Sviluppismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2024/07/16/i-grundrisse-secondo-david-harvey-tra-totalita-e-doppia-coscienza-seconda-parte/ Tue, 16 Jul 2024 04:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83180 di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a [...]]]> di Fabio Ciabatti

David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60.

Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a partire da questo approccio. La prima cosa da notare è che il concetto di totalità viene spesso respinto perché appare come una costrizione insuperabile per qualsiasi prassi liberatoria.  Il riferimento critico di Harvey a Foucault e al post-strutturalismo, che abbiamo richiamato nella prima parte della recensione, nasce da questo tipo di considerazioni. A prima vista l’anatema nei confronti della totalità non appare infondato. È lo stesso Harvey, infatti, a dirci che i processi capitalistici possono dare luogo a una sorta di cristallizzazione sclerotica tale da produrre l’impressione che

l’umanità abbia ingabbiato sé stessa nella sua rete di rapporti sociali (di classe), di strutture istituzionali (ovvero giuridiche), di interazioni sociali. Di continuo si ritrova irretita nel tentativo di rompere i vincoli e le barriere che lei stessa ha creato. Ecco la contraddizione fondamentale implicita nel modo di produzione capitalistico.1

Non è un caso che Antonio Negri, nel suo Marx oltre Marx, testo del 1979 che reca come sottotitolo Quaderno di lavoro sui Grundrisse, sostenga con lo stile militante e non alieno alle forzature interpretative che contraddistingue questa opera: “L’orizzonte metodico marxiano non è mai investito dal concetto di totalità; piuttosto che dalla totalità esso è caratterizzato dalla discontinuità materialistica dei processi reali”.2 Questo approccio porta Negri a prediligere i Grundrisse rispetto al Capitale perché il primo scritto sarebbe focalizzato sul rapporto tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria, mentre nel secondo il sistema marxiano sembra chiudersi in una sorta di totalità autosufficiente. Per dirla in altro modo i Grundrisse sarebbero un testo eminentemente politico mentre Il capitale sarebbe fondamentalmente un’opera economica, suscettibile di essere interpretata in senso oggettivistico e deterministico proprio per il suo spirito di sistema.

Dopo aver precisato che Negri non viene menzionato da Harvey, in generale avaro di citazioni riguardanti la letteratura secondaria sui Grundrisse, arriviamo al punto che ci interessa in questa sede: l’utilizzo del concetto di totalità in chiave politica da parte del marxista britannico che va in senso opposto a quello dello studioso italiano.

È come se Marx volesse invitare i lavoratori a unirsi a lui nel dissezionare il corpo del loro scontento. Il metodo storico-materialista e anti-idealista stabilito nella cosiddetta «Introduzione di Marx» suggerisce come i lavoratori debbano rivolgere il proprio sguardo alla totalità della loro esperienza di vita, della loro cultura, e appropriarsene in quanto soggetti politici nel processo di trasformazione in esseri dotati di coscienza di classe.3

Secondo Harvey, il luogo paradigmatico per la formazione di una coscienza di classe è costituito dalla sfera della produzione dove si esplicano con maggiore chiarezza i rapporti di dominio e sfruttamento. Ma ogni lavoratore è soggetto a esperienze materiali radicalmente differenti: oltre a partecipare al processo produttivo, vende la sua capacità lavorativa, ha un potere discrezionale legato al potere monetario del suo salario, compra merci sul mercato, è immerso in molteplici forme di riproduzione sociale nella quotidianità della famiglia o nel contesto di un quartiere. Esperienze diverse che tendono a generare differenti soggettività politiche. L’identità di lavoratore viene “cancellata”, ci dice Marx, quando si presenta sul mercato per comprare le merci diventando un consumatore come tutti gli altri. Come sostenere allora una coscienza di classe trasversale a tutti questi momenti?

Ogni soggettività politica, legata com’è al suo specifico momento, non fa che nascondere il carattere complessivamente classista del modo capitalistico di produzione. Ebbene è soltanto dalla prospettiva della totalità che questo carattere può venire totalmente alla luce.4

In questo modo, secondo Harvey, Marx vuole offrire un quadro di riferimento in cui i lavoratori possano fare i conti con tutte quelle forze capaci di condannarli a condizioni di lavoro e di vita tanto oppressive e inadeguate da evocare una prospettiva di rivolta proprio perché esse non sono frutto del caso o dell’arbitrio ma sono condizioni del tutto adeguate dal punto di vista del capitale e della sua incessante brama di profitto e dunque di sfruttamento dei lavoratori.
Secondo Harvey, insomma, Marx con il suo apporto teorico sembra puntare a rafforzare quelle dinamiche che portano lo sviluppo capitalistico a favorire l’avvento di un nuovo tipo di forza lavoro educata, flessibile, adattabile e potenzialmente rivoluzionaria. Siamo di fronte al “lavoratore emancipato”, espressione che Marx utilizza una sola volta ma che, secondo Harvey, sembra spesso affiorare come una sorta di commentatore interno al testo, in particolare quando il rivoluzionario tedesco si chiede come andrebbero le cose se i lavoratori associati assumessero il controllo delle tecnologie disponibili per alleggerire i loro fardello materiale al minimo e liberare così il proprio tempo.

