Sun Ra – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Kick out the jams, moterfuckers! Wayne Kramer (1948 – 2024) https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/kick-out-the-jams-moterfuckers-wayne-kramer-1948-2024/ Mon, 19 Feb 2024 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81093 di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!». Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per [...]]]> di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!».
Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per l’etichetta discografica Elektra. I cinque di Detroit (Motor City) ovvero Rob Tyner (voce, 1944-1991), Fred “Sonic” Smith (chitarra, 1949-1994), Wayne Kramer (chitarra, 30 aprile 1948 – 2 febbraio 2024), Michael Davis (basso, 1943-2012) e Dennis Thompson (batteria, 1948), attualmente unico sopravvissuto del gruppo, si erano conosciuti intorno alla metà degli anni ’60 quando erano ancora studenti delle scuole superiori a Lincoln Park, una cittadina della contea di Wayne, nella regione metropolitana di Detroit.

Davis e Thompson erano subentrati nel 1965, al posto del bassista Pat Burrows e del batterista Bob Gaspar che avevano lasciato il gruppo quando Fred Smith (futuro marito di Patti Smith) e Wayne Kramer avevano iniziato a sperimentare muri di feedback e rumore bianco con le loro chitarre, ispirandosi entrambi al free jazz di Archie Shepp, Sun Ra e John Coltrane ancor più che a Jimi Hendrix.

Rob Tyner era entrato prima come manager, con il suo vero nome di Rob Derminer, dei Bounty Hunters, il gruppo originario formato da Wayne Kramer con Fred Smith al basso, Leo Le Duc alla batteria e Billy Vargo come seconda chitarra, ma poi aveva cambiato il suo nome diventandone di fatto il frontman e cantante. Ma, in realtà, lui e Wayne si erano conosciuti quando erano ancora ragazzini, entrambi provenienti, come poi tutti gli altri membri, da famiglie operaie di quella che all’epoca era considerata la capitale mondiale della produzione automobilistica.

Wayne se ne era andato di casa a diciassette anni, in un ambiente in cui tutti, comunque, si conoscevano sia per condizione di classe che per provenienza geografica, poiché gran parte di quegli operai, bianchi e neri, erano giunti a Detroit dal Sud degli Stati Uniti dopo la guerra, perché avevano sentito dire che lì avrebbero trovato lavoro.

Erano, in qualche modo, dei reietti quegli eredi della classe operaia, e sapevano di esserlo, come migliaia di altri ragazzi della loro stessa età che vivevano nei sobborghi cittadini a quell’epoca. Che alle spalle non avevano l’estate dell’amore di San Francisco, ma dello stesso anno, il 1967, la più grande rivolta urbana di quel decennio. Durante la quale la Guardia Nazionale, per sedare i disordini, aveva dovuto impiegare anche l’aviazione
Questo elemento, insieme all’ascolto del jazz d’avanguardia, fu sicuramente alla base del disastro sonoro che uscì dalle due chitarre di Kramer e Smith che, di fatto, costituirono sia il tappeto di distorsioni su cui si svilupparono le loro canzoni che il proto-punk cui, nel giro di pochissimo tempo, si ispirarono altri gruppi della stessa area metropolitana: gli Stooges di James Newell Osterberg Jr. (1947, in arte Iggy Pop), gli Up, i Grand Funk Railroad (originari di Flint, a nord-ovest di Detroit), la James Gang oppure Alice Cooper, in un elenco che per motivi di spazio rimane qui incompleto.

Dal punto di vista musicale, in una città in cui il proletariato bianco si frammischiava al proletariato afro-americano, grande era stata anche l’influenza del blues e del rhythm’n’blues di cui, precedentemente, si erano appropriati altri gruppi seminali quali i Woolies (resi celebri da una più che travolgente versione di Who Do You Love di Bo Diddley), i Rationals di Scott Morgan (che raggiunsero il successo grazie a una versione proto-garage di Respect di Otis Redding) e, soprattutto, Mitch Ryder con i suoi Detroit Wheels, autentico padrino di tutta la musica bianca e arrabbiata che sarebbe venuta a partire dalla fine degli anni Sessanta dall’area di Detroit. Ma, nella sostanza, la novità dirompente rappresentata dagli MC5 fu quella di costituire la prima rock’n’roll band apertamente politicizzata. Nelle parole rilasciate dallo stesso Wayne Kramer in un’intervista a Pat Wadsley, Tre anni di galera e quindici di Rock, negli anni Ottanta:

C’erano anche i Fugs, ma erano più underground, mentre noi combinavamo la retorica politica con il rock’n’roll […] Il rock è stato sempre qualcosa di politico: lo era Chuck Berry, lo erano i Doors. Il rock’n’roll ha sempre rappresentato la ribellione dei giovani contro il potere.
All’inizio tutte le nostre idee erano ad un livello molto semplice e grezzo. Eravamo ragazzotti che venivano dalla strada e sapevamo solo che potevano fregarci se solo avessero voluto, in qualsiasi momento.

Da questo primitivo sentimento di oppressione sociale derivano sicuramente le parole urlate da Rob Tyner all’inizio di Motor City Is Burning, nel primo e più riuscito album del gruppo:

“Fratelli e sorelle, voglio dirvi una cosa! Sento un sacco di chiacchiere da un sacco di stronzi seduti su un sacco di soldi dicendomi che sono l’alta società. Ma voglio che voi sappiate una cosa, se me lo chiedete: questa è l’alta società! Questa è l’alta società!“

Così mentre, da un lato, ogni loro concerto era definibile come “una forza catastrofica della natura che la band era a malapena in grado di controllare”, dall’altro, i giornali conservatori definivano le loro esibizioni “orgasmi collettivi, ubriacature selvagge, valanghe di suono scaricate alla rinfusa sul pubblico, traboccanti di oscenità e slogan.” Sesso, droga, protesta e rock’n’roll riuscivano dunque a colpire nel segno. Ma fu l’incontro con John Sinclair, il teorico e attivista delle White Panthers a definire meglio l’attitudine di Kramer e compagni:

Quando arrivò John non fece altro che dire le stesse cose in termini politici e noi fummo d’accordo. Pensammo che aveva proprio ragione. Era un poeta, un critico e un organizzatore. Era l’unico che riuscisse a comunicare con noi, a trasformare un gruppo di maniaci del rumore in un complesso musicale che potesse esibirsi e continuare a far funzionare il tutto nel tempo1.

Nato a Flint, nel 1941, John Sinclair fu tra gli organizzatori del giornale underground di Detroit, “Fifth Estate”, alla fine degli anni ’60; contribuì alla formazione della Detroit Artists Workshop Press; lavorò come giornalista jazz per “Down Beat”dal 1964 al 1965, essendo un esplicito sostenitore del nuovo movimento del Free Jazz e fu uno dei “Nuovi Poeti” presenti alla seminale Berkeley Poetry Conference nel luglio 1965. Nell’aprile del 1967 fondò l’”Ann Arbor Sun”, un giornale underground, mentre dal 1966 al 1969 è stato il manager degli MC 5. Sotto la sua guida la band abbracciò la politica rivoluzionaria della controcultura del White Panther Party, fondato in risposta all’appello delle Pantere Nere affinché i bianchi sostenessero il loro movimento.

Durante questo periodo, Sinclair, teorico dell’”amore armato”, fece in modo che la band fosse ingaggiata regolarmente al Grande Ballroom di Detroit, dove in seguito fu registrato dal vivo, il 30 e 31 ottobre 1968, il loro primo album, Kick Out the Jams. Stava gestendo gli MC5 al momento del loro concerto gratuito fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica del 1968 a Chicago, quando la band fu l’unico gruppo ad esibirsi prima che la polizia interrompesse la massiccia manifestazione contro la guerra in Vietnam. Lui e la band si separarono nel 1969. Nel 2006, Sinclair si è riunito però ancora all’ex-bassista degli MC5 Michael Davis per lanciare la Music Is Revolution Foundation.

Dopo una serie di condanne per possesso di marijuana, Sinclair fu condannato a dieci anni di carcere nel 1969 dopo aver offerto due joint a un’agente della narcotici sotto copertura. La severità della sua condanna scatenò diverse proteste pubbliche che culminarono nel John Sinclair Freedom Rally alla Crisler Arena dell’Università del Michigan ad Ann Arbor nel dicembre 1971. Tre giorni dopo la manifestazione, Sinclair fu rilasciato dal carcere quando la Corte Suprema del Michigan stabilì che le leggi statali sulla marijuana erano incostituzionali.

