Tarzan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 11 Apr 2025 20:00:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Elogio dell’eccesso: Babylon https://www.carmillaonline.com/2023/02/10/elogio-delleccesso-babylon/ Fri, 10 Feb 2023 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75979 di Sandro Moiso

Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con [...]]]> di Sandro Moiso

Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con Babylon ancora una volta alla sua passione per il cinema, il suo mondo e la sua storia.

Una passione, velata di nostalgia, già espresso nella pellicola vincitrice del premio in cui aveva reso omaggio ai classici film musicali prodotti a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. Nel film attuale la rappresentazione dei sentimenti del regista nei confronti del cinema del passato è affidata al personaggio che fa un po’ da trait d’union tra i personaggi e le storie narrate, interpretato dall’attore Diego Calva, riuscendo ad aprire spazi di riflessione su cosa sia stato il cinema, su cosa sia diventato o continui ad essere, superando ampiamente il pericoloso effetto nostalgia canaglia che, scorrendo in sotto traccia avrebbe potuto gravemente menomarne il significato. Facendo sì, invece, che la sua visione risulti stimolante anche per quanto riguarda le possibili riflessioni sull’arte, il sogno e il desiderio in tutte le loro possibili forme.

Di scarso interesse sarebbe riassumerne qui la trama, ripetere gli elogi per la bravura di Margot Robbie, Diego Calva e Brad Pitt e di molti dei comprimari. Scontato elogiare la tecnica dei piani sequenza lunghi e visionari in cui feste orgiastiche oppure set improvvisati nel deserto californiano diventano occasione per un uso smodato della steadicam o di riprese che precipitano letteralmente lo spettatore nella scena cui sta assistendo. Mentre va sicuramente segnalata la stratificazione di storie ed emozioni che, pur non tradendo le aspettative di un film destinato al grande pubblico e non certo ai cinema d’essai, incollano alla poltrona gli spettatori e, al tempo stesso, li costringono a riflettere sulla magia del cinema, il suo immaginario, lo star system e la loro funzione, allo stesso tempo, liberatoria e ingannatrice.

Le cose da segnalare però rimangono tante, per una storia che narra il passaggio dal cinema muto delle origini al cinema sonoro dei grandi studios, organizzati con modalità di fabbrica a Burbank, posta nell’area di Los Angeles. A pochi chilometri di distanza da Hollywood, ritenuta a torto o ragione ancora oggi, “la Mecca del cinema”. Una storia che si svolge complessivamente tra la seconda metà degli anni Venti e il 1952, anche se il cuore della vicenda è racchiuso tra il 1926 e il 1934.

Il 1926 è infatti l’anno in cui il cinema delle origini perde la sua libertà espressiva, l’anarchica tendenza a portare sullo schermo qualsiasi sogno, desiderio o avventura per iniziare a diventare una macchina da sogni molto più regolamentata e organizzata. E’ infatti l’anno in cui per la prima volta la società di produzione Warner Bros. porta sullo schermo 8 cortometraggi sonorizzati col metodo Vitaphone mentre, il 26 agosto dello stesso anno, il primo lungometraggio sonoro, è presentato al Warner Theatre di New York per un pubblico pagante.

Tale innovazione di carattere tecnologico avrebbe così causato un autentico terremoto nel sistema produttivo hollywoodiano, segnando la fine delle star precedenti e della libertà dì espressione, spesso caotica, ma quasi sempre geniale e creativa, sia delle attrici e degli attori che dei registi impegnati su set che, fino a quell’epoca, erano stati più di carattere artigianale che industriale.

La nuova tecnica imponeva regole e limiti all’espressività fisica degli interpreti. Imponeva il potere della parola sui corpi e sulle immagini, ne delimitava i confini spaziali, psicologici e recitativi. Portando le regole della recitazione teatrale all’interno di un’arte che era nata altra. La dizione iniziava a contare e la voce di una ragazza del Midwest, proletaria e poco educata (la Nellie LeRoy interpretata da Margot Robbie) poteva rivelarsi disastrosa proprio là dove, prima, la sua esuberanza fisica e recitativa aveva costituito la sua fortuna nei confronti del grande pubblico.

Vale per l’attore bello e dannato (Jack Conrad interpretato da Brad Pitt), uscito tanto dalle pagine di Francis Scott Fitzgerald quanto dalle vite di attori autentici quali Douglas Fairbanks (grande interprete di film d’avventura) o John Gilbert (il più pagato di Hollywood nel 1928), la cui voce non avrà lo stesso fascino del suo sguardo e del suo volto, finendo col rendere ridicole scene che prima ne avevano esaltato il fascino.

Ma vale anche per il trovarobe Manuel “Manny” Torres (interpretato da Diego Calva), innamorato di tutto ciò che è cinema e di Nellie in particolare, che poco per volta rinuncerà alla sua identità messicana, portata via dal vortice di Tinseltown, per essere trasformato sempre più in un produttore esecutivo che non riuscirà, però, a sposare con successo la sua passione con le regole del “nuovo” cinema. E anche se sarà l’unico a sopravvivere fino all’avvento di una nuova grande star (Marilyn Monroe), lo farà da nostalgico testimone di un’epoca e da modesto rivenditore di elettrodomestici a New York.

E’ un passsaggio di portata storica quello raccontato nel film di Chazelle. Storia di una Babilonia sul Pacifico che già altri avevano tentato di rappresentare e di narrare, dagli scandalosi testi di Kenneth Anger sui vizi e le perversioni della città del cinema1 ai fratelli Taviani con il loro Good Morning Babilonia del 1987, in cui veniva raccontata la nascita artigianale del grande cinema di Griffith, vista attraverso gli occhi e le esperienze di due modesti artigiani di origine toscana.

Il cinema di Griffith, con i suoi Birth of a Nation (1915) e Intolerance (1916), e quello di Erich von Stroheim, costituiscono i due capisaldi in mezzo ai quali si muove il cinema dell’epoca precedente il sonoro. Cinema che però aveva alimentato anche le storie di Charlie Chaplin, Buster Keaton e molti altri. Tutti accomunati dall’essere dei visionari in un’arte che proprio dalla “visione” è sempre stata determinata, Fin dagli esordi dei fratelli Lumière e di George Méliès.

Arte nata in Europa e che Lenin aveva definito la più importante delle arti. Che a Torino aveva visto realizzare il primo colossal dell’epoca, Cabiria (1914), della durata di 168 minuti, che sarebbe stato anche il primo film ad essere proiettato alla Casa Bianca, probabilmente ispirando, con il suo successo, The Birth of a Nation (durata 190 minuti) di David Wark Griffith, già prima citato.

Cinema decisamente artigianale, rispetto al successivo, ma che aveva permesso quei voli fantastici dell’immaginazione che avrebbero così totalmente rapito e irretito l’immaginario e la mente di milioni di persona di ogni nazionalità. Fornendo così la base su cui si è fondata tutta la potenza narrativa del cinema, fino al più recente Avatar 2 – La via dell’acqua2. Registi e attori che hanno di fatto rappresentato gli autentici fratelli Wright dell’inizio dei voli della mente davanti al grande schermo, all’interno di una sala buia ma popolata da molti altri spettatori destinati a sognare tutti insieme. Spesso nelle forme più diverse e meno automatiche, che solo la parola recitata avrebbe iniziato ad indirizzare verso uno spazio comune della mente.

Gli effetti complessivi del passaggio dal muto al sonoro potrebbero essere riassunti nel viaggio compiuto dal cinema italiano dalla Torino dei film di Giovanni Pastrone alla Cinecittà di mussoliniana ideazione e realizzazione alla metà degli anni Trenta. Dal cinema della visione a quello dei “telefoni bianchi”. Da quello ispirato, come Cabiria, ai romanzi d Emilio Salgari (Cartagine in fiamme, 1906-1908), a quello rispondente alle esigenze di svago preordinato per il “dopolavoro” delle masse e di propaganda ideologica del regime. Da quello del sogno a quello dell’impero. Osservazione quest’ultima che, dal punto di vista cinematografico, vale per le due sponde dell’Atlantico.

Se c’è una parola che può servire a descrivere il prima e il dopo, questa è eccesso.
Che, almeno per una volta, andrebbe compresa nel suo significato generale e non soltanto di giudizio morale. Termine che indica il massimo, l’estremo, il sommo grado cui si può giungere nella realizzazione di un’opera d’arte o di una vita. Vocabolo che serve benissimo a definire ciò che è arte da ciò che non lo è e che, spesso, non è nemmeno cultura. Vocabolo adatto a descrivere l’intima essenza desiderante della Rivoluzione, ma non il Riformismo degli equilibri e la volontà dello Stato di mantenere l’ordine costituito, che può eccedere nelle sue funzioni, ma mai potersi pensare in “eccesso”.

Fin dal 1915 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America aveva stabilito che le pellicole cinematografiche non erano coperte dal primo emendamento: «la proiezione di immagini in movimento è un business puro e semplice, nato e gestito per il profitto […] non deve essere considerato […] come parte della libera stampa del Paese o come un mezzo di formazione della pubblica opinione». La medesima sentenza stabiliva inoltre che i film «possono essere usati per fini malvagi» e che pertanto la censura di questi «non travalica i poteri del Governo». A seguito di tale sentenza città e contee avevano iniziato a porre divieti sulla pubblica esibizione di film giudicati “immorali”, e gli studios temevano che presto sarebbe seguita una legislazione statale o federale.

Nei primi anni Venti tre grossi scandali avrebberoo turbato Hollywood3. Queste storie, avvenute in rapida successione, furono trattate con sensazionalismo e clamore dalla stampa e costituirono i titoli di tutti i quotidiani del paese e sembrarono confermare in pieno la percezione che molti avevano di Hollywood come “città del peccato”.

Questa presunta immoralità portò alla creazione, nel 1922, dell’Associazione dei produttori e distributori di pellicole cinematografiche, intenzionata a presentare un’immagine positiva dell’industria cinematografica, guidata da Will H. Hays, che chiese di stabilire una serie di standard morali per i film. A questo fine Hays tentò di rafforzare tramite la sua associazione l’autorità morale sui film hollywoodiani, ma con scarsi effetti. L’ufficio di Hays rilasciò infatti una lista di divieti e di cautele nel 1927, ma i registi continuarono a realizzare ciò che volevano e, in molti casi, i tagli proposti di alcune battute o scene non vennero effettuati.

Con l’avvento del sonoro, nel 1927 si sentì la necessità di un codice scritto più restrittivo. Fu così steso il Production Code che venne adottato il 31 marzo 1930, ma fu di fatto ignorato dagli studios. Questo e i codici successivi furono spesso denominati Codice Hays perché Hays ne era stato il promotore. Un emendamento al codice, adottato il 13 giugno 1934, creò allora la Production Code Administration, decidendo che da allora ogni film dovesse ottenere un certificato di approvazione prima di approdare nelle sale. Da allora, per tutto il ventennio successivo, tutti i film prodotti negli Stati Uniti aderirono più o meno rigidamente al codice4. Il primo intervento che coinvolse una major cinematografica fu nella pellicola del 1934 Tarzan and His Mate, nella quale una breve scena di nudo dell’attrice Maureen O’Sullivan venne eliminata dal negativo del film.

Oltre a ciò il codice si accanì anche nel modificare personaggi di animazione come Betty Boop, dalle forme troppo prosperose e ben in vista, oppure la cinematografia sui gangster imponendo, in piena grande crisi, che le storie di tale genere non potessero concludersi a “vantaggio” dei delinquenti rappresentati sullo schermo (e amati dal grande pubblico che ne seguiva le gesta nella realtà, come nel caso dei rapinatori di banche Bonnie Parker e Clyde Barrow e di John Dillinger, tutti letteralmente fucilati on the road dalle forze dell’ordine e del Federal Bureau of Investigtion).

