Swann – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vademecum per scrittori professionisti https://www.carmillaonline.com/2016/09/30/vademecum-scrittori-professionisti/ Thu, 29 Sep 2016 22:03:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33543 di Jack Baldrus

Un’estate con Proust, di AAVV, Carocci editore, Roma 2015, pp 214 € 15

proust“Più che un esercizio, la lettura di Proust è una vera e propria esperienza, cui – credo – ogni scrittore dovrebbe aprirsi per trovare la propria strada”. Julia Kristeva, L’immaginario

Esperienza. Era Jean Paul Sartre, certamente non uno scrittore baudelairiamo-proustiano (ma rimbaldiano) che si arrabbiava contro l’epica delle esperienze. Nessuna esperienza per scrivere, per pensare, per vivere. La scrittura è il risultato di un flusso, di una casualità. E’ una avventura poco avventurosa del proprio [...]]]> di Jack Baldrus

Un’estate con Proust, di AAVV, Carocci editore, Roma 2015, pp 214 € 15

proust“Più che un esercizio, la lettura di Proust è una vera e propria esperienza, cui – credo – ogni scrittore dovrebbe aprirsi per trovare la propria strada”.
Julia Kristeva, L’immaginario

Esperienza. Era Jean Paul Sartre, certamente non uno scrittore baudelairiamo-proustiano (ma rimbaldiano) che si arrabbiava contro l’epica delle esperienze. Nessuna esperienza per scrivere, per pensare, per vivere. La scrittura è il risultato di un flusso, di una casualità. E’ una avventura poco avventurosa del proprio essere. Non è sperimentare tutte le droghe, accoppiarsi con un alligatore, uccidere, farsi frustare, andare in guerra, vivere nelle fogne o in cima all’Everest, diventare amico di un serial killer, buttarsi da un ponte legati a una corda. L’esperienza è un reportage dal Nulla. Forse potremmo dire addirittura che è una immanenza, come la concepiva Deleuze. Qualcosa che incombe, che ci trascina, che ci travolge. Nel Nulla.

Eppure, l’auspicio della Kristeva – un’autrice di questa raccolta di testi – è verosimile. Questa esperienza della non-esperienza ha bisogno di linguaggi per esprimersi, di meccanismi. Ha bisogno di studio. Ha bisogno di coraggio. Per questo chiunque voglia pubblicare un testo di narrativa dovrebbe leggere Proust. Ma non dare un’occhiata, dovrebbe sostenere un esame. Poi, può pubblicare. Non esistevano le botteghe un tempo? Le congregazioni? Così oggi molti scrittori si arrabbiano perché non riescono a vivere scrivendo. Si arrabbiano perché non possono essere dei professionisti a tempo pieno. Bene, allora per entrare nella congregazione degli scrittori dovrebbero sostenere un esame di ammissione. Su Marcel Proust.