A proposito del “lavoratore emancipato”, si può introdurre una questione che ha a che fare con quella che Harvey definisce la “doppia coscienza” di Marx il quale, da una parte, sottolinea la grande “influenza civilizzatrice” del capitale e, dall’altra, ne denuncia la forza distruttiva e alienate, direi addirittura annichilente. Nel primo caso, lo sviluppo delle forze produttive, che porta con sé la possibilità di sviluppo universale dell’individuo, pone le premesse per il passaggio a una forma sociale superiore. Siamo insomma di fronte a una concezione sostanzialmente ottimistica che “non vede alcun ostacolo immediato per un compimento finale salvo le contraddizioni interne del capitale”.5
Quello che vorrei suggerire è l’ipotesi che il “lavoratore emancipato” sia il protagonista adatto a questa prima coscienza di Marx, mentre se ci rivolgiamo al secondo tipo di coscienza la troviamo “piena di punti interrogativi” e le cose si fanno maledettamente più complicate. Harvey parla addirittura di una legge cui Marx accenna sebbene appaia riluttante a nominarla esplicitamente: “la legge della crescente perdita di potere da parte del lavoratore”.6 Una legge legata all’enorme sviluppo del capitale fisso (i macchinari) che rende irrilevante le capacità del singolo lavoratore riducendolo a impotenza. Una condizione che “ha rappresentato a lungo un arduo ostacolo contro l’organizzazione della lotta e della coscienza di classe”.7 Dal punto di vista della seconda coscienza di Marx, sembra che la violenta distruzione dei sistemi precapitalistici ci abbia precipitato in una “situazione di totale svuotamento” facendoci perdere irrimediabilmente qualcosa di importante, al punto che “le contraddizioni interne del capitale finiranno per vanificare la piena realizzazione dei suoi migliori obiettivi”.8
In ogni caso, sostiene Harvey, queste due concezioni “non si escludono l’un l’altra, più semplicemente rappresentano due lati della natura profondamente contraddittoria dell’umanità come progetto”9 e potrebbero dirci “qualcosa di importante sulle molte ambivalenze che inevitabilmente colorano ogni progetto socialista, aiutarci a comprendere come e perché così tanti progetti onesti abbiano finito per imbarbarirsi sulla via della loro realizzazione”.10 Come quelli delle sinistre ecuadoriane e boliviane, l’esempio è di Harvey, che facendo affidamento sul ruolo progressivo del capitale hanno portato avanti politiche sviluppiste ed estrattiviste, finendo per entrare in aperto e talvolta violento contrasto con la loro base indigena uscendo da questo scontro fatalmente indebolite.

La risposta non sta nell’abbandono dello sviluppismo di sinistra come prima pietra sulla via del socialismo, ma nel creare spazi e opportunità nelle rigidezze dello sviluppismo affinché ci sia concesso cercare un significato, una socialità e una fisicità non alienata, immergerci nel rapporto metabolico con la natura, aprire conflitti per la “completa estrinsecazione dell’interiorità umana”.11

Qui, verrebbe da commentare, la seconda coscienza di Marx viene sussunta (nel classico significato di conservata e superata) dalla prima. E, per tornare a quanto già accennato, l’agente principale di questa operazione sembra essere il “lavoratore emancipato”. Ma a partire dalle stesse considerazioni di Harvey potremmo anche ipotizzare il processo inverso e questo ci porterebbe sulla soglia di una dinamica storica che procede attraverso catastrofi, siano esse di natura sociale, ambientale o bellica.
Quando Negri nel 1979 proponeva la sua lettura dei Grundrisse pensava si fosse “in una fase di rifondazione del movimento rivoluzionario, ed in forma non minoritaria”.12 Benché questa lettura della fase fosse alquanto ottimistica, bisogna comunque ammettere che la congiuntura storica attuale è assai diversa e questo ha un peso sull’approccio al testo marxiano. Anche Harvey propone una lettura dei Grundrisse che ha un obiettivo politico. Ma alla politica ci si arriva per gradi, verrebbe da dire alla fine del processo di dispiegamento della totalità. E questo perché ad essere venuta meno è proprio la certezza del nesso immediato tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria.

In conclusione, la lettura dei Grundrisse di Harvey mi pare nasca da una disposizione d’animo più vicina all’atteggiamento di Marx che, dopo la sconfitta dei moti rivoluzionari del 1948, si prepara ad una battaglia di lunga lena riprendendo i suoi studi di economia politica. Il problema è che noi, rispetto a Marx, sembra proprio che di tempo a disposizione ne abbiamo molto meno. Le dinamiche distruttive del capitale appaiono oramai sopravanzare di gran lunga la sua “influenza civilizzatrice” conducendoci verso il baratro della disgregazione sociale, del disastro ambientale, dell’olocausto bellico.  Per non parlare di quella vera e propria catastrofe dell’umano rappresentata dal fatto che ci stiamo assuefacendo a un genocidio trasmesso, per la prima volta nella storia, in diretta TV e social.
Certamente appaiono pure delle controtendenze come la mobilitazione studentesca contro lo sterminio di massa di Gaza. Ma è altrettanto certo che avremmo bisogno come il pane di quella soggettività evocata da Marx attraverso la figura del “lavoratore emancipato” che, con la sua capacità di allargare il proprio sguardo sulla totalità dei rapporti di sfruttamento e dominio del capitale, sia in grado di contrastare quel simulacro di classe operaia nazionalizzata e razzializzata risvegliato dai populismi fascistoidi.  Temo però che questo non sia sufficiente e che emerga l’esigenza di uno scarto significativo rispetto ai soggetti collettivi che si sono affacciati fin qui sul proscenio della storia, ancora troppo legati al proprio ruolo nell’ambito della produzione e riproduzione capitalistica, quasi che il comunismo potesse essere concepito una prosecuzione sufficientemente lineare della missione civilizzatrice del capitale. Temo che occorra una soggettività all’altezza della seconda coscienza di Marx, quella che si presenta con tratti che si fa fatica a non definire apocalittici.

La prima parte è stata pubblicata venerdì 12 luglio.


  1. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024 (p. 19. 

  2. A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979, p. 55. 

  3. D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 495. 

  4. Ivi, p.493. 

  5. Ivi, p.285. 

  6. Ivi, p. 512. 

  7. Ivi, p. 389. 

  8. Ivi, p. 284. 

  9. Ivi, p. 287. 

  10. Ivi, p.285. 

  11. Ivi, p. 292. 

  12. A. Negri, Marx oltre Marx, cit. p. 29. 

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Uno sguardo altro sulla Cina contemporanea e le sue contraddizioni di classe https://www.carmillaonline.com/2022/12/07/uno-sguardo-altro-sulla-cina-contemporanea-e-le-sue-contraddizioni-di-classe/ Wed, 07 Dec 2022 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74897 di Sandro Moiso

Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00

La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati [...]]]> di Sandro Moiso

Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 200, euro 12,00

La prima cosa che salta all’occhio, fin dalla lettura delle prime pagine, nel testo prezioso appena pubblicato dalle Edizioni Porfido è che a differenza dell’Italietta, in cui la sinistra antagonista troppo spesso continua a portarsi appresso le incrostazioni del gramscismo e di un certo operaismo ancora influenzato da brandelli di maoismo, in altre e ben più significative aree del mondo, in questo caso Cina e Stati Uniti, il riferimento ai linguaggi e alle esperienze teoriche della Sinistra Internazionalista costituisce una solida base per l’analisi dei più importanti fenomeni sociali, politici ed economici e delle inevitabili contraddizioni di classe che hanno contraddistinto la Repubblica Popolare Cinese dalle sue origini fino a oggi.

