere se vale o meno la pena investire su questa o quella trovata tecnologica nel totale disinteresse circa l’impatto che avrebbero avuto sulla società.

Dopo un viaggio aereo in prima classe, proseguito poi in limousine, raggiunto un lussuoso resort in mezzo al nulla, il “massmediologo marxista”, come egli stesso si definisce, scopre di non dover tenere una conferenza a una platea di invitati ma bensì dialogare con soli «cinque tipi ricchissimi» appartenenti «alla più alta élite nel campo degli investimenti tecnologici e dei fondi speculativi» (p. 10).

Cosa diavolo vogliono da lui costoro? Qualche dritta su ove conviene investire in ambito tecnologico? Ed eccoci alla vera sorpresa: a costoro interessa capire quale zona del mondo subirà di meno la futura crisi climatica, se la minaccia principale deriverà dal cambiamento climatico o da una guerra biologica, quanto si potrà resistere isolati senza aiuto esterno e come potranno continuare ad esercitare la loro autorità sulle forze di sicurezza che dovranno difenderli nei loro bunker da razzie o ammutinamenti dopo l’evento. «L’Evento. Era il loro eufemismo per il collasso ambientale, le rivolte nelle strade, l’esplosione nucleare, la tempesta solare, il virus inarrestabile o l’hack informatico in grado di bloccare ogni cosa» (p. 11).

Insomma, per costoro ragionare sul “futuro della tecnologia” voleva dire trovare il modo per fuggire e isolarsi da una realtà sempre più pericolosa. Rushkoff ricorda come negli ambienti alternativi ci si fosse illusi agli albori della rivoluzione digitale che questa potesse rivelarsi una panacea per il bene dell’umanità mentre oggi lo sviluppo tecnologico, anziché preoccuparsi del bene collettivo, si è indirizzato alla sopravvivenza del singolo in grado di accumulare ricchezza. Le innovazioni digitali, insomma, anziché cambiare il mondo in direzione libertaria, si sono rivelate utili a mantenere al suo posto il vecchio sistema.

I business plan ottimisti con cui questa élite di ricconi bombardava il mondo sembrerebbero aver lasciato il posto a una frenetica ricerca di una via di fuga. Quasi si trattasse di un videogame, questi “miliardari della catastrofe” si preoccupano di essere i vincitori di un gioco di sopravvivenza in un contesto di economia virtuale. Che si tratti di un bunker sotterraneo, di un resort in qualche località remota e protetta o di un’astronave pronta a dirigersi su Marte, certo è uno strano modo di considerasi vincitori, se questo significa isolarsi dagli altri e da un mondo in via di distruzione.

Rushkoff indica con il termine Mindset quel particolare atteggiamento mentale diffuso tra gli appartenenti a questa élite di vincenti che li ha portati a ritenersi al di sopra dei comuni mortali ed a pianificare di lasciare alle spalle il resto dell’umanità sacrificando il mondo che hanno contribuito a distruggere.

Il Mindset, amplificato dalle tecnologie digitali e dalle nuove disparità che esse consentono, rende possibile esternalizzare facilmente i danni inflitti agli altri e induce a desiderare la trascendenza e il distacco dalle persone e dai luoghi danneggiati. [Il] Mindset si basa su uno scientismo del tutto ateo e materialista, che crede che la tecnologia possa risolvere ogni problema, soffre degli stessi bias del codice digitale, ritiene i rapporti umani un fenomeno di mercato, teme la natura e le donne, ritiene che i contributi del singolo on debbano nulla al passato e mira a neutralizzare l’ignoto dominandolo e privandolo di anima (p. 17).

Se i membri di questa élite ricchissima sono del tutto disinteressati alla crisi ambientale e non sono disposti a ripensare minimamente alla corsa forsennata e indiscriminata al profitto divenuta sempre più insostenibile, suggerisce Rushkoff, è perché, da tempo, stanno progettando la “grande fuga solitaria” da un mondo divenuto invivibile. Durante la pandemia Covid-19, riporta il “New Yprk Times”, gli agenti immobiliari specializzati in “isole private” – esistono anche questi – sono stati inondati di richieste.

In quanto devoti al Mindset, rifiutano da tempo la collettività e presumono di poter riprogettare il mondo a proprio piacimento, a patto di aver a disposizione abbastanza denaro e le giuste tecnologie. Le loro trovate per scappare dagli altri e diventare sovrani di sé stessi somigliano ai sogni tecnolibertari che spingono gli ultramiliardari a sfidarsi per colonizzare Marte, con la differenza che possono essere applicate qui sulla terra (p. 25).

Mentre il mondo era nel caos della pandemia i ricchi se ne andavano in qualche località isolata in villeggiatura pensando di poter ignorare ciò che accadeva al di fuori della bolla in cui si erano rintanati credendola ermetica.

Il Covid, sostiene Rushkoff, «ha offerto un’agghiacciante anticipazione di come potrà essere un futuro di totale immerso nel digitale. Ci ha rivelato in modo doloroso e vergognoso che l’equazione dell’isolamento è latente in ciascuno di noi e che le tecnologie che usiamo sono in grado di inasprirla». La pandemia «ci ha dato una scusa per accettare uno degli elementi del Mindset […] ovvero il desiderio di progettare la nostra realtà in modo da rimuovere meticolosamente dall’equazione qualunque cosa minacci la nostra esistenza» (p. 43).

La tecnologia prospetta il mondo che si vuol vedere celando tutto ciò che può infastidire. Se l’isolamento che provoca è da un certo punto di vista reale, visto che abbassa il livello di empatia nei confronti degli altri esseri umani, dall’altro l’isolamento che promette è del tutto illusorio in quanto fondato su un sistema strutturato sulla connessione permanente.

Si pensa solo agli oggetti descrivibili e codificati: qualunque altra cosa va scartata […]. I ricchi tech entrano nel cloud e le masse restano ad accapigliarsi nel mondo reale. Come Cristo o qualunque altro simbolo di salvezza, solo gli individui del tutto codificati possono raggiungere la transustanziazione e passare al livello successivo. È così che stabilisce l’escatologia del Mindset (p. 83).

Se da un lato tale follia individualista è connaturata al sistema capitalista, a spingere sull’acceleratore in direzione del baratro è stato quel neoliberismo che per bocca di Margaret Thatcher ha spavaldamente rivendicato il suo intento di eliminare una volta per tutte la società in nome del più cinico individualismo incurante di imporre un gioco in cui i vincitori avranno come misera e unica cosa di cui godere l’avvenuto annientamento dei disprezzati concorrenti coincidenti con il resto dell’umanità. Insomma, rivendicando spavaldamente la proprietà del pallone, pur di non far giocare gli altri si preferisce ritrovarsi soli a palleggiare mestamente contro il muro. Divertimento assicurato. Ottimo risultato, non c’è che dire.

