Sudan – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 21: un’invenzione coloniale (in via di disgregazione) https://www.carmillaonline.com/2023/09/06/il-nuovo-disordine-mondiale-21-uninvenzione-coloniale-in-via-di-disgregazione/ Wed, 06 Sep 2023 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78655 di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] E’ ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era [...]]]> di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] E’ ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.[…] Sì, il nuovo anticolonialismo è molto più primitivo […] Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie dove sono in agguato le malattie, la miseria. (Domenico Quirico, “La Stampa”, 5 agosto 2023)

Jean-Loup Amselle (Marsiglia, 1942) è un antropologo francese che ha realizzato ricerche sul campo in Mali, in Costa d’Avorio e in Guinea, concentrando la sua attenzione sui temi dell’etnicità, dell’identità, del multiculturalismo, del postcolonialismo e della subalternità. Inoltre è Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e caporedattore della rivista internazionale “Cahiers d’études africaines”.

Un curricolo di studi e ricerche importante per l’autore di un testo (edito per la prima volta in Francia nel 2022) che esce in un momento di grave crisi politico-militare della struttura geopolitica e culturale imposta per lungo tempo dal colonialismo francese (ed europeo) all’Africa subsahariana. Come sottolinea Marco Aime nella sua prefazione al testo:

la nozione di Sahel appare per la prima volta nel 1900, nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanicogeografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni. Oggi, però, il Sahel è divenuto una sorta di regione distinta, con presunte caratteristiche etniche, geografiche, ambientali, che la caratterizzerebbero come un unicum. In realtà non è neppure semplice indicarne i confini, chi è in grado di tracciare un confine netto con il Sahara a nord o con la savana a sud? Potremmo tranquillamente dire che esiste più di un Sahel: su un piano meramente geografico, peraltro convenzionale, corrisponderebbe a una striscia lunga 8500 km, vasta circa 6 milioni di km2, che attraversa 12 Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea), definita più dalle sue caratteristiche climatiche, ambientali e sociali che non da quelle geografiche o politiche1.

Però, prima di proseguire con l’analisi del contenuto del testo, occorre qui sottolineare subito come di quei dodici stati menzionati nella categoria “Sahel” negli ultimi anni almeno sette si siano sottratti all’influenza occidentale in generale e francese in particolare, come i recenti fatti collegati al “colpo di stato” nigerino sembrano confermare; nonostante gli sforzi militari ed economico-politici messi in atto dal colonialismo francese di mantenere il controllo su una delle aree più ricche di uranio ed altre preziose materie prime dell’intero continente africano. Un’autentica débacle per una forma di occupazione coloniale che è continuata per decenni dopo la cosiddetta “fine dell’età coloniale”, ma che oggi sembra essere giunta al termine insieme alle pretese occidentali di rappresentare, sulle teste di miliardi di abitanti del pianeta oppure delle centinaia di milioni di quelli delle regioni africane coinvolte, l’unico e perfetto modello di governance e organizzazione dello sfruttamento economico delle risorse di gran parte del pianeta.

E qui, in questa pretesa di universalità del modello occidentale, si inserisce la leva, anzi verrebbe da dire il piede di porco, di Amselle, tutto teso a scardinare un modello e un immaginario che sono serviti soltanto a perpetrare fino ad ora un modello di dominio volto a garantire la stabilità e la continuità dello sfruttamento delle risorse africane a favore dei ben più ricchi paesi dell’Occidente bianco e crapulone. Infatti, come afferma ancora Aime nella sua prefazione:

Un filo rosso percorre l’intera opera di Jean-Loup Amselle e ne mette in luce, oltre alle indiscusse capacità, la coerenza e l’estrema originalità. Fin dai suoi primi lavori […] Amselle sembra essersi dato una missione: scardinare il rigido sistema classificatorio, al quale non è sfuggita neppure molta antropologia del passato, per restituirci un panorama più complesso e articolato, che vada al di là delle semplici (talvolta semplicistiche) schematizzazioni adottate, in particolare dagli europei, nei confronti dell’Africa. Questo continente, infatti, è stato troppe volte vittima di vere e proprie “invenzioni”, pensiamo al mito di Timbuctù come città dell’oro o alla propensione mistica dei dogon, solo per rimanere nel Mali, Paese del Sahel, al centro di questo ultimo lavoro dell’autore2.