Nel 1972 Sinclair fu accusato di cospirazione per distruggere proprietà governative insieme a Larry Plamondon e John Forrest, ma in appello la Corte Suprema degli Stati Uniti emise una decisione storica, vietando l’uso da parte del governo degli Stati Uniti della sorveglianza elettronica domestica senza un mandato, liberando ancora una volta Sinclair e i suoi coimputati2. Sui motivi della rottura con Sinclair, Wayne Kramer si sarebbe in seguito espresso così:

Si arrivò alla rottura con John e con tutto il partito delle White Panther. Forse accadde perché in quel periodo John stava per essere condannato ad una pena detentiva e quando capisci che stai per andare in prigione cominci a diventare nervosissimo. Di solito te la prendi con tutti quelli che hai intorno oppure giuri di smetterla. John invece, per reazione, divenne ancor di più un militante convinto. A quel tempo non sapevo ancora cosa vuol dire avere davanti la prospettiva di andare in galera, lo imparai solo più tardi, così non potevo capire la sua esplosione di militanza [In precedenza] tutto era iniziato come una specie di club atletico-sociale, poi decidemmo di metterci a fare sul serio. Le Black Panthers erano tipi duri? Anche le White Panthers dovevano esserlo. Le Black Panthers avevano armi? Anche noi allora e se loro sparavano anche noi dovevamo sparare. Ci esaltavamo con la retorica del momento, ma quando decidemmo alla fine di non avere più niente a che fare con loro, capimmo che il nostro attivismo era consistito nel suonare e pagare i conti delle attività di quel partito da operetta 3.

La fine degli MC5 sarebbe arrivata nel 1971, quando la band perse il contratto discografico con l’Atlantic, che aveva sostituito quello con la Elektra, e non riusciva più a suonare. Fino a quando Mick Farren (1943-2013), capo della sezione inglese delle White Panthers e cantante della band proto-punk inglese dei Deviants (tre album tra il 1967 e il 1969) riuscì a organizzare un loro tour europeo in concomitanza con un festival musicale. Ancora dai ricordi di Kramer:

Non ci pagarono, ma ci diedero i biglietti per il viaggio, così cercammo di farci ingaggiare per qualche altro concerto in Inghilterra. Partimmo per Londra dove rimanemmo per circa un anno. Era l’ultimo viaggio all’estero degli MC5, sapevamo che non saremmo rimasti insieme ancora per molto. Ci fu poi quella tournée, la migliore che avessimo mai avuto, Avrebbe dovuto durare sei settimane, dieci giorni in Scandinavia poi l’Inghilterra, la Francia, con apparizioni alla televisione e alla radio, per finire con due settimane in Italia. Avremmo potuto separarci con stile alla fine della stessa, avendo qualche migliaio di dollari in tasca per incominciare qualcosa di nuovo, ma quando stavamo per partire arrivò la moglie del cantante: disse che non avrebbe lasciato venire suo marito. Risposi che ero pienamente d’accordo con lei sul fatto che suo marito non avrebbe dovuto cantare in un complesso, per il semplice fatto che non ne era all’altezza. A spassarsela fra un concerto e l’altro era bravissimo, ma solo a far quello. Pensavo però che avendo firmato un contratto avrebbe dovuto rispettarlo, se non altro perché se non fosse venuto avrebbe messo in difficoltà tutti noi. Finimmo però per partire senza di lui.

Io e Fred facemmo a turno i cantanti, senza sapere neanche la metà delle parole delle canzoni o cantandole nella tonalità sbagliata. Fu un’esperienza orribile, la peggiore della mia vita: si arrivava in un posto, c’era il finanziatore con la moglie, si mangiava qualcosa, si beveva, dicevamo le solite cose. «Come siamo contenti di essere qui» eccetera eccetera. Poi salivamo sul palco, facevamo uno spettacolo pietoso e quando tornavamo nei camerini se ne erano andati tutti, non riuscivamo a trovare nessuno per farci pagare. Gli italiani, visto come andavano le cose, cancellarono i nostri spettacoli: «Paghiamo per cinque e ne vengono soltanto quattro. Potete scordarvelo». Questo capitava mentre Sinclair era in prigione.4.

Una descrizione impietosa della fine di una leggenda, com’è giusto che sia, ma i travagli per Kramer erano ancora soltanto agli inizi. Tornato a Detroit, Kramer avrebbe iniziato a collaborare con il suo idolo Mitch Ryder, ma anche quest’ultimo avrebbe ben presto iniziato a dare segni di follia con comportamenti anomali e pericolosi, per sé e per gli altri che lo circondavano. Come ancora racconta Wayne: « Era diventato pazzo perché aveva venduto più di dieci milioni di dischi senza mai riuscire a vedere un centesimo, per cui non si fidava più di nessuno. Alla fine aveva dato di fuori di brutto ».

Così Kramer, dopo aver girovagato tra complessini nemmeno degni di esser ricordati, musiche pubblicitarie e infimi club, avrebbe finito con l’approdare, grazie anche alle proprie dipendenze, ai giri più che loschi legati al commercio e allo spaccio di droga. Eroina e cocaina. Come ricordava ancora nell’intervista già citata:

Mi arrestarono diverse volte in quel periodo per delle scemenze, non voglio neanche parlarne, non è interessante. Ritengo, adesso che ho avuto un po’ di tempo per pensarci su, di essere arrivato a immischiarmi in quel tipo di traffici anche perché ne ero attratto, mi sembrava di essere un ribelle […] Ma il fatto è che se non riesci nella musica perdi tempo e denaro, ma se sbagli in quel tipo di affari vai in galera o ci rimetti la pelle […] così un affare oggi, un affare domani mi ritrovai davanti ad un giudice per aver cercato di vendere cocaina a due agenti federali […] Il giudice disse: « Per il suo caso, signor Kramer, la legge prevede tre anni di reclusione». Prima mi aveva detto un massimo di cinque, per cui ero contento e mi dicevo: « Va bé, me li farò», ma in quello si alza un impiegato del tribunale e dice: « Vostro onore, c’è un errore, la legge prevede cinque anni di carcere ». E il giudice: « Insomma, tre o cinque che siano… Faremo una via di mezzo, gliene darò quattro » […] Lo sceriffo mi mise una mano sulla spalla e alle sei di quella sera ero chiuso in prigione.

Dopo gli anni di galera iniziò la lenta, faticosa risalita. Prima con l’esperienza, ancora una volta fallimentare, con i Gang War messi insieme ad un altro noto tossico e loser, Johnny Thunders, poi via via con dischi solisti o con compagni più affidabili. Dieci in tutto tra la fine degli anni Ottanta e il 2004, non molto. Eppure, eppure….

Wayne ha dimostrato, insieme a Fred “Sonic” Smith e agli altri suoi compagni di un effimero, violento, selvaggio e spericolato viaggio che la “musica giovanile” può essere ben altro da ciò che, oggi, gruppi tardo-glam o finti rapper e veri trapper vogliono proporre come novità musicali e artistiche. Lanciando, contro di loro e i vari promotori del business dello spettacolo, quell’indomito e sempre attuale grido di rabbia e disprezzo: Kick Out the Jams, Motherfuckers!!


  1. P. Wadsley, intervista a Wayne Kramer, cit.  

  2. Alcuni degli scritti di John Sinclair tradotti in italiano sono reperibili in J. Sinclair, Va tutto bene, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2006 e J. Sinclair, Guitar Army. Il ‘68 americano tra gioia, rock e rivoluzione, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2007.  

  3. P. Wadsley, intervista, cit.  

  4. Ibidem.  

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I comunisti sono matti ? https://www.carmillaonline.com/2023/10/11/i-comunisti-sono-matti/ Wed, 11 Oct 2023 20:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79137 di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro [...]]]> di Sandro Moiso

Massimo Lunardelli, Alessandro Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, pp. 373, 14 euro

E’ un personaggio che potrebbe essere uscito dalle pagine dedicate da Geminello Alvi ai suoi Uomini del ‘900 (Adelphi 1995) oppure agli Eccentrici (Adelphi 2015), tra cui oltre a H.P.Lovecraft, Jim Morrison e Oliver Hardy compare, insieme a molti altri, Amadeo Bordiga, quello delineato dalla ricerca di Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli pubblicata nelle serie dedicata alla Storia della Sinistra comunista e della dissidenza in Italia di «Pagine Marxiste».