Le aziende di software, sostiene Rushkoff «non programmano più i computer, ma programmano le persone. Notifiche, swipe, like e “level up” sono stati sviluppati e ottimizzati per come innescano la dopamina a comando e danno origine a comportamenti compulsivi» (p. 91). I social sfruttano non solo l’innata paura degli umani di perdersi qualcosa (fear of missing out), trasformandola in voyeurismo e sorveglianza, ma anche i loro “istinti tribali” proponendo loro gruppi identitari di cui far parte. L’applicazione di dinamiche di gamification all’ambito lavorativo o più in generale all’intero universo comportamentale ha incrementato tanto il business di alcuni (pochi) quanto lo sfruttamento e l’ostilità competitiva di altri (i più). Risoluti dispensatori di verità in giacca e cravatta – o minimale maglioncino girocollo nero – che sfruttano l’apparente orizzontalità del messaggio “tra pari” millantato dalle tecnologie digitali tentano di convincere chi li ascolta che tutto quel che è loro stato raccontato fino ad ora è falso e che basta invertire le polarità, o il colore della pillola, per godere finalmente di una folgorante luce capace di rischiarare le tenebre. L’informazione individualizzata veicolata dal mondo digitale, scientificamente studiata per celare notizie o somministrarne di parziali o false, ha condotto a una schizofrenia di verità “fai da te” (in realtà “fatte per te”) da cui è sempre più difficile raccapezzarsi.

Di fronte a questo quadro d’insieme non mancano ricconi che «salgono sul carro della tecnologia dal volto umano». Costoro, però, denuncia Rushkoff, «non si preoccupano tanto dell’impatto delle loro piattaforme sulle persone, quanto piuttosto dell’impatto potenziale di quelle persone sulla loro sicurezza e sui loro privilegi. Temono che si rendano conto di quel che è successo finora» (p. 96).

L’idea di fuggire e poter ricominciare da capo altrove, abitando una sorta bolla tecnologica (rigorosamente di proprietà) come si trattasse di un gigantesco videogame, si rivela ingenua quanto folle.

Non si può sfuggire alla tecnopoli, soprattutto se si vive per servirla e se si è diventati miliardari aiutandola a dominare il mondo. Ecco perché un tecnopolista che va nella foresta pluviale e si ubriaca di visioni finirà per esperire soltanto la sua visione dell’“unità delle cose” e con pervicacia da zelota vorrà riprodurla in grande stile nel mondo intero (p. 110).

Anziché pensare a come evitare la catastrofe, costoro pensano a come salvarsi da essa lasciandola accadere.

Per chi fa parte del Mindset il più grande pericolo sarebbe se noi ascoltassimo davvero quello che ci stanno dicendo e agissimo di conseguenza. Nelle tecno-utopie che ci raccontano nei TED Talk, dai pulpiti di Davos o nei pitch deck della Silicon Valley, noi esseri umani veniamo considerati come minuscoli pezzetti di ferro che oscillano tra poli magnetici posti da ricchi e potenti per impedirci di infastidire le loro vite (p. 123).

Conviene ascoltare attentamente le promesse dei colossi della tecnologia e dei politici alla loro mercé, conclude Rushkoff.

In tutti i loro grandi piani, nelle loro soluzioni tecnologhe e nei loro grandi reset c’è sempre un “un inoltre” o un “ma”: un elemento di profitto, un compromesso temporaneo, un qualche tipo di crudeltà, un effetto collaterale da risolvere in un secondo tempo o una scialuppa di salvataggio personale riservata al solo fondatore, con la promessa di tornare a renderci durante il prossimo viaggio. Questa è la grande menzogna del Mindset, la bugia che ci stanno raccontando e che ripetono a sé stessi. Non c’è via di fuga, non c’è alcun “dopo”. Quel che non facciamo ora, non lo faremo mai più (pp. 158-159).

 

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Culture e pratiche di sorveglianza. Internet in ogni cosa https://www.carmillaonline.com/2021/09/16/culture-e-pratiche-di-sorveglianza-internet-in-ogni-cosa/ Thu, 16 Sep 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68144 di Gioacchino Toni

«La trasformazione di Internet da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata direttamente nel mondo fisico, potrebbe essere ancora più significativa del passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione digitale»1. Così si esprime Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi (Luiss University Press, Roma 2021), a proposito della portata della funzione di controllo permessa dalla connessione alla [...]]]> di Gioacchino Toni

«La trasformazione di Internet da rete di comunicazione tra persone a rete di controllo, incorporata direttamente nel mondo fisico, potrebbe essere ancora più significativa del passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione digitale»1. Così si esprime Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi (Luiss University Press, Roma 2021), a proposito della portata della funzione di controllo permessa dalla connessione alla rete di oggetti e sistemi al di fuori dagli schermi come veicoli per la mobilità, dispositivi indossabili, droni, macchinari industriali, elettrodomestici, attrezzature mediche ecc… Oltre che con le sofisticate forme di controllo esercitate dalle piattaforme di condivisione di contenuti in rete, ad introdursi nell’intimità degli individui concorrono sempre più oggetti di uso quotidiano in grado di raccogliere e condividere dati personali. Oltre a evidenziare come il cyberpazio premei ormai completamente – e non di rado impercettibilmente – l’universo offline dissolvendo sempre più il confine tra mondo materiale e mondo virtuale, tutto ciò induce a domandarsi se nel prossimo futuro esisterà ancora qualche aspetto privato della vita umana o se invece si stia navigando a vele spiegate verso il superamento stesso del concetto di privacy.

Nel volume DeNardis espone alcuni esempi utili a comprendere come il contraltare del controllo esercitato sugli oggetti connessi ad Internet sia la loro vulnerabilità. Un esempio riguarda la possibilità che estranei da remoto possano accedere e manipolare dispositivi medici dotati di radiofrequenza impiantati nel corpo umano e connessi alla rete. Altro caso su cui si sofferma l’autrice concerne l’ambito dei “sabotaggi di Stato”2, come nel caso del virus Stuxnet individuato nel 2010 con buona probabilità progettato da statunitensi e israeliani esplicitamente per sabotare i sistemi di controllo dei sistemi nucleari iraniani, o del sabotaggio della rete elettrica ucraina presumibilmente per mano dei servizi segreti russi. Altro inquietante esempio riguarda la vicenda della “botnet” Mirai del 2016, probabilmente il più vasto cyberattacco dispiegato sino ad ora attuato attraverso il sabotaggio di semplici apparecchi casalinghi connessi a Internet che ha reso inaccessibili a vaste aree statunitensi oltre ottanta tra i siti più popolari (Netflix, Amazon, Twitter…). L’attacco è stato condotto prendendo il controllo di milioni di dispositivi domestici ricorrendo a una sessantina di username e password comuni o di default per impiantare malware attraverso cui inondare di richieste i siti e mandare in tilt il loro consueto traffico, dunque nei fatti rendendoli inaccessibili.