Indagare sulle origini e le ragioni dell’attuale salda integrazione della Cina nella “comunità materiale del capitale” è il compito che si sono posti i membri del collettivo comunista internazionalista Chuaˇng, gruppo anonimo i cui membri si distribuiscono appunto fra la Cina e gli Stati Uniti. Il carattere Chuaˇng, da cui il collettivo prende il nome, in cinese è riassumibile nell’immagine di un cavallo che sfonda un cancello e riveste il significato simbolico di liberarsi, attaccare, caricare, sfondare, forzare l’entrata o l’uscita: agire con impeto.

Da alcuni anni le pubblicazioni sull’omonima rivista e la serie di articoli traduzioni e interviste ospitate sul blog chuangen.org, rappresentano una delle fonti di informazione e analisi più attente e pertinenti sulle dinamiche e le traiettorie delle trasformazioni sociali e del conflitto di classe nella Cina attuale. Il libro, appena tradotto in Italia ma già apparso nel 2016 sul primo numero della rivista, rappresenta la prima parte di un progetto in corso di pubblicazione sulla storia economica della Cina che, con taglio dichiaratamente “materialista”, vuole smarcarsi tanto da una letteratura “di sinistra” da anni sostanzialmente monopolizzata e caratterizzata dalle varie correnti ideologiche di origine “maoista” che, occorre qui ricordarlo, hanno spesso poco a che vedere con il marxismo inteso in senso stretto, quanto dallo specialismo di chiara marca accademica.
Come hanno sottolineato gli autori:

ripercorriamo lo sviluppo materiale della società cinese per evitare di rimanere invischiati nelle battaglie ideologiche del passato. Qua non si tratta di difendere una tradizione di sinistra contro un’altra. Anzi, a differenza della maggior parte delle ricostruzioni, la nostra serie storica de-enfatizza intenzionalmente i dibattiti ideologici e il ruolo dei leader, compresi quelli di Mao e Deng. Non siamo qui per riportare in vita i morti o per far rivivere le glorie del passato. Anche nel nostro lavoro di ricostruzione storica, il focus resta totalmente orientato al presente. Ripercorriamo gli sviluppi materiali della società cinese per tracciare le possibili aperture politiche del nostro tempo1.

Il sorgo e l’acciaio si concentra sul periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare fino agli anni della Rivoluzione culturale. A partire dalla ricostruzione del contesto economico e sociale in cui maturò il progetto rivoluzionario cinese (costantemente inteso nella sua dimensione collettiva di fenomeno di massa), ci guida nei meandri del processo di costruzione di quello che viene definito “regime sviluppista socialista”, vero assemblaggio in corso d’opera di pratiche, sistemi produttivi, metodi di inquadramento e disciplinamento della forza lavoro ed estrazione dl surplus agricolo, definito dal rapporto tra il Partito Comunista Cinese e la base sociale della rivoluzione.

E’ fra i meandri di questo processo che vediamo emergere tutti gli elementi che andranno a definire i contorni dell’attuale conflitto sociale in Cina: l’irrisolto divario tra città e campagna, la sovrapposizione fra strutture partitiche e apparati dello Stato, la graduale formazione di una classe dirigente di “ingegneri rossi” da un lato e di un semi-proletariato a cavallo fra mondo contadino e sfruttamento urbano, dall’altro. “Uno dei più importanti slanci verso lo sviluppo nella storia dell’umanità”: un sistema, come ci illustra Chuăng, crollato sotto il peso delle proprie contraddizioni e del contesto storico internazionale in cui viene a maturare, ma che, nondimeno, sedimenta gli elementi strutturali che, a partire dalla successiva fase di “riforma ed apertura”, porteranno […] la Cina degli ultimi decenni a rappresentare non solo l’ancora di salvezza per un’economia globale scossa da una crisi ancora irrisolta, ma che ha costituito anche il teatro di una vivace, quanto in parte misconosciuta, conflittualità sociale e di classe, protagonista una giovane e massiva classe operaia cinese. Le sue lotte ricalcano in parte le caratteristiche e i limiti del ciclo di conflittualità globale dell’ultimo decennio, anche se, considerata la posizione strutturale del Paese, hanno, e non potranno che aver anche in futuro, un’eco e una portata mondiale2.

Per tutti questi motivi, si afferma ancora nella Prefazione:

Approcciarsi ad una comprensione della Cina contemporanea appare oggi compito non più procrastinabile. La rapida mutazione dello scenario internazionale, le linee di faglia che vanno ad approfondirsi, i tamburi di guerra totale sempre più incalzanti che fanno da sfondo a questa fase di transizione del capitalismo globalizzato, rendono ormai imprescindibile dotarsi di una cassetta degli attrezzi analitica e teorica “di parte”, che provi a sottrarre la “questione” della Cina tanto al tifo per un fantomatico “socialismo con caratteristiche cinesi”, che assumerebbe sempre più i tratti di faro alternativo per una parte consistente di periferia del mondo, quanto, soprattutto, alle sirene di una sinofobia occidentale sempre meno strisciante, substrato ideologico e narrativo dello scontro inter-imperialistico a venire3.

Attrezzarsi, dunque, non solo per capire la Cina e le sue contraddizioni, ma anche il conflitto interimperialistico allargato che verrà e che è già nell’aria e che, per forza di cose, vedrà coinvolte direttamente una potenza al suo tramonto e una già emersa da tempo. Non a caso due aree, quella dell’America settentrionale e quella sino-asiatica, da cui gli osservatori e i “tifosi” del conflitto di classe potrebbero e dovrebbero attendersi le sorprese maggiori.

Il presente volume costituisce, nell’intento degli autori, il primo volume di una serie di tre dedicati all’«emergere della Cina fuori dagli imperativi globali dell’accumulazione capitalista» e nello stesso si analizza

la fase esplicitamente non capitalista di questa storia, l’era socialista ed i suoi prodromi, durante la quale vide la luce la prima infrastruttura industriale moderna dell’Asia orientale. Il secondo volume coprirà la “Riforma e l’Apertura” avviate alla fine degli anni ’70, per giungere alla cosiddetta distruzione della “ciotola di riso di ferro” durante l’ondata di deindustrializzazione degli anni ’90. La sezione finale, che coprirà il terzo volume, illustrerà il periodo successivo a questa fase di deindustrializzazione ancora in corso, ivi inclusa la trasformazione capitalista dell’agricoltura e la creazione del proletariato cinese contemporaneo4.