Figure che si muovono tutte tra prometeismo, visionarietà e giochi di equilibrio spericolati tra assurdità e tragedie personali. Un bel catalogo di vite frantumate e disperse, nel corso del XX secolo, da un modo di produzione, da un ambiente socio-culturale e politico e dalle sue mode che definire distruttivo e devastante, tanto per il singolo individuo quanto per i milioni di altri che lo circondano, è ancora eufemistico e dall’implacabile scorrere di eventi tra i più drammatici che la Storia possa annoverare nei suoi annali (dittature, guerre mondiali, uso dell’arma nucleare, asservimento degli ideali rivoluzionari agli interessi del Capitale, tanto ad Ovest quanto ad Est e molto, troppo altro ancora).

Eventi che hanno causato traumi collettivi e singoli, individuali e sociali, largamente conosciuti oppure del tutto sconosciuti, ma che hanno segnato donne, uomini e generazioni in profondità. Come avviene appunto per la vita del “ferroviere rosso” Isidoro Azzario, di cui i due ricercatori militanti, Pellegatta e Lunardelli, ricostruiscono le drammatiche vicende, a metà strada tra le prime storie di Georges Méliès, il tramonto del duo cinematografico composto da Stan Laurel e Oliver Hardy descritto nel romanzo Triste, solitario y final di Osvaldo Soriano e la tragedia del proletariato mondiale schiacciato e sconfitto dall’azione di fascismo e stalinismo nel corso degli anni Trenta.

Isidoro Azzario, nato a Pinerolo il 20 maggio del 1884, figlio di un simpatizzante socialista da cui apprese, secondo le sue stesse parole «i primi rudimenti del socialismo», attraverserà i primi, drammatici cinquant’anni del XX secolo vivendo in prima persona molti degli eventi che li avevano caratterizzati. Non solo qui in Italia, ma anche all’estero. In Sud America, dove fu inviato come rappresentante dei Ferrovieri rossi, e in Russia, dove fu delegato del Pcd’I al IV Congresso dell’Internazionale Comunista e dell’esecutivo allargato della stessa.

Tra i fondatori del Partito comunista d’Italia al congresso di Livorno del 1921, Azzario era stato assunto in ferrovia nel 1904, portando con sé sul lavoro non soltanto la preparazione tecnica acquisita con la frequentazione delle scuole tecniche in provincia di Torino, ma anche le qualità oratorie dimostrate nei suoi improvvisati discorsi contro il colonialismo italiano e a favore di Gaetano Bresci che avevano stupito e scandalizzato i suoi insegnanti mentre spronava i suoi giovanissimi compagni di scuola negli anni di Crispi, Bava Beccaris e ancora in quelli successivi.

Chiamato da Bordiga nella commissione sulla tattica che avrebbe dovuto occuparsi del programma di lotta da applicare tra il proletariato italiano, avrebbe poi interpretato “al meglio” quello stravolgimento del corpo del partito seguito al convegno clandestino alla Capanna Mara del maggio 1924 e successivamente, in quanto ex-sinistro, venne scelto durante il congresso di Lione del 1926 per portare l’affondo più duro contro la direzione della Sinistra, con tanto di autocritica.

In America Latina, in seguito a un riconoscimento o a una delazione, fu arrestato a Cali e rispedito in Italia e, probabilmente, durante il viaggio di ritorno in nave fu a lungo torturato e seviziato dai fascisti, fin quasi a fargli perder la ragione, anche se questo non fu sufficiente a piegarlo del tutto. Successivamente, come era già successo dopo il primo licenziamento per motivi politici subito ancor prima del 1921, Azzario fu reintegrato nei ranghi delle ferrovie e nel secondo dopoguerra avrebbe svolto ancor per pochi mesi la funzione di Capostazione in quel di Luino. Ma tutto questo viene ricostruito a posteriori nel testo qui recensito, poiché la narrazione prende avvio da Mercoledì 26 novembre 1958, quando:

all’ospedale Luini -Confalonieri di Luino, viene ricoverato nel reparto Medicina un anziano signore: alto, visibilmente denutrito, il viso cianotico, lo sguardo perso; spicca sul mento un lungo e curato pizzo bianco. Le sue condizioni appaiono subito serie: aritmia, difficoltà di respirazione, scarso orientamento nel tempo e nello spazio. Al personale sanitario conferma di chiamarsi Isidoro Azzario […] Nella cartella clinica i medici aggiungono che le condizioni psichiche del paziente non consentono una corretta raccolta dei dati anamnestici: disturbo bipolare, precisano1.

Azzario è in pensione da 11 anni dopo aver fatto il Capostazione sulla sponda lombarda del lago Maggiore, dove era giunto come sfollato da Milano, durante la guerra, insieme alla figlia e al genero che di quella zona era originario. La moglie era morta nel 1937 e Isidoro è accompagnato dal dolore di non aver potuto nemmeno partecipare al suo funerale a causa di un ottuso funzionario fascista che gli aveva impedito di lasciare l’isola di Ponza, ove era confinato, per il tempo necessario per partecipare alle esequie.

Anche se a Luino e Germignaga, dove risiedeva, molti lo conoscevano, quando viene ricoverato in stato confusionale e denutrito, l’ex-ferroviere rosso vive da solo, o quasi, da diversi anni dopo che la figlia era morta nel 1948 e il genero nel 1957. Da anni. però, aveva ripreso a frequentare la sezione locale del PCI in cui testardamente e ostinatamente aveva ripreso a professare la critica del partito stalinizzato e del fasullo socialismo reale tipica della Sinistra comunista e di Bordiga, cui tornerà ad essere associato dalla direzione locale del partito. Direzione di cui faceva parte Gianni Rodari che in quegli anni sarebbe stato uno dei giudici più fermi e intransigenti di ogni forma di dissidenza interna, soprattutto se anche lontanamente riconducibile alle posizioni della Sinistra.

Ma il motivo per cui tutti ricordano Azzario, in quegli anni, non è tanto l’intransigenza politica nei confronti del Partito togliattiano e dello Stato sorto dalla Resistenza e delle sue alleanze internazionali, quanto piuttosto per i voli pindarici riguardanti la posizione dell’uomo nello spazio, le reali dimensioni della Luna e la sua reale distanza dalla Terra; la curvatura dello spazio che permette altresì che il satellite terrestre non sia null’altro che il riflesso della stessa, insieme all’attenzione per i primi voli spaziali (in particolare per il lancio della prima sonda lunare sovietica, Lunik, lanciata il 2 gennaio 1959, ma che non entrò nell’orbita della Luna per un errore di circa seimila chilometri) e la televisione che egli riteneva superata dal fatto che presto gli uomini avrebbero potuto telepaticamente ricevere una propria “televisione mentale” senza l’uso di elettrodomestici o altri marchingegni tecnologici. Tutte riflessioni che egli sottoponeva agli infermieri e ai pazienti dell’ospedale, ma che in precedenza aveva fatto circolare a voce e a stampa, in opuscoli stampati insieme al genero e poi distribuiti con lui a Milano. Uno avvolto in un mantello nero di sapore ottocentesco e l’altro in un saio verde.

Una storia di disagio psichico che però era già iniziata dopo la disavventura sudamericana del 1927 e le torture subite dai fascisti. Così che, dopo esser stato all’epoca consigliere comunale a Cuneo, membro di spicco della Camera del Lavoro locale, redattore di giornali comunisti e militanti quali «il Sindacato Rosso», schedato dalle prefetture come elemento estremamente pericoloso e definito da Gramsci come oratore formidabile, freddo, preciso e impeccabile, a Regina Coeli, dove era stato rinchiuso in attesa del processo, era stato riconosciuto a stento dai suoi compagni di partito e di carcere.

Bollato dalle perizie psichiatriche come individuo affetto da paranoia espansiva e delirio cronico progressivo, avrebbe iniziato il suo calvario tra i manicomi e, dopo di questi, quello del confino a Ponza e alle isole Tremiti. Durante il quale elaborò complesse teorie astronomiche, scrisse di Bimanità e Trimanità e si dichiarò figlio illegittimi di Nietzsche, di cui in gioventù aveva letto gli scritti insieme a quelli di Karl Marx.

Il testo di Pellegatta e Lunardelli, che a questo punto si lascia che sia il lettore ad esplorare fino in fondo, si avventura dunque in un territorio oscuro, sospeso tra dramma e paradosso, tra tragedia e sempre involontaria comicità, che, però, non costituisce l’unico caso nella storia del movimento operaio italiano. E nemmeno solo del movimento operaio, soprattutto nel guardare allo spazio come luogo di fuga e liberazione. Per la mente e, forse, anche per il corpo.