Come chiarisce lo stesso Amselle:

il Sahel, categoria nata per designare la regione che si estende tra il Sahara e la savana “sudanese”, è in effetti una realtà spettrale, ibrida, mista, che mescola popolazioni “bianche”, “rosse” e “nere”, agricoltori sedentari e pastori transumanti, animisti e musulmani. Questa realtà mutevole, come quelle che la circondano (il Sahara, la savana), è stata coinvolta in una serie di formazioni politiche su larga scala – gli Imperi del Ghana, del Mali e del Songhay – tutte orientate lungo un asse nord-sud piuttosto che ovest-est. Sebbene la colonizzazione francese si estendesse dal Maghreb al Golfo di Guinea, non fu questa la divisione geografica che ne derivò. Al contrario, i conquistatori, gli amministratori e gli studiosi coloniali stabilirono una geografia razziale e bio-climatica che livellava le zone geografiche, le razze e le etnie in funzione delle latitudini. Ne è risultata una gerarchizzazione ambigua che oppone delle razze “civilizzate” ma pericolose, come i mori, i tuareg e i peul, a razze più incolte ma più pacifiche, come gli “agricoltori neri”. Questo schema di riferimento coloniale continua a essere utilizzato ancora oggi e a ossessionare gli ufficiali francesi delle operazioni “Barkhane” e “Takuba”3.

Sottolineando però come l’opera di divisione trasversale sia stata non soltanto geografica, bio-climatica e razziale, ma anche linguistica.

Non ho ancora fatto notare che dal 2013 in poi, i successivi interventi militari che hanno coinvolto diversi Paesi “saheliani”, soprattutto il Mali, hanno avuto nomi arabi o tamasheq […] “Takuba”, il termine utilizzato per designare la forza speciale europea voluta da Emmanuel Macron, significa “sciabola” in lingua tamasheq. Il campo semantico utilizzato dal comando francese è quindi principalmente arabo e tamasheq e riguarda quindi soltanto le popolazioni nomadi, che rappresentano solo una frazione della popolazione totale del Mali. È facile osservare quindi come la guerra nel Sahel si giochi anche sul piano simbolico, con la scelta dei termini utilizzati, che possono anche ritorcersi contro chi li aveva introdotti. […] Con l’invenzione della categoria di Sahel all’inizio della colonizzazione, e fino al suo utilizzo odierno, la Francia e il Mali non hanno più smesso di guardarsi con sospetto. È la proiezione di un immaginario fantasma, di una parte dell’Africa che ha la consistenza di un sogno, di un safari avventuroso dove si inseguono le fantasie di una casta militare nostalgica di un’epoca passata, un’epoca in cui la Francia contava ancora sulla scena internazionale, mentre adesso non può nemmeno più giocare alla guerra4.

In questo modo l’ex-potenza coloniale francese non soltanto ha troncato le vie “naturali” che un tempo collegavano da nord a sud le società del continente, favorendo lo sviluppo di regni e stati che la storiografia colonialista sembra aver cancellato dalla Storia, riducendo la stessa ad un susseguirsi di scontri interetnici cui solo l’intervento coloniale occidentale avrebbe messo fine5, ma ha anche contribuito allo sviluppo di un’etnicizzazione precedentemente inesistente o scarsamente rappresentativa delle culture locali che si incrociavano e confrontavano secondo altri parametri. Etnicizzazione e demonizzazione, ad esempio, dell’Islam in cui spesso sono cascati anche gli intellettuali “locali”, come Amselle dimostra nel lungo capitolo riguardante La formattazione dell’intellettuale saheliano6. Così, come chiarisce ancora Aime nella sua prefazione:

Molti di questi scrittori e saggisti riproporrebbero una nuova etnicizzazione della narrazione, enfatizzando il colore della pelle, le tradizioni locali e l’animismo come rimedio alla modernità di carattere occidentale. L’Islam viene spesso caricaturizzato e demonizzato, impedendo così che se ne faccia un’analisi più profonda e articolata soprattutto sulle cause che spingono sempre più giovani ad aderire ai movimenti jihadisti. Viene spesso riproposta una versione rivisitata dell’afrocentrismo, secondo cui tutto avrebbe avuto origine in Africa, invece di proporre una visione più dinamica delle molte e continue relazioni che il continente aveva con il mondo esterno […] Peraltro, molti di questi artisti e intellettuali vivono in Europa o negli Stati Uniti, dando vita a quello che Amselle definisce “un gioco ambiguo con l’ex potenza coloniale”7.