Oggi esistono più oggetti connessi digitalmente che persone e si tratta di un fenomeno in rapida espansione tanto da prospettare significative implicazioni, oltre che economiche, nell’ambito della governance e dei diritti dell’individuo.

Nel gergo dei sistemi cyberfisici, le cose connesse sono oggetti del mondo reale che integrano direttamente elementi digitali. Esse interagiscono simultaneamente con il mondo reale e con quello virtuale. Il loro scopo principale [è orientato a] mantenere i sistemi in funzione rilevando e analizzando i dati, e controllando automaticamente i dispositivi. […] Già oggi milioni di sensori monitorano le condizioni ambientali, i sistemi industriali, i punti di controllo e il movimento degli oggetti. Questi sistemi inoltre fanno direttamente funzionare i dispositivi […] I sistemi digitali sono oggi sistemi di controllo delle cose e dei corpi del mondo reale. I sistemi biologici fanno parte dell’ambiente degli oggetti digitali. L’internet delle cose è anche l’Internet del sé. Le “cose” dell’Internet delle cose comprendono anche i sistemi biologici delle persone, attraverso tecnologie indossabili, dispositivi di identificazione biometrica e sistemi di monitoraggio digitale medico3.

Il confine tra fisico e non fisico, tra online e offline si sta facendo sempre più labile; Internet si è esteso dal solo campo cognitivo degli utenti fino a divenire lo sfondo invisibile della vita quotidiana trasformando la connettività degli esseri umani da una modalità momentanea tramite schermi ad una modalità costante attraverso oggetti di uso quotidiano. L’essere o meno online non dipende più da una scelta dell’individuo di operare o meno con un dispositivo con uno schermo.

Le sfere ibride online-offline penetrano nel corpo, nella mente, negli oggetti e nei sistemi che collettivamente compongono il mondo materiale. Internet non ha più solo a che fare con le comunicazioni e non è nemmeno più un semplice spazio virtuale. La concezione aprioristica della rete come un sistema di comunicazione tra le persone deve essere superata. L’impennata di sistemi che integrano simultaneamente componenti digitali e del mondo reale crea condizioni che mettono profondamente in discussione le nozioni tradizionali della governance di Internet. Non ha più senso vedere gli spazi online come sfere distinte, tecnicamente o politicamente, all’interno di un mondo virtuale separato in qualche modo dal mondo reale. Online e offline sono intrecciati4.

Tale intreccio tra oggetti del mondo reale e ambito della rete richiede un ripensamento della categoria di “utenti Internet”; sarebbe riduttivo limitarsi a conteggiare gli esseri umani connessi alla rete – passati dall’1% (in buona parte concentrati negli Stati Uniti) di metà anni Novanta a circa il 50% della popolazione mondiale nel 2017 –, visto inoltre che il computo non discerne facilmente tra le persone reali e i “bot”, sistemi automatici come i web crawlers che passano in rassegna i contenuti di Internet per indicizzarli, o i “chatbot”, in grado di sostenere conversazioni con gli utenti. Si stima che una percentuale compressa tra il 9% e il 15% degli account Twitter sia composta da “bot” non di rado utilizzati per marketing, propaganda politica, attivismo e campagne di influenza. Al di là del fenomeno degli account automatici, gli oggetti connessi risultano oggi più numerosi rispetto alle persone e si tratta di oggetti che non hanno relazione formale con gli utenti umani, non sono dotati di schermo né interfaccia utente.

Anche individui mai stati online risultano coinvolti da ciò che avviene in rete; tutto è connesso e dirsi “non presenti in Internet” non ha più molto senso. Un attacco hacker nel 2013 ha colpito una importante catena commerciale statunitense ottenendo accesso ai dati personali (carte di credito, indirizzo di abitazione, numero di telefono ecc…) di circa 70 milioni di clienti sfruttando il sistema climatico del network aziendale. Ad essere violati non sono stati soltanto i dati dei clienti che hanno effettuato acquisti sul web ma anche quelli di chi si è recato esclusivamente nei negozi fisici della catena commerciale. Non è dunque indispensabile, sottolinea DeNardis, “essere su Internet” affinché la vita di un individuo possa dirsi in parte dipendente dalla rete. Maggiore è la diffusione delle tecnologie e meno queste si fanno visibili; più sono integrate nei sistemi materiali e meno necessitano di consensi espliciti.

L’integrazione di queste reti di sensori e attuatori nel mondo fisico ha reso la progettazione e la governance dell’infrastruttura cibernetica una delle questioni geopolitiche più significative del Ventunesimo secolo. Ha messo in discussione le nozioni di libertà e le strutture di potere della governance di Internet, e indebolito ancora di più la capacità degli Stati Uniti di affrontare sul piano politico queste strutture tecniche intrinsecamente transnazionali5.

DeNardis evidenzia le strutture di potere integrate nell’ambito infrastrutturale fisico-digitale insistendo sulla rilevanza che l’ibrido fisico-virtuale viene ad assumere a livello economico, sociale e politico. Facendo attenzione a non cadere nel “determinismo tecnologico”, l’autrice si dice convinta che la composizione dell’architettura tecnica sia anche composizione del potere. «Le tecnologie sono culturalmente modellate, contestuali e storicamente contingenti. L’infrastruttura e gli oggetti tecnici son concetti relazionali in cui gli interessi economici e culturali danno forma alla loro composizione»6. Per comprendere le politiche tecnologiche è indispensabile riconoscere tanto le realtà materiali ingegneristiche quanto le costruzioni sociali di queste.

Le leve del controllo della governance di Internet non si limitano affatto alle azioni dei governi tradizionali, ma includono anche: 1. le politiche inscritte nel design dell’architettura tecnica; 2. la privatizzazione della governance, com’è il caso delle politiche pubbliche messe in atto tramite moderazione dei contenuti, termini di servizio sulla privacy; modelli di business e struttura tecnologica; 3. il ruolo delle nove istituzioni globali multi-stakeholder nel coordinare le risorse critiche di Internet oltre confine; e qualche volta 4. l’azione collettiva dei cittadini. Per esempio, la progettazione degli standard tecnici è una faccenda politica. Sono i modelli, o le specifiche, che permettono l’interoperabilità tra prodotti creati da aziende differenti. […] Se i punti di controllo dell’infrastruttura distribuita danno forma, vincolano e abilitano il flusso delle comunicazioni (email, social media, messaggi) e dei contenuti (per esempio, Twitter, Netflix, Reddit), l’infrastruttura connessa con il mondo fisico (corpi, oggetti, dispositivi medici, sistemi di controllo industriale) è in grado di sortire effetti politici ed economici molto superiori7.