Questo autore francese infatti, vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ha utilizzato, e dominato, praticamente tutti gli stili letterari, tanto che la sua opera – un unico immenso romanzo, come lo concepiva anche Tolstoj, e come lo sognava a occhi aperti Jack Kerouac – è stata definita “narrativa-saggistica”, oppure “narrativa.filosofica”, o “narrativa impressionista” o “pittorica” o “psicologica”. E altro ancora. Inoltre Proust, letto fino in fondo, rappresenta una formidabile palestra mentale per chiunque voglia avventurarsi in questo percorso così labirintico, insicuro, che è la scrittura letteraria. E’ in controtendenza, sempre, perché disabitua allo stile povero, piatto, che domina nel totalitarismo dei social, degli sms, del “qui, subito”, di una omologazione che sta diventando la normalità. Lo stesso Proust, ai suoi tempi, aveva individuato l’omologazione di massa come risultato di una pavida sindrome di imitazione: “L’istinto di imitazione e l’assenza di coraggio governano sia le società che le folle” (Sodoma e Gomorra). L’omologazione che, per esempio, fa dire a Word Press (la piattaforma che fa funzionare molti siti web, compreso carmilla), che “un periodo contiene più delle 150 parole raccomandate” e che “il 50% delle frasi contiene più di venti parole. Prova ad accorciare le frasi”. Insomma, se Proust scrivesse un articolo sul web il sistema lo definirebbe “pessimo”. Quei periodi lunghi, più pagine senza un punto, con scatole cinesi che si susseguono, tanto che il lettore è costretto talvolta a tornare indietro, a rileggere, perché non sa dove è arrivato, né come o perché, in una sorta di territorio sconosciuto e si sente spaesato, si sente un viaggiatore senza bussola; quei periodi asmatici – prolungamento di un autore asmatico – obbligano a cercare il respiro, mentre ci si allena a restare in apnea, osservando il fondale marino coi suoi coralli, i suoi pesci, i suoi granchi, le sue alghe. Proust scrive dell’ignoto, lui, che non era rimbaldiano, è un esploratore di mondi sommersi, oscuri, o bruciati da un sole che sbrana. Proust è, forse, il più grande ritrattista di tutti i tempi, perché la sua tecnica di costruzione dei personaggi si basa su un assemblaggio di modelli reali interiorizzati, per cui il Narratore dietro le quinte è il personaggio, o parte di esso, lo fa crescere, sviluppare dentro di sé, arrivando a imitarlo, a parlare come lui/lei (sono molti gli aneddoti di Proust che scimmiottava questo o quel gentiluomo o quella nobildonna, con imitazioni impressionanti). Interiorizza persino gli oggetti e le piante, per restituirli con più realismo nella scrittura. Uno dei passaggi più celebri della Recherche – uno dei tanti – è quando, in una chiesa, osserva incantato i biancospini e li porta dentro di sé, li fa fiorire in se stesso, per sentirli, per viverli (Dalla parte di Swann, edizione Mondadori tradotta da Giovanni Raboni pp. 116-7).

proust-cover-piccolaPer la preparazione dell’esame gli aspiranti scrittori professionisti potrebbero consultare questo utile libretto, divulgativo eppure originale, acuto nella sua ricerca mirata su alcuni aspetti importanti, non sempre affrontati nella pur sterminata saggistica dell’opera proustiana. Si tratta di una raccolta di testi brevi, che si concludono sempre con un passo dell’opera. Inoltre gli autori – otto francesisti studiosi di Proust – sono degli adoratori del maestro, alcuni fino al punto di interiorizzarlo, proprio come faceva lui coi suoi oggetti/soggetti, per carpirne i segreti e sviluppare in se stessi il suo stile, per mettere a contatto diretto le emozioni che descrive con le proprie emozioni. I testi sono di facile lettura, dunque molto indicati per una introduzione critica a Proust, e costituiscono al contempo una preziosa miniantologia, perdipiù commentata. E’ divisa per sezioni, ognuna curata da un autore, Il tempo, I personaggi, Il suo mondo, L’amore, L’immaginario, I luoghi, Proust e i filosofi, Le arti. Ogni sezione è composta da 4-5 saggi, dove un aspetto dell’opera viene analizzato, talvolta con inserti di esperienza personale dell’autore-lettore della Recherche. Si parla di stile, di viaggi nella psiche più proibita, delle fanciulle in fiore, del demone della gelosia (che costituisce uno dei grandi mostri della discesa agli inferi della Recherche); si parla della madeleine, uno dei miti dell’immaginario letterario moderno, e della storia d’amore di Swann e Odette, forse il racconto amoroso, introspettivo ma anche di pura fiction, più famoso della letteratura. Proprio su questo romanzo all’interno del romanzo (Un amore di Swann) uno degli autori, Nicolas Grimaldi (il mio preferito, colui che si è addentrato con più lucidità nei territori della Recherche) ha focalizzato uno degli aspetti della diabolica fenomenologia amorosa di Marcel Proust: Swann si innamora follemente di Odette, perché la identifica con un personaggio di Botticelli, Sefora, figlia del sacerdote Ietro che sposerà Mosè, anche se in realtà ci fa capire che la donna reale, in carne e ossa, ha ben poco di quella trasfigurata nella pittura. Ma a Swann non interessa, lui cerca in Odette il capolavoro, e il suo amore travalica il reale, si innamora dell’amore stesso, cioè ama il sentimento in sé, non la donna vera, perché dentro ha già l’immagine che vive di vita propria, e cerca un soggetto adatto cui applicarla. Un racconto per certi aspetti micidiale sull’idealizzazione che si nutre di illusioni, di sogni, di fantasmi, e di delusione quando ci si avvicina troppo all’obiettivo reale, scambiando il tutto per “amore”.