Nell’analizzare l’evoluzione dei rapporti sociali e di classe all’interno del sistema politico-economico cinese i compagni di Chuăng utilizzano, come anticipato già dal sottotitolo dell’opera, la definizione di “socialismo sviluppista”, riferito in particolar modo al periodo compreso tra il 1949 e il 1969 ovvero tra l’affermazione della Repubblica Popolare e la fine della Rivoluzione culturale (1966-1969). Secondo gli autori, infatti:
Il sistema socialista, al quale qui facciamo riferimento come “regime sviluppista”, non fu né un modo di produzione né una “fase di transizione” tra capitalismo e comunismo, tantomeno tra modo di produzione tributario e capitalismo. Non costituendo un modo di produzione propriamente detto, esso non rappresentò nemmeno una forma di “capitalismo di Stato”, nel quale gli imperativi capitalisti potessero essere perseguiti sotto l’egida dello Stato, con una classe capitalista semplicemente sostituita nella forma, ma non nella funzione, da una gerarchia di burocrati governativi.
Il regime sviluppista socialista designò invece la rottura di qualsiasi modo di produzione e la scomparsa dei meccanismi astratti (siano essi tributari, filiali o di mercato) che governano i modi di produzione in quanto tali. In queste condizioni, solo forti strategie di sviluppo a trazione statale furono in grado di guidare lo sviluppo delle forze produttive. La burocrazia dilagò perché non poté farlo la borghesia. Dato l’alto tasso di povertà e la posizione ricoperta dalla Cina lungo l’arco dell’espansione capitalistica, solo i programmi di industrializzazione “big push” di uno Stato forte, associati a resilienti configurazioni di potere locale, consentirono l’edificazione di un sistema industriale. Ma tale realizzazione non coincise con una transizione di successo ad un nuovo modo di produzione.
Questo sistema industriale non fu immediatamente o “naturalmente” capitalista. La storia è fondamentalmente contingente. Nell’era socialista non esistevano mercati, né in forma simile a quella assunta durante il precedente sistema imperiale, né con le modalità con cui si sarebbero sviluppati in futuro. Il denaro esisteva nominalmente, ma non era soggetto agli imperativi mercantili del modo di produzione tributario né agli imperativi del valore del sistema capitalista; rappresentava invece il mero riflesso meccanico della pianificazione statale, che non veniva calcolata in base ai prezzi ma in base alla pura quantità di prodotto industriale. Il denaro non poteva funzionare come equivalente universale. Nelle campagne la rendita veniva estratta sotto forma di grano, attraverso il sistema della “forbice dei prezzi”, ma questo prelievo non rispecchiava quello del sistema di tassazione imperiale, né si realizzava come espropriazione dei contadini e privatizzazione delle terre agricole. Fatto più importante, forse, mai in nessuna delle fasi precedenti della storia cinese la massa contadina era rimasta così ancorata alla terra. La divisione fra campagna e città che emerse in questi anni sarebbe diventata una caratteristica fondamentale del regime sviluppista. Sotto il socialismo non si verificò alcuna sostanziale urbanizzazione, a parte quella causata dall’immediata ricostruzione post-bellica o quella legata all’andamento naturale, e la transizione demografica (che vede la crescita dei lavoratori urbani impiegati nell’industria e nei servizi soppiantare la popolazione rurale) non ebbe luogo.
Allo stesso tempo, non v’era evidenza alcuna di una transizione verso il comunismo, che rimaneva un orizzonte puramente ideologico. La forza lavoro si espanse, l’orario di lavoro tendeva ad aumentare, e la socializzazione della produzione creò unità produttive locali autarchiche ed atomizzate: una vita collettiva su piccola scala, lontana però dalla nuova società comunitaria promessa. La libertà di movimento diminuì con il proliferare delle crisi, presero forma due distinte classi di élite, il divario rurale-urbano si ampliò e, gli ultimi decenni del periodo videro l’emergere di una nuova classe di lavoratori diseredati. Ondate di scioperi ed altre forme di agitazione culminarono nella “breve” Rivoluzione culturale del 1966-1969 […] Nei primi anni del dopoguerra, il PCC fu in grado di mantenere l’egemonia sul progetto comunista grazie alle campagne ridistributive nelle aree rurali e la ricostruzione delle città. I fallimenti della fine degli anni ’50 (carestia nelle campagne e scioperi nelle città costiere), non solo misero in discussione il mandato popolare del partito, ma segnarono l’inizio del processo di ossificazione del progetto comunista stesso. Con l’evaporarsi della partecipazione popolare seguita a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si ritrovò ridotto ai suoi mezzi: il regime sviluppista. Questo stesso regime necessitava per il suo mantenimento dell’intervento sempre più esteso del partito, destinato così a fondersi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico de facto) e a recidere i legami con il progetto originale(( Ivi, pp.14-16 )).

Per questi motivi non solo i compagni del collettivo possono affermare che a differenza di molte sinistre, non devono nemmeno cercare di tracciare il “filo rosso” della storia, «per scoprire dove il progetto socialista “sarebbe andato storto” e cosa si sarebbe potuto fare per instaurare il comunismo in qualche universo parallelo», ma anche che

Ai comunisti di oggi, tra i quali ci collochiamo, la pratica, la strategia e la teoria del PCC (così come quella di altre formazioni all’interno di questa corrente storica) appaiono nel migliore dei casi estranee e, nel peggiore, aberranti. Nonostante i duri limiti materiali dell’epoca, possiamo affermare chiaramente come molte delle azioni introdotte dal PCC siano semplicemente ingiustificabili. Altre appaiono oscure o incomprensibilmente presuntuose. Ma questo genere di giudizi di valore ha scarsa utilità analitica. Esistono già numerosi resoconti che si prodigano a dipingere i fatti nei termini di un tradimento da parte di “falsi” comunisti, o semplicemente come prodotto dell’azione di una leadership avida e zelante. La storia qui esaminata non è una storia della morale. In accordo con il nostro approccio materialista, le questioni del tradimento o della rettitudine non costituiscono che fattori di minima rilevanza. Il progetto comunista cinese è stato fenomeno collettivo, frutto dello sforzo e del sostegno di milioni di persone. In questa sede tenteremo di scrivere una storia di tale progetto, e del suo fallimento5.

Resta, però, all’interno dell’analisi condotta nel testo un dubbio per il lettore più attento, riguardante la differenza che si vuole rimarcare tra esperienza cinese e esperienza russa.