Basterebbe, allontanandoci per un momento dal contesto della lotta di classe, pensare a uno dei jazzisti afro-americani più innovativi e visionari: Sun Ra. Nato come Herman Poole Bloun a Birmingham in Alabama nel 1914, dotato di notevoli doto pianistiche e gusto musicale fin da giovane, a seguito dell’imprigionamento per renitenza alla leva e dei maltrattamenti subiti nel 1942-43 a causa della sua obiezione alla guerra e al servizio militare, dopo essere stato esaminato dagli psichiatri del campo dove avrebbe dovuto prestare servizio civile, venne dichiarato “personalità psicopatica” anche se altamente “erudita ed intelligente”, e quindi congedato a tempo indeterminato.
Dopo di che assunse il nome d’arte, e non solo, che ne avrebbe collegato opera musicale, pensiero e immagine pubblica allo spazio (in particolare a Saturno) e all’antico Egitto faraonico, di cui si reputava discendente e, in qualche modo, erede delle conoscenze esoteriche.

Una divagazione, quest’ultima, apparentemente fuori luogo, ma che ci rinvia alla necessità umana di sognare e di cui il comunismo, “demone” come già lo definì il giovane Marx, scienza o programma che sia, spesso ha rappresentato soprattutto un grande e liberatorio esempio, sia sul piano collettivo che sul piano individuale. Sogni di cui, come già profetizzava Foscolo nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, l’essere umano ha bisogno come dell’aria per vivere e la cui repressione parziale o totale può portare alla morte, se non fisica almeno psichica.

Un vecchio compagno bordighista era solito ripetere che i comunisti, per resistere in condizioni sociali, politiche e culturali controrivoluzionarie decisamente avverse, oltre ad avere una pelle da rinoceronte dovevano essere per forza dei drop out. Effettivamente l’autore della presente recensione di drop out nell’ambiente comunista ne ha conosciuti davvero tanti. Si intenda bene, però, qui non si parla degli internati nei manicomi staliniani e sovietici per reprimere la dissidenza e nemmeno dei partigiani rinchiusi in manicomio dopo il secondo dopoguerra mentre il guardasigilli Togliatti apriva le porte delle carceri ai fascisti per farli uscire (e magari, in molti casi, per entrare nei ranghi del PCI e dell’amministrazione statale)2.

Se ne vogliono qui ricordare soltanto alcuni, spesso riconducibili all’area cosiddetta bordighista, come ad esempio quello che, all’epoca cinquantenne, tra il 1976 e il 1977 a Torino, bazzicava gli ambienti del canagliume giovanile “rivoluzionario” legato alle precedenti esperienze di Lotta Continua, Potere Operaio e Lotta Comunista, proponendo loro opuscoli, testi e giornali provenienti dall’area della Sinistra comunista. Spiegando, però, a tutti coloro che lo ascoltavano che non sarebbe stato necessario agire fino a quando i morti accumulati per le strade non avessero raggiunto il davanzale della sua finestra. Finestra che era di fatto un abbaino di una soffittta posta al quarto o quinto piano di un edificio umbertino del quartiere San Paolo. Per non dare adito a dubbi di qualsiasi genere va qui chiarito che Zombie di Romero sarebbe uscito soltanto nel 1978.

Oppure un giovane compagno che, ancor ventenne agli inizi degli anni Ottanta, si rifugiò in un mondo tutto suo, da cui non sarebbe mai più uscito, in cui la Terza guerra mondiale era già iniziata e le bombe atomiche avevano cominciato a piovere su un’umanità spenta e incredula. O, ancora, un vecchio compagno di una nota azienda di Ivrea in cui i comunisti di sinistra che componevano l’intero consiglio di fabbrica erano stati espulsi dal sindacato, per mano di Fausto Bertinotti, quando si erano rifiutati, insieme a tutti gli altri operai, di solidalizzare col Governo e i servi del capitale, non aderendo allo sciopero dichiarato dopo il rapimento o il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel 1978. Tale compagno dopo essersi ritirato in pensione manifestò sempre più i sintomi di un forte bipolarismo che spesso lo rendeva inviso ad amici, ex-compagni e famigliari.

Sono solo alcune delle storie che, per quanto piccole e apparentemente insignificanti, non andrebbero prese sottogamba e nemmeno ridotte a semplici curiosità aneddotiche, ma come testimonianza di sofferenze e drammi umani seguiti alla sconfitta (momentanea o sempiterna non tocca qui stabilirlo) del sogno più grande che il capitalismo, fin dalla scoperta delle sue irrisolvibili contraddizioni di classe, ha contribuito a produrre nella mente e nella speranza di chi dal basso gli si è contrapposto senza infingardaggini e senza compromessi.

Almeno per questo Isidoro Azzario e tutti gli altri sperduti compagni che in tanti modi diversi hanno seguito il suo percorso, meritano la riconoscenza di chi li ha conosciuti o di chi ne sente parlare soltanto ora per la prima volta.
Questa è la memoria che val la pena di preservare, molto più di quella delle rimembranze istituzionali e mummificate degli infiniti giorni e delle infinite iniziative ufficiali dedicate alla conservazione di una memoria a senso unico. Per questo Alessandro Pellegatta e Massimo Lunardelli hanno fatto benissimo a ricordarcelo attraverso il loro lavoro di autentica, non blasonata e tanto meno patinata “storia dal basso”3. Storia di militanti che, come nel caso di Azzario, troppo spesso sono stati volontariamente rimossi dai gestori dell’ordine della memoria e dai loro partiti, anche quando, questi ultimi, per lungo tempo si son dichiarati “comunisti”.


  1. M. Lunardelli, A. Pellegatta, Isidoro Azzario sulla Terra e sulla Luna. Storia del Capostazione rosso che fondò il Partito Comunista d’Italia e che il fascismo rinchiuse in manicomio, Quaderni Rossi V, pagine Marxiste II serie, luglio 2023, p. 11  

  2. In proposito si vedano: A. Peregalli, M. Mingardo, Togliatti Guardasigilli 1945-1946, Colibrì, Milano 1998 e M. Franzinelli, N. Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli, Milano 2015  

  3. Alessandro Pellegatta, oltre ad avere scritto già un altro testo su una figura dimenticata e contraddittoria dell’anarchismo, Infinita tristezza. Vita e morte di uno scalpellino anarchico (pagine Marxiste), ha anche curato, sempre per le stesse edizioni, due volumi sull’azione dei rivoluzionari in provincia di Varese e all’isola d’Elba nell’immediato secondo dopoguerra ed è tra i curatori del Dizionario biografico del movimento operaio, reperibile qui  

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Portare la guerra sul palco https://www.carmillaonline.com/2017/01/19/portare-la-guerra-sul-palco/ Wed, 18 Jan 2017 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36029 di Sandro Moiso

suicide Kris Needs, Dream Baby Dream. SUICIDE. La storia della band che sconvolse New York City, Goodfellas 2016, pp.336, € 22,00

“La gente tende a resistere al cambiamento, il sistema lo considera una minaccia, ma alcune persone non riescono a evitare di essere ciò che sono, e quello è il loro dono per gli altri, se sono in grado di riceverlo” (Annette Peacock)

Potrebbero bastare i 23 minuti di registrazione che ci rimangono del concerto tenuto dai Suicide a Bruxelles il 16 giugno del 1978, tra un basso ripetuto di pulsazioni elettroniche, fraseggi vocali ridotti all’osso e fischi, [...]]]> di Sandro Moiso

suicide Kris Needs, Dream Baby Dream. SUICIDE. La storia della band che sconvolse New York City, Goodfellas 2016, pp.336, € 22,00

“La gente tende a resistere al cambiamento, il sistema lo considera una minaccia, ma alcune persone non riescono a evitare di essere ciò che sono, e quello è il loro dono per gli altri, se sono in grado di riceverlo” (Annette Peacock)

Potrebbero bastare i 23 minuti di registrazione che ci rimangono del concerto tenuto dai Suicide a Bruxelles il 16 giugno del 1978, tra un basso ripetuto di pulsazioni elettroniche, fraseggi vocali ridotti all’osso e fischi, applausi e proteste di un pubblico sempre più esausto, per comprendere appieno il senso della frase della vocalist d’avanguardia riportata sopra e per assimilare anche solo in parte quale fu l’impatto provocato sul pubblico e sulla scena musicale degli anni ’70 dal duo composto da Alan Vega (nato Bermowitz, 1938 – 2016) e Martin Rev (nato Reverby, 1947).