La forma-stato che il colonialismo centralizzatore, soprattutto francese, ha lasciato in eredità ha fatto poi sì che:

L’introduzione dello Stato civile, dei documenti di identità e dei censimenti etnici ha fortemente limitato la fluidità delle affiliazioni etniche e i cambiamenti d’identità ricorrenti in tutta la regione: “è così che gli attori sociali sono stati costretti a definirsi sulla base di un’identità mono-etnica e del corrispettivo stile di vita”. L’acuirsi delle tensioni, accentuato dalla caduta del regime libico di Gheddafi, ha inoltre fatto sì che questioni presuntamente etniche si siano intrecciate con questioni religiose e politiche, vedi i feroci scontri tra dogon “animisti” e peul islamici. A sessant’anni dall’indipendenza laddove in realtà c’è una situazione ibrida, mista, in cui agricoltori e pastori si mescolano, così come animisti e musulmani, dando vita a un mondo fluido, si è venuta invece a instaurare una società rigida, basata sull’etnia e sulla casta. Viene riproposta una gerarchizzazione tra “razze” civilizzate, peraltro considerate oggi pericolose per l’adesione al jihadismo, e “razze” incolte, ma pacifiche. I fantasmi coloniali, anche se mascherati da africani, sono ancora vivi e il merito di Amselle è, ancora una volta, di provocarci per indurci a guardare più in profondità, al di là della superficie, per comprendere meglio la complessità8.

Ecco, allora, che il testo edito da Meltemi si rivela di fondamentale importanza per approfondire l’interpretazione degli eventi, solo apparentemente disordinati e imprevedibili, che hanno percorso quella fascia continentale dell’Africa dal febbraio del 2022 (quando i francesi sono stati invitati a lasciare il Mali in 72 ore) e il luglio del 2023 (colpo di stato nigerino). Diciotto mesi durante i quali la storia del continente e del mondo ha ripreso a correre in direziona ostinatamente contraria a quanto voluto, sperato e narrato mediaticamente dai vertici politici, militari ed economici occidentali.

E se qualcuno non fosse ancora convinto di ciò, allora basterebbe paragonare il rapido abbandono di Kabul nell’autunno del 2021 con quello di Khartum nell’aprile di quest’anno. Due capitali, una dell’Afghanistan, l’altra del Sudan; la prima con 4.600.000 abitanti, a capo di uno stato di 650.000 kmq di estensione, e la seconda con 5.275.000 abitanti, a capo di uno stato di 1.800.000 kmq. Aree troppo vaste, troppo miserabili e troppo socialmente e religiosamente nemiche dell’ordine occidentale fin dall’Ottocento9 in cui il tentativo americano ed europeo di tenere in piedi governi fantoccio organizzati intorno alla corruzione e alla concessione di ricche prebende in cambio del libero sfruttamento di risorse fondamentali per l’economia capitalistica occidentale è andato bellamente a farsi fottere. E non per caso.