Ecco allora, che poco alla volta, ci si è avvicinati al cuore di ciò che ispira la visione del film di Chazelle: la fine dell’eccesso che è anche la fine del sogno e del desiderio liberato.
Fosse anche solo nell’immaginario. Inutile, dopo, teorizzare archetipi ed eroi adatti ad un mondo trasformato e sottomesso dalle regole della tecnica, della produzione seriale e dei codici. Non a caso, l’ultimo vero grido “silenzioso” di rivolta è quello di Tempi Moderni di Charlie Chaplin (1936), ultimo film muto girato a Hollywood e l’ultimo in cui appare sugli schermi il vagabondo Charlot. Autentico canto del cigno di un’epoca giunta alla fine, nel film sono soltanto i rappresentanti del potere economico e politico e le macchine che ne proiettano l’immagine o trasmettono la voce “a parlare”.

L’avvento del sonoro e dei codici di comportamento e regolamento per sceneggiatori, registi e attori servirono soprattutto a regolamentare il sogno di massa e a ricondurlo nei recinti di ciò che è accettabile per il potere politico e la morale cristiana, nei suoi vari dettami. Ma anche quando, come al giorno d’oggi, si permetterà la presenza dell’eccesso questo sarà solamente il prodotto finto di una rappresentazione. Così come i Maneskin e il loro circo di insopportabili manierismi possono stare a Iggy Pop e ai suoi Stooges. Oppure The Walking Dead ai film di Romero e alle produzioni di storie di serie B di un cinema artigianale e ribelle soffocato dalle grandi e costosissime produzioni seriali e cinematografiche.

E’ un discorso tutto ancora da sviluppare questo scaturito dalla visione del film Babylon. Riguarda il desiderio, l’arte, il sogno: tre aspetti dell’attività umana che non possono avere limiti e regole che ne castrino la creatività fin dalle radici. Senza scomodare la psicoanalisi, basterebbe citare Leopardi che, nello Zibaldone di pensieri, si sofferma ripetutamente sulla naturale illimitatezza del desiderio oppure citare Dante e Boccaccio, con i loro eccessi nella scrittura opposti all’ordine e all’equilibrio del petrarchismo. Oppure, ancora, la lingua di Gadda contro quella di tanti scrittori di successo contemporanei. Non occorre essere obbligatoriamente dei punk per cogliere l’importanza dell’eccesso nella vita, nell’espressione artistica e nell’attività onirica. Conscia o inconscia che sia quest’ultima. Vale per gli eccessi narrativi di Philip José Farmer nei confronti di tanta vuota SF iper-tecnologica; vale per i due maggiori scrittori della letteratura francese del ‘900, Louis Ferdinand Céline e Marcel Proust, così distanti tra di loro eppure così eccessivi nell’uso della lingua e dei ricordi. Vale, infine, per i passaggi più visionari dei romanzi di Eymerich messi a confronto con tanta vuota letteratura mainstream odierna.


  1. K. Anger: Hollywood Babilonia, Adelphi, Milano 1979 e Hollywood Babilonia II, Adelphi, Milano 1986  

  2. Film dal risultato ben più modesto rispetto al precedente Avatar, sempre di James Cameron, uscito nel 2009, a dimostrazione che lo sviluppo della tecnologia, nel cinema come in qualsiasi altro ambito, è destinato a far sì che la stessa cannibalizzi se stessa insieme ai suoi prodotti, resi rapidamente e irrimediabilmente obsoleti ad ogni svolto della sua evoluzione  

  3. I processi per omicidio della star delle commedie Roscoe Fatty Arbuckle (accusato della morte dell’attrice Virginia Rappe a una festa), l’assassinio del regista William Desmond Taylor e la morte dovuta alla droga del popolare attore Wallace Reid.  

  4. Che si basava su tre norme fondamentali:
    1. Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
    2. Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento.
    3. La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.

    Da cui derivavano ancora svariate altre regole:
    Il nudo e le danze lascive furono proibiti.
    La ridicolizzazione della religione fu proibita; i ministri del culto non potevano essere rappresentati come personaggi comici o malvagi.
    La rappresentazione dell’uso di droghe fu proibita, come pure il consumo di alcolici, “quando non richiesto dalla trama o per un’adeguata caratterizzazione”.
    I metodi di esecuzioni di delitti (per esempio l’incendio doloso, o il contrabbando ecc.) non potevano essere presentati in modo esplicito.
    Le allusioni alle “perversioni sessuali” (tra cui, all’epoca, veniva inclusa l’omosessualità) e alle malattie veneree furono proibite, come lo fu anche la rappresentazione del parto.
    La sezione sul linguaggio bandì varie parole e locuzioni offensive.
    Le scene di omicidio dovevano essere girate in modo tale da scoraggiarne l’emulazione nella vita reale, e assassinii brutali non potevano essere mostrati in dettaglio. “La vendetta ai tempi moderni” non doveva apparire giustificata.
    La santità del matrimonio e della famiglia doveva essere sostenuta. “I film non dovranno concludere che le forme più basse di rapporti sessuali sono cose accettate o comuni”. L’adulterio e il sesso illegale, per quanto si riconoscesse potessero essere necessari per la trama, non potevano essere espliciti o giustificati, e non dovevano essere presentati come un’opzione attraente.
    Le rappresentazioni di relazioni fra persone di razze diverse erano proibite.
    “Scene passionali” non dovevano essere introdotte se non necessarie per la trama. “Baci eccessivi e lussuriosi vanno evitati”, assieme ad altre trattazioni che “potrebbero stimolare gli elementi più bassi e grossolani”.
    La bandiera degli Stati Uniti d’America doveva essere trattata rispettosamente, così come i popoli e la storia delle altre nazioni.
    La volgarità, e cioè “soggetti bassi, disgustosi, spiacevoli, sebbene non necessariamente negativi” dovevano essere trattati entro i dettami del buon gusto. Temi come la pena capitale, la tortura, la crudeltà verso i minori e gli animali, la prostituzione e le operazioni chirurgiche dovevano essere trattati con uguale sensibilità.
    Sull’argomento cfr. AA.VV. Prima della grande censura. Hollywood e il Codice Hays, in “Cinematografie”, Anno II, n.3, primo semestre 1991, pp. 7-94 e AA.VV. Prima dei codici 2. Alle porte di Hays, XLVIII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – La Biennale di Venezia, 1991.  

]]>
«Superuomo, ammosciati!» ovvero l’eroe scassato e sconquassato da Philip José Farmer https://www.carmillaonline.com/2022/08/24/superuomo-ammosciati-ovvero-gli-eroi-scassati-e-sconquassati-di-philip-jose-farmer/ Wed, 24 Aug 2022 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72995 di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della [...]]]> di Sandro Moiso

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi (Bertolt Brecht – Vita di Galileo)

Due sono le costruzioni cui più suinamente si inchina il filisteo, lo Stato e l’Io (Amadeo Bordiga – Superuomo, ammosciati!)

Mia madre è una scimmia, mio padre è Dio (Philip José Farmer – Lord Tyger)

Se è mai esistito un autore di SF che possa essere definito come iconoclasta, questo non può essere altri che Philip José Farmer. Un’intera vita, e un’intera attività letteraria, spesa a demolire e distruggere tutti i dogmi delle religioni rivelate, tutti i tabù e tutti gli “eroi” della letteratura e del mito. Senza sconti e senza scampo per nessuno,
Del suo ruolo di innovatore della SF americana Valerio Evangelisti ha scritto:

Negli anni, la fantascienza era divenuta (aderendo al proprio oggetto) un’astronave proiettata fuori dal mondo letterario; e se al suo interno fiorivano le ipotesi vertiginose e i temi socialmente e politicamente scottanti, fiorivano anche le incrostazioni di tabù e divieti. Sappiamo, per esempio, da una testimonianza di Harry Harrison, che persino la menzione di un comune vaso da notte faceva storcere il naso agli editori americani, attenti a non scandalizzare un pubblico minorenne. Figuriamoci il sesso. Ma ecco che arriva Philip José Farmer ad abbattere le barriere a spallate. Non è il solo, ma certo il meno cauto. […] E non si tratta solo di sesso. La religione altro argomento precluso (ma molto meno), subisce la stessa sorte. Si pensi alla pagina di Venere sulla conchiglia in cui Gesù Cristo appare alla tv, dice «In verità vi dico…» poi viene oscurato perché il tempo è scaduto. Memorabile. […] Questo è in effetti Farmer: un rivoluzionario che magari nemmeno sa di esserlo1.

Nato a Terre Haute, nell’Indiana, il 26 gennaio 1918 e morto a Peoria il 25 febbraio 2009, Farmer è stato, fin dagli anni Quaranta, uno scrittore estremamente prolifico nell’ambito della fantascienza statunitense. A causa della rigida educazione impartitagli da una famiglia benestante e puritana, di origini inglesi, olandesi e irlandesi da parte di padre e scozzesi e tedesche da parte di madre, cercò sfogo nella lettura di romanzi fantastici e d’avventura. A nove anni scoprì i classici della letteratura greca e i libri di Oz, mentre l’anno seguente avrebbe iniziato a frequentare la letteratura di stampo fantascientifico e satirico-fantastico attraverso i romanzi di Edgar Rice Burroughs, Jules Verne e I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift.

Di queste iniziali, infantili e disordinate letture avrebbe approfittato più avanti negli anni quando, nei suoi romanzi maggiori, ma anche in quelli minori e nei racconti, avrebbe mescolato figure e vicende prese a prestito da quella letteratura, oltre che da quella weird e pulp, per dare vita a saghe che avrebbero visto tra i protagonisti personaggi del calibro di Mark Twain, Erik il Rosso, Riccardo Cuor di Leone, Gesù Cristo, Tom Mix, Richard Francis Burton e molti altri ancora, come nel ciclo di Riverworld, il mondo del Fiume (cinque romanzi pubblicati tra il 1971 e il 1983, più svariati racconti).

Oppure descrivendo universi impossibili, con mondi strutturati come ziggurat, sui cui piani convivevano e combattevano esseri ed eroi provenienti dalla mitologia greca, come i centauri, così come da quella nordica o degli amerindi. Come avviene nel ciclo dei Fabbricanti di universi (sette romanzi pubblicati tra il 1965 e il 1993).

Infatuato fin dall’infanzia dai dirigibili e dai veicoli più leggeri dell’aria, avrebbe poi “riscritto” Moby Dick, ambientandolo su un pianeta dove le balene galleggiano nell’aria e gli equivalenti del capitano Achab e degli altri personaggi descritti da Melville danno loro la caccia a bordo di strane mongolfiere (Pianeta d’ariaThe Wind Whales of Ishmael, 1971), mentre nel 1973 avrebbe reinventato un classico di Verne, letto nell’infanzia: Il giro del mondo in ottanta giorni (Il diario segreto di Phileas FoggThe Other Log of Phileas Fogg, 1973). Come ha affermato Diego Gabutti, in Fantascienza e comunismo:

Farmer è sempre stato, prima che uno scrittore, un riscrittore: tali sono anche, del resto, i padri fondatori della letteratura moderna. Vivendo come una sorta di vampiro emozionale i romanzi degli altri, impossessandosi di trame e personaggi non suoi […] Farmer è un grande lettore se non immediatamente un grande scrittore.