Insomma, Un’estate con Proust non può essere l’unico testo di studio per l’esame, anche perché lo scrittore professionista non è un critico, ma costituisce un “primo approccio” ideale, perché stimola e in un certo senso facilita la lettura, che andrebbe interiorizzata e metabolizzata, obbligando la mente e lo spirito a sviluppare la propria ricerca, che è il vero obiettivo dell’esame, e dell’agognata iscrizione alla bottega di scrittura professionale.

]]>
Vermeer e la fabbrica dei miti https://www.carmillaonline.com/2013/10/16/vermeer-la-fabbrica-dei-miti/ Tue, 15 Oct 2013 22:33:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9799 di Mauro Baldrati

Vermeer_originalSappiamo che Swann, uno degli eroi – benché assai poco eroico – della Recherche, sta preparando da molto tempo un saggio sul pittore Vermeer. Ma è un progetto che non porta, né porterà, a termine. Perché Swann è pigro, indolente, incapace di passare all’atto, come molti dilettanti. E’ raffinato, colto, ma alle domande irritate della fidanzata (e futura moglie) Odette, di spiegarle cosa c’è di veramente bello in Vermeer, non sa, o non vuole rispondere. Più probabile la seconda ipotesi, conforme alla proverbiale indolenza del nostro, e alla sua forma di modestia fondamentalista, che in realtà è la [...]]]> di Mauro Baldrati

Vermeer_originalSappiamo che Swann, uno degli eroi – benché assai poco eroico – della Recherche, sta preparando da molto tempo un saggio sul pittore Vermeer. Ma è un progetto che non porta, né porterà, a termine. Perché Swann è pigro, indolente, incapace di passare all’atto, come molti dilettanti. E’ raffinato, colto, ma alle domande irritate della fidanzata (e futura moglie) Odette, di spiegarle cosa c’è di veramente bello in Vermeer, non sa, o non vuole rispondere. Più probabile la seconda ipotesi, conforme alla proverbiale indolenza del nostro, e alla sua forma di modestia fondamentalista, che in realtà è la vera classe di chi non si profonde in spiegazioni o esibizioni della propria erudizione.

Dunque cosa c’è di veramente bello nel pittore olandese secentesco? La luce straordinaria dei fiamminghi? Il loro delicato iperrealismo? La trasparenza celestiale dei colori? Chissà se le migliaia di spettatori che, in febbraio, entreranno nel museo privato bolognese Palazzo Fava, in una grande mostra su Vermeer che, dopo molti anni, fa uscire Bologna dal suo provincialismo e dall’autoesclusione dalle mostre internazionali (grazie a una banca), se lo chiederanno.

Per la verità la mostra non è monografica. Ci saranno altre tele di maestri fiamminghi, Rembrandt, Hals, Ter Borch, Claesz, Van Goyen, Van Honthorst, Hobbema, Van Ruisdael, Steen, ma chi tira è lui, Vermeer. Il suo capolavoro La ragazza con l’orecchino di perla avrà un salone interamente a disposizione, con altissimi soffitti a cassettoni e affreschi di Carracci. Su una parete di questa grande sala sarà posizionato, in una teca climatizzata, da solo, il piccolo quadro di cm 39 X 40.

vermeer_scarlettA dire il vero questo non era il titolo originale del quadro. E’ stato cambiato. Vermeer lo chiamò Ragazza col turbante. Ma è un dettaglio trascurabile. Ora Vermeer è diventato un personaggio pop, e deve sottostare alle regole poco democratiche del marketing selvaggio. Un libro di successo, che ha rinominato il quadro, di Tracy Chevalier (ottimo peraltro, intrigante, ben scritto e piacevole), e un film interpretato dalla superstar hollywoodiana Scarlett Johansson, hanno generato una concatenazione di macchine produttive di immaginario, pubblicità, gossip, che è diventata macchina del tempo, ha fatto un salto di alcuni secoli, ha prelevato Vermeer e l’ha catapultato nel sistema dell’entertainment e della fabbrica dei miti.