Nel rimarcare come la manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso il web possa comportare un miglioramento della vita umana viene però spesso omesso come tali miglioramenti si riferiscano ai tempi e ai fini imposti agli individui dalla “società della prestazione”8 che, nella sua finalità disciplinare si preoccupa di «Come sorvegliare qualcuno, come controllarne la condotta, il comportamento, le attitudini, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile9. Scrive a tal proposito Salvo Vaccaro:

Alle istituzioni disciplinari con i suoi innumerevoli regolamenti minuziosi e dettagliati, tipici di un apparato amministrativo in via di burocratizzazione e centralizzazione statale nel XVIII e XIX secolo, oggi le nuove tecnologie mediatiche consentono una verticalità abissale della potenza regolativa in grado di controllare persone e cose – basti pensare all’Internet of Things e alla regolazione remota della connessione di funzionamento reciproco umano-macchina specifico alla domotica. Come sempre in ottica foucaultiana, tale potere non è solo repressivo e ostativo, anzi tutt’altro, non fa che ampliare le capacità di conoscenza e di sapere, le forme e i modi del nostro comportamento online e offline, sino a divenire quasi tutt’uno: onlife. Una vita permanentemente connessa, appunto onlife, alimenta e moltiplica a sua volta le opportunità di potere e controllo, grazie al servizio fornito da ciascuno di noi nell’uso del digitale in ogni suo apparato […] e alla governamentalità algoritmica che ne incanala gli usi opportuni, anche al fine di espandere mercati, creare nuovi business e nuove imprese, accrescere profitti e più in generale beneficiare l’economia. La mercatizzazione della società in via di digitalizzazione automatizza la gestione manageriale degli individui sia come corpi fisici che come corpi virtuali, assegnando loro funzioni, standard, obiettivi, distribuendo loro incentivi e disincentivi, integrandoli o espellendoli secondo necessità, su scala mondiale, come ci insegnano i processi di delocalizzazione repentina. Questa nuova biopolitica digitale configura inediti assetti di potere ridisegnando le relazioni che ne tessono la trama e ne delineano forme plastiche, fluide, mobili, e tendenze dinamiche, vorticose, al limite caotiche. La velocità di evoluzione e trasformazione repentine delle innovazioni tecnologiche ne sono l’emblema, la cifra, sarebbe proprio il caso di dire, che si tratta di individuare al fine di cogliere il terreno su cui attualmente ci muoviamo, di intercettare le faglie di resistenza agli effetti di potere che la nuova tecnologia politica scatena, infine di sperimentare inedite forme di conflitto all’altezza con il divenire-digitale delle nostre società e delle nostre vite10.

Al di là dell’auto-propaganda degli artefici della manipolazione diretta e connettiva del mondo fisico attuata attraverso Internet, è impossibile non vedervi una potente forma di controllo, una «forma di manipolazione che può essere talmente prossima al corpo umano da arrivare fin dentro esso e tanto lontana quando lo sono dei sistemi di controllo industriale dall’altra parte de mondo»11.

DeNardis pone l’accento su come la capacità di influenza tra digitale e mondo fisico si dia in entrambe le direzioni: se è ovviamene possibile manipolare il mondo fisco connesso attraverso la rete, altrettanto, agendo sulla realtà fisica collegata a Internet è possibile agire sulla realtà digitale. L’autrice si sofferma sulla questione della governance in un tale contesto a proposito di privacy, sicurezza e interoperabilità. In ambito di privacy vengono, ad esempio, analizzati non solo quegli ambiti – industriali, abitativi, sociali e persino relativi al corpo umano – un tempo nettamente sperati dalla sfera digitale, ma anche gli aspetti discriminatori, come nel caso del ricorso ai dati accumulati online ai fini lavorativi, assicurativi e polizieschi.

Nel volume viene evidenziata «la dissonanza cognitiva tra come la tecnologia si stia rapidamente spostando nel mondo fisico e come le concezioni di libertà e governance globale siano invece ancora legate al mondo della governance e della comunicazione»12. A lungo si è insistito sul ruolo dell’autonomia umana e dei diritti digitali nel contesto della web pensandolo come «una sfera pubblica online per la comunicazione e l’accesso alla conoscenza. L’obiettivo delle società democratiche è stato preservare “una rete aperta e libera”: un concetto acritico che è diventato più che altro un’ideale feticizzato»13. La questione della “libertà di Internet” ha certamente un suo sviluppo storico ma ha sempre teso a concentrarsi sulla libera trasmissione dei contenuti sottostimando tanto la questione dei diritti umani alla luce del contesto cyberfisico quanto il controllo dell’informazione esercitato non solo da parte del potere autoritario ma anche del settore privato14.


Bibliografia

  • Calzeroni Pablo, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Chicchi Federico, Simone Anna, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.
  • Dal Lago Alessandro, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.
  • DeNardis Laura, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021.
  • Foucault Michel, Le maglie del potere, in Archivio Foucault, III. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), Feltrinelli, Milano 1998.
  • Giannuli Aldo, Curioni Alessandro, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  • Han Byung-Chul, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012.
  • Vaccaro Salvo, Gli algoritmi della politica, elèuthera, Milano 2020.
  • Veltri Giuseppe A., Di Caterino Giuseppe, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Su Carmilla – Serie completa: Culture e pratiche di sorveglianza


  1. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, Luiss University Press, Roma 2021, p. 17. 

  2. Cfr. Aldo Giannuli, Alessandro Curioni, Cyber war. La guerra prossima ventura, Mimesis, Milano-Udine 2019. Su Carmilla

  3. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit., pp. 23-24. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, pp. 32-33. 

  6. Ivi, p. 32. 

  7. Ivi, pp. 33-34. 

  8. Cfr.: Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017; Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Milano 2012; Pablo Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 23. Su Carmilla

  9. Michel Foucault, Le maglie del potere, in Archivio Foucault, III. Estetica dell’esistenza, etica, politica (1978-1985), Feltrinelli, Milano 1998, p. 162. 

  10. Salvo Vaccaro, Gli algoritmi della politica, elèuthera, Milano 2020, pp. 141-143. Su Carmilla

  11. Laura DeNardis, Internet in ogni cosa. Libertà, sicurezza e privacy nell’era degli oggetti iperconnessi, op. cit., p. 35. 

  12. Ivi, p. 38. 

  13. Ibidem. 

  14. Cfr.: Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017; Giuseppe A. Veltri, Giuseppe Di Caterino, Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità, Mimesis, Milano-Udine 2017. Su Carmilla

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Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2020/07/13/processi-di-ibridazione-la-carne-lo-schermo-e-linner-space-contemporaneo/ Mon, 13 Jul 2020 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61115 di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli individui tendono a rinunciare a qualsiasi relazione sociale significativa non gestita attraverso i media tecnologici, è su come gli attuali schermi, sempre più piccoli e leggeri, si stiano progressivamente fondendo con il corpo dell’utente perdendo la loro natura di medium, di strumento intermedio tra due diverse realtà, che riflette il sociologo Vanni Codeluppi nel suo contributo Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media – al volume curato da Carlo Bordoni, Il primato delle tecnologie (Mimesis 2020)1, in cui sono raccolti scritti di diversi autori sul rapporto tra tecnologia e individuo.