Così, se egli non ha mai veramente scritto romanzi propri, è solo perché nessuno l’ha mai veramente fatto: il romanzo è ripetizione infinita, nel senso in cui Bordiga definiva se stesso un «ripetitore» […] Meglio vecchi libri che cadaveri freschi. Tuttavia, la professione del bibliotecario non è soltanto il collaudato male minore: è una scelta di campo intransigente, fredda e determinata […] Se Farmer, ad esempio, ha riscritto Il giro del mondo in ottanta giorni è solo perché neppure Verne, lui in particolare, aveva evidentemente saputo o potuto dire tutto. Con la riscrittura del Voyage, in cui ci è svelata l’identità extraterrestre di Phileas Fogg, di Passepartout e della principessa Auda, viene soprattutto ad affermarsi in un corpo già consegnato alla classicità un po’ sudicia dei musei di scienze naturali della letteratura, un movimento che il divenire, compiacendone i tic, aveva radicalmente negato.

Statue di marmo non parlano più. Ma proprio perciò Farmer torna a quel che la statua era prima che divenisse un marmo, prima che s’indurisse nell’impotenza dei suoi tratti scolpiti per sempre […] D’altra parte, il filologo non si preoccupa tanto del suo oggetto quanto della propria salute: vuole sbarazzarsi dei fantasmi ululanti nelle sue ossessioni, ed è allora un fantasma ulteriore che egli prepara per gli altri. Tanto peggio per l’oggetto se ne risulterà massacrato […] Lo sforzo filologico ha un carattere insurrezionalista: quando, come ora, tutti i tempi tattici sono stati consumati e chi non è con noi è contro di noi, non c’è altro modello che non sia nuovamente quello che ha dato il là nei tempi moderni alla leggenda del filologo, la saga stessa di Nietzsche. Il filologo è senza paura, è stato terrorizzato a sangue. La sua è la parete che rimanda, inalterabile, l’eco dell’opera; chi, per averne accusato in pieno l’onda d’urto, ora si lamenta perché è stato ferito, perché non ci capisce niente, ha solo quel che si merita; la prossima volta si leverà di mezzo2.

Farmer “filologo insurrezionalista”, terrorista dell’ordine costituito dalla letteratura che finisce, non importa se inavvertitamente o volontariamente, anche per sabotare strutture sociali e religiose, oltre che appartenenti all’immaginario, date per scontate. Come la figura dell’Eroe o dell’individuo di eccezione.

Sono costruzioni reali apparse nella storia, e che hanno avuto materiali effetti di ogni natura e di massima portata, e ciò vale tanto per le varie forme e tipi di Stati di tutti i tempi, che per i grandi Capi e Maestri di tutti i popoli e di tutte le epoche.
Quel che vogliamo stabilire è che, come la teoria marxista dello Stato, dopo aver sciolto l’enigma della dinamica di questo formidabile fattore, chiude col suo invio in pensione, un processo analogo avviene per l’Io, inteso come finora l’hanno inteso i filosofi, ossia non solo come il soggetto che si troverebbe eterno ed assoluto in ogni animale-uomo, ma come l’entità immateriale e imponderabile che anima l’Uomo con la lettera maiuscola, il grande duce, il grande condottiero, l’innovatore che appare ad ogni tratto della storia ufficiale. Come lo Stato, anche questa “forma” del capo, ha una base materiale e manifesta l’azione di forze fisiche, ma noi neghiamo che abbia funzione assoluta ed eterna: stabilimmo che è un prodotto storico, che in un dato periodo manca; nacque sotto date condizioni, e sotto date altre scomparirà. Marx annunziò allo Stato moderno la sorte di essere fracassato e ridotto in frantumi. Engels e lui stesso definirono la sorte dello Stato rivoluzionario, che gli seguirà, come una lenta sparizione. All’Io di eccezione spetta la stessa sorte; deperire, svuotarsi, sgonfiarsi, dissolversi (sich auflosen), estinguersi, spegnersi (sich aufloeschen) come in Engels. Lenin ebbe un altro termine espressivo: assopirsi3.

Un’educazione come quella che l’autore americano aveva ricevuto doveva aver lasciato fantasmi e ossessioni piuttosto ingombranti per la sua psiche. E’ evidente che è proprio contro quei fantasmi che si levano prima di tutto la sua rivolta e il rigetto delle verità date, siano esse di carattere razziale, religioso, sessuale, politico o letterario.

Entrano, dunque, quei fantasmi nella sua scrittura e, in particolare, in tutta la sua azione di demistificazione degli eroi e degli dei. In particolare nel romanzo in cui più spavaldamente e provocatoriamente porta a segno la sua ristrutturazione, più che destrutturazione, filologica dell’eroe, riportandolo a ciò che è nella sua essenza.

Proveniva da una famiglia dell’alta borghesia sudista con una tradizione protestante e puritana. Per di più, la sua mammy negra, che l’aveva allevata fin da quando aveva sei anni, era una battista del Sud di stretta osservanza. Nonostante ciò, Clio riuscì ad evolversi in una giovane donna appassionata e non particolarmente pudica, con una tendenza a quel che gli umani chiamano “sperimentazione sessuale”. E riuscì anche a liberarsi da quegli aberranti riflessi condizionati che gli umani chiamano pregiudizi razziali. Per lo meno, per quanto è possibile per un bianco nordamericano4.

Sono alcuni degli aspetti della compagna di Tarzan, Clio, alla quale l’autore americano attribuisce caratteristiche educative tratte dalla propria personale esperienza. In tali considerazioni è implicito il fatto che una volta superati i tabù del sesso, anche tutti gli altri di carattere religioso, politico e razziale possono essere, almeno in parte, superati. Una sorta di manifesto dei movimenti, soprattutto americani, di quegli anni, ma che Farmer aveva già anticipato nei racconti e romanzi che lo avevano fatto conoscere al pubblico.

Nel 1951 aveva infatti proposto il racconto breve Un amore a Siddo (The Lovers) ad «Astounding Science Fiction» e a «Galaxy» che lo rifiutarono per il tema, in esso contenuto, della relazione amorosa tra un umano e un’aliena, ritenuto troppo scabroso per l’America puritana e razzista degli anni cinquanta. Il racconto fu poi pubblicato sul numero di agosto del1952 di «Startling Stories», facendogli ottenere per la prima volta, nel 1953, il Premio Hugo.

Ma per Farmer il sesso, spesso esplicito e privo di infingardaggini e romanticherie, non è, come affermato da Charles Bukowski, qualcosa da aggiungere ai racconti per vendere di più. Costituisce il filo rosso che percorre gran parte della sua opera sia in chiave liberatoria che demistificatoria.
Insieme alla violenza, alla crudeltà, al sangue versato con indifferenza, che “filologicamente” restituiscono ad eroi e miti il loro originario e più veridico volto.

In particolare questo proposito è portato avanti, con singolare crudezza, proprio nel romanzo appena citato, Festa di morte, che si presenta, sia nel sottotitolo che nell’introduzione dello stesso Farmer, come l’ultimo volume dei nove che costituirebbero l’autobiografia di Lord Grandrith, meglio conosciuto come Lord Greystoke o Tarzan delle scimmie. Affermazione che, rispetto all’opera complessiva dello scrittore nordamericano, non è affatto una boutade, visto che almeno sei o sette dei suoi libri, non tutti tradotti in italiano, sono dedicati alla figura creata da Edgar Rice Burroughs. Senza contare quelli dedicati al ciclo della città di Opar che, di fatto, proseguono il ciclo avventuroso creato già da Burroughs.

Ossessione per l’”eroe della giungla” o altro?
Sicuramente nelle diverse opere dedicate, direttamente o indirettamente da Farmer alla figura di Tarzan, o consimili5, tutte pubblicate nell’arco di un quinquenni tra il 1969 e il 1974, non c’è soltanto la volontà di sperimentare tutte le possibili variazioni sullo stesso “tema”, ma, in primo luogo, quello di riportare l’”eroe” alla sua essenza e “reale” forma di esistenza. Quella bestiale, poiché, non per nulla, l’eroe sembra appartenere a ciò che Marx definiva la “preistoria” da cui l’umanità non sarebbe ancora uscita.

Sono le parole del magnate pazzo deus ex-machina di Lord Tyger a rivelarci, attraverso la scrittura di Farmer, l’intima essenza dell’eroe, del suo operato e di chi lo crea o rilancia nell’immaginario collettivo: «Io non sono malvagio! Non sono malvagio! Ma non si può avverare un sogno senza dolore!»6.

Ma se questo è il mandato dell’eroe, realizzare i sogni attraverso il dolore, in Festa di morte Farmer mette ancora più a nudo l’eroe, la bestia in quanto tale, lasciandogli solo la violenza, il sangue, la brutalità, la paura7, l’istinto primario e irrazionale. Scopo reso ancor più evidente dal fatto che l’eroe si aggira totalmente nudo per gran parte delle pagine del romanzo. Un ritorno allo stato di natura che non costituisce, nemmeno lontanamente, un ipotetico ritorno a uno stato di grazia. L’eroe, soprattutto se “bianco” e ancora ispirato dall’immaginario coloniale, può soltanto cadere, sempre più in basso e senza nemmeno poter avere la pretesa di trasformarsi in un anti-eroe.

E non solo poiché, per rafforzare il suo discorso, l’autore pluripremiato per le sue opere inserisce nelle vicende un altro classico protagonista della letteratura seriale statunitense degli anni Trenta: Doc Savage (nel romanzo Doc Caliban). Supereroe dalla pelle color bronzo che, simile a un bronzo di Riace dell’immaginario capitalistico americano, combatte il male, oltre che con dosi estreme di violenza, anche adottando radicali terapie psichiatriche correttive della personalità in funzione del ristabilimento dell’ordine sociale borghese8.

Ma ancora non basta. Tra ironia e immaginario trash l’”eroe” rivela le conseguenze, sul piano psichico e comportamentale, della sua educazione tra il popolo delle scimmie, che era costata al giovane Tarzan esperienze non sempre piacevoli nei primi anni di vita. Stimolando così in lui una tendenza alla violenza nei rapporti sessuali, in cui talvolta appare come dominatore e altre come dominato, che dipende però, e soprattutto, da un altro suo e più grande segreto: essere figlio, come Doc Caliban, di Jack lo squartatore.

Buon sangue non mente e per tutto il romanzo sia Tarzan che Doc Savage, alias Doc Caliban, raggiungeranno spesso l’orgasmo mentre uccidono o cercano di uccidersi a vicenda. Magari penetrando le ferite già inferte all’avversario. In un’autentica orgia di sangue. La ricerca del piacere e dell’immortalità trionfano attraverso l’egoismo più sfrenato, anche se l’eroe “mortale” defeca, piscia, si corica per dormire tra i propri o altrui escrementi o uccide con modalità che solo più tardi sarebbero state riprese dal cinema di Robert Rodriguez9.

Lo scagliai lontano con la sola forza del braccio, imprimendogli una parziale rotazione. Volò per la sala urlando. Ogni goccia di adrenalina di cui il mio corpo poteva disporre doveva essere stata chiamata a raccolta. I suoi intestini, lunghi pressapoco sette metri, fuoruscirono e caddero strappati dal suo corpo. Noli atterrò sulla faccia, le braccia spalancate, Era ancora vivo, per quanto livido per il trauma. I suoi intestini erano distesi come una scia sanguinosa sul pavimento dietro di lui. Ebbe un sussulto e morì10.

Dopo aver devastato religioni e dei, le forme della sessualità consentite e no, Farmer più che portare a fondo la filologia dell’essenza dell’”eroe”, finisce col distruggerlo o, meglio, devastarlo attraverso l’uso di una filologia degna di Rabelais e del suo Pantagruele che usava i pulcini per pulirsi il culo. Oppure raccogliendo la sfida di Céline a non scrivere come se si stesse “ricamando merletti”.

In Farmer, il machismo implicito nella figura dell’eroe viene portato alle estreme conseguenze in una giostra di attributi maschili fuori misura e sempre in erezione, pronti sempre alla bisogna e al richiamo della foresta. Il tutto in una girandola di cattivo gusto, violento e sadico, sarcastico e canzonatorio allo stesso tempo, che più che mettere alla prova il lettore, testa le probabilità che può avere l’eroe di sopravvivere ad un simile trattamento. In effetti, non lasciandogliene molte.