Non che il pittore fosse poco conosciuto, o sottostimato. E’ uno dei grandi maestri dell’età dell’oro dei fiamminghi. Ma era lo stesso prima? Cosa pensava di lui Odette, ragazza ordinaria, ignorante, bugiarda, la musa incomprensibile del raffinatissimo Swann? Dietro la sua esasperata domanda: cosa c’è di veramente bello in Vermeer si nasconde la battuta: insomma smettila di rompere con ‘sto Vermeer! E la sua maestra di vita, la petulante, ricchissima, feroce Madame Verdurin, avrebbe apprezzato il pittore solo se adeguato alla sua visione egoistica della moda, della tendenza, e mai, mai, se oggetto di culto per intellettuali d’élite.

Così, accanto agli spettatori che riusciranno a prenotare un biglietto per la mostra, ci saranno Odette e Madame Verdurin, a porsi con loro la domanda. Forse Madame Verdurin non se la porrà, essendo incapace di provare sentimenti che non siano l’astio, il disprezzo per i chic, la crudeltà verso i deboli, ma si limiterà a cercare di stabilire se il pittore, e la mostra, siano conformi al suo modello di artista non-noioso. Odette e gli altri, invece, forse proveranno quel senso di doloroso straniamento che sempre interviene quando, ebbri di mitopoiesi mediatica, ci troviamo di fronte all’oggetto reale che l’ha generata. Proprio come il Narratore delle Recherche che, dopo giorni e notti e mesi di sogni sul salotto mitizzato dei Guermantes, una volta entrato, si stupisce di non provare nulla di speciale né di elevato, ed è incredulo quando è costretto a constatare che si tratta di persone normali, che parlano in maniera normale.

Ovviamente il quadro non è normale. In quello sguardo Vermeer ci ha messo la vita, il sentimento. Nelle labbra socchiuse della ragazza ci sono promesse, sensualità e persino innocenza. C’è la grazia.

Ma cosa c’è di veramente bello?
Gli spettatori spinti, costretti alla visione dalla fabbrica dei miti, forse riusciranno a sdoppiare la domanda e a chiedersi cosa c’è di veramente bello nella monumentale impalcatura di stelle mediatiche, red carpet, flash di fotografi, articoli entusiasti e tutti uguali, filmati celebrativi, primissimi piani ad alta definizione di volti glamour de-contestualizzati, aggettivi roboanti e omologati, gadget e bel mondo. E la domanda potrebbe diventare: perché non riesco a consumare fino in fondo il veramente bello? Perché questo distacco, questa insoddisfazione? Sono io o è il quadro, così piccoletto in confronto all’enfasi di cui è avvolto?

Non sarà invece che la macchina di fabbricazione del mito mi costringe a nutrirmi del suo prodotto, e mi impedisce di godere dell’unica vera bellezza, quella dell’arte, che ci invia i suoi segni reali, addirittura modesti, mentre siamo travolti dai segni mendaci della mondanità?

Ma è dura. Dubitiamo che Odette de Crécy, la cui pigrizia mentale è seconda solo a quella del suo futuro marito, abbia il tempo, e la pazienza, di porsi una simile domanda.

]]>
Paolo Sorrentino: La grande bellezza https://www.carmillaonline.com/2013/06/09/paolo-sorrentino-la-grande-bellezza/ Sat, 08 Jun 2013 22:03:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6462 di Mauro Baldrati

Sorrentino_Servillo_-apertuMentre digitavo nel campo “cerca” di google: “la grande”… è subito apparso La grande abbuffata. Così ho avuto un flash inaspettato: non sarà che tra i numerosi riferimenti attribuiti all’ultimo film di Sorrentino potrebbe esserci anche il film di Ferreri? Entrambi sono produzioni italo-francesi. Non che sia significativo, ma nel Grande Nulla che si sprigiona da La grande Bellezza, viaggio per immagini in territori urbani desertificati, non potremmo iscrivere anche il deserto esistenziale di vite fallite dei quattro amici che decidono di farla finita mangiando?