Nell’epoca della convergenza mediatica, tecnolgica e culturale il messaggio veicolato dagli schermi elettronici non è più vincolato alla superficie del supporto e tende a essere instabile, mutando costanemente sottoposto tanto alle strategie dell’industria dell’intrattenimento quanto ai desideri e all’uso autonomo praticato dagli utenti2.

Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico. Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile dentro lo spazio, come accadeva con le forme precedenti di schermo, quale ad esempio quella che caratterizzava la televisione tradizionale. Ha così la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere3.

Da ciò l’individuo deriva la gratificante sensazione di essere, attraverso lo schermo, in contatto con l’intero mondo e di poter influire su di esso. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dai dispositivi tattili che suggeriscono una fusione tra strumenti e corpo dell’utente richiamando quella “nuova carne” indagata dal cinema di David Cronemberg passando dalla mutazione allucinatoria del corpo (Videodrome, 1983) fino a un interfaccia tra essere umano e game in cui universo reale e universo del gioco si con-fondono definitivamente (eXistenZ, 1999) dando luogo a un vero e proprio nuovo corpo-ambiente.

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion, Videodrome)

Come in Videodrome, anche in eXistenz Cronenberg insiste sulla centralità del corpo nella relazione tra essere umano e macchina in quanto luogo in cui si iscrive l’esperienza dell’individuo.

È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica e non funziona più correttamente (Allegra Geller, eXistenz)

La macchina innestata nel corpo umano risponde tanto alla necessità del capitalismo di estendere gli ambiti da cui estrarre profitto, quanto all’insufficienza della realtà quotidiana percepita dagli individui e al desiderio di un suo superamento alla ricerca di un nuovo mondo. Al regista canadese interessa mostrare la sempre più marcata indistinguibilità tra carne biologica e quella tecnologica, l’ibrido della “nuova carne”.

Se alla sua nascita il surrealismo, attraverso il recupero delle pulsioni vitali rimosse e il dar loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, mirava al raggiungimento di quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio, la filmografia cronemberghiana sembra voler rileggere tale ricerca di realtà superiore alla luce dei nuovi tempi contemplando l’interfacciarsi dell’essere umano con le macchine, soprattutto mediatiche.

Tali questioni sono al centro anche di Black Mirror (dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), serie televisiva che forse più di ogni altra induce a riflettere sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo. Scrive a tal proposito Claudia Attimonelli Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror (Rogas 2018) – che

il senso del titolo Black Mirror è analogico al finale di Videodrome (1983), quando Max Renn fuggendo lontano crede d’essersene liberato, ma è proprio quando gli schermi sono spenti e i dispositivi dormienti che le pratiche agiscono sui corpi online, a loro insaputa. “Lunga vita alla nuova carne”, esultava Renn, e all’alba del nuovo millennio Black Mirror ripropone i dilemmi della nuova condizione postumana.4

Suggestioni surrealiste sono prensenti anche in James Ballard che nelle sue opere ha indagato l’immaginario contemporaneo individuando proprio nell’inner space il luogo di conflitto tra differenti concezioni di libertà individuale e collettiva in cui si danno i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media. In un’intervista rilasciata al nostro Sandro Moiso nel 1992, recentemente data alle stampe in una curatissima edizione – J. Ballard, All that Mattered was Sensation (Krisis Publishing 2019)5 –, lo scrittore sostiene che se in generale è difficile definire il confine tra sogno e realtà, ciò lo è a maggior ragione ai giorni nostri:

l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali6.

Antonio Tursi Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi 2018) – ha approfondito le caratteristiche di tali nuovi scenari concentrandosi in particolare sul loro carattere politico-conflittuale e mettendo in luce come il rapporto tra corpi e immaginario (soprattutto tecnologico) risulti storicamente meno oppositivo di quanto sembri7.

L’intenso ricorso contemporaneo a schermi che tendono ad annullare la distanza che separa lo spettacolo rappresentato al loro interno e il fruitore incide sul modo con cui gli esseri umani conoscono la realtà sociale, dunque su quest’ultima stessa. A proposito dello schermo, nel suo scritto Codeluppi sottolinea come questo sia anche uno strumento di vertinizzazione, di messa in vetrina della realtà, in linea con un modello comunicativo introdotto dalle vetrine dei negozi, imposto socialmente sin dalla prima metà del Settecento8, poi affinato nel corso dei secoli successivi con l’ampliamento degli spazi commerciali e, negli ultimi decenni, con «l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue le modalità comunicative appartenenti alla vetrina, non a caso una specie di grande schermo ante litteram»9.

Seguendo tale ragionamento, gli attuali youtuber, influencer, net attivisti ecc. rappresenterebbero allora alcuni degli esiti contemporanei di quel processo che ha preso via nelle metropoli europee attorno alla metà del XVIII secolo e che ha portato alla ribalta figure provenienti dalla folla generando un processo di estetizzazione del pubblico. Scrivono a tal proposito Claudia Attimonelli e Vincenzo SuscaUn oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020)10 – occupandosi della serie telvisiva di Chris Brooker:

I diversi dispositivi caratterizzanti la vita metropolitana e le sue propaggini mediatiche hanno assecondato la progressiva traduzione del quotidiano e persino del triviale dall’altra parte degli schermi, delle cornici e delle vetrine, confondendoli tra loro in un incidente tanto spettacolare quanto gravido di conseguenze. Tra di esse, la prima e la più importante tra tutte – anche della democratizzazione della politica – è l’estetizzazione delle masse, che siamo stati abituati ad interpretare come la loro definitiva emancipazione, considerandola un affrancamento della cultura bassa nei confronti di quella alta. La sua onda lunga, a ben vedere, ci conduce dalle chiacchiere nei café londinesi costituenti i prodromi dell’opinione pubblica borghese alle chat di Telegram e ai dialoghi di Twitter, dalle prime fotografie raffiguranti gente ordinaria nella seconda metà dell’Ottocento alla celebrazione del quotidiano su Instagram, dalla raffigurazione di donne e uomini senza qualità come comparse nella Hollywood degli anni Trenta alle stories di Snapchat e ai video degli youtuber. Piaccia o meno il suo risultato, è qui in atto il divenire opera del pubblico, una dinamica della quale Black Mirror svela il compimento inatteso, i passaggi oscuri e gli effetti perversi.11

È difficile definire quanto si sia spinto in avanti il processo di ibridazione tra corpo e schermo, quanto l’immaginario contemporaneo risulti plasmato da tale con-fusione e quanto sia sottoposto a un processo di colonizzazione volto a estrarne profitto. Attimonelli e Susca, suggeriscono di

spostare la prospettiva ai bordi dello specchio nero, dove non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali e del gaming. Lasciando proliferare i margini del corpo, estendere i suoi orifizi e cedere le sue parti molli, si sovvertono, nostro malgrado, gerarchia e funzioni tradizionali degli organi e ci vengono restituite immagini oscene, destabilizzanti e triviali. Il nostro corpo abita la diaspora delle istantanee esternalizzate e collocate in memorie digitali accessibili a chiunque, il nostro corpo è irrimediabilmente di Altri. Non tutti sono pronti a questa mutazione.12

In Black Mirror la negatività con cui è spesso presentata la pulsione all’ibridazione del corpo con altro da sé, sostiene Claudia Attimonelli, sembrerebbe derivare dal timore della perdita di centralità dell’umano in una postmodernità segnata da una relativizzazione a cui, non di rado, si tende a rispondere con rigurgiti nostalgici per una fantomatica età dell’oro non più ripristinabile. «Rinegoziare costantemente, così com’è richiesto dalla serialità televisiva, il grado di umanità a partire dalla “fine del corpo umano” sembra essere il movente per Chris Brooker a ogni nuova stagione»13.