Vediamo dunque un poco la dottrina della fine e dell’origine del Battilocchio.
[…] vogliamo con questo stabilire e meglio chiarire, con motivi strettamente deterministici, come la funzione del Battilocchio (abbiamo così definito il Superuomo, l’Io extra misura, l’individuo “fuori classe”) che ha fin qui avuta una meccanica effettiva, debba eliminarsi insieme agli altri caratteri delle società di classe con la rivoluzione comunista. […] non nascondiamo una larga simpatia per i tempi del matriarcato. […] In questa società è la donna che trasmette il nome alla gens ed alla prole, ed è la donna che può fondare sola una gens nuova. Qui non incontriamo dunque ancora in circolazione la specie battilocchius clarissimus. Qui non viene ancora tra i piedi il Superuomo. […] La serie dei Battilocchi comincia da quando una complessa rete di possessi fondiari, di schiere di schiavi, di eserciti in armi, rovinato il comunismo primitivo e il matriarcato, deve tradurre il suo meccanismo da una generazione all’altra, e per tanto fare abbisogna di un centro, di un vertice, di una passerella di comando, di sinedri in cui si faccia la consegna delle chiavi e dei segreti di dominio. Qui l’uomo di eccezione viene sulla scena e comincia a rappresentare la sua parte […] Fin che funzione preminente è la difesa e la lotta materiale contro pericoli ed aggressioni, è chiaro che basta per capo quello più alto, dai muscoli solidissimi e dal cuore a battito formidabile; e basta a questi scegliere un giovane successore cui trasmetterà l’arte della lotta, del tiro dell’arco e della scherma. Al cospetto dei battilocchiali delusi Proci, Ulisse prova sprezzante e senza favellare la sua identità flettendo come fuscello il suo colossale arco. Stessa prova darà il figlio Telemaco, e quelli volgeranno le terga senza tentare la zuffa11.

Lontano dal comparativismo di Joseph Campbell12, tutto teso alla definizione di un eterno modus operandi della figura dell’eroe, o dalle edulcorate critiche di Umberto Eco13, Farmer, considerato in ambito fantascientifico un comparativista del mito più vicino al James Frazer del Ramo d’oro, sembra porre invece la necessità e l’urgenza di rivedere in profondità, se non distruggere, l’eroe, manifestazione suprema, arbitraria e anche un po’ ridicola del meschino Io borghese in età contemporanea.

Motivo per cui, nei confronti dei tentativi di rinnovare e riciclare l’eroe, occorre, parafrasando l’undicesima tesi di Marx su Feuerbach, riaffermare che, mentre si è sempre cercato di interpretarlo variamente, è ora giunto il momento di abolirlo. Definitivamente, poiché non è altro che un fantasma o il rimasuglio di una vecchia ossessione e di un immaginario destinato a estinguersi, il cui viaggio è giunto, forse da tempo, al suo capolinea.

Le rivoluzioni a venire, per essere tali, difficilmente potranno proporre le gesta dei singoli, poiché, come scrive Emilio Quadrelli, in un suo testo di prossima pubblicazione, a proposito di uno dei più famosi “eroi proletari”:

Kamo è un uomo senza fama assai prossimo alla moltitudine dei sanculotti e, al pari di questi, degno di citazione storica solo in quanto massa. Impossibile trovare in Kamo quella dimensione individuale la quale, a conti fatti può appartenere ai politici, agli intellettuali, ma mai agli operai i quali, quando occupano la scena storica lo fanno in quanto massa, mai come individui. Lo aveva colto bene Rosa Luxemburg quando coniò, a proposito del protagonismo delle masse, quell’io collettivo della classe operaia che al lessico borghese dava più di qualche problema anche sul piano grammaticale14 .

Pur ammettendone la funzione simbolica, archetipica e mitica presso i popoli e le società antiche, oggi, sia che si tratti dell’eroe dotato di superpoteri (Superman, Super Mario o Super Zelensky) oppure destinato al martirio (Gesù Cristo, Beowulf o Che Guevara), a transitare soltanto tra i vivi oppure anche nel regno dei morti, sempre egli finirà con lo sconfinare nella negazione del sogno rivoluzionario, trasformandosi nel misero soldatino sacrificabile o sacerdote sacrificante dell’esistente immodificabile o della Patria, anche se “socialista”.

Forse non a caso, in una recente intervista, Yaryna Grusha Possamai, docente di Lingua e letteratura ucraina all’Università Statale di Milano, ha potuto affermare che in Ucraina «sta nascendo una nuova letteratura eroica»15. Infatti, anche se questo si è rivelato troppo spesso difficile da comprendere per molti compagni, il superamento del capitalismo e del suo immaginario non potrà avvenire cambiando di segno i suoi apparati politici, economici e culturali, ma soltanto rovesciandoli e negandoli totalmente.

Non fu il manifesto di Carlo Marx, o di lui e Federico Engels, fu il Manifesto del partito comunista. Di lì, e senza battilocchi, muovemmo. Purtroppo ne piovvero da ogni lato, e al loro effetto, antiproducente in partenza, si devono i ripetuti rovesci; tuttavia inevitabili, perché ogni forma ha la sua inerzia storica, e quella dei battilocchi resiste più che le cimici al D.D.T., si acclimata con disperata virulenza ai più drastici disinfettanti.
[…] Torniamo ai capi di Stato, uomini politici, condottieri, e se volete ai capi rivoluzionari. Fino ad oggi hanno avuto una parte negli eventi, se pure sempre riferita in modo più che distorto ed iperbolico. Tale parte non è quella di una causa primaria, di un primo motore; e non costituisce condizione necessaria, […] Alcune volte tuttavia la storia mostra di avere un protagonista, e alcune volte ancora il suo nome diviene noto all’universo mondo, benché tale identificazione non cambi nulla, e in dati casi sia un ulteriore impaccio ed un guaio nero, come per i movimenti rivoluzionari mostrammo16.


  1. Valerio Evangelisti, Farmer: Venere sulla conchiglia, Introduzione a «Urania collezione», n° 15, aprile 2004 ora in V. Evangelisti, Distruggere Alphaville, Edizioni l’ancora del mediterraneo, 2006, pp. 90-91  

  2. Diego Gabutti, Fantascienza e comunismo, La Salamandra. Milano 1979, pp. 159-163  

  3. Amadeo Bordiga, Superuomo, ammosciati!, “Il programma comunista” n. 8 del 1953  

  4. Philip José Farmer, Festa di morte, Ennio Ciscato Editore, Milano 1972 (titolo e edizione originale: A Feast Unknown, 1969), p.135  

  5. Si tratta, oltre che dell’opera già citata di: Lord of the Trees, Ace, 1970. (inedito in italiano); The Mad Goblin, Ace, 1970. (inedito in italiano); Lord Tyger (Lord Tyger, Doubleday, 1970) in I Massimi della Fantascienza n. 29, Arnoldo Mondadori Editore, 1992; Tarzan Alive: A Definitive Biography of Lord Greystoke, Doubleday, 1972. (inedito in italiano); L’ultimo dono del tempo (Time’s Last Gift, Ballantine, 1972) traduzione di Ugo Malaguti, Slan. Il Meglio della Fantascienza n. 22, Libra Editrice, 1974; Opar, la città immortale (Hadon of Ancient Opar, DAW n. 100, 1974), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 2, Arnoldo Mondadori Editore 1989; Fuga a Opar (Flight to Opar, DAW n. 197, 1976), traduzione di Lidia Lax e Diana Georgiacodis, Oscar Fantasy n. 8, Arnoldo Mondadori Editore 1990  

  6. P. J. Farmer, Lord Tyger, Delta fantascienza, 1970, p. 251  

  7. Farmer, in Festa di morte, fa dire a Tarzan: «Personalmente non ho paura della morte, però le mie cellule non sono razionali quanto me», op. cit., p.25  

  8. Personaggio cui Farmer dedicherà un’altra opera, inedita in italiano: Doc Savage, His Apocalyptic Life, Doubleday, 1973  

  9. Ad esempio in Machete, nel 2010  

  10. P. J. Farmer, Festa di morte, op. cit., p. 232  

  11. A. Bordiga, Superuomo, ammosciati!, cit.  

  12. J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli 1958 – Lindau 2016  

  13. Si veda: Umberto Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, Milano 1978/2015, IV edizione Tascabili, pp. 135-139, in cui l’autore propone una lettura a dir poco esilarante, superficiale e perbenista proprio di Tarzan, oltre che della letteratura di genere nel suo insieme  

  14. Emilio Quadrelli, L’altro movimento operaio, introduzione alla ristampa integrale di La classe, giornale delle lotte operaie e studentesche (maggio-agosto 1969)  

  15. Jessica Chia, Il tabù è caduto, in Ucraina l’epos vive, «Corriere della sera», supplemento «La lettura» del 17 luglio 2022, p. 40  

  16. A. Bordiga, op. cit.  

]]>
L’immaginario di un secolo (tutt’altro che breve) https://www.carmillaonline.com/2021/06/17/limmaginario-di-un-secolo-tuttaltro-che-breve/ Thu, 17 Jun 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66628 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone con la sua ultima raccolta di scritti. Un secolo che supera certamente i cento anni canonici, visto che le radici del suo immaginario si allungano almeno fino alla metà dell’Ottocento, mentre i suoi rami più lunghi si protendono fino al primo ventennio di quello attuale. Un percorso temporale caratterizzato tanto da numerosi “fin de siècle”, mai definitivi, quanto da altrettanti ripetuti inizi.

Una coazione a ripetere e ripetersi che sembra, di fatto, la base reale di ciò che viene definito spesso come post-moderno e che, a sua volta, guardando con attenzione ai personaggi e ai miti ri/proposti da Gabutti con il suo solito stile beffardo, non fa altro che rimodellare un immaginario definito una volta per tutte (o quasi) dal medesimo modello sociale e di produzione affermatosi nello stesso periodo su scala planetaria.

Simile per molti versi a due delle raccolte di testi più belle di Geminello Alvi1, con cui condivide l’attenzione per personaggi come Emilio Salgari, Amadeo Bordiga, J.R.R. Tolkien e Charlie Chaplin, Maschere e pugnali se ne distacca per la capacità dell’autore di sintetizzare in ogni occasione una enorme quantità di osservazioni di carattere letterario, filosofico, politico e fantastico mantenendo dritta la barra della fantasia scatenata come forza e utopia liberatrice dalle miserie del vivere quotidiano. Affiancando però, a differenza di Alvi, i personaggi reali a quelli altrettanto vividi prodotti dalla fantasia di autori di ogni genere, e suggerendo così al lettore che la vita possa essere essenzialmente null’altro che un sogno, tra i tanti che l’immaginario, sia individuale che collettiva, finisce col produrre e riprodurre in continuazione.

Problematica che ben si adatta ad una collana, DELIRIA, della casa editrice Write Up e diretta da Marco Vettorato, il cui intento è quello di sottolineare che: « Ricordare è sempre immaginare. Ci sono realtà entro le quali l’ignoto prende forma: dietro la razionalità dubitante c’è il genio creativo, c’è il lato fantastico della ragione che non riesce a distinguersi dalla follia sognante ».