Vite fallite. La vita di Jeb Gambardella, il nostro navigatore (e anche narratore) [...]]]> di Mauro Baldrati

Sorrentino_Servillo_-apertuMentre digitavo nel campo “cerca” di google: “la grande”… è subito apparso La grande abbuffata. Così ho avuto un flash inaspettato: non sarà che tra i numerosi riferimenti attribuiti all’ultimo film di Sorrentino potrebbe esserci anche il film di Ferreri? Entrambi sono produzioni italo-francesi. Non che sia significativo, ma nel Grande Nulla che si sprigiona da La grande Bellezza, viaggio per immagini in territori urbani desertificati, non potremmo iscrivere anche il deserto esistenziale di vite fallite dei quattro amici che decidono di farla finita mangiando?

Vite fallite. La vita di Jeb Gambardella, il nostro navigatore (e anche narratore) non sembra all’insegna del fallimento. E’ diventato “il re dei mondani”, conosce tutti i salotti romani più esclusivi, dove entra trionfalmente, e scrive su un importante giornale. Però anche sì. E’ anche un fallito. Come scrittore. Almeno secondo il loro punto di vista, l’unico che concepiscono, che prevede il successo, e quindi il fallimento. Ha scritto un unico libro, molti anni prima, poi più nulla. Qualcuno gli chiede: perché non ne scrivi un altro? Era grande quel libro. Ovviamente non sappiamo se sono complimenti sinceri, essendo il film sovrappopolato di personaggi bugiardi, costruiti. Però Jeb a un certo punto fornisce una risposta interessante e geniale: “Mah, perché esco troppo la sera”.

E’ una risposta che avrebbe potuto fornire anche Swann, uno dei personaggi più importanti della Recherche, e uno dei più amati dal suo autore, Marcel Proust. Perché Jeb è anche questo: uno Swann moderno, così disincantato, così raffinato, così arguto, amico di principesse e di contesse, e soprattutto così pigro. Swann sta scrivendo un saggio su Vermeer, da anni. Ma non lo conclude mai. Proust ci informa che è soggetto a crisi di accidia, si siede al tavolo ma non combina niente. Così si agghinda e se ne va per salotti. Anche Jeb non combina nulla, a parte sprecare tempo. Perché questo è uno dei grandi segnali della Recherche: non il tempo perduto, inteso come nostalgia, come memoria di ciò che è finito, ma tempo sprecato. Lo spreco di tempo, di vita. Proprio come la vita sprecata di Jeb, della quale è anche cosciente, come appare qua e là, tra una scena e l’altra, tra una performance e l’altra. Attimi di riflessione, forse di crisi esistenziali. Ma sono brevi cenni, perché la crisi, se esiste, non si manifesta compiutamente nella body-narrazione del personaggio. Non è diffusa. Bisogna intuirla. Bisogna volerla vedere.

Sorrentino_VerdoneLa grande bellezza è anche un film sulla crisi esistenziali, sul vuoto, sul degrado dei rapporti umani. Ma le infinite sfaccettature, le digressioni narrative sulla pura visionarietà delle scene, dei movimenti di macchina, delle comparsate di attori-icone del cinema non solo italiano (Serena Grandi, più felliniana che mai, Verdone in una delle sue classiche macchiette, Fanny Ardant, Sabrina Ferilli molto sexy, addirittura Venditti nel ruolo di se stesso che mangia da solo in un ristorante), non permettono una sintesi compiuta delle metafore. C’è dentro molto materiale, citazioni cinematografiche e letterarie, la decadenza dell’alta società, della stessa città, con punte di grande cinema, come sempre in Sorrentino. Ma sembra che il regista non voglia sbilanciarsi troppo, non si voglia schierare. Prende qua e là ciò che gli serve, ma lo spoglia per così dire del contesto, delle radici.