Un altro ammutinamento di militari scuote l’émpire africano della Francia. Attenzione: il punto centrale di queste giornate torride e stupefatte non è lo scandalo di un golpe. I presidenti francesi, dopo le finte indipendenze, ne hanno ordinati e commissionati a decine per tener in ordine il cortiletto della «grandeur». […] Ma fino a ieri i golpisti si mettevano sull’attenti quando le consegne dal numero 14 rue Saint Dominique, oggi chiamano loro per ordinare ai francesi di fare i bagagli. […] Comunque si sviluppi l’ammutinamento, il punto centrale è il modo in cui sulle rive del Niger, un fiume che per l’Africa è la sintesi della vita, il respiro, l’immediato domani, muore l’impero coloniale della Francia: miseramente, senza stile, tra bugie e porcherie. Questo capitolo disonorevole, sopravvissuto perfino alla logica, si sta sgonfiando come un pallone di gomma, di quelli che fluttuano in aria e poi con un fischio diventano uno straccio di plastica. La Storia, davvero, non finisce con un botto ma con un lamento. Volete un altro simbolo ancor più umiliante? Voilà: l’annuncio che nel vicino Mali il francese è stato abolito come lingua nazionale.[…] Già si ascolta, anche per il Niger, la solita tiritera che ribalta la gerarchia delle evidenze, ovvero che dietro l’ammutinamento ci sarebbe la diabolica mano della pestifera Wagner putiniana. La Wagner non ha inventato niente in Africa, ha solo riempito con traffici e violenza suoi i vuoti che la Francia, e l’Occidente, ha scavato in questi Paesi: con decenni di complicità interessate e di sfruttamento, coltivando servilità e prostituzioni dei suoi alleati al potere, consentendo la saldatura tra l’ingiustizia da denaro e l’ingiustizia da potere10.

Un richiamo cui forse non sfugge neppure il recente colpo di stato militare riuscito, dopo quello fallito del 7 gennaio 2019, nel Gabon11. Anche se, come sempre, è spesso difficile separare l’anelito all’indipendenza dalla Francia dei militari e dei popoli africani dai giochi dell’imperialismo e delle rivalità infra-europee ed occidentali12.


  1. M. Aime, Prefazione all’edizione italiana in Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 9-10  

  2. M. Aime, op. cit., p. 9  

  3. J-L. Amselle op. cit., pp. 143-144  

  4. Ibidem, pp. 144-145  

  5. Si vedano in proposito: T.Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed.originale inglese 2019) e M. Aime, La carovana del sultano. Dal Mali alla Mecca: un pellegrinaggio medievale, Giulio Einaudi Editore, Torino 2023  

  6. Ivi, pp. 37-81  

  7. Ivi, p. 12  

  8. ivi, p. 13  

  9. Quando per quasi vent’anni, tra il 1882 e il 1899, l’impero britannico fu costretto, insieme all’Egitto, a rinunciare al controllo del Sudan e del cruciale snodo geo-politico di Khartum, città posta tra i due principali affluenti del Nilo, dopo le sconfitte subite a causa della rivolta mahdista guidata da Muhammad Ahmad, proclamatosi mahdi, redentore dell’Islam, nel 1881.  

  10. D. Quirico, Niger, perché il colpo di Stato getta il Sahel nel caos più profondo, La Stampa, 28 luglio 2023  

  11. “La Francia ha sempre avuto fortissimi legami con il Gabon che è anche nell’area monetaria del Franco CFA, legato a Parigi, e l’esercito gabonese da anni viene addestrato dai militari francesi. Altri grandi player sono però presenti da anni in Gabon, soprattutto la Cina. Pechino è stata fra i primi a rilasciare un comunicato per chiedere garanzie sulla sicurezza di Ali Bongo, che in primavera era stato ospite di Xi Jinping per concludere una serie di accordi commerciali sullo sfruttamento delle risorse petrolifere. Gli stati confinanti come il Camerun ed il Congo non hanno ancora preso una posizione ufficiale, ma restano entrambi piuttosto vicini alla Francia, anche se in Congo le attività petrolifere sono in joint venture con aziende russe da anni. Già nel 2019 le forze armate avevano tento un colpo di stato in Gabon approfittando dell’assenza di Bongo, in Marocco per curarsi dopo l’ictus, ma in poche ore il governo gabonese aveva ripreso il controllo della situazione. Ora le cose sono diverse e nelle strade di Libreville regna la calma, compreso nel quartiere dove risiede la famiglia del presidente. Questo golpe arriva in un momento particolarmente critico ed in una regione nella quale i paesi sembravano molto più stabili rispetto al travagliato Sahel, un contagio molto pericoloso che potrebbe cambiare definitivamente gli equilibri del continente africano.” Matteo Giusti, I militari prendono il potere anche in Gabon. Un golpe che arriva in un momento particolarmente critico, “Il Riformista”, 30 agosto 2023  

  12. Si pensi, a solo titolo di esempio, che già alla fine dell’Ottocento il ritorno del dominio britannico nel Sudan Mahdista fu dovuto in gran parte al timore per le mire espansionistiche francesi che, potendo contare su una presenza nel Ciad, si sarebbero potute espandere nel Darfur e indebolire l’egemonia britannica nel nord e nell’est dell’Africa.  