E’ un enorme favoliere quello che Gabutti ci propone con le sue pagine, che racchiudono la Storia del lungo Novecento nella sua dimensione più autentica: quella della affabulazione letteraria e della narrazione, sia che questa si presenti come singola o collettiva, tossica o innovativa oppure , ancora, “realistica” o “fantastica”. Una grande narrazione, spesso destinata a ripetersi con trame ed eroi, malvagità e miracoli, speranze e deliri che solo apparentemente esplodono dal “nulla” come novità. Si tratti di ideologie oppure di catastrofi, di violenza, di incubi, sogni o avventure tutto finisce col confluire in una gigantesca e continua ricostruzione e distruzione del mondo che le ha prodotte. Una sorta di demiurgo impersonale, prodotto da migliaia o milioni di personalità, che come afferma l’autore a proposito dell’opera di Tolkien:

non si limitò a inventare nuove storie e neppure semplicemente raccolse quelle tramandate dalle
nonne e dalle antiche tradizioni letterarie. Organizzò un intero universo che agisse da cornice perfetta e smisurata per quell’idea di fiabe che lo divorava […]
Diede forma a un intero mondo, anzi a un intero cosmo, completo di storia, di lingue vive e morte, di popoli e di specie animali, con una geografia e uno scenario culturale perseguiti fin nei dettagli […] Quindi lo farcì di storie e accadimenti, di saghe celesti e d’ombre tenebrose, fino a comporre un quadro immane e labirintico, così vertiginoso e dettagliato da stordire chi troppo a lungo vi avesse fissato lo sguardo. La Terra di Mezzo divenne così un mondo storico, non meno reale di quelli testimoniati nei libri di scuola, persino altrettanto orribile e pericoloso2.

Letteratura, giornali, cinema e fumetti contribuiscono così a creare e ricreare quel “mondo reale” in cui, più che vivere, fantastichiamo di vivere e in cui, per esempio, la Cina romantica e mitica di Edgar Snow

In balia di briganti, artisti di strada, orfani, prostitute e «intellettuali borghesi al servizio del popolo»; percorsa da sinistri signori della guerra e da generali comunisti simili a «soldati di Cromwell» (per citare Beppe Fenoglio) «col fucile a tracolla e la Bibbia nel tascapane», è stata per un po’ – prima di Piazza Tien An Men e d’Alibaba.com – l’equivalente radical dell’Inghilterra vittoriana, della Contea di J.R.R. Tolkien o della Parigi di Balzac: una terra immaginaria e un modello sociale, un miraggio nel deserto e un’utopia3.

Un’azione continua di costruzione e decostruzione dell’immaginario e, in fin dei conti, del mondo che vede quella che un tempo fu sbrigativamente liquidata come sovrastruttura rivelarsi come parte fondante della struttura e dell’ordine del discorso che la regge. Sia nell’arte del governo dell’esistente che del suo rovesciamento utopico. In un secolo in cui Batman e Stalin, Hitler e Superman, Sauron e Bordiga possono direttamente o indirettamente scontrarsi su piani che rinviano alle antiche saghe, rinnovandone i fasti con la potenza della stampa e dei massa media, del digitale o del technicolor.

Nuovi eroi, nuovi dei malvagi e nuove terre di mezzo o lande selvagge popolano continuamente l’immaginario della modernità; nuovi pericoli la minacciano e nuovi salvatori, in mutande e costume attillato oppure nel grigiore di giacca e cravatta si propongono per la salvezza della stessa.
Generali in divisa e drag queen piene di lustrini percorrono con la stessa naturalezza il palco dell’immaginario del ‘900. Si tratti di San Remo e della TV di oggi oppure della Berlino della fine degli anni ’20. I demoni di Dostoevskij possono essersi trasformati tanto negli hippy sbiellati al seguito di Charles Manson quanto negli esaltati combattenti dell’ISIS oppure riposare sotto le spoglie dell’impiegato cantato da Fabrizio De André in una delle sua ballate più celebri.

Un territorio, quello dell’immaginario di questo lungo secolo, in cui le funzioni dell’autore e dello spettatore, dello scrittore e del lettore, magari quest’ultimo insaziabile e compulsivo (come nel caso di Philip José Farmer citato nel testo), finiscono col fondersi in un’unica figura destinata a inventare e reinventare il mondo in continuazione. In uno scambio di ruoli, spesso involontario, in cui non si capisce più davvero chi crei e perché o, al contrario, perché distrugga per poi rifondare.
Alla fine sembrerebbe essere James Ballard, di cui Gabutti è gran conoscitore, a muovere i fili della faccenda anche se è l’unico a cui non sia stato destinato neanche un capitolo4.

Ma, sospendendo un’interpretazione che potrebbe farsi un po’ “ingombrante”, chi scrive questa recensione deve assolutamente rimarcare come la lettura del libro di Gabutti si riveli, ancora una volta, non solo stimolante ma anche estremamente divertente. Basterebbe infatti soltanto il capitolo dedicato alla ricerca da parte dell’autore della casa in cui sarebbe nato Nero Wolfe in Montenegro per fondere in una girandola di invenzioni e peregrinazioni (autentiche) la realtà con la fantasia, lo humour con la letteratura e la vita dello scrittore con quella del suo personaggi preferito.

Sono più di 160 i soggetti dell’antologia di recensioni, spunti di riflessione e articoli che ci vengono proposti nelle 450 pagine del libro (cui ne vanno aggiunte altre 15 soltanto per l’elencazione dei testi citati): da Bob Dylan a Ian Fleming, da Hugo Pratt a Marx e Engels oppure da Lord Greystoke (Tarzan) a Star Wars passando per Kerouac e Lucky Luciano, Orson Welles e Raymond Chandler.
In un’autentica enciclopedia che non dovrebbe mancare nella biblioteca di chiunque si occupi dell’immaginario del ‘900 e della funzione mitopoietica e creatrice della letteratura e della affabulazione mediatica.

“Ti passano un pezzo di carta coperto di lettere e numeri e tu devi tirarci fuori una partita di baseball. Crei il clima, dai un corpo ai giocatori, li fai sudare, brontolare, gli fai tirar su le brache a strattoni, ed è straordinario, pensa Russ, quanto trambusto concreto, quanta estate e quanta polvere la mente sia in grado di sollevare da una singola lettera latina piatta su un foglio.” (Don Delillo, Underworld)


  1. Geminello Alvi, Uomini del Novecento, Adelphi, Milano 1995 e G. Alvi, Eccentrici, Adelphi, Milano 2015  

  2. Diego Gabutti, Tolkien 2 (vita, morte e miracoli) in D. Gabutti, Maschere e pugnali, Write Up Books, Roma 2021, pp. 114-115  

  3. D. Gabutti, Edgar Snow in op. cit., p. 97  

  4. “In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger?
    Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale.” James Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, p. 37  

]]>
Dalla Narodnaja volja a Superman https://www.carmillaonline.com/2020/12/09/da-narodnaja-volja-a-superman/ Wed, 09 Dec 2020 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63788 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il filisteo: lo Stato e l’Io». (Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!» (Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il
filisteo: lo Stato e l’Io».
(Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!»
(Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità” (Bompiani 2014), in cui si ipotizza che il motivo dell’affermazione della nostra specie sulle altre sia dovuto, sostanzialmente, alla capacità di produrre realtà intersoggettive, capaci di funzionare da collante per gruppi molto grandi di individui. Realtà “inventate”, cui solo gli uomini come specie possono credere (religione, denaro, Stato, diritto e diritti, solo per citarne alcune), ma che allo stesso tempo si sono trasformate in realtà oggettive o, almeno, in forze produttive reali.

Tema particolarmente caro ai redattori di Carmilla, quello dell’immaginario collettivamente condiviso costituisce un territorio troppo spesso relegato a fattore secondario dello sviluppo sociale e delle leggi che ne regolano il funzionamento. In ogni epoca storica e in ogni fase del cammino dell’Umanità. Una riduttivistica lettura in chiave volgarmente marxista ed economicistica l’ha infatti ridotto a mera sovrastruttura di una struttura portante basata su rapporti di produzione determinati esclusivamente dall’economia e dalla gestione delle necessità da questa pre-detefinite. Dimenticando che per far sì che queste strutture funzionino è necessario che il gruppo sociale ne condivida, intimamente e soggettivamente oltre che collettivamente, principi e finalità. E non dimenticando, neppure, che anche le necessità sono frutto non solo di bisogni materiali, ma anche di un immaginario condiviso.

E’ chiaro come al centro di questi principi condivisi risieda quello del potere e della sua gestione, sia esso di carattere monarchico o elettivo oppure ancora dittatoriale.
Problema non di certo recentissimo se si pensa che già, nel XVI secolo, Étienne de La Boétie poteva chiedersi:

Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. E’ cosa veramente sorprendente – e pur tuttavia così comune che c’è più da dolersene che da stupirsene – vedere milioni di uomini miseramente asserviti, il collo piegato sotto il giogo, non perché costretti da una forza più grande ma soltanto, sembra, perché incantati e affascinati dal solo nome di uno di cui non dovrebbero temere la potenza […]1

Domanda e ipotesi poi rafforzata da David Hume che, nel 1741, nel suo saggio Sui primi principi del Governo, affermava:

Nulla appare più sorprendente, a chi consideri le cose umane con occhio filosofico, della facilità con cui i molti vengano governati dai pochi, e dell’implicita sottomissione con cui gli uomini rinunciano ai loro sentimenti e alle loro passioni per quelle dei loro governanti. Quando ci chiediamo attraverso quali mezzi si realizzi questo prodigio, troviamo che, essendo la forza sempre dalla parte di chi è governato, chi governa non ha nulla a proprio sostegno se non l’opinione. Pertanto è sull’opinione soltanto che si fonda il governo; e questo principio si estende tanto ai domini più dispotici e militari, come a quelli più liberi e popolari.2

Preludio, infine, a quello stato di minorità volontario di cui avrebbe parlato Immanuel Kant, nel suo Che cos’è l’Illuminismo?, circa quarant’anni dopo, nel 1784.
Mi scuso con i lettori, e con l’autore, per la lunga passeggiata tra i filosofi del XVI e XVIII secolo, ma questa era necessaria per ricollegare le osservazioni iniziali al libro di Gabutti di cui qui si parla, poiché l’autore riporta il problema all’interno dell’epoca moderna, con una lunga cavalcata che a partire dal Palais Royal di fine Settecento, passando per i nichilisti russi, Dostoevskij e Nietzsche giunge fino al ‘900 delle dittature, delle grandi utopie trasformate in incubi e, ancora, alla narrativa popolare di Edgar Rice Burroughs, creatore di Tarzan, ai fumetti della DC Comics con Batman e Superman a farla da padroni e, successivamente, a quelli degli Avengers e di Spiderman della Marvel.

Sono i due, tre secoli in cui è più forte la spinta verso l’affermazione della capacità del singolo individuo, o del manipolo di eroi (organizzati bolscevicamente in Partito oppure in banda dai poteri sovrumani) di cambiare il mondo, distruggendo quello che lo precede o già contiene oppure, molto più prosaicamente, riformarlo eliminandone i cattivi e gli indesiderati guastafeste (Batman contro il Joker, Lenin contro il capitalismo mondiale, Stalin contro gli anarchici e i fascisti, la Lorenzin, oggi Speranza, contro i NoVax, i fascisti e i populisti contro tutti).

E’ una lettura non priva di rischi quella che Gabutti propone al pubblico, ma, sicuramente adatta a vangare e a rivoltare un terreno troppo spesso ricoperto dalla melma dell’ideologia. Ideologia che, troppo spesso, è ancora figlia di una “Rivoluzione” borghese che ha promesso di cambiare radicalmente il mondo senza mai davvero volerlo o poterlo fare. Una promessa o una speranza riposta in individui, di cui i supereroi, buoni e cattivi, non sono altro che le proiezioni popolari e semplificate, che pur Amadeo Bordiga, nel testo citato in epigrafe aveva già liquidato quasi settant’anni fa.