Occorre però considerare che era dal 1970 che i due performer avevano iniziato a terrorizzare la scena musicale newyorkese con un misto di musica sperimentale eletttronica, vocalizzi esasperati e provocazioni fisiche nei confronti del pubblico (spesso scarsissimo) che impedì loro, per diversi anni, sia di individuare una casa discografica disposta ad incidere un loro disco che di trovare ingaggi continuativi nel locali in cui si esibivano gli altri musicisti della Grande Mela.

Kris Needs, giornalista e prolifico scrittore inglese, un tempo redattore per il New Musical Express e ZigZag, attraverso un lavoro di interviste durato sei mesi ricostruisce la loro storia, praticamente dalla nascita fino agli ultimi anni, con un’opera che intreccia la vita e le opere dei due musicisti con l’ambiente sociale, culturale e musicale in cui si trovarono a crescere e a veder maturare le proprie esperienze. Ma nel fare questo finisce col dar vita ad una delle opere più interessanti sulla storia culturale, architettonica e sociale di New York, dagli anni Quaranta alla fine degli anni Settanta del XX secolo, che potrebbe anche costituire un ideale compendio novecentesco del lavoro svolto da Bruno Cartosio sulla storia della città tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.1

Suicide 1 Figli entrambi di famiglie della working class emigrate negli Stati Uniti dall’Europa Orientale a causa dei pogrom antisemiti, pur separati da una decina d’anni di età, i due futuri compagni di scorribande avanguardistico-musicali, ebbero modo di crescere in uno degli ambienti più vivaci dal punto di vista artistico-culturale della seconda metà del ‘900. La New York di Jackson Pollock, del Be bop e di Charlie Parker, della letteratura beat, del doo wop dei gruppi vocali di strada, di Miles Davis e della nascita del free jazz con Albert Ayler, John Coltrane e una schiera di altri musicisti afro-americani e bianchi dediti all’esplorazione delle sonorità più libere ed inaspettate, costituì infatti l’ambiente in cui Alan Vega e Martin Rev trascorsero l’adolescenza e la gioventù.

Un ambiente sul quale da lì a poco il rock’n’roll, la pop art e i suoni importati dall’Inghilterra avrebbero ulteriormente influito portando successivamente alla formazione di gruppi come i Velvet Underground legati alla Factory di Andy Warhol o come i Silver Apples, i primi a sperimentare forme di musica elettronica davanti ad un pubblico giovanile in attesa di un concerto rock.

In anni in cui i musicisti che si erano formati nello studio accademico della musica classica iniziavano a rompere le barriere tra i generi e, soprattutto, la barriera fittizia elevata da un sapere accademico classista e perbenista tra cultura alta e cultura bassa. Così come avevano fatto fin dal 1968 in Germania Irmin Schmidt e Holger Czukay, due ex-allievi di Karlheinz Stockhausen, dando vita ai Can. Un gruppo che non poco avrebbe influito sui futuri sviluppi della musica d’oltreoceano.

Anni, però, in cui gli Stati Uniti non avrebbero più smesso di essere in guerra, dalla Corea al Vietnam, dopo il predominio planetario assunto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Anni della cosiddetta guerra fredda che sarebbero sfociati in uno dei maggiori massacri imperialisti oltre oceano: quella guerra in Vietnam in cui furono coinvolti più di un milione di giovani americani, di cui quasi centomila tornarono in patria rinchiusi in un sacco nero e molti di più menomati fisicamente o psichicamente per il resto dei loro giorni.

Causando così al proprio interno una diffusa sollevazione popolare in cui giovani studenti bianchi, chiamati al servizio militare insieme ai loro coetanei neri, accanto ai militanti del Black Panther e ai reduci di una guerra imperialista insopportabilmente trasmessa dalle tv dell’epoca ad ogni ora del giorno, diedero vita ad un movimento che portò il paese quasi sull’orlo della guerra civile e che servì a ridestare sia i movimenti per i diritti civili degli afro-americani in patria che le coscienze dei giovani e dei lavoratori nel resto del mondo occidentale.

A tutto questo non poteva sfuggire l’ambiente musicale ed artistico bazzicato dai due che proprio sulla necessità di opporsi a quella guerra trovarono una prima base di accordo, sia artistico che amicale. Primi ad utilizzare il termine “punk” in tempi ancora non sospetti, diedero vita ad eventi che definirono all’inizio “punk mass”, traducibili sia con “massa di spazzatura” (con riferimento al muro di suoni prodotto) che con “messa per froci” (nell’accezione più offensiva di un termine che già serviva a definire qualcosa o qualcuno di bassa qualità) con un evidente provocatorio riferimento ad un tempo in cui il militarismo tendeva ad offrire un’immagine virile e forte dell’America in guerra.

Come afferma uno dei due: ”Convivevamo con la realtà della guerra e portavamo la guerra sul palco.Tutti ci odiavano”. Guerra alla guerra, ma anche guerra contro le convenzioni in cui la musica di una generazione veniva continuamente risucchiata, mentre “i due condividevano il desiderio comune di creare il manifesto più rumoroso e provocatorio possibile2
Alan avrebbe ricordato: “Suonavamo per ore e registravamo tutto. Dopo una sessione di circa tre ore, riascoltavamo quello che avevamo fatto e ci dicevamo «Siamo pazzi?». Ma lo adoravamo. Noi improvvisavamo, qualcosa che nessuno fa più. Da lì è arrivata anche la parte vocale. Non scrivemmo molte canzoni, ma continuavamo ad improvvisare, e lasciavamo che andasse da sé. Tutto venne fuori come fosse in stile free jazz”.3

Poiché le prove si svolgevano nel grande loft del Project of Living Artists, situato in una delle zone più degradate di Manhattan, di cui Alan era formalmente il custode, una notte il frastuono proveniente dalle alte finestre del locale attirò una folla nella strada sottostante, cosa che Alan avrebbe ricordato nei suoi colloqui con l’autore. “Suonavamo a volume davvero alto, direi assordante. Era una tiepida notte di primavera, stavamo suonando di brutto quando all’improvviso sentimmo della gente giù in strada dire «Ancora, ancora!». Guardai fuori dalla finestra e c’era, cazzo, un centinaio di ragazzini laggiù ad ascoltare noi che ci lasciavamo andare a questo flusso di coscienza sonoro. Non riuscivamo a crederci. Probabilmente si trattava dei fattoni di Washington Square Park”.4

Questo episodio può servire a testimoniare lo strano incontro tra rock’n’roll, elettronica, ricerca sonora e blues di strada che fini col costituire l’anima e il prodotto dei Suicide. Incontro magnificamente illustrato da un brano come Cheree, pubblicato nel primo album ufficiale registrato nel 1977 e prodotto da Marty Thau, capolavoro assoluto di quella che potrebbe essere definita poesia della strada e che consiglio ai lettori di ascoltare all’infinito mentre leggono questa recensione.

suicide 2 Questo insistere sull’improvvisazione, però, potrebbe far dimentica che almeno uno dei due , il tastierista Martin Rev, aveva avuto una educazione jazzistica tutt’altro che superficiale. Fu infatti allievo di un grande pianista misconosciuto come Lennie Tristano e, in seguito, ebbe modo di prendere lezioni da un percussionista fondamentale nella storia del jazz moderno come Tony Williams, di poco più vecchio e di cui divenne amico.

Un ambiente, quello del jazz tradizionale e soprattutto d’avanguardia, che non smise mai di affascinarlo e di ispirarlo e in cui ebbe modo di esibirsi al fianco di alcuni suoi importanti esponenti.
Alan invece iniziò la sua carriera artistica come scultore e creatore di strutture luminose, ricavate da materiali di scarto recuperati nelle strade oppure rubati qua e là. Una sorta di arte povera che in qualche modo si sarebbe poi anche riflessa negli strumenti utilizzati sul palco da Martin.

In un epoca in cui l’uso dell’elettronica in musica era ancora abbastanza limitato e in cui il Moog e il Theremin costituivano ancora gli unici “strumenti” disponibili sul mercato (a caro prezzo), i due si videro costretti ad inventare la strumentazione di cui avevano bisogno. Un po’ come già aveva fatto alla fine degli anni Sessanta Simeon Coxe III, tastierista dei Silver Apples, un duo costituito da lui e dal batterista Danny Taylor.