Nostro obiettivo resta inoltre quello di analizzare l’era socialista cinese […]. Studi comparativi sui diversi progetti rivoluzionari sarebbero certamente utili, ma richiederebbero adeguati parametri di confronto. Oggi, la letteratura sulla Cina e su altri stati socialisti tende ad essere fortemente appiattita sull’esperienza russa. Una delle nostre tesi fondamentali è come semplicemente la Cina non fosse la Russia. Anche se influenzati dall’esperienza sovietica, i tentativi cinesi di emulazione non furono mai completi, comunque sempre applicati in un contesto fondamentalmente differente. Ancor più importante, il punto di riferimento risultava esso stesso in costante mutamento, ed i cinesi, nel progettare le proprie forme di gestione e pianificazione industriale, spesso attinsero da periodi divergenti della storia russa.
Al di là di questo, la geografia dell’influenza sovietica non fu uniforme. Al di fuori del cuore industriale del Nord-Est, la produzione cinese fu fortemente modellata su altri sistemi di gestione aziendale, pianificazione economica ed amministrazione statale. Assunta la Russia come modello, i cinesi attinsero anche dall’esperienza dell’epoca imperiale, del regime nazionalista del periodo repubblicano, dai giapponesi e dalle imprese occidentali nelle città costiere. Tutte queste influenze furono combinate nel tentativo consapevole di creare una nazione distintamente “cinese”, con una propria economia nazionale unitaria6.

Ciò non toglie però che l’economia cinese sia passata proprio nel periodo esaminato attraverso alcune tipiche contraddizioni di quello che era stato considerato il “socialismo in un solo paese” dell’URSS di età staliniana e successive. Per esempio la permanenza di un sistema salariale che, come si afferma ancora nel libro:

rispecchiasse le priorità strategiche d’investimento dello Stato centrale. In base a ciò, fra i lavoratori impiegati nell’industria pesante, gli addetti ai lavori manuali percepivano i salari più alti, con paghe per le maestranze di grado superiore quasi equivalenti a quelle dei quadri di medio livello (come i capi reparto), e fondamentalmente alla pari con le paghe dei docenti universitari e assistenti ingegneri. I lavoratori dell’industria pesante di grado inferiore, invece, ricevevano poco meno della media degli insegnanti di scuola elementare. Questo a sottolineare quanto le stratificazioni salariali progettate dal partito fossero destinate non solo a differenziare i diversi settori industriali urbani, ma anche i lavoratori stessi all’interno della fabbrica7

Mi perdonino gli autori, ma altro che “socialismo”, qui ci troviamo davanti agli stessi problemi sociali e organizzativi emersi durante l’industrializzazione forzata di staliniana memoria, con tutte le conseguenze politiche e di classe che ne derivarono. Motivo per cui, anche se non è il caso di riaprire qui il dibattito sulla permanenza o meno del capitalismo, seppur di Stato, in presenza del regime salariale di scambio ineguale tra lavoro e sua effettiva retribuzione, certo è difficile cogliere una significativa differenza tra il regime del lavoro vigente in URSS e quello cinese del periodo preso in esame. Questo paragone può valere poi ancora per la violenta, e drammatica, mutazione avvenuta in agricoltura che portò a momenti di carestia e fame diffusa.

Nella pratica le politiche del Grande Balzo finirono per minare le fondamenta stesse del regime sviluppista socialista arrestando la produzione e l’esportazione delle eccedenze di grano dalle campagne verso le cttà. Con una sottrazione di una significativa quota di forza lavoro dal settore agricolo e, allo stesso tempo, con la requisizione crescente di grano per il consumo industriale, la produzione totale del cereale rimase ben al di sotto del fabbisogno reale. L’agricoltura collettivizzata risultava in grado di fornire un surplus, ma senza riuscire a innescare quel tipo di rivoluzione della produttività che avrebbe resp veramente possibile un effettivo slittamento demografico. La produttività del lavoro agricolo non era progredita in modo sostanziale, specialmente se paragonata alle prototipiche rivoluzioni agricolebche avevano aperto la transizione capitalista delle nazioni europee. I risultati furono la carestia ed un devastante collasso economico8.

Ancora una volta lo stesso effetto ottenuto in Russia con l’industrializzazione forzata e la collettivizzazione agraria dall’alto degli anni Trenta. Occorrerebbe dunque evitare di negare la similitudine tra rivoluzione cinese e trasformazioni dell’URSS in chiave capitalistica, considerato che in entrambi i casi il termine socialismo è spesso servito per mascherare il salto verso lo Stato e l’economia di stampo capitalistico. Anche l’accentramento svolge questa funzione per un’economia arretrata o parzialmente tale oppure in crisi. Come accadde infatti anche nell’Occidente capitalistico con la Grande Crisi e l’intervento statale nell’economia ad opera del Fascismo, del Nazismo e del New Deal. Allora non è forse proprio lo sviluppismo a costituire il problema di fondo di transizioni che hanno avuto essenzialmente caratteri nazional-borghesi più ancora che socialisti?

Fatte però tutte le dovute considerazioni, non resta che sottolineare l’utilità del testo e il metodo applicato per arricchire un dibattito che ancora oggi, all’alba del terzo millennio e di un nuovo conflitto di portata mondiale e devastante, definire asfittico è ancora troppo poco.
Grazie dunque ai compagni di Chuăng e a quelli delle edizioni Porfido per l’impegno assunto nello stimolarlo con le loro ricerche e questa pubblicazione, motivo per cui non ci rimane che attender l’uscita degli altri due volumi previsti dell’opera.


  1. https://positionspolitics.org/dirty-work/  

  2. Prefazione all’edizione italiana di Chuăng, Il sorgo e l’acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, Porfido Edizioni, Torino 2022, pp. 6 -7  

  3. ivi, p.7  

  4. Chuăng, Introduzione op. cit., pp. 13-14  

  5. Ivi, p.17  

  6. Ivi, pp. 17-18  

  7. Ivi, p.89  

  8. Ivi, p. 133  

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Questi vigliacchi non so’ a scorda’ https://www.carmillaonline.com/2021/08/22/questi-vigliacchi-non-so-a-scorda/ Sun, 22 Aug 2021 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67588 di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla [...]]]> di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla condizione di modesti contadini a quella di lavoratori ancora più sfruttati, scaraventati in difficoltà ignote al loro mondo arcaico, lacerati da traumi che nel linguaggio dei loro giorni fuori del tempo non avevano neanche un nome.