Individui, comunque e sempre, dai ‘trogloditi’ russi3 a John Lennon4, inadatti a cavalcare i movimenti sociali, quasi sempre sotterranei e profondi, che li ispirano. Così, quello di mantenere le cose come sono, se non addirittura peggiorarle, attraverso la promessa di cambiarle per mezzo di un eroe e della sua volontà, rispettando naturalmente la volontà del popolo, è il prodotto di un’epoca, iniziata con l’avvento della macchina e del vapore, preludio di ogni altra energia a venire (da quella elettrica a quella nucleare), che hanno contribuito come pochi altri fattori a ridurre a scarto la volontà e la capacità d’azione dell’individuo. E che proprio di questa impotenza, individuale e collettiva, costituisce l’immagine specularmente rovesciata.

Ecco allora l’individuo, figlio del libero arbitrio cristiano e dell’illusione democratica liberale, che con la bomba e il terrore, oppure indossando le mutande sugli abiti, come ogni buon supereroe, si illude, ma soprattutto illude il singolo oppure le masse che la “libertà” (altro termine fantasmagorico) sia a portata di mano (oppure di pistola, di manganello, di coltellaccio da decapitazione, come negli horror movie prodotti dall’Isis, o qualsiasi altro strumento legato all’uso della forza).

Gabutti proprio non vorrebbe essere accostato ai marxisti (al massimo, ma con distaccata ironia, a Bordiga) eppure come non cogliere in una celebre lettera di Karl Marx a Kugelmann il principio e il motore delle sue riflessioni?

Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stato possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti se ne potessero un tempo costruire in un secolo5

Peccato, ci sarebbe da aggiungere, che anche quello che dovrebbe essere l’affossatore “naturale” della classe al potere ci creda altrettanto e forse di più. In un’epoca in cui si sono aggiunti il cinema, la radio, i comics, la tv, internet, i social e tutti i loro infiniti derivati. La rivolta luddista corre nelle immagini della serie infinita di film dedicati a Terminator e Skynet e la paura delle macchine si ribalta, poi, ancora in fiducia nelle stesse e nel loro utile e sano uso per tramite delle app suggerite dal governo, sia per contrastare la diffusione del Covid che per il cashback e le sue lotterie natalizie. Così dal teatro pedagogico di Bertold Brecht si è passati alle influnencer “impegnate” alla Chiara Ferragni, ma in un’epoca di mass-media il passo tra i due è stato probabilmente sempre molto breve.

L’emancipazione femminile passa attraverso l’immagine di Uma Thurman di Kill Bill 1 e 2, ma resta pur sempre in mano ad Hollywood e al movimento MeToo che ne è scaturito. Spettacolo nello spettacolo e dello spettacolo. Così, mentre anche a Guy Debord sarebbe iniziata a girare la testa, il Superuomo o Übermensch oppure ancor la Superdonna ne sono il prodotto diretto, così come lo era la creatura di Victor Frankenstein all’epoca dalla prima rivoluzione industriale.

Se, come sottolineava già Pirandello, è la vita a copiare dal teatro oppure, come ci ricorda Gabutti, i poeti tragici vennero raffigurati, già ne Le rane di Aristofane, come educatori del popolo che tenevano alto il modello da ammirare:

Otto e Novecento sono secoli in cui fiction e realtà coincidono quasi del tutto.
E una vertigine. Oscar Wilde, gli anarchici con la fissa della dinamite, Huck Finn e Tom Sawyer, Giuseppe Garibaldi, gli apaches parigini e quelli della frontiera americana, la Regina Vittoria, Madama Butterfly e la Creatura del Barone Frankenstein, Sandokan, lo stesso Nietzsche prima e dopo l’incidente di Torino: quando non sono letterati, sono personaggi letterari, e quel che fanno e sempre e soltanto letteratura e intrattenimento. Showbiz… «è tutta industria dello spettacolo», dirà poi William Burroughs, dadaista pulp. Un utopista che sale al potere, come Lenin in Russia in che cosa si distingue da Fu Manchu, un personaggio immaginario che la vede come lui e che, nella finzione romanzesca e cinematografica, agisce esattamente come gli utopisti agiscono nella realtà storica (smontando e rimontando il giocattolo a molla delle società umane: più libertà, più libero arbitrio… no, meno, di più, così è troppo, così troppo poco)?6

Del superuomo, o più precisamente di chi passa per tale, o semplicemente si richiama a questa spettacolare figura della modernità, si continua naturalmente a parlare. Non si parla, anzi, quasi d’altro. Perché il superuomo non e soltanto, come a volte capita di pensare, una presenza fissa nel nostro immaginario («anche filosofico», aggiunge il pedante). Causa che s’autopromuove – attraverso il cinema, come attraverso la politica e le religioni, ma che conquista spazio e audience soprattutto attraverso la sua eccezionale e finora ineguagliata natura camaleontica, grazie cioè alla sua capacità d’incarnare contemporaneamente la Tecnica che divora il mondo e il suo contrario, cioè la guerra per mare e per terra alla riduzione della vita a incubo chapliniano-orwelliano – l’Übermensch è un’ombra a lato dello sguardo d’ogni nostra esperienza storica recente. E l’abisso che ci restituisce lo sguardo ogni volta che ci affacciamo incautamente nel vuoto. E il fantasma che, come nell’incipit d’un manifesto rivoluzionario old style, infesta il castello della Zivilisation.
Ma non ne sono piu invasati gli avventurieri letterari, come nella belle époque, quando nel calderone della radicalità ribollivano insieme il sesso e la politica, il misticismo e il materialismo, l’impassibilità nichilista, la rivoluzione socialista (o quella conservatrice) e la poesia sfrenata come una danza sufi. Romanzieri e filosofi, artisti e poeti, hanno superato indenni le prove infernali che il XX secolo ha imposto a tutti quanti, persino ai chierici che in genere sgusciano fuori vista quando le cose si fanno difficili, ma non hanno conservato il ruolo che avevano un tempo, quando gli amori di Lady Chatterley, gli inni londoniani al popolo dell’abisso, le imprese militari del Vate e quelle di Lawrence d’Arabia (la prima tarocca, la seconda non del tutto vera) galvanizzano il fan club del superuomo.
Tifosi del sesso libero, della bella morte, della rivoluzione purchessia, di destra o di sinistra è lo stesso, i tifosi dell’intellighenzia oltreumana e «immoralista», attivi soprattutto nell’interregno tra le due guerre mondiali, sciolgono le loro curve sud dell’apocalisse quando a nessuno è più possibile negare l’esistenza del lato oscuro e nichilista del tempo presente: una guerra terribile, uno spaventoso dopoguerra totalitario, seguito da un’altra guerra e da altre sventure. Succede esattamente come nei sixties americani dopo l’eccidio di Bel Air da parte della Famiglia Manson, ala satanista della controcultura. Niente più fiori nei capelli, basta con le svenevolezze e d’ora in avanti, ai concerti rock, nessuno si metta più nudo: prudenza.
E’ il momento in cui l’uomo potenziato, sospettando d’averla fatta troppo grossa, entra prudentemente (anche lui) in clandestinità, come se temesse le torce e i forconi degli abitanti del villaggio planetario, che da un momento all’altro, pensa, potrebbero decidere di dargli la caccia come a una Creatura delle dimensioni del Leviatano di Hobbes, o di Godzilla. Circospetto, sguardo a destra, sguardo a sinistra, questo Übermensch inesistente, simile per consistenza al cavaliere d’Italo Calvino, lascia la copertura metafisica (chiamiamola cosi) e si trasforma, per istinto di conservazione, in un personaggio immaginario, eroe e antieroe dei fumetti, del cinema, dei tabloid. Ma e una precauzione inutile, data la sua natura illusoria7.

Si avvicina Natale e il governicchio dei super-omuncoli vi costringerà a rimanere chiusi in casa più del dovuto e più di quanto vi sareste aspettati. Già solo per questo motivo il libro di Gabutti potrebbe rivelarsi una lettura provocatoria, intelligente e divertente, per sfuggire alle maglie di un quotidiano ormai profondamente addomesticato in ogni sua espressione. Una riflessione destinata, infine, a suggerire come la linea che divide l’utopia dalla distopia e la Storia dalla commedia o da un horror movie sia, quasi sempre, molto sottile.

«Non sono un socialista, sono un furfante» (Pëtr Stepanovič Verchovenskij, I demoni)

«Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace» (S. M., L’estate del 1964 o giù di lì e oltre)


  1. É. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1576), Edizioni Il Foglio, Milano 2018, p. 4  

  2. D. Hume, Essays, Literary, Moral and Political, ora citato in Murray N.Rothbard, Il pensiero politico di Étienne de La Boétie, Introduzione a É. De La Boétie, op. cit., p. XXXIX  

  3. Come «fu battezzato un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari della capitale che si distingueva per il fatto che nessun estraneo sapeva dove abitassero e sotto che nome vivessero. Perciò si disse che avevano trovato rifugio in segrete caverne», secondo Franco Venturi nel suo libro Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972  

  4. Übermensch involontario, al quale oggi, in occasione del quarantesimo anniversario della morte, i tg italiani attribuiscono la formazione dei movimenti pacifisti grazie alle sue canzoni Imagine e Give Peace a Chance  

  5. K. Marx, Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma 1976, lettera del 27 luglio 1871, 173  

  6. D. Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, pp. 96-97  

  7. D. Gabutti, op.cit., pp. 111-113  

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema di papà 07/08) – 63 https://www.carmillaonline.com/2014/10/23/divine-divane-visioni-cinema-papa-0607-63/ Thu, 23 Oct 2014 20:25:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17722 di Dziga Cacace

Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!

ddv6300687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007 Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film [...]]]> di Dziga Cacace

Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!

ddv6300687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007
Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film borghese, ipocrita e consolatorio, con gli attori da botteghino e la trama senza sorprese. Ma perché – scusate – Clayton (Clooney, fichissimo, ça va sans dire) non poteva essere stronzo fino in fondo, giacché lo è quasi fino in fondo? E fate uno sforzino, eddai! E poi ‘sto ritmo blando, con inserti narrativi che allungano la broda in un thriller giudiziario già immobile, avvincente come un discorso di Lamberto Dini. La regia si atteggia anche ad autoriale, ma se mi date il regista Tony Gilroy lo interrogo come si deve e ve lo faccio confessare in dieci minuti. Inoltre c’è Tilda Swinton: per me da sempre un autentico mistero qui premiato addirittura con l’Oscar. È espressiva come un calco pompeiano in gesso, ha lo stesso colorito e – per rimanere in campo artistico – un fisico picassiano, periodo cubista. Però due secoli fa la Swinton ha fatto un film che ha colpito gli stramaledetti cinéphiles segaioli di mezzo mondo e lei continua ad essere considerata un’icona del cinema “alto”. Boh. Abbiamo visto ‘sta cosaccia perché Barbara riteneva di aver affittato Good Night, and Good Luck: la gravidanza fa brutti scherzi. (Dvd; 23/3/08)