Come ha ricordato Alan ridendo: “Comprammo tutto per la somma di dieci verdoni perchè non potevamo permetterci di più: un organo giapponese scadente da cui non riuscivamo a cavare alcun suono e un ampli per basso […] Faceva schifo. Quindi iniziammo a comprare tutti questi booster per i toni acuti e per i bassi, oggettini da un dollaro che allora tutti volevano, delle puttanate elettroniche! Noi li saldammo insieme per ricavarne un altro suono. La tastiera di Marty aveva una fila intera di questi cosi e un sacco di comandi e altra roba. Schifo non è la parola giusta. Faceva più che schifo. Era straordinario! Era tutto un sound creato in base alla necessità di creare un sound perché non riuscivamo ad ottenere un sound. E venne fuori. Boom! Fu come il big bang!5

Una creazione artistica che, si potrebbe dire, più dal basso di così non avrebbe potuto iniziare. Eppure, eppure…gli album che ne sarebbero scaturiti, soprattutto i primi due ufficiali registrati rispettivamente nel 1977 e nel 1979, sarebbero stati destinati non a grandi vendite e successi, ma a modificare irrimediabilmente il gusto musicale dei decenni successivi. Due album di una discografia ridottissima (5 album in studio tra il 1977 e il 2002), ma “esagerata” fino alla fine. Come dimostra l’ultimo American Supreme, mal accolto (tanto per cambiare) dalla critica eppure violentissimo e ancora feroce nei confronti del sogno americano dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

Kris Needs costruisce intorno alle vicende che avrebbero portato alla celebrità i due artisti newyorkesi un’opera “totale” in cui Sun Ra incrocia i Cramps e il glam dei New York Dolls si accompagna alle ricerche della musica d’avanguardia, mentre sullo sfondo nascono, crescono oppure letteralmente crollano come il Mercer, locali glamour e à la page oppure fatiscenti passati alla storia della musica come il Vanguard , il Max’s Kansas City, il CBGB e molti altri ancora. Così come gli imprenditori, talvolta legati al malaffare e talvolta soltanto appassionati di musica, che li animarono nel successo oppure che ne seguirono il rovinoso destino.

Tra personaggi come Fellini, Hendrix, Warhol, Burton Green, Joey Ramone e molti altri ancora l’autore ci guida così in una folle, appassionata e attenta ricostruzione della New York più vivace e attraente sia dal punto di vista musicale che intellettuale della seconda metà del Novecento. In cui , come in una canzone di De Andrè, i fiori nascono da un sottobosco urbano in cui drag queen, malavitosi, musicisti pieni di idee ma spiantati, snobismo, contraddizioni sociali enormi e povertà e tossicodipendenza diffusa hanno dato vita ad alcuni dei percorsi artistico-musicali più importanti del secolo appena trascorso.

Ancora una volta, dunque, occorre ringraziare le Edizioni Goodfellas per aver pubblicato il testo in italiano in una collana, la Spittle, di cui costituisce il terzo validissimo volume.


  1. Bruno Cartosio, New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917), Feltrinelli 2007  

  2. pag.108  

  3. pag.109  

  4. pag. 110  

  5. pag. 120  

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Blue, uno sguardo sul jazz nell’epoca del suo tramonto https://www.carmillaonline.com/2014/02/07/blue-sguardo-sul-jazz-al-tramonto/ Thu, 06 Feb 2014 23:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12341 di Sandro Moiso

EricNisenson_Blue Eric Nisenson, Blue. Chi ha ucciso il jazz?, Odoya, Bologna 2013, pp. 336, euro 20,00

Per il lettore, un libro è, o dovrebbe essere, un viaggio di scoperta. A volte i libri sono viaggi di scoperta anche per chi li scrive, e questo è uno di quei libri” (Eric Nisenson)

Attorno ai quindici anni lessi il mio primo libro sul jazz. Credo si trattasse di “I grandi del jazz” di Franco Fayenz. All’epoca la letteratura sul jazz, e sulla musica moderna in generale, era, in Italia, piuttosto scarna. Ci si affidava alla rivista “Musica Jazz”, diretta da [...]]]> di Sandro Moiso

EricNisenson_Blue Eric Nisenson, Blue. Chi ha ucciso il jazz?, Odoya, Bologna 2013, pp. 336, euro 20,00

Per il lettore, un libro è, o dovrebbe essere, un viaggio di scoperta. A volte i libri sono viaggi di scoperta anche per chi li scrive, e questo è uno di quei libri” (Eric Nisenson)

Attorno ai quindici anni lessi il mio primo libro sul jazz. Credo si trattasse di “I grandi del jazz” di Franco Fayenz. All’epoca la letteratura sul jazz, e sulla musica moderna in generale, era, in Italia, piuttosto scarna. Ci si affidava alla rivista “Musica Jazz”, diretta da Arrigo Polillo e ci si accontentava di una critica spesso rivolta ancora a definire il canone jazzistico in base al jazz di New Orleans e a quello suonato dall’orchestra di Benny Goodman oppure, al massimo, al be-bop e al cool jazz californiano. Eppure quel libro fu la causa del mio successivo entusiasmo per la musica afro-americana (naturalmente insieme all’ascolto, avvenuto qualche anno prima, di “Hit The Road Jack” di Ray Charles).

Insieme ad un mio compagno di classe, altrettanto appassionato di musica, andavo scoprendo il blues di John Mayall e di Eric Clapton e il sax di Charlie Parker, la chitarra elettrica di Jimi Hendrix e la poesia cosmica di John Coltrane, l’urlo libero di Ornette Coleman e il soul/funk delle metropoli industriali degli Stati Uniti, la suite per la libertà adesso e subito di Max Roach e Miles Davis che, da lì a qualche tempo, avrebbe finito col fondere il tutto in un calderone magico da cui sarebbero usciti “In A Silent Way” e “Bitches Brew”.

Oggi, a distanza di tanti anni, il libro di Nisenson, critico ed autore di importanti testi sul jazz e il suo mondo, ha causato in me lo stesso stupore, ha riacceso la stessa passione e lo stesso interesse nei confronti di tutta quella musica.
E di altro ancora, perché mi sono ritrovato tra le mani un libro appassionato, scritto con il rigore dello studioso e la furia del cultore, tutto rivolto non a ricostruire per l’ennesima volta lo storia della musica jazz e dei rapporti sociali che l’hanno prodotto, ma a trasmettere l’idea di cos’è , cosa è stato e cosa dovrebbe essere il jazz. E guardate che, non è cosa da poco, ci riesce benissimo.

Di storie della musica afro-americana ne esistono oramai anche troppe. Negli ultimi anni anche qui in Italia ne sono state pubblicate tantissime: tutte colte, tutte ricche di discografie e bibliografie, tutte scontate. Tanto, dal punto di vista storico-sociale, quella recentemente ripubblicata di Eric J. Hobsbawm, precedentemente edita sotto falso nome nel 1961 e poi nel 1982 con l’attribuzione all’autore reale, da sola potrebbe già bastare1.
Anche Blue ricostruisce gli snodi più importanti della storia del jazz e della sua evoluzione, ma non è mai scontato. Trasmette ad ogni pagina la voglia di andare avanti nella lettura per vedere cosa succederà ancora. Anche a chi quella storia e quell’evoluzione un po’ già le conosce.

L’intenzione dell’autore non è, come ho già detto, quella di riscrivere la storia di quella che forse è stata la musica più importante di buona parte del ‘900. No, l’intento è polemico. Proprio contro coloro, quelli che l’autore chiama i jazzisti neo-classici, che attraverso la ricostruzione storica e la riproposizione musicale più accurata vorrebbero trasmettere un ben preciso ed unico canone di quella musica. E che, così facendo, la stanno appunto uccidendo.

Il tentativo di definire un canone unico per il jazz non è nuovo e non lo è per l’arte in generale. E ogni volta tale tentativo ha trovato sempre chi lo negasse e lo superasse, nei fatti, con la propria opera, spesso destinata a stravolgere gli schemi con cui la critica accademica, e non, guardava alle manifestazioni artistiche e musicali. Ma, nel jazz e in tutto quello che riguarda le culture afro-americane, c’è sempre stato un elemento in più ad intorbidare le acque: quello razziale.