Malgrado la vastità del crimine, il suo tratto particolarmente vigliacco (gli assassini girano intorno alla palude uccidendo nella zona di gronda, abitata da agricoltori e sfollati, ed evitando i partigiani), e il fatto che furono colpiti vari Comuni, ancora adesso pochi associano il nome di Fucecchio a questo fatto. Parlando di Fucecchio è più comodo pensare a Indro Montanelli, giornalista abile a sopravvivere in tutti i regimi, che nel ’47 seguì uno dei processi per il «Corriere d’informazione» e scrisse cose vaghe, per poi trascurare una vicenda che invece era rimasta impressa nelle carni di un’intera comunità.

Diceva bene Walter Benjamin, neanche i morti stanno al sicuro. La memoria è un arnese politico così ambiguo che è difficile ricordarsi quando sia arrivata, anche se è certo che non è sempre stata fra i numi tutelari, come oggi. Quei morti di Fucecchio, quasi tutti poveri (però c’erano la figlia di un gioielliere fiorentino di Ponte Vecchio, un paio di aristocratici e qualche possidente), negli ultimi anni sono diventati ombre cinesi manovrabili, protagonisti non interpellati di iniziative culturali, per lo più di dubbio gusto; sono finanziate con poca spesa dalla Germania, che si guarda bene dal risarcire i sopravvissuti e i familiari. Costa molto meno restaurare monumenti, fare discorsi, stampare libri come quello distribuito alla commemorazione due anni fa, con l’Ambasciata tedesca già in copertina, tanto per essere chiari.

Eppure ce ne sono ancora, di familiari: vivi e dolenti come allora, più di allora, perché un bambino conta su energie e aspettative che un anziano ha consumato. Un anziano ha visto prosperare gli eredi politici del fascismo, ha notato l’arricchimento dei collaborazionisti di allora, ha ascoltato le retoriche di circostanza di personaggi pubblici in cerca di un po’ di visibilità. Titolo felice, La tregua di Primo Levi; ma per le vittime delle stragi non è mai neanche cominciata, e i racconti dei più vecchi trascorrono ininterrotti dagli stenti della guerra alla strage e al peso di una vita, passando per le prepotenze dei fascisti da subito dopo la Liberazione.

Nel 2019 i familiari hanno creduto al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Proprio alla commemorazione di questa strage aveva ricordato la mancata giustizia da parte della Germania, e poi su un giornale: «L’Armadio della vergogna c’è. E il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione. Lo dobbiamo alle vittime, ai superstiti e ai loro familiari». Ancora a fine 2019, su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale». Bene per essersi accorto che l’Armadio della vergogna, l’archivio coi fascicoli sulle stragi rifrequentato a partire dagli anni Novanta, esiste; bene per la giustizia ancora possibile, quella economica. E quest’anno anche il nuovo presidente, Eugenio Giani, ha preso posizione.

Sempre nel 2019 un convegno in Senato, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, aveva offerto qualcosa di inedito, in Italia: nel Palazzo un incontro per mettere sulla graticola le conseguenze di crimini sprofondati nel Novecento, per giudicare la storia. Le vittime erano venute in torpedone da lontano, col vestito buono, la cravatta che senza non ti fanno entrare. Il viaggio a Roma, tutto per loro. Lì, nella sala Koch che è di tutti, un presidente emerito della Corte costituzionale aveva parlato con una franchezza lontana dal linguaggio curiale dei pochi: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose». Quel giorno, l’ex presidente della Consulta aveva messo il dito nell’occhio all’ipocrisia, alla condiscendenza nei confronti degli interessi di Berlino, indicando un’evoluzione necessaria in Italia e nel mondo: «Di fatto c’è il riconoscimento, nella coscienza della comunità internazionale, del valore dei diritti fondamentali della persona in quanto tale, senza divisa, senza conto in banca. […] I diritti fondamentali sono cresciuti, nella coscienza civile della comunità internazionale complessivamente considerata».

Quel giurista senza peli sulla lingua, Giuseppe Tesauro, da qualche settimana non è più con noi. L’impegno continua anche nel suo nome, la strada che ha indicato è in salita ma percorribile. Passa da dove meno te l’aspetti. Quest’anno un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire le comfort women, le schiave sessuali dei militari nipponici durante la guerra mondiale. Donne che hanno fatto causa personalmente, anni fa, raccontando storie spaventose; nel frattempo sono morte e i crediti sono passati agli eredi. Certi argomenti del Giappone per non pagare somigliano, pensa un po’, a quelli della Germania; esecrazione, propositi, accademia: «Ribadiamo la nostra ferma determinazione a non ripetere mai più lo stesso errore, scolpendo per sempre questi temi nella nostra memoria mediante lo studio e l’insegnamento della storia», dice Tokyo. Siamo alle solite. Ma la sentenza coreana cita proprio quella della Corte costituzionale italiana del 2014, l’ultima scritta da Tesauro. Possibile che il buon lavoro fatto a Roma lo intendano meglio a Seoul che qui? In Corea si è capito che il diritto può cambiare: «La dottrina dell’immunità statale non è permanente né statica. Si evolve continuamente secondo i cambiamenti dell’ordine internazionale».

Se non si fa giustizia sui crimini nazisti, come si può chiederla per altri delitti di Stato? Non è diatriba sul passato. Riguarda il presente: Andrea Rocchelli, Giulio Regeni, Daphne Caruana Galizia, Jamal Khashoggi. E riguarda il futuro: il mai più che fa scattare gli applausi alle commemorazioni – suono beffardo, mentre si sa che le democrazie sbiadiscono e il potere è sempre più irresponsabile – ha il sottinteso di un salvacondotto a ripetere, magari in dosi limitate, studiate per il delitto esemplare, per la pedagogia del sangue. Rocchelli non documenti, Regeni non studi, Caruana Galizia stia zitta e Khashoggi si faccia i fatti suoi.

Un’altra attesa ha un sapore toscano. A febbraio 2020, a Montecitorio, c’è la cerimonia conclusiva del premio Giustolisi «Giustizia e verità» edizione 2019. Franco Giustolisi era il giornalista che si batteva per far conoscere l’Armadio della vergogna, era una penna battagliera che cercava di spezzare il silenzio. Alla cerimonia di nuovo Enrico Rossi, ancora presidente, annuncia il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze a cura della Regione; si tratta di renderlo accessibile, riordinarlo e trasformarlo in un centro studi. Rossi indica la sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio. La cosa è importante, e Giustolisi è mancato nel 2014.