Guardando a Black Mirror come a un’anticipazione del nostro futuro, sostiene Attimonelli, sembra di scorgere

il cambio di paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare. A tratti sembra ci si orienti verso scenari diretti da principi tecnocratici e imbevuti di datacrazia […] Intorno a sistemi postmedievali di tortura del corpo si dipana l’immaginario dell’autodeterminazione, confessione, liberazione, valutazione, punizione, sperimentazione e iniziazione. Con l’emergere di queste forme neo-tribali veicolate da totem ad altissima tecnologia e intelligenza artificiale, nel silenzio della cultura scritta, nella sottomissione ai linguaggi elettronici, nell’“emozione pubblica”, sono i corpi a riprendere potere e vantaggio sul linguaggio. Esso, infatti, risulta essere fallimentare nella sua organizzazione tradizionale, non serve più a spiegare e retrocede dinanzi alle reazioni inedite della carne elettronica14.

Con una buona dose di ironia, oltre che di abilità autopromozionale, la notte in cui è stato eletto Donald Trump i produttori di Black Mirror, quasi a far risuonare la voce del professore Brian O’Blivion, predicatore della Chiesa Catodica in Videodrome, hanno lanciato un meme con la scritta “I realizzatori di Black Mirror confermano che l’elezione americana non è un episodio di Black Mirror” facendo seguito al profilo di Twitter della stessa produzione in cui si riportava: “Questo non è un episodio. Questo non è marketing. Questa è la realtà”15.

È andato in loop, non ne uscirà finché non dirai una battuta che appartiene al dialogo del gioco (Allegra Geller, eXistenz)

Di certo l’inner space dell’epoca della vetrinizzazione spinta, derivato (anche) dall’ibridazione corpo-schermo, è un ambito di conflitto. È altrettanto certo che tale conflitto non potrà essere risolto dal messianico arrivo di un eroe coadiuvato dal suo mentore in stile Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In qualche modo occorrerà arrangiarsi. In tal caso il vecchio slogan punk Do it yourself andrebbe però declinato al plurale.


  1. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020. Testi di: Cosimo Accoto, Carlo Bordoni, Vanni Codeluppi, Derrick de Kerckhove, Lelio Demichelis, Ernesto Di Mauro, Pierpaolo Donati, Adriano Fabris, Ubaldo Fadini, Marcello Faletra, Umberto Galimberti, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe O. Longo, Michel Maffesoli, Alberto Oliverio, Matteo Rima, Carlo Sini Bernard Stiegler, Stefano Tani. 

  2. Sulle questioni concernenti la convergenza mediatica, tecnolgica e culturale si vedano i lavori di Henry Jenkins, in particolare il volume H. Jenkis, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune viene contestata da vari studiosi. Pablo Calzeroni sostiene che i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo; interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. P. Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano Udine 2019. Sul volume si veda: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale, Carmilla, 20 gennaio 2020. Altrettanto impietoso nei confronti delle possibilità emancipatorie digitali è Jonathan Crary che accusa il sistema tecnologico-mediatico attuale non solo di esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, ma anche di intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 

  3. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di) Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 33-34. 

  4. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immagini, culture e media della società digitale, Rogas, Roma 2018, p. 101. 

  5. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. Sulle tematiche affrontate nel volume si vedano: G. Toni, J.G. Ballard e l’immaginario come luogo di conflitto, Il lavoro culturale, 18 dicembre 2019; S. Moiso, Un profeta per il XXI secolo, Carmilla, 8 gennaio 2020; S. Moiso, Leggere J.G. Ballard al tempo della pandemia, Scenari, 16 aprile 2020; S. Moiso, Wonderland, puntata del 16 gugno 2020, Rai 4, visibile su Rai Play

  6. James Ballard, All that Mattered was Sensation, op. cit., pp. 37-38. 

  7. A. Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica, Meltemi, Milano 2018. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2]

  8. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 

  9. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, cit. p. 35. 

  10. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2] 

  11. Ivi, pp. 273-274. 

  12. Ivi, p. 175. 

  13. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, cit. p. 97. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, cit., p. 141. 

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Immagini del conflitto / Spazi https://www.carmillaonline.com/2018/06/21/immagini-del-conflitto-spazi/ Wed, 20 Jun 2018 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46243 di Gioacchino Toni

Di pari passo alla propagazione delle nuove tecnologie digitali di comunicazione si è diffusa tra gli esseri umani la sensazione di trovarsi di fronte a nuovi spazi abitativi. Del carattere politico-conflittuale di tali universi – ciberspazio, web, infosfera… – si occupa il libro di Antonio Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), volume di cui abbiamo già avuto modo [su Carmilla] di approfondire la sezione che dedica alla trasformazione del corpo in un orizzonte post-umano.

La questione del carattere politico del nuovo mondo tecnologico con cui ci troviamo a [...]]]> di Gioacchino Toni

Di pari passo alla propagazione delle nuove tecnologie digitali di comunicazione si è diffusa tra gli esseri umani la sensazione di trovarsi di fronte a nuovi spazi abitativi. Del carattere politico-conflittuale di tali universi – ciberspazio, web, infosfera… – si occupa il libro di Antonio Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), volume di cui abbiamo già avuto modo [su Carmilla] di approfondire la sezione che dedica alla trasformazione del corpo in un orizzonte post-umano.