La più importante musica americana è nata dall’incontro tra la cultura bianca e cristiana e quella africana, tribale e pagana. La libertà presupposta dall’ideale contenuto nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti si scontrava così direttamente con i suoni e i sogni di coloro che da tale libertà erano esclusi senza possibilità di redenzione: gli schiavi africani e i loro discendenti.
Questo dava vita non solo ad un mercato separato ( da una parte la musica bianca ed all’altra i race records destinati all’ascolto dei neri), ma a tutta una catena di conseguenze economiche e culturali in cui le industrie discografiche che stampavano la musica prodotta dai neri, i locali in cui questi si esibivano e la critica che li giudicava erano, nel 99% dei casi, di appannaggio dei bianchi, americani e non.

Ma, c’è sempre un ma…quella musica nera, tutt’altro che domata dal puritanesimo religioso dello schiavismo bianco, iniziò, molto prima dell’avvento di Elvis the pelvis e del rock’n’roll, ad attrarre molti giovani bianchi. E non solo come fruitori, per così dire, a sbafo, ma anche come autentici protagonisti e creatori. Chi potrà mai negare il contributo dato al jazz da Bix Beiderbecke, Bill Evans, Lennie Tristano, Scott La Faro, Chet Baker, Dave Brubeck, solo per citare alcuni dei principali innovatori bianchi tra i tanti che lo suonarono?

Ecco, qui si apre il problema affrontato da Nisenson nel suo testo: coloro che oggi rifiutano di ammettere qualsiasi contributo bianco al jazz, Wynton Marsalis e le sue serate jazz al Lincoln Center oppure critici “neri” come Stanley Crouch e Albert Murray, non rischiano di essere razzisti a loro volta interiorizzando proprio quella visione del “negro” come barbaro felice, unico depositario del ritmo e delle spontanee forze della natura, che ha contraddistinto la lettura sbiancata delle culture “altre” dall’Illuminismo in poi?

Se poi gli stessi insistono col trasferire sul pentagramma, nota per nota, tutta la grande musica improvvisata del passato per darle la stessa dignità della musica classica, europea e bianchissima, non accettano forse in pieno una visione culturale egemonica e bastarda che per secoli ha stabilito, a priori, cosa fosse civiltà e cosa fosse barbarie? E se, poi, gli stessi personaggi finiscono col ripudiare il free jazz come non musica e con l’abbracciare le ideologie più retrive del repubblicanesimo reganiano, non diventano essi stessi forze della conservazione e della reazione culturale e politica più bieca?

Questo è uno dei nodi centrali dell’opera e coinvolge, per alcuni aspetti, non solo una prospettiva di stampo genuinamente artistico, ma anche una visione del mondo e una prospettiva sostanzialmente politica che prova a capire perché il jazz oggi sta morendo nonostante siano in molti a suonarne la gran cassa. Anche se, in fin dei conti, è proprio la fine del predominio americano sul mondo a segnare la fine del secolo americano anche dal punto di vista musicale, e l’autore ne è pienamente consapevole, e quindi di tutte le sue “musiche”. Bianche, nere o meticce che siano. Ma il potenziale lettore non si deve preoccupare perché il libro fila via liscio anche per chi non ha mai letto nulla sull’argomento.

Anzi, si può dire che questo, attualmente, è forse il miglior testo in circolazione per cominciare a comprendere il suono nero e i suoi sviluppi. Specialmente per i giovani.
Louis Armstrong, George Russell, Sonny Rollins, Gil Evans, Sun Ra, Dizzy Gillespie, Lester Young, Duke Ellington, Albert Ayler, Thelonious Monk e tutti gli altri, dopo questa lettura non saranno più soltanto dei nomi o delle “figurine” sull’album dei collezionisti, ma figure vive e vere, in attesa di suonare ancora per chi li vuole ascoltare e capire davvero.

Intanto Nisenson, morto nel 2003 a 57 anni, da qualche parte sta ancora ascoltando, sicuramente, tutti quei musicisti che, dopo aver dato l’assalto al cielo, stanno ancora improvvisando insieme, senza distinzione di nazionalità o di colore della pelle.


  1. Eric J. Hobsbawm, Storia sociale del jazz, Editori Riuniti, Roma 1982  

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Detroit è morta, viva Detroit! (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2013/08/09/detroit-e-morta-viva-detroit-prima-parte/ Thu, 08 Aug 2013 23:00:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8246 iggy1di Sandro Moiso

E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu  Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri  del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del [...]]]> iggy1di Sandro Moiso

E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu  Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri  del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del secolo appena concluso. Eppure,eppure…

Heavy Music

 Non fatevi fregare dalle critiche compiacenti: l’ultimo album di Iggy and the Stooges fa cagare! Molto peggio del penultimo e senza paragoni rispetto a quelli degli anni sessanta e settanta. Il chitarrista James Williamson non ricorda nemmeno vagamente gli assalti sonici di Raw Power, Iggy s’è giocato la voce ai dadi e il resto del gruppo…beh, meglio lasciar perdere. Eppure Ready To Die, con la foto di copertina che ritrae Iggy  avviluppato da  una cintura esplosiva  sui fianchi e sul torace nudo può rappresentare simbolicamente (e non solo per il titolo) un ottimo punto di partenza per un viaggio a ritroso nella storia politica, sociale,economica e culturale della città del Michigan. Un viaggio, come quello di Iggy, a ritroso verso la gloria di un tempo, oggi forse definitivamente perduta.

 Perché proprio a partire dagli Stooges? Perché Detroit fu una delle capitali del rock alternativo e del rock blues degli anni sessanta e settanta. Tutti ricordano i luoghi sacri del rock’n’roll: Memphis e la Sun Records, San Francisco e la scena acida e psichedelica, New York e la provocazione delinquenziale dei Velvet prima e del primo, selvaggio punk poi; i fuori di testa texani e i compiti bostoniani indecisi tra psichedelia selvaggia e pop. Ma Detroit ragazzi…oh, Detroit!?! Fu la patria di quella che Bob Seger battezzò con il titolo di un suo brano: Heavy Music.

 Musica rock infarcita di blues e chitarre metalliche, di provocazione politica e incitamento alla rivolta. Piena zeppa di cantanti furiosi  e esplosioni soniche free form rubate al jazz più innovativo di quegli anni. I Motor City 5 (MC5) legati al White Panther Party e a John Sinclair, gli Up che si facevano fotografare armati fino ai denti con baionette e fucili M-1 (riparleremo più avanti di questo modello di fucile), Iggy che si contorceva sulla scena come un rettile mentre il resto del gruppo inscenava truculentissime gag a base di sangue (vero) e svastiche (false) come simbolo del potere dominante.

E poi Sun Ra che si spostava lì da Chicago, con la sua Arkestra, per partecipare al festival annuale della cittadella universitaria di Ann Arbor, più famosa per la riottosità dei suoi studenti che per la qualità delle sue accademie. E ancora Alice Cooper, incontrastato re del glam, benedetto agli esordi dal genio di Zappa che lo volle per la sua (fallimentare) Bizarre Records oppure la Tamla Motown (Motor Town) una delle grandi etichette di musica nera: innovativa, arrabbiata e fiera di esser tale.

I Rationals e il loro garage venato di  blues e, in seguito, i Grand Funk Railroad, in origine pesanti e metallici forse più dei veicoli prodotti dalla Ford della loro originaria Flint; la James Gang e gli assoli rock blues infiniti, Bob Seger con il suo Sound System ispirato al soul e alla cultura blue collar, fino ai catastrofici Destroy All Monsters di Ron Asheton (ex- Stooges) e della indemoniata cantante  Niagara nei primi anni ottanta. Senza dimenticare il grande Sixto “Sugarman” Rodriguez, i cui testi costituiscono sicuramente uno dei prodotti più genuini della street e class culture della Detroit di quegli anni. Qualcuno o qualcosa è stato certamente dimenticato, ma già questi bastano  a dar vita a un bel gruppo di kamikaze sonori e culturali.

Oggi la stampa nazionale e internazionale parla della crisi di Detroit come del fallimento del welfare e delle conseguenze della globalizzazione, ma ignora tutto ciò e quello che qui seguirà perché dovrebbe porsi domande imbarazzanti. Come, ad esempio: Da dove proveniva tutta questa energia? Quale era il tessuto sociale e culturale che la propagava? Perché è finita?