Chissà se l’anniversario 2021 della strage del Padule si lascerà dietro qualche altra amarezza. Forse discorsi come la memoria attiva, la memoria proattiva, il lenimento. Magari parole come quelle che Ursula von der Leyen, ex ministra della difesa di Berlino e oggi presidente della Commissione europea, ha detto lo scorso luglio a Fossoli, per l’anniversario di un’altra strage, quella di Cibeno, 67 morti. Niente sulla giustizia ma toni a effetto: gli accadimenti insondabili, il sacrificio, l’abisso del male, linguaggio vertiginoso che non costa nulla. E anche qualcosa di imbarazzante: «Invece di combatterci, come abbiamo fatto per secoli, ora ci sosteniamo a vicenda di fronte alle avversità. Il governo italiano ha dato vita a un solido piano di recupero con investimenti e riforme, e l’Europa lo finanzia con oltre duecento miliardi di euro. I primi fondi, raccolti dall’UE, sono arrivati in Italia all’inizio del mese».

Combatterci per secoli? Se la presidente si riferisce ai tanti conflitti europei, non si capisce cosa c’entri il debito tedesco verso le vittime di strage in Italia. Se si tratta dei rapporti fra Italia e Germania, sembra di sentire certe dottrine correnti nel Risorgimento. Per esempio Cesare Balbo, nel Sommario della storia d’Italia che piaceva a Giuseppe Giusti e Massimo D’Azeglio, poneva l’inizio delle guerre d’indipendenza nella vittoria di Teodorico su Odoacre. Forzature, ma spiegabili, al tempo in cui si costruiva una base politico-culturale per l’unità italiana. Adesso quella lettura della storia diventa pazzesca: avvicina la Seconda guerra mondiale (con la Resistenza, un fatto che divide nettamente i due paesi) a una serie plurisecolare di guerre qualsiasi, com’è tipico del revisionismo. Un atteggiamento coerente, in fondo: nel suo documento alla vigilia dell’incarico continentale, Un’Unione più ambiziosa: Il mio programma per l’Europa – dove la parola ambizioso insiste come un tic –, von der Leyen aveva prefigurato una visione del mondo rigida ma rassicurante come il salottino di Barbie. Sullo sfondo c’era il sapere formattato offerto dalla risoluzione del Parlamento europeo Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, uno scritto antistorico e insidioso dove facevano capolino la riconciliazione, la memoria, il mai più.

E poi, a Fossoli c’era proprio bisogno di far frusciare del denaro, commemorando una strage? Denaro, sì, ma non per gli aventi diritto, i familiari delle vittime; per l’economia italiana, da sostenere anche per il bene di quella europea, perché questo sta per quello, allo stragismo si rimedia con lo sviluppismo, e che si vuole di più. Denaro che non è tedesco, ma dell’Unione. Neanche David Sassoli, che accompagnava questa signora abile a mostrare una scarsella gonfia e non sua, ha fatto cenno ai risarcimenti; ha preferito un europeismo irenico, un compitino convenzionale. Sono un inizio esemplare del nuovo corso, un assaggio della Repubblica fondata sulla resilienza, von der Leyen e Sassoli alla loro prima visita insieme in Italia, proprio dove si commemora una strage di persone prelevate da un campo di concentramento; e fra loro c’erano antifascisti, partigiani, eroi.

Sentiamo ancora Tesauro nel 2019. Antefatto: a Trieste nel 2008 si svolse un incontro bilaterale Italia-Germania; c’era quella Merkel che adesso conclude un lungo periodo di brillante cancellierato, e c’era quel Berlusconi che ora vivacchia su glorie opache e che già nel 2008, arrivata la crisi, si affannava per restare in sella (dei due, i fatti dissero chi aveva più furbizia). Tesauro riassume: «Erano tutti a Trieste, a parlare di che cosa? Non si sa bene, però una cosa è certa: che hanno parlato anche di soldi, dati dalla Germania anche all’Italia». Il riparazionismo, cioè il finanziamento della memoria senza giustizia, lo smaschera senza riguardi: «Non dovete risarcire i danni alle singole vittime o ai loro eredi. Potete fare tutti i musei che volete, tutte le feste di paese e della memoria che volete, ma non dovete risarcire i danni alle vittime». Per lui è chiaro che questo non deve compromettere i risarcimenti e che qualcuno ha sbagliato: «Il governo italiano accettò in ginocchio e con entusiasmo questa soluzione, ma per le vittime non era una soluzione».

Aveva ragione Theodore Fenstermacher, uno dei pubblici ministeri a Norimberga, quando in una requisitoria sulla strage di Cefalonia, nel 1949 (The Hostages Trial), denunciò l’emotional fatalism. Fenstermacher, sui nazisti: « È questa filosofia del fatalismo emotivo che ha reso così vili e spregevoli le loro offerte di scuse della colpa individuale e collettiva». C’è chi ha espresso il concetto più alla svelta, e in musica. Dopo la guerra, in Valdinievole c’era un omino, faceva il barrocciaio. Non era istruito come Fenstermacher, girava col cavallo per i paesi e cantava una ballata trasmessa a memoria, Popolo se m’ascolti. Raccontava la strage: «Questi vigliacchi non so’ a scorda’…».

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Il sacco d’oro e lo sviluppo ecuadoriano https://www.carmillaonline.com/2015/01/03/sacco-doro-sviluppo-ecuadoriano/ Fri, 02 Jan 2015 23:01:02 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19853 di Luca Cangianti

Carlo Formenti, Magia bianca, magia nera, Jaka Book, 2014, pp. 116, € 12,00

2014 01 03 formenti magia bianca magia nera “Agli occhi degli europei può sembrare un paradiso, se confrontato allo smantellamento del welfare in atto nel Vecchio Continente”. L’affermazione di Alberto Acosta, presidente dell’assemblea costituente ecuadoriana, riguarda l’attuale governo del paese andino ed è contenuta nel reportage storico-giornalistico di Carlo Formenti, Magia bianca, magia nera. Da quando è stato avviato il processo politico della Revolución ciudadana, capeggiata dall’attuale presidente della repubblica Rafael Correa, l’Ecuador è stato investito da un consistente sviluppo economico che ha migliorato le [...]]]> di Luca Cangianti