La questione del carattere politico del nuovo mondo tecnologico con cui ci troviamo a fare i conti viene affrontata da Tursi recuperando alcuni celebri esempi di narrazione di “mondi nuovi” del passato per poterli confrontare con i nuovi scenari contemporanei. L’analisi prende il via dalla constatazione di come a partire dalle grandi scoperte geografiche cinquecentesche si originino due grandi narrazioni metaforiche caratterizzate da differenti connotazioni socio-politiche: «da un lato, verso il consolidamento di un utopismo popolare, soprattutto contadino, che aveva radici nel medievale Paese di Bengodi e che si manifestava nelle tante variazioni sull’antico tema del Paese di Cuccagna; dall’altro, verso l’elaborazione di costruzioni colte e moderne come l’Utopia di Tommaso Moro e la Città del Sole di Tommaso Campanella» (p. 101). La prima direzione, che si protrae addirittura fino all’epoca illuminista con Candido e l’Eldorado, insiste con il descrivere utopisticamente un mondo paradisiaco. Per quanto riguarda il secondo filone lo studioso si sofferma sul celebre Libellus relativo all’isola di Utopia di Moro in cui il mundus novus, nella sua volontà di neutralizzare ogni tipo di “lotta di parte”, «si pone come tramite tra la Repubblica disegnata da Platone […] e il Leviatano di Hobbes» (p. 106).

Dopo tali premesse storiche Tursi approda al romanzo di genere distopico di Aldous Huxley, Brave New World (1932), in cui si narra di uno Stato Mondiale che genera i suoi abitanti in provetta per poi collocarli in rigide caste pianificandoli ed educandoli a mantenere e desiderare l’ordine stabilito. In ossequio all’obiettivo della stabilità sociale, in cambio dell’apatia a questi cittadini del nuovo mondo, prodotti attraverso una sorta di catena di montaggio, viene garantita la felicità materiale e fisica. Huxley avrà modo, diverso tempo dopo aver steso il romanzo, di puntualizzare il ruolo della comunicazione di massa e dell’intrattenimento nel creare e soddisfare gli appetiti dell’uomo moderno soffocandone ogni minima propensione politica.

Attraverso queste tappe lo studioso giunge a ragionare sulla definizione di Metaverso proposta da Neal Stephenson nel suo romanzo Snow Crash (1992), opera che tocca questioni che hanno a che fare con l’intrecciarsi di arcaico e contemporaneo, con i linguaggi, la religione, i cyborg, i migranti, la cultura popolare e le urgenze ambientali. Ad essere preso in esame è soprattutto il rapporto tra «realtà (o meglio ciò che siamo abituati a considerare tale) e Metaverso, tra territorio e nuovo mondo virtuale per cogliere il tracciamento politico di entrambe queste dimensioni [al fine di comprendere] la cifra politica che emerge dal loro inestricabile intreccio» (p. 114-115). Diversamente dalle utopie e dalle distopie moderne, «il Metaverso (o ciberspazio) richiede una pratica politico-polemica proprio perché non è scisso degli spazi della nostra vita quotidiana» (p. 115). Rispetto alle narrazioni utopiche e distopiche della modernità in questo caso occorre fare i conti con l’ambiguità del rapporto tra il territorio e la simulazione del ciberspazio.

Snow Crash a cui fa riferimento il titolo è tanto un virus informatico che si propaga in rete provocando “l’effetto neve” sui monitor, quanto un virus mentale che, propagandosi attraverso i liquidi corporei e gli agenti atmosferici, colpisce “la carne viva” degli esseri umani imponendo loro di obbedire agli ordini ricevuti attraverso un codice sotto forma di linguaggio monosillabico. Il medesimo virus neurolinguistico può dunque attaccare nel Metaverso e nella realtà incidendo tanto sugli avatar quanto sui corpi. «Sin nel titolo, dunque, è racchiuso il rapporto stretto e inscindibile tra quella che siamo soliti considerare realtà e il nuovo spazio dei flussi informativi, tra mondo materiale e mondo del codice digitale. Unico è lo strumento di cui avvalersi per dominare in entrambe queste dimensioni: il virus Snow Crash. Unico perché queste dimensioni sono sempre più interconnesse» (p. 116).

Le vicende narrate da Stephenson sono collocate in uno scenario futuro postatomico e postnazionale in un territorio corrispondente agli attuali Stati Uniti ma smembrato in una miriade di autonome enclave recintate e protette. Soltanto alcuni luoghi sottostanno al governo federale degli Stati Uniti mentre i restanti appartengano alle più svariate entità: «il territorio non è più lo spazio in cui si manifesta il potere assoluto del governo statale bensì un patchwork di micropoteri privati, extraterritoriali, conflittuali e instabili. […] Quello che resta, dunque, non è più uno Stato e forse neppure, più genericamente, una unità politica di qualsiasi tipo. Eppure in questo patchwork frastagliato, che tende a isolare spazi chiusi, si tessono legami, alleanze, comunanze» (p. 118).

Il Metaverso di cui narra nel romanzo è invece “un mondo di simulazione” ove gli utenti accedono connettendosi attraverso il web. Il romanzo descrive l’aspetto e la funzionalità di questi spazi in cui gli individui si presentano e agiscono attraverso degli avatar. «Del linguaggio-macchina che controlla i computer e dunque il Metaverso, gli hacker […] sono a tal punto esperti da averlo interiorizzato nelle strutture profonde del proprio cervello, nei propri percorsi neurolinguistici, nel proprio bioware. Questo li rende adatti a gestire il linguaggio di programmazione ma anche particolarmente vulnerabili al virus neurolinguistico Snow Crash. Ma dov’è il pericolo anche ciò che salva cresce. Gli hacker combattono approntando da sé i mezzi di produzione-lotta. […] Questa élite tecnologica non si caratterizza solo per una abilità tecnica ma anche per un nuovo paradigma di legame sociale. Ci che contraddistingue gli hacker, infatti, è lo spirito altruistico di condivisione […] Ciò che gli hacker mostrano è prima di tutto una nuova etica» (pp. 121-122).

Nel romanzo si confrontano una tendenza all’appropriazione ed una alla condivisione. «Di fatto gli scontri nel Metaverso non sono altro che scontri tra software e capacità di gestirli. […] “Il Metaverso è una struttura fittizia costruita con un linguaggio di programmazione. E il linguaggio di programmazione non è che una forma del discorso – quella comprensibile ai computer”. Dunque, lo scontro è innanzitutto uno scontro discorsivo, uno scontro tra capacità di farsi ascoltare (attraverso la mediazione del linguaggio di programmazione) e volontà di non ascoltare e di non far ascoltare (simbolicamente resa dal barbuglio insensato delle vittime di Snow Crash)» (p. 124). La comunità degli hacker non ricalca le comunità nazionali e non è nemmeno una era e propria classe sociale omogenea.