ddv6301688 – Adrenalina pura con 24 – Season 3 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2004
Allora: faccio un riassuntino per chi si fosse sintonizzato solo ora. Lo show funziona così: 24 ore in tempo reale, in un giorno che più di merda non si può. Vittima della fatale giornata il povero Jack Bauer (Kiefer Sutherland), agente operativo della CTU, Counter Terrorists Unit di Los Angeles, agenzia (fittizia nel mondo reale, ma forse no, chissà) che si occupa di antiterrorismo. Una volta all’anno, arriva quel giorno in cui il malcapitato protagonista capisce che saranno cazzi amarissimi: userà un cellulare con la batteria magica per 24 ore filate (deve avere un abbonamento molto vantaggioso), non mangerà, non si farà mai una sana pisciata, figuriamoci una cagata come si deve leggendo la Gazzetta. Ovviamente la giornata infame vede sempre coinvolta in qualche casino anche quella cretina della figlia. In questa terza serie, tra le altre cose, Bauer sta anche smettendo di drogarsi, cosa che sembra la parodia de L’aereo più pazzo del mondo. Fortuna che queste benedette ultime 24 ore non fossero anche l’ultimo giorno per pagare i contributi alla domestica, l’Iva trimestrale e che non ci fossero visite dentistiche improrogabili in programma. Però – diciamo – la materia narrativa non manca: nella prima serie troviamo dei balcanici efferati (serbi, ovviamente), che ce l’hanno precisamente con Bauer e, per vendetta, vogliono fargli ammazzare il candidato alla Casa Bianca dato per vincente, Palmer, un nero buonissimo, onestissimo e democraticissimo. Solo che c’è una talpa alla CTU e tutta la serie vive del dubbio. Nella seconda tornata, il nero buonissimo etc. è diventato ovviamente presidente (sembrava fantascienza 4 anni fa, ma chissà se adesso questo Obama dell’Illinois…) e Bauer deve fronteggiare una minaccia atomica su Los Angeles, orchestrata da degli arabi pazzi furiosi, mentre nel palazzo presidenziale c’è praticamente un colpo di stato. Niente di meno. Diventa tutto un po’ isterico: meno intrighi, molta azione, gran divertimento. Nella terza stagione – che ho visto dopo la quarta causa pesante rincoglionimento da paternità – l’attacco è batteriologico ed è condotto da un occidentale già al lavoro con gli yankee e ora deciso a fare giustizia vera. Dura poco, chiaramente (per l’appunto: 24 ore). Nella quarta serie c’è un nuovo presidente (il rivale del solito nero dei primi tre episodi) che viene fatto secco da uno Stealth rubato all’uopo; anche qui dietro al complotto stanno degli arabi vagamente incazzati. La crisi sembra indistricabile e il vecchio presidente Palmer torna a dare una mano e, siccome è superlativo come sappiamo, mette tutto a posto. Fino alla prossima stagione. 24 è un serial ottusamente geniale (è una combinazione possibile, l’ho deciso adesso), un thriller fantapolitico ad orologeria a tratti fascistissimo (tipico interrogatorio: “Se non dai una cosa a me, io do…” – agitando una mannaia – “…una cosa a te”) ma anche con insospettabili afflati democratici, probabilmente dovuti al caos mentale da sedicenne con l’ormone impazzito tipico degli sceneggiatori di queste cose: branchi di nerds miliardari che vestono in bermuda e magliette di gruppi metal. E poi ti inventano ‘sto popò di roba. (Dvd; aprile ‘08)

??????????????????????????????????????????689 – L’inguardabile Billy, perché l’hai fatto? di due bestie, Volker Schlondorff e Gisella Grischow, Germania 1992
Freddie Mercury e Jimi Hendrix insegnano: è proprio vero che da morto non puoi più difenderti da nessuno, neanche da chi pensa di ripubblicare questa porcata micidiale, un documentario allucinante che – una volta tanto d’accordo – Barbara e io abbiamo mollato dopo quaranta minuti. La schifezza è l’ignobile mix di una vecchia intervista al maestro Wilder e da inserti recenti di Schlondorff che cuce e rappezza. Senza chiarire niente: chi sia Billy (e la sua vita vale quanto i suoi film) e perché sia stato un genio. L’intervista storica, oltre ad avere una qualità da videotape smagnetizzato, è ottusa ai limiti dell’idiozia, con il petulante Schlondorff che chiede con fervore maniacale soluzioni di regia e sceneggiatura a un Wilder infastidito da questo fan inopportuno. Le risposte son sempre sopra le righe (ma se sono sbagliate le domande è logico che poi siano sbagliate anche le risposte) e mai Billy avrebbe pensato che da quel colloquio sarebbe potuto uscire alcunché. Ahinoi si sbagliava, il mercato sdogana qualunque cosa e c’è sempre chi ci casca (non ricordo chi mi abbia regalato questo prezioso prodotto Feltrinelli che ora puntella il tavolo della cucina). Tornando all’abominio che non troverebbe spazio in palinsesto neanche su una tivù satellitare della Val Brevenna: il commento a posteriori del regista teutonico è freddo come un ghiacciolo in culo, con luci da obitorio, verve cimiteriale e chiarezza narrativa pressoché nulla. Questa schifezza di film non è un omaggio, è un insulto alla memoria. E se non avete visto i film di Wilder è pure pieno di spoiler. (Dvd; 2/4/08)

ddv6303690 –Il blues di Feel Like Going Home di Martin Scorsese, USA 2002
Esco il precedente dvd dal lettore e ne metto subito un altro, tanto il destino della serata è segnato e la gravida Barbara si addormenterà a breve al mio fianco. Scelgo per cui a mio gusto e mi scoppio un bello Scorsese: il vecchio Martin si riserva, nell’ambito della serie di documentari dedicati al blues da lui coordinata, il compito più impegnativo e ambizioso. Però, siccome non è un presuntuoso come Wenders o un mestierante come Figgis – autori in questo ciclo di due autentiche bestemmie su pellicola –, si fa scrivere il film da Peter Guralnick che è un giornalista e uno scrittore che sa, e molto bene, ciò di cui parla. L’unica pecca, non da poco, è la totale mancanza di didascalie, per cui i personaggi che incontriamo durante la narrazione rimangono per lo spettatore medio degli assoluti carneadi, né sono chiari i rapporti tra chi parla e di cosa. Siamo alla solita mancanza di comunicazione che mi parrebbe marchiana in un esordiente, figuriamoci in un maestro come Scorsese. Ma è inutile che mi ci incazzi: all’Autore lo spettatore, in realtà, fa schifo. Un po’ come a Veltroni e D’Alema dan fastidio gli operai, per intenderci. Ad ogni modo nel racconto c’è una prospettiva storica, c’è un percorso e una chiara intenzione narrativa. Inoltre a farci da Cicerone, nella (ri)scoperta del blues del Delta c’è un musicista nero sconosciuto ai più, Corey Harris, che suona la chitarra in maniera eloquente e comprende ciò di cui si parla. Dal Delta del Mississippi fino al Mali, a recuperare le radici della musica più bella che esista, pura, intensa, dolorosa, carica di storia. Si vedono Son House (eccezionale), John Lee Hooker, Muddy Waters, Ali Farka Toure e altri personaggi minori ma anche loro con una storia da raccontare. Film più che discreto, ma fruibile solo da una percentuale della popolazione con almeno due lauree, in musicologia e folclore. Cioè quasi nessuno. Tutti gli altri che se ne dicono entusiasti, mentono, anche perché – a differenza che con Buena Vista Social Club – il disco non se l’è comprato proprio nessuno. Ma nessuno nessuno, perché il blues non si danza nelle balere come quel ritmato scassamento di minchia della musica cubana. M’è scappata, eeeeh. (Dvd; 2/4/08)

ddv6304692 – Il pacifismo guerrafondaio di Kingdom of Heaven di Ridley Scott, USA, Gran Bretagna, Spagna 2005
Sceneggiato col martello pneumatico e montato come se fosse Salvate il soldato Ryan, Kingdom of Heaven è un film ambiguo come spesso capita alle ultime cose di Ridley Scott. Ma la sua non è un’ambiguità ricca, bensì subdola, cinica, a buon mercato. Come da titolo italiano (Le crociate, non sia mai che ci si confonda) siamo in Terra Santa a liberare i luoghi sacri. Ci sono i saraceni buoni e il fanatico guerrafondaio che identifichi subito con uno di Al Qaeda. E ci sono i cristiani saggi e disponibili e quelli teo-con che vogliono la guerra a tutti i costi. Il messaggio generale vorrebbe essere di tolleranza, pace e comprensione, però poi la cinepresa indugia piacevolmente sulle scene di battaglia che – detto tra noi – sono anche la cosa migliore di un film che – ridetto tra noi – sembra adatto, nella sua semplice consequenzialità, all’età mentale di un dodicenne. E infatti – seppur turbandomi ideologicamente l’unico neurone funzionante – m’ha divertito. Girato con consueto stile grafico, purtroppo a Ridley scappa la cafonata di qualche modernismo di troppo: l’impressione che ogni paesaggio o scena di massa siano digitalizzati toglie molta magia a una messa in scena che fa (o dovrebbe fare) della grandiosità la sua cifra distintiva. Il belloccio Orlando Bloom se la cava, Eva Green – diamante splendente in The Dreamers del Maestro Bertolucci – mi sembra già appassita. Bravini gli altri e anche i costumi sgargianti. Suvvia: me lo son goduto (Barbara no, era indignata e sicuramente ha ragione lei). (Dvd; 11/4/08)

ddv6305693 – Il classico La carica dei cento e uno di Wolfgang Reitherman, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, USA 1961
Regalato a Sofia per i suoi tre anni (festeggiati il 26 aprile e non il 25, a sua insaputa; potere del nostro regime autocratico, neanche in Corea del Nord si cambia il calendario!) e visto praticamente subito assieme a lei. Il commento critico della piccina a fine visione è sintetico e straight to the point: “Questo è un film bellissimo!”. E non ha tutti i torti. Prima di questo ha visto, a inizio aprile, solo Le avventure di Barbapapà (di Talus Taylor e Annette Tison, Olanda 1973) che io ho finora evitato in toto e che in realtà sembra l’assemblaggio di una serie di episodi televisivi, per cui non so se possa valere come film “narrativo” vero e proprio (non c’è insomma la consequenzialità delle storie classiche di Barbapapà e lo dico a ragion veduta perché le ho lette tutte. Non per esclusivo piacer mio, s’intende). La Carica è un film molto “familiare” e lineare, anche se con azzeccata struttura ad inseguimento. Giusto per la cronaca: Crudelia De Mon è considerata una delle cattive più cattive del grande schermo di sempre, una zitellaccia ingrigita dal fumo, secca come un’acciuga e che non deve avere partner da decenni. Vuole farsi un pelliccione di pelle di dalmata e ruba 15 cuccioli a una coppia felice di conoscenti (coppia sana, solida, che tromba, seppur con britannica discrezione), ma in realtà, Crudelia, ne aveva già da parte 84 comprati, suppongo, con regolare fattura, e di cui poteva farne il cazzo che voleva, eh. E quando i 101 (99 cuccioli più Peggy e Pongo, genitori dei 15 rapiti) scappano e si salvano, gli 84 di Crudelia sono effettivamente sottratti alla legittima proprietaria. E questo nessuno lo dice! Ci starebbe un seguito politicamente corretto dove i cuccioli vengono restituiti e giustamente scuoiati, perché se non gli insegniamo l’osservanza della legge fin da piccoli, poi ci aspetta l’anarchia, no? (Dvd: 26/4/08)

ddv6312694 – Good Night, And Good Luck di George Clooney, USA 2005
Stavolta Barbara azzecca l’affitto e il film, effettivamente, merita: Clooney ritorna alla regia con le idee chiare (il suo primo film non m’era piaciuto per niente, vulgo faceva cacare). Qui troviamo afflato democratico, impegno rivendicato anche per un mezzuccio come la televisione, e ottima cinematografia, con gusto e classe. Bravo Giorgetto che non dimentica di reinvestire i mijiardi – guadagnati recitando in puttanate – in qualcosa di durevole e onesto. Film ben fatto e necessario, dài. (Dvd; 3/5/08)