]]>
Appunti sull’insurrezione algerina https://www.carmillaonline.com/2019/03/28/appunti-sullinsurrezione-algerina/ Wed, 27 Mar 2019 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51770 di Giacomo Marchetti

Ciò che sta avvenendo in Algeria da più di un mese – precisamente dal 22 febbraio – determina una rottura irreversibile con il “sistema Bouteflika” che ha governato il Paese dal 1999. Anche se questo movimento politico-sociale, inedito dalla conquista dell’indipendenza nel 1962, ha un carattere intergenerazionale, la spinta della fascia giovanile è fortissima. Più del 50% degli algerini – che sono poco più di 40 milioni e per il 70% vivono in realtà urbane – ha meno di trent’anni, il paese conta un milione e settecento mila studenti [...]]]> di Giacomo Marchetti

Ciò che sta avvenendo in Algeria da più di un mese – precisamente dal 22 febbraio – determina una rottura irreversibile con il “sistema Bouteflika” che ha governato il Paese dal 1999.
Anche se questo movimento politico-sociale, inedito dalla conquista dell’indipendenza nel 1962, ha un carattere intergenerazionale, la spinta della fascia giovanile è fortissima.
Più del 50% degli algerini – che sono poco più di 40 milioni e per il 70% vivono in realtà urbane – ha meno di trent’anni, il paese conta un milione e settecento mila studenti – di cui un milione sono donne – che non trovano sbocco nel mercato del lavoro dominato dall’economia informale e dal precariato sociale diffuso ed in buona parte sono costretti a vivere tra le mura domestiche dei genitori talvolta fino ai 30 anni circa.

Questi giovani che nella storica visita di Chirac circa quindici anni fa chiedevano al presidente francese “più visti” per potersi recare nell’Esagono, ora esprimono fieramente la volontà di voler rimanere nel proprio Paese contribuendo a cambiare radicalmente le condizioni di esistenza come recitano molti cartelli e riportano numerose testimonianze, alla faccia della paura di una “invasione” degli algerini prospettata da Marie Le Pen dopo lo scoppio della crisi.
L’immigrazione “clandestina” via mare e la possibilità di studiare all’estero erano le uniche vie di fuga che fino ad ora dominavano l’immaginario giovanile, ma da un lato l’ulteriore inasprimento delle politiche immigratorie dell’Unione Europea e dall’altro l’aumento (di più di 10 volte!) delle tasse d’iscrizione per un corso ordinario universitario in Francia così come per i master annunciati dall’esecutivo francese per gli studenti non-UE (gli algerini sono il terzo gruppo universitario dopo coloro che arrivano dal Marocco e dalla Cina) hanno ridotto ulteriormente le già aleatorie possibilità di cambiare orizzonte di vita.

Questa fascia della popolazione non ha vissuto direttamente il “decennio nero” – cioè l’epoca che ha contrapposto l’esercito alle milizie jihadiste degli anni Novanta – un periodo in cui sono perite dalle 150.000 alle 200.000 persone a seconda delle stime, 20.000 sono scomparse e circa 400.000 hanno lasciato il loro paese.
È una generazione che non ha conosciuto a maggior ragione le mobilitazioni della seconda metà degli anni Ottanta duramente represse e i primi tentativi frustrati di trasformazione del sistema politico congelati dopo la vittoria elettorale del FIS poi annullata, e l’inizio della guerra civile.

Da allora lo jihadismo non è stato sconfitto solo “militarmente” ma è stato neutralizzato all’interno di una politica di riconciliazione nazionale – propugnata da Bouteflika – sostanziata da una redistribuzione della rendita degli idrocarburi – unica ricchezza del paese, ma ora in forte declino per una serie di ragioni non solo legate all’abbassamento del prezzo del petrolio – nel mentre si procedeva comunque ad una politica di privatizzazione che ha creato una oligarchia di rentier la cui fortuna – o la caduta in disgrazia – dipendeva dalla capacità di accaparrarsi pezzi di beni ex-pubblici con il bene placido del potere politico.