In realtà, ci troviamo di fronte una comunità che non ha nome proprio e dunque potrebbe averne molti. Nel racconto di Stephenson, significativamente e nello stesso tempo paradossalmente, gli hacker assurgono a nome proprio di quella “comunità immaginata” che riconosciamo come gli States. Un riconoscimento che per i protagonisti del romanzo è nostalgia di una comunità ormai polverizzata negli spazi frammentati del territorio-patchwork. In questo modo, la memoria di una comunità ormai disgregata resiste sorprendentemente nella nuova comunità dispersa degli hacker […] In generale, quello degli hacker è “un nome improprio” attraverso il quale un processo di soggettivazione politica può aver luogo nel nuovo spazio dei flussi informativi. […] Gli hacker non sono una comunità che combatte solo per sé, per una rivendicazione particolaristica. Come i poveri nell’antichità greca e il proletariato nell’Europa moderna, gli hacker combattono per un proprio (per sopravvivere al virus neurolinguistico, per affermare la loro etica di condivisione) ma anche e soprattutto per un comune, per preservare un comune, uno spazio del comune: e cioè l’anarchia sostanziale rispetto al tentativo del potente magnate dei media di imporre il suo dominio pervasivo sul territorio così come sul Metaverso. […] Il conflitto nel Metaverso serve a preservare un luogo comune, nel quale riconoscere una comunità degli eguali, una comunità che dà voce tanto all’élite tecnologica quanto agli immigrati disperati e ridotti a essere parlati da un barbuglio insensato. Questo conflitto è politico perché [per dirla con Rancière] “la politica esiste nel momento in cui l’ordine naturale del dominio viene interrotto dall’istituzione di una parte dei senza-parte”. Una parte la cui funzione è politica perché è precipuamente quella di dispiegare una scena comune, cosa che gli hacker fanno letteralmente con il loro lavoro di programmazione. Affermare, cioè, un mondo comune del senso e della visibilità rispetto al precedente e ‘naturale’ mondo sotterraneo dei rumori confusi. In altri termini, rompere una certa configurazione del sensibile, ridefinendo il campo dell’esperienza e facendo balenare una pluralità del sensibile prima invisibile (pp. 126-128).

Dunque, sostiene Tursi, «l’attività politica si rivela essere quell’attività che permette a un corpo di dislocarsi, di uscire fuori dal luogo che gli era stato assegnato, ovvero quell’attività che cambia la destinazione prefissata di un luogo. In questo modo, però, nessun luogo può ritenersi un luogo irenico, bensì sempre un luogo di con-divisione» (p. 129). Moro, Huxley e Stephenson, continua lo studioso, attraverso i loro racconti ci invitano a guardare il nostro mondo nella sua contingenza che non esclude quell’altrimenti che è l’essenza di ogni decisione politica.

Una parte del libro è dedicata all’architettura della/nella trilogia di Matrix dei fratelli Larry e Andy Wachowski in cui Tursi individua «una struttura narrativa chiasmica […] percepibile già visivamente: si passa dal primo The Matrix (Usa, 1999) a Matrix Revolutions (Usa, 2003), capovolgendo il rapporto tra visione della simulazione del culmine della civiltà occidentale e visione del mondo postconflitto di un non determinato futuro. Così, se nel primo episodio almeno due terzi delle scene mostrano la simulazione di una metropoli in cui si potrà riconoscere New York o anche altre città nordamericane, come per esempio Atlanta, in Matrix Revolutions due terzi delle scene mostrano invece luoghi postmetropolitani, quali Zion e la Città delle macchine, poco, narrativamente e visivamente, frequentati in precedenza. Il capovolgimento è operato dall’equilibrato Matrix Reloaded (Usa, 2003): è il secondo episodio che non solo inverte in termini visivi ciò che si era affermato in precedenza ma complica la lettura della narrazione filmica. Infatti, mentre l’episodio iniziale ci permette di leggere una ontologia – e quindi, una estetica e una mediologia – definibile come della scissione, Matrix Reloaded indebolisce questa visione unitaria» (pp. 133-134).

Tursi si occupa dunque degli aspetti estetici legati all’architettura degli spazi metropolitani e postmetropolitani con l’intenzione di delineare «un’estetica-architettura della scissione e, soprattutto, un’estetica-architettura della connessione» (p. 134).

L’ultima parte del volume è dedicata alla «ridislocazione del conflitto» nell’opera letteraria di William Gibson che, sbrigativamente, viene solitamente suddivisa in due periodi distinti. Al primo sarebbero riconducibili la celebre trilogia “sprawl” composta da Neuromante (1984), Count Zero (1986) e Monna Lisa Overdrive (1988) a cui vengono aggiunte le opere Virtual Linght (1993), Idoru (1996) e All Tomorrow’s Parties (1999). Del secondo periodo farebbero invece parte Pattern Recognition (2003), Spook Country (2007) e Zero History (2010). Se le opere del primo periodo si proiettano verso un futuro che, per quanto ormai prossimo, rivela importanti cambiamenti rispetto al presente (del periodo in cui scrive), i romanzi del secondo periodo palesano una inflessione sul presente.

Tursi pone l’accento su come Gibson, pur spostando lo sfondo dei suoi romanzi dalla tecnologia futuribile, soprattutto relativa ai mezzi di comunicazione, nelle prime opere, alle merci del consumo globale, nelle successive, occorre «rilevare come queste merci del consumo globale non siano che il portato della diffusione globale di quelle allucinazioni che le tecnologie di comunicazione hanno indotto e veicolato negli ultimi decenni. Di converso, anche gli immaginifici mezzi di comunicazione utilizzati [dai] cowboy della consolle non sono mai stati altro che merci, qualcosa di acquistabile e vendibile nello “sprawl” disegnato da Gibson negli anni Ottanta» (p. 159).

Insomma, secondo lo studioso Gibson «ha sempre lavorato su un’unica matassa, su quell’immaginario che è condensazione di tecnologie e consumo, […] con la materia di cui sono fatti i sogni» (p. 159), sapendo «cogliere il carattere allucinatorio di quella rappresentazione grafica di informazioni ricavate da ogni computer del sistema umano, di quelle linee di luce allineate nel non-spazio della mente, di quegli ammassi e costellazioni di dati. Dove l’allucinazione segna uno scarto rispetto alla realtà nella quale abitiamo abitualmente. E, nello stesso tempo, l’apertura di un altro spazio dell’abitare. Uno spazio vivo e vitale proprio perché vissuto e dunque costruito e agito consensualmente, oltre che quotidianamente. Uno spazio dell’immaginario “esteriorizzato” o “oggettivato” […] fuori della nostra mente. E dunque non più un immaginario individuale ma condiviso. E non più alla maniera permessa dai mass media come la televisione ma in maniera più articolata e complessa» (p. 160).

Secondo Gibson «comprendere l’immaginario come spazio del conflitto non significa smaterializzare il conflitto o, ancor oltre, disincarnarlo» (p. 171); nelle opere dello scrittore il conflitto resta dunque incorporato e «si gioca in ambiti differenti rispetto alle geografie del moderno, in ambiti transpolitici, e tra soggettività diverse rispetto a quelle del passato, soggettività riconosciute ibride e post-umane. Ma continua a riguardare concretissimi interessi materiali, di corpi vivi, rispetto ai quali poteri e contropoteri si confrontano anche nel nuovo inner space che Gibson ha esplorato e che ci ha fatto intravvedere» (p. 174).

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