Carlo Formenti, Magia bianca, magia nera, Jaka Book, 2014, pp. 116, € 12,00

2014 01 03 formenti magia bianca magia nera “Agli occhi degli europei può sembrare un paradiso, se confrontato allo smantellamento del welfare in atto nel Vecchio Continente”. L’affermazione di Alberto Acosta, presidente dell’assemblea costituente ecuadoriana, riguarda l’attuale governo del paese andino ed è contenuta nel reportage storico-giornalistico di Carlo Formenti, Magia bianca, magia nera. Da quando è stato avviato il processo politico della Revolución ciudadana, capeggiata dall’attuale presidente della repubblica Rafael Correa, l’Ecuador è stato investito da un consistente sviluppo economico che ha migliorato le condizioni di vita degli strati popolari. Acosta precisa tuttavia: “Qui non c’è stata nessuna rivoluzione, né, tantomeno, si sta costruendo qualcosa che possa essere definito socialismo del XXI secolo; nella migliore delle ipotesi, lo possiamo definire un regime post neoliberale, certamente non post capitalista.”

Il libro di Formenti fornisce alcuni spunti informativi e di riflessione, utili a chi voglia approfondire gli esperimenti politici bolivariani in corso in vari paesi dell’America Latina. Nella prima parte del libro sono riassunti i principali avvenimenti della storia ecuadoriana dagli anni ’90 fino a oggi, passando per gli eventi insurrezionali del 2005 e l’approvazione della nuova costituzione progressista ed ecologista di Montecristi. La seconda parte si basa sullo studio di documenti, sull’analisi della stampa locale, ma soprattutto su una serie di interviste in profondità che ci restituiscono il ventaglio delle principali posizioni presenti nel dibattito locale. Nella terza parte, infine, si cerca di tirare le fila anche da un punto di vista teorico, affrontando molti interrogativi stimolanti, ma di non facile risoluzione.

Il governo di Rafael Correa pur dichiarandosi progressista, è fortemente contestato dalla sinistra e dal movimento indigeno. L’accusa è di non aver realizzato la riforma agraria e di tradire il dettato costituzionale riguardante il diritto all’autogestione delle comunità indigene. Le terre amazzoniche sarebbero infatti sottoposte a uno sfruttamento delle risorse naturali disastroso per la vita e la salute delle comunità, e funzionale solo al processo di modernizzazione capitalistica.
Le forze governative rispondono che dividere la terra in molti appezzamenti impedirebbe lo sviluppo di un’agricoltura moderna e utilizzano la metafora del mendicante che seduto pigramente su un sacco d’oro non utilizza le proprie risorse per emanciparsi dalla povertà. Questa sarebbe la condizione dell’Ecuador se rifiutasse di porre mano alle sue ricchezze naturali dando ragione agli egoismi delle popolazioni amazzoniche e al loro ecologismo “infantile”. Infatti, secondo il paradigma sviluppista sostenuto dal governo in carica, il cambiamento sociale e la ridistribuzione economica sono possibili solo in presenza di un processo di crescita industriale finanziata dalle risorse naturali presenti nel paese.

Nonostante le molte critiche riguardanti la criminalizzazione delle lotte sociali (cfr. Carmilla del 16.9.2014) Correa detiene ancora un largo appoggio popolare, manifestatosi nelle elezioni presidenziali del febbraio 2013 nelle quali è stato rieletto con oltre il 57% dei voti. Di contro, le forze indigeniste e di sinistra (contando sia la lista dell’Unidad plurinacional de las Isquierdas che quella del movimento Ruptura 25) hanno ottenuto un disastroso 4,6%, anche se a livello locale continuano ad avere consensi più consistenti. D’altra parte il sostegno al governo ha cominciato a scricchiolare nelle elezioni locali dello scorso febbraio: Alianza País, il partito di governo, ha perso infatti Quito, Guayaquil e Cuenca, le città più grandi del paese.
Secondo Formenti alla base dell’arretramento delle forze che si oppongono allo sviluppismo ci sono errori politici passati come l’appoggio del partito indigenista Pachakutik al colpo di stato che nel 2003 portò alla presidenza del colonnello Lucio Gutiérrez. Questo, infatti, nonostante i proclami populisti della prima ora, si rivelò un mero continuatore delle stesse politiche neoliberiste che avevano condotto il paese al collasso economico. Tale sostegno politico ha indebolito l’influenza sulla società ecuadoriana che il movimento indigeno aveva costruito negli anni ’90 attraverso un lungo percorso di lotte.

Lo scorso 17 settembre si è svolta un’importante manifestazione nazionale, organizzata dalle forze sindacali, indigene e studentesche dell’opposizione di sinistra, che si è conclusa con scontri, cariche della polizia, arresti e una scia di violente accuse tra governo e movimenti sociali. Tale radicalizzazione del conflitto rende di grande attualità gli interrogativi affrontati nella terza parte del libro di Formenti: in che senso il movimento indigeno può incarnare i valori egualitari della costituzione di Montecristi, trascendendo la propria specificità etnica? Il buen vivir delle popolazioni precolombiane, contenuto nello stesso dettato costituzionale, è un ingenuo tentativo di preservare una sorta di comunismo primitivo, agreste e forse anche reazionario? O può costituire un’alternativa alle inevitabili distruzioni umane, sociali ed ecologiche che comporta lo sfruttamento delle risorse naturali dell’Amazzonia?
Magia bianca, magia nera offre alcuni spunti di riflessione riferendosi a una lettura eterodossa del pensiero marxiano sull’accumulazione originaria, intesa in senso ricorsivo, e al tema delle comunità agricole tradizionali nella Russia zarista. A tal proposito, come afferma Ettore Cinnella nel saggio L’altro Marx (cfr. Carmilla del 3.9.2014), “Roso dall’atroce sospetto che il capitalismo, là dove era più avanzato, non generasse spontaneamente il suo becchino (così come aveva fino allora creduto), Marx andava in cerca di nuove vie rivoluzionarie”. Confrontandosi con alcuni intellettuali russi, il filosofo ipotizzò così che un modo di produzione comunitario ancora non sussunto al capitalismo potesse fungere da base per il superamento di quest’ultimo. Una possibilità da non escludere è quindi che in Ecuador il processo di mutamento sociale riprenda ad avanzare proprio con questo tipo di dinamiche. Si tratterebbe della vittoria della magia bianca precolombiana, contro la magia nera dello sviluppismo occidentale.

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