Non sono naturalmente mancati momenti di forte mobilitazione in questi anni, comunque duramente repressi, come in Kabylia con la cosiddetta “primavera nera”.
E proprio questa importante componente della popolazione – e dell’esilio – è molto attiva e fortemente presente nelle mobilitazioni, e predilige ribadire il suo carattere “nazionale” e le richieste politiche di cambiamento sistemico neutralizzando la consolidata strategia di divisione portata avanti dall’establishment.

Ma non sono solo i giovani a “ribellarsi” riempiendo con manifestazioni oceaniche le strade e le piazze di Algeri e delle altre realtà del Paese, accanto a loro ci sono state continue mobilitazioni di medici, avvocati, insegnanti, magistrati(!) e di parti del movimento operaio organizzato in rotta di collisione con la dirigenza sindacale dell’UGTA, e il piccolo commercio di prossimità che in occasione dello sciopero generale “spontaneo” ha chiuso (a seconda della città) i propri esercizi.
Le mobilitazioni sono state pacifiche, cariche di una ironia particolare, e con cori che riprendevano la tradizione “patriottica” della lotta di liberazione nazionale (1954-62) insieme a famose canzoni delle tifoserie calcistiche popolarizzate da youtube di aperta critica al sistema di cui la più famosa è la “Casa del Mouradia” dei supporters del USM d’Algeri.

Le manifestazioni prima si opponevano alla possibilità che l’ottuagenario presidente si candidasse per il quinto mandato consecutivo ed ora vista la rinuncia si oppongono ad una transizione gestita di fatto dalla classe dirigente attuale, si oppongono sempre più chiaramente al “sistema” tout court, venendo disilluse le più banali richieste di realizzazione della sovranità popolare che anche la Costituzione teoricamente garantirebbe.
Come ha detto un manifestante: “volevamo le elezioni senza Bouteflika, ora abbiamo Bouteflika senza elezioni” riferendosi al fatto che le elezioni sono state rimandate sine die, dovranno essere precedute dal una conferenza nazionale che senza margini temporali definiti dovrà varare una nuova costituzione che sarà poi sottoposta a referendum e poi si procederà a nuove elezioni.
Nel frattempo il presidente resta in carica…

I due uomini designati per la formazione del nuovo governo – entrambi espressione del vecchio entourage – stanno cercando all’estero il consenso di cui in patria non godono per attuare la loro strategia di “transizione” con il bene placido delle cancellerie occidentali – tra cui quella italiana – e dei partner strategici con cui intrattengono rapporti come la Russia (maggiore esportatrice di armi verso l’Algeria ed ora importatrice anche di grano) e la Cina, uno dei partner economici privilegiati che ha una notevole presenza “umana” (40.000 cinesi vivono in Algeria), oltreché economica e per cui l’Algeria è uno snodo centrale della “Nuova via della Seta”, nonché pivot per la rete infrastrutturale verso l’Africa sub-sahariana.

La comunità algerina all’estero sta sostenendo le mobilitazioni algerine.
In Francia dove vivono 760.000 algerini recensiti, nelle città dove la loro presenza è maggiore, come Parigi e Marsiglia per esempio, si stanno succedendo partecipatissime mobilitazioni domenicali che sono una sorta di contro-coro alle oceaniche mobilitazioni del dopo-preghiera del venerdì dove milioni di algerini invadono le strade e le piazza di tutte le città del paese.
Certamente la mobilitazione algerina più che in continuità con le cosiddette “Primavere Arabe” è contigua alle manifestazioni di insofferenza che una nuova generazione di militanti africani sta portando avanti nei loro paesi contro il neo-colonialismo francese benedetto dall’Unione Europeo di cui il Franco CFA e la presenza militare francese sono i segni più tangibili, nonostante il tentativo di depotenziamento e di cooptazione messo in atto da molte ONG occidentali che agiscono in profondità nel tessuto degli attivisti più giovani per annacquare le richieste e le pratiche dei nuovi “dannati della terra”.