ddv6306695 – Altro classicone: Il libro della giungla di Wolfgang Reitherman, USA 1967
I doveri di babbo mi impongono la visione di un film che non vedo dai miei nove anni (al Manin di Genova, con nonna Franca: avevo scazzato con un bambino di quattro perché disturbava. Avevo vinto). È il film Disney con due dei momenti più divertenti in assoluto: l’amicizia di Baloo e Mowgli e l’incontro con l’orango tersicoreo Re Luigi. Per il resto, il percorso di crescita e maturazione del trovatello tra animali buoni e meno buoni (lo spauracchio Shere Khan) scorre facile, tenero e sereno, narrativamente semplice, disegnato bene e animato meglio, con belle caratterizzazioni e sfondi. Semmai il finale, molto dark e coraggioso, lascia un po’ perplessa Sofia. E due giorni dopo nasce Elena. (Dvd; 4/5/08)

ddv6307696 – Man of the World di un cretino, Gran Bretagna 2007
Una tra le più belle storie del rock. E una delle più tragiche: quella di Peter Green. Giovanissimo chitarrista nei Bluesbreakers di John Mayall in sostituzione del dio Clapton, forma poi i primi Fleetwood Mac (quelli blues, che poi diventeranno pop) e i 3 album che produce in meno di due anni, ’68 e ’69, vendono più di Beatles e Rolling Stones assieme. Albatross, Need Your Love So Bad, Black Magic Woman, Man of the World e The Green Manalishi vanno in testa alle classifiche e rendono l’uomo molto ricco e molto infelice. Ma sarà un’infausta serata a Monaco nel 1970 a farlo uscire completamente di cotenna. Già da un po’ Green era insoddisfatto del suo ruolo di rockstar per caso, del successo e dello show-biz. Andava dicendo agli altri della band: “Diamo tutti i soldi alle popolazioni del Biafra, dài!”. Nessuno che gli desse retta: volevano diventare ricchi sfondati e pochi anni dopo ci sarebbero riusciti eccome. Comunque, alla festicciola di Monaco di cui si diceva, a Peter viene somministrato dell’LSD a tradimento che fa il resto: il genio esplode, vuole solo fare jam oceaniche (tipo 40 minuti di improvvisazione), molla il gruppo, pubblica un disco folle e doloroso (e splendido e dal titolo inconsciamente programmatico: The End of the Game) e poi crolla in una depressione che lo fa finire perfino in casa di cura per malati di mente. Le medicine lo annientano, così come l’elettroshock e il musicista più lirico del British Blues finisce per imbracciare un fucile per minacciare il suo commercialista (cosa che in realtà vorremmo fare tutti, credo, quando ti presenta la dichiarazione dei redditi). Non vuole soldi che ritiene maledetti, vuole solo scomparire. Il recupero è lento e non completo. Oggi Green fa compassione: parla impastato, in maniera incoerente, con sprazzi di amarissima lucidità. Ha tentato un ritorno alla musica negli anni Novanta e a Pistoia fui testimone di un concerto a dir poco straziante. Adesso ha mollato del tutto e forse si gode un po’ di pace, dopo alcuni anni di incisioni (più che dignitose e sicuramente dolorose) e concerti che giustifico solo come trattamento terapeutico per questa anima in pena. Il documentario di Steve Graham è pedestre, senza alcuna idea se non quella della consueta biografia scandita cronologicamente, con interviste molto statiche e non particolarmente brillanti (e riprese cazzo canis). Il film lo tiene a galla il simpaticissimo Mick Fleetwood che è una fucina di ricordi. Musica ovviamente magnifica e immagini di repertorio straviste (da me) e riutilizzate più volte per le due ore del film. Gli do 6 perché l’argomento merita 10, ma la regia non va oltre il 2. Occasione persa molto molto male. (Dvd; 15/5/08)

ddv6308697 – Classicone aggiornato: Tarzan di Kevin Lima e Chris Buck, USA 1999
Con la minuscola Elena son giorni di gran daffare e faccio questo regalo a sorpresa a Sofia che lo riceve emozionatissima, giacché sono settimane che chiede senza speranze di averlo. Guarda il film a bocca aperta, non si prende particolari spaventi ed è totalmente presa da una vicenda che in effetti non ha un attimo di respiro e va via veloce. Alla fine del film si gira verso di me e sentenzia: “Bello, eh?”. Divertente, ritmato, animato da dio ibridando tecniche tradizionali con quelle più moderne (gli sfondi sembrano statici e molte volte vengono esplorati in 3D), con tentazioni moderne (Tarzan che surfa tra i rami) e concessioni classiche (il cattivone Clayton, molto anni Quaranta), si fa vedere volentieri. Anche più volte, ahinoi, tollerando Phil Collins che canta cose insensate in un italiano degno di Mal. Due giorni dopo Sofia mi chiede se i cattivi esistano anche fuori dai film, nella vita reale. Beata innocenza. (Dvd; 16/5/08)

ddv6309698 – Immagina The U.S. vs. John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld, USA 2006
Paratelevisivo, molto lavorato ed effettato, è un discreto racconto della vita politica di John Lennon durante la sua contrastata permanenza negli USA. Parte bene e regge per almeno un’ora, poi si ripete e mostra un po’ la corda anche perché abbiamo capito che John stava sul cazzo a Hoover e non volevano dargli la cittadinanza, però poi non è che sia capitato molto altro. Lennon s’è battuto ancora e alla fine gli han dato la carta verde. Bene, bravo, bis. Oltre a tutto al ripiegamento privato di Lennon e della Ono (che, francamente, nelle scene di repertorio è fuori luogo in maniera evidente e puntualmente sovrastata da Lennon) non corrisponde una virata del racconto, che in troppe parti è meramente cronachistico. Poi, certo, la musica è splendida, Lennon illumina ogni volta lo schermo e i commenti sono interessanti, però si vede che è stato prodotto per la tivù (VH1) e c’è un evidente sentimento agiografico, anche perché la vedova ha collaborato attivamente. Non brutto come avevo letto da qualche parte né neanche lontanamente un capolavoro come molti critici ignoranti di cinema, rock e vita hanno blaterato; mmh. (Dvd; 22/5/08)

ddv6310699 – Non ha bisogno di presentazioni Il secondo tragico Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1976
E beh. Secondo shot dopo il successo galattico del primo Fantozzi, uno dei film italiani più visti di sempre come biglietti staccati (non fidatevi delle classifiche degli incassi, vincon sempre gli ultimi!). Qui è evidente come la struttura episodica (e stagionale) non sia sempre riuscita come nel prototipo e viene un po’ a mancare l’evidenza del sottotesto politico, concentrandosi invece più sulla satira grottesca di vizi, manie e sogni dell’italiano medio, un’analisi della sua evoluzione che oggi ha un valore antropologico notevole. Il problema è che Fantozzi siamo noi e chi vede il film preferisce sempre credere che sia qualcun altro diverso da sé, confondendo inoltre il padronato e la sua rappresentazione grottesca con un’esagerazione umoristica. Qui – comunque – abbiamo la corazzata Potemkin imposta dal prof. Guidbaldo Maria Riccardelli, il varo a Genova con cena tra i potenti (con i pomodorini “dentro palla di fuoco a 18mila gradi”), la notte brava di Calboni, Filini e Fantozzi, la seguente fuga d’amore del ragioniere e della signorina Silvani a Capri e anche la clamorosa gita del Duca Conte Semenzara al casinò di Montecarlo. Ci sono pure la fiacchissima battuta di caccia e la truffaldina malattia di Fantozzi con visita al circo, due parti che sembrano outtakes, con umorismo scarico e pure delle scopiazzature (alcune che risalgono addirittura al Chaplin muto… che chissà dove le aveva fregate lui, però). Detto questo, io Fantozzi non lo contesterò mai. Mai. (Diretta tv su Retequattro; 31/5/08)

ddv6311700 – Pensa: Le avventure di Peter Pan di Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson, USA 1953
Sofia l’ha preteso e, da genitore fermo nelle sue convinzioni pedagogiche, ho ceduto subito. Ma al momento non è sembrata particolarmente impressionata salvo poi diventarne fanatica. Io l’ho sopportato, anche se poi, alla quarta visione, ho cominciato ad affezionarmi (coi bambini la visione ripetuta è d’obbligo: o impazzisci o t’innamori). Disegnato benissimo, musicato con belle canzoni, ci presenta un cast eterogeneo e ben congegnato e noto subito che Capitan Uncino è praticamente Willy DeVille mentre Spugna sembra il Baciccia marinaretto della Sampdoria; assortito anche il cast femminile, con la virginale Wendy, la molto hot Giglio Tigrato e infine la lolita da tasca, Trilli. Il protagonista Peter Pan è invece un’odiosa faccia da cazzo con le orecchie a punta, un coglione dispettoso che non vuol crescere e il povero Capitan Uncino è la sua vittima frignona (pure con l’incubo di un coccodrillo… marino?! Sì, esistono). Il film me lo vedo, ma tutte le menate sulla fantasia, sul rimanere bambini… boh, mica lo so se sono d’accordo. Poi io son cresciuto con Bennato (e il suo layer politico alla vicenda) piuttosto che con questo Disney, per cui tutta la faccenda mi risulta confusa, anche se evidentemente il confuso sono io. E già che ci sono: il Bennato Peter Pan libero contro il movimento giovanile massa di pecoroni, rivoluzionari coi soldi di papà etc. etc. m’è sempre sembrato troppo egocentrico e qualunquistico, anche se non dubito che Edoardo abbia incontrato tanta gente così nella sua carriera. Però il disco era bellissimo: Bennato, quando non gli parte la brocca e il tono profetico/apocalittico, è (stato) un genio. Ma tornando al film: a me sarebbe piaciuto che quelli per cui tenere fossero i pirati, ecco. Cioè, posso farlo lo stesso, ma vallo a spiegare a Sofia, eh. (Dvd; 31/5/08)

ddv6313701 – L’orrendo The Grand Finale, di due pelandroni, Gran Bretagna 2006
Michael Apted, già responsabile di film più che dignitosi come Gorky Park o Gorilla nella nebbia, di serial goduriosi come Rome e di documentari celebratissimi (il militante – e menoso – Incident at Oglala o il kolossal televisivo Up series) si macchia assieme a tale Pat O’Connor di questo documentario che dovrebbe raccontare il campionato mondiale di calcio del 2006, disputato in Germania. Ne viene fuori una minchiata catatonica, per nulla coinvolgente, col gioco più bello del mondo (in un campionato in effetti non esaltante) raccontato come sarebbe capace di fare solo un appassionato di shangai. Le interviste fanno letteralmente schifo sia come domande poste ai calciatori (all’attaccante Thierry Henry: “Come mai tanti talenti in Francia?”… ma come si può soltanto pensare di porre una domanda così stupida?) che come regia (Cannavaro è ripreso in una palestra, con un audio soffocato e delle luci degne di un’emittente uzbeka). Il commento è spesso fuori luogo e il montaggio e l’impianto generale del film sono disastrosi: non solo manca la cronaca spiccia (l’Italia sembra capitare in finale a Berlino per caso), ma non c’è proprio calore, umanità, curiosità; è un film celebrativo surgelato, con le interviste realizzate dopo, senza avere a disposizione materiali pensati e realizzati prima e durante. Mancano vitalità, ritmo e invenzione; e mancano soprattutto un’idea del cinema e – cosa gravissima e incomprensibile – un’idea del calcio. Oltre a tutto c’è anche uno smarrone clamoroso: dell’arbitro della finale Elizondo (pure intervistato e senza motivo) si sbaglia il nome. Immagino che Apted sia stato locupletato dalla Fifa a suon di milionate di euro e poi non ci abbia perso granché tempo, tanto il committente era quella blatta di Sepp Blatter. Vabbeh, ancora grazie che il film non sia stato affidato al tedesco Wenders: almeno abbiamo evitato l’ennesima colonna sonora modaiola, tipo vecchietti tirolesi che fanno lo yodel e tutti a perderci le bave. (Diretta tv su La7; 1/6/08)

(Continua – 63)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

]]>