Così Jeb prende da Swann, ma solo qualche aspetto. D’altra parte questa era la tecnica di Proust. Prendeva campioni di personaggi reali, e li assemblava. In un ristorante, dove sta cenando con Sabrina Ferilli, con la quale andrà a letto senza fare nulla, perché è la figlia di un vecchio amico (“è stato bello non fare l’amore”, dice, mentre giacciono sul letto seminudi, con l’immancabile sigaretta – la solita ossessione di Sorrentino per il tabagismo estremo), di fronte allo sventurato figlio di un’amica miliardaria che lo invita a concentrarsi su Proust, risponde: “meglio concentrarsi sul menu”. Questo Swann non l’avrebbe mai detto. Non avrebbe mai espresso questo cinismo, così italiano, questo disincanto rassegnato.

Per cui in Jeb c’è anche altro. C’è Marcello, il navigatore de La dolce vita, il film più citato come principale riferimento de La grande bellezza. In effetti molte scene sono ultra dolcevitiane. Lo stesso Fellini, tra l’altro, cambiava spesso registro narrativo, e indugiava sulle scene come ricerca sull’immagine in sé. Cinema del cinema insomma. E la festa della nobiltà nel castello viterbese, così atroce, che fece impazzire Warhol (tra l’altro in queste scene figurava anche la futura Chelsea Girl Nico come attrice), irrompe più volte nel film di Sorrentino. Spreco, vuoto centrale, cicaleccio nel deserto esistenziale, pose, falsità, pazzia, la voce umana che si alza nel silenzio del nulla. Una delle centinaia di frasi sparate nello spazio profondo da Winnie, la donna piantata nella sabbia di Giorni felici di Beckett, potrebbe essere il manifesto de La grande bellezza: “Eh, sì, così poco da dire, così poco da fare, e una tale paura, certi giorni, di trovarsi… con delle ore davanti a sé, prima del campanello del sonno, e più niente da dire, più niente da fare, che i giorni passano, certi giorni passano, passano e vanno, senza che si sia detto niente, o quasi, senza che si sia fatto niente, o quasi”.

Sorrentino_ServilloMa Jeb non riesce ad avere quella punta di malinconia sempre incombente di Marcello. Diciamo che contiene una parte di Marcello, ma più moderno, più adeguato al nostro tempo. Per lo più Sorrentino indugia coi primissimi piani sul viso di Toni Servillo (dimostrando di avere recepito gli stilemi hollywoodiani, l’uso intensivo del primissimo piano sulle star), come se noi, spettatori, potessimo – dovessimo? – scoprire stati d’animo o riflessioni non dichiarate nel personaggio-sfinge. Fellini, e Proust, amano i loro personaggi, anche quando li dipingono con un sarcasmo che rasenta il sadismo. Nel film di Sorrentino c’è come un maggiore distacco, che iscrive alcune scene, soprattutto nella prima parte, pure girate con maestria, a un inevitabile, quanto non voluto, virtuosismo.

Questo film ha spaccato la critica. Non accade spesso. C’è chi ha gridato alla “cagata pazzesca”, chi al quasi capolavoro. Chi ha detto che è il nuovo Dolce vita del terzo millennio, chi si è indignato per questo paragone blasfemo. E’ un dato interessante. Smuovere gli ormoni di certi “critici”, sempre così omologati, sempre servizievoli verso le veline della produzione, è un ottimo risultato. Significa che circola l’energia, in qualche modo, e tocca corde sensibili, perfino in chi la sensibilità l’ha sostituita da tempo col mestiere e con la superficialità.

Ma: per concludere: dov’è la grande bellezza? Forse nella vivacità delle immagini, nello stile raffinato e innovativo delle inquadrature, nelle carrellate di personaggi? Nelle scenografie romane? Nelle belle musiche di Lele Marchitelli? Nella ricerca di un senso, di una identità? O forse nel finale, con inquadratura su Jeb-Servillo, che rappresenta una sorta di miniatura del Temps retrouvé, e una svolta nel “positivo”, nella vita? Qui è indispensabile il giudizio, arbitrario e necessario, dello spettatore, che non si preoccupa di doverlo esprimere, ma solo di sentirlo, metabolizzarlo come risposta multipla, o dubitativa. Perché il recensore, per quanto si impegni, una risposta certa non riesce a trovarla.

]]>