Numerose sono state le dimostrazioni di astio nei confronti di Macron e del suo entourage teso ad una nuova politica di ingerenza che supporta la transizione in stile gattopardesco promossa dall’establishment.
Per altri versi la mobilitazione algerina ricorda quella che da dicembre sta scuotendo il Sudan contro la dittatura di Bashir, anche se in questo paese africano si è partiti da mobilitazioni scaturite dall’aumento sui generi di prima necessità a dicembre che hanno incontrato una durissima repressione a differenza di ciò che succede in Algeria, dove Esercito e Forze dell’Ordine che sono le parti dello stato che godono di maggiore fiducia in buona parte della mobilitazione e che hanno avuto sempre un ruolo di garante ultimo dell’assetto politico in periodo di grave crisi non sono minimamente intervenuti, tranne alcuni episodi irrilevanti che non hanno dato luogo ad un escalation della violenza da nessuna delle parti.

È una situazione molto delicata, quella algerina, ma che può essere gravida di risposte sia per la possibilità riappropriarsi di una rappresentanza politica istituzionale aliena dalla cricca di oligarchi che fino a qui ha governato il paese dopo il “decennio nero” arricchendosi alle spalle degli algerini, sia per la sua possibilità di sganciamento dai tentacoli del neo-colonialismo occidentale, sperimentando una organizzazione economica che si distacchi dal modello attuale di paese esportatore di idrocarburi ed importatore di beni di prima necessità, rendendolo “dipendente” da fattori che non fanno che impoverire la popolazione ed “in declino” vista l’agguerrita concorrenza internazionale, la riduzione delle capacità produttive e l’oscillazione del prezzo al barile.

In questo senso sono molto interessanti le esperienze di discussione e di organizzazione che si stanno sviluppando a livello territoriale e di settore – come i campus universitari – che costituiscono una preziosissima esperienza di educazione politica di massa. È nell’ampliamento e nel consolidamento di queste esperienze di democrazia di base che si gioca anche il futuro del movimento; esperienze che sono propedeutiche sia ad una ipotesi di trasformazione che bandisca la peste jihadista sia ai tentativi di recupero dei vari cavalli di troia della tendenza ultra-liberale collegata a doppio filo con i poli imperialistici internazionali che vorrebbe “sfruttare” le mobilitazioni per imporre una agenda più marcatamente liberista sotto le mentite spoglie della “democrazia aperta”.

Per tutti questi motivi le parole di Frantz Fanon nei Dannati della Terra trovano un valore profetico quando affermava quali fossero i compiti immensi dopo l’acquisizione dell’indipendenza: “il popolo verifica che la vita è combattimento interminabile”.
Ed il popolo algerino sta vivendo una seconda indipendenza.

]]>
La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/02/la-controfigura-2-eduardo-rozsa/ Sat, 02 May 2015 20:23:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21991 di Luisa Catanese 

Seconda parte  [Qui la prima parte]

tumblr_lci97cNbNO1qb0bzxo1_1280Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania… Per Eduardo non piango una sola lacrima perché non saprei chi sto piangendo. Ora che sono padre provo a pensare che i suoi genitori sono morti prima di lui: non gli capiterà di leggere e di ascoltare quello che si dice e si scrive di loro figlio. Eduardo Rózsa Flores era un mercenario che voleva uccidere il presidente Evo Morales. Era un neofascista [...]]]> di Luisa Catanese 

Seconda parte 
[Qui la prima parte]