Società multirazziale, lotta di classe e laboratorio sociale

Nel 1820 la città, sorta sule rive del fiume Detroit nella regione dei Grandi Laghi, contava 1.422 abitanti; nel 1900 ne contava 285.704, nel 1920 ben 993.678, mentre nel 1950 raggiunse la cifra di 1. 849.568. Una crescita esponenziale, legata soprattutto all’industria dell’auto, da quando Henry Ford, nel 1904, iniziò a realizzare lì la prima vettura”di massa”: la Model T. Mentre, sempre nella stessa città, anche i fratelli Dodge (John Francis e Horace Elgin) e Walter Chrysler iniziavano a  produrre automobili. Crescita demografica dovuta dunque all’enorme massa di diseredati, bianchi e neri e di differenti nazionalità, che si riversò  nella città a caccia di un posto di lavoro.

Con la seconda guerra mondiale e lo sviluppo delle industrie belliche l’afflusso, soprattutto dagli stati del Sud, divenne gigantesco, finendo anche con l’aumentare le tensioni razziali e di classe che già si erano manifestate nel corso delle lotte sindacali degli anni trenta e delle race riot  del 1943. Ancora oggi una qualsiasi cartina stradale ci mostra, figurativamente, qual’era la posizione centrale di Detroit rispetto all’industria americana.

A circa 380 chilometri ad Est sorge Chicago, che era stato l’altro grande collettore di manodopera nera e immigrata più o meno negli stessi decenni e in cui, dalla seconda metà dell’Ottocento, l’industria della carne in scatola (con relativi mattatoi e macelli) aveva fato da traino. Un po’ più a sud, sulla riva opposta dello stesso lago, si trova Cleveland, con i suoi impianti industriali in disuso, e poche miglia più a sud di questa troviamo Akron, ex-capitale della gomma  e della produzione di pneumatici.

Scendiamo ancora e troviamo, non molto distante, Pittsburgh con le sue acciaierie e, verso est, Buffalo, centro portuale ed industriale da tempo riciclato in città turistica e “culturale”. Siamo nel cuore del cuore delle vecchie regioni industriali. Là dove il conflitto sociale può vantare decenni di storia e gli IWW avevano giocato le loro sorti e quelle del sindacalismo d’industria nei primi quarant’anni del XX secolo. Si potrebbe dire di essere in prossimità di quello che, in un tempo neppure troppo lontano, è stato  il cuore del conflitto sociale degli Stati Uniti.

Ancora nel 1972, Detroit costituiva  il quartier generale dell’industria dell’auto, quella che all’epoca dava lavoro ad un americano su sei. E proprio in quell’anno Lawrence M. Carino, Presidente della Camera di Commercio di Detroit, poteva dichiarare: ”Detroit è la città dei problemi. Se ne esistono, noi probabilmente li avremo. Sicuramente non ne avremo l’esclusiva. Ma certamente li avremo prima di altri…La città è ormai diventato il laboratorio vivente  per il più completo studio possibile sulla condizione urbana in America*.

Cinque giorni a luglio

Nel momento in cui rilasciava questa dichiarazione, Carino doveva ancora avere ben in  mente i cinque giorni del luglio 1967 in cui la città era stata protagonista della più grande rivolta urbana della storia degli Stati Uniti dopo quella di New York del 1863 contro la leva obbligatoria istituita nel corso della Guerra Civile. In quel caso fu l’artiglieria ad essere usata contro i rivoltosi nelle strade di New York City, mentre a Detroit si fece ricorso ai carri armati e all’aviazione in dotazione alla Guardia nazionale.detroitriot 1

Tutto era iniziato a causa di un intervento della polizia per chiudere un locale privo della licenza di vendita per le bevande alcoliche che si trovava nei locali della United Community League for Civil Action, sull’angolo della Dodicesima Strada  con Clairmount Street nel Near West Side. Gli agenti pensavano di trovare poca gente poiché erano le 3:45 del mattino di una domenica. Invece nei locali si trovavano 82 afro-americani intenti a festeggiare alcuni loro amici appena tornati dal servizio in Vietnam. Come la polizia tentò di arrestarli tutti, nelle strade si radunò una folla enorme che costrinse gli agenti ad una precipitosa ritirata sotto una pioggia di bottiglie e sassi. Era il 23 luglio.

Nel corso dei giorni successivi vi furono 43 morti (34 neri e 9 bianchi, tra i quali l’unico agente di polizia ucciso durante i disordini), 1189 feriti, 7200 arresti e 2000 edifici distrutti. Furono assaltati supermercati e negozi, mentre la polizia lamentò (senza mai provarlo veramente) la presenza di cecchini tra i manifestanti. Per sedare i disordini fu richiesto prima l’intervento della Guardia Nazionale, autorizzato dal Presidente Johnson il 25 luglio, e, successivamente, di reparti aviotrasportati dell’esercito.

Di fatto la città finì con l’essere occupata militarmente da 8000 soldati della Guardia Nazionale e 4700 paracadutisti del 32° Airborne oltre che da 360 agenti della Michigan State Police. Nei giorni successivi la presenza massiccia di truppe sul territorio urbano contribuì ad incrementare il numero degli uccisi, dei feriti e degli arrestati, ma rischiò anche di degenerare in scontri a fuoco tra soldati della Guardia nazionale (prevalentemente bianchi) e paracadutisti (prevalentemente neri). Tanto che  fu ordinato ai paracadutisti di far ricorso alle armi soltanto su ordine o in presenza di un ufficiale bianco.

Con il 27 luglio la rivolta ebbe termine e l’ordine tornò a regnare su Motor City, ma il segnale era stato allarmante e l’establishment politico ed economico si rese conto che le conseguenze sociali e politiche avrebbero potuto essere ben più gravi. Dopo quella rivolta la rabbia nera perse, però, le sue connotazioni esclusivamente razziali per conseguire una maggiore coscienza di classe che si sarebbe da lì a poco manifestata attraverso nuove e più politicizzate forme di organizzazione.

John Lee Hooker per primo si fece cantore della rivolta con il suo blues Motor City Is Burning, ma anche il cantautore canadese Gordon Lightfoot le dedicò la sua Black Day in July. Ma si può tranquillamente affermate che fu proprio la rivolta a cambiare l’attitudine di numerose rock band che fino a quell’anno erano state prevalentemente legate al garage per poi passare dopo quegli eventi ad un atteggiamento più rabbioso ed impegnato. Primi fra tutti i Motor City 5 di Fred Sonic Smith, Wayne Kramer  e Rob Tyner.detroit-riots

I danni furono calcolati intorno ai 500 milioni di dollari;  tra gli arrestati più di 6000 erano adulti e quasi un migliaio gli adolescenti. Il più giovane aveva 4 anni e il più vecchio 82, mentre 5000 persone rimasero senza casa. Quando agli inizi del XX secolo gli afro-americani erano emigrati dagli stati del Sud verso il Nord, in quella che è ancora de finita la Grande Migrazione, la popolazione cittadina, come si è già visto, si era enormemente incrementata, ma non così l’offerta e la disponibilità di case per nuovi venuti. In questo modo i neri di Detroit furono pesantemente discriminati sia sul piano sociale che su quello lavorativo.

Nei primi anni sessanta la loro condizione era parzialmente migliorata e si andava formando una classe media di origine afro-americana, ma alla vigilia della rivolta molti appartenenti alla comunità nera si ritenevano insoddisfatti o delusi dai lenti progressi di cui erano testimoni e/o attori. La commissione di inchiesta formata dopo la fine della rivolta accertò che, prima della rivolta, il 45% degli agenti di polizia operanti nei quartieri abitati prevalentemente da afro-americani erano decisamente “anti-negro” (come li definì la stessa commissione) e che un altro 34% era costituito da agenti significativamente marchiati dal pregiudizio razziale.

Nell’insieme il corpo di  polizia della città di Detroit era formato al 93% da agenti bianchi a fronte di un 30% di residenti neri nella città. Così era facile che gli agenti di pattuglia si rivolgessero ai maschi neri di qualsiasi età con il termine “Boy” e alle donne di colore con i termini confidenziali “Honey” o “Baby”. Queste ultime venivano poi spesso fermate ed arrestate per “prostituzione” se camminavano da sole per strada. Senza contare, poi, che un certo numero di residenti in città, non solo neri, dichiarò che uno dei problemi principali durante la rivolta di luglio era stato costituito dalla brutalità e dal comportamento aggressivo della polizia.

* Dan Georgakas, Marvin Surkin, Detroit: I Do mind Dying, South End Press, Cambridge, Ma, 1998, prima edizione 1975, pag.1

(Fine prima parte – continua)

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