tumblr_lci97cNbNO1qb0bzxo1_1280Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania… Per Eduardo non piango una sola lacrima perché non saprei chi sto piangendo. Ora che sono padre provo a pensare che i suoi genitori sono morti prima di lui: non gli capiterà di leggere e di ascoltare quello che si dice e si scrive di loro figlio.
Eduardo Rózsa Flores era un mercenario che voleva uccidere il presidente Evo Morales. Era un neofascista che intendeva promuovere l’insurrezione e la secessione del dipartimento di Santa Cruz, ricco di risorse, dal resto della Bolivia. Dunque, prendo nota: organizzazione di una milizia, repressione dell’esercito statale, intervento straniero, riconoscimento dell’indipendenza o di qualcosa di simile.
Prima di partire per l’America Latina ha rilasciato un’intervista a un giornalista ungherese: affermava di non aver nulla contro Morales, ma che presto sarebbe tornato nel paese natale per organizzare la difesa dall’imminente attacco dell’esercito boliviano.
Su un periodico venezuelano si sostiene che chiunque dipinga Rózsa Flores come fascista è un diffamatore: lui era amico del rivoluzionario, prigioniero politico nelle carceri francesi, Ilich Ramírez. Visto che Ramírez, detto Carlos lo Sciacallo, è un pen-friend del presidente Hugo Chávez, alleato fraterno di Evo Morales, allora Rózsa Flores non può che essere un combattente per la libertà e per la giustizia.
Leggo qua e là che Eduardo Rózsa Flores collaborava con la CIA. Faceva il doppio o magari il triplo gioco. È stato chiamato in Bolivia dalle forze di sicurezza governative per decapitare l’organizzazione dei secessionisti: ha esplosivo che può avergli dato solo l’esercito boliviano. Le forze speciali dell’esercito lo hanno ucciso perché non risultasse che era stato reclutato per colpire affaristi, faccendieri, uomini politici secessionisti.
Era legato a croati di estrema destra, residenti in Bolivia nel dipartimento di Santa Cruz, loschi figuri che trafficano armi e droga. Aveva senza dubbio legami stretti con riviste di destra e collaborava con Jobbik, partito di estrema destra ungherese, che pare non disdegni di essere finanziato da potenze straniere del Vicino e Medio Oriente e da gruppi dell’Islam radicale.
Dai magiari più nazi, che per qualche tempo forse lo hanno considerato un camerata o un possibile alleato, ora viene giudicato un ebreo, un falso eroe, un agente bisessuale del Mossad, infiltrato nella destra ungherese.
C’è l’imbarazzo della scelta, insomma. Era uno psicopatico, uno Zelig nazionalista alla ricerca del pericolo per farsi di adrenalina e morire come un Che Guevara? No, dice qualcuno, era un impulsivo che si butta generosamente nella mischia senza riflettere: uno che ha tutti i pezzi del mosaico in tasca, ma li ricompone troppo in fretta e male. Lo possiamo dunque immaginare come una creatura di laboratorio, fuggita dalle gabbie del socialismo autoritario, una chimera che cuciva insieme le membra del cane da guerra e del capro espiatorio? No, assicura un altro, aveva un progetto chiaro. Era un musulmano sincero, la cui memoria viene infangata: un combattente internazionalista dell’Islam politico, vittima di un complotto.
Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania. Vedo altri due uomini, vivi, un croato e un ungherese, che presto saranno chiusi nelle galere della Bolivia: sono incappucciati, in ginocchio, la schiena nuda, segnata. Vedo Eduardo che abbraccia i suoi commilitoni, che ancora ride, che mostra all’obiettivo pistole e munizioni disposte su un tavolo. Lo vedo mentre finge di dormire tra due armi automatiche, con la testa su un guanciale e la mano sinistra poggiata sulla pancia, coperto solo da un lenzuolo che lascia in mostra la maggior parte del suo corpo tarchiato, pesante. Vedo le foto del suo cadavere supino: addosso ha un orologio e un braccialetto di corda sottile, un tatuaggio sulla spalla sinistra, un altro più piccolo sulla spalla destra, i fori delle pallottole. Lo zigomo destro è livido e lacerato, la fronte e il naso sembrano contusi. Tanto sangue rappreso a terra, tra il corpo e il pavimento.
«L’obiettivo del fotografo è dalla parte della testa. Il corpo è disteso e preme lungo una cassettiera. L’avambraccio destro è sollevato da terra, il polso è piegato; le nocche, il pugno semiaperto poggiano sulla parte bassa del torace. Il braccio sinistro, che preme contro la cassettiera, attraversa il petto. C’è un cassetto aperto che pende sul corpo. Non si capisce da dove venga questo cassetto. Sembra che lo abbiano aperto per sostenere uno di quei cartoncini gialli che si mettono sulla scena del delitto. Sul cadavere c’è questo cartoncino giallo e sopra è scritto il numero uno. Il cartoncino poggia sul cassetto e sulla pancia. I genitali e l’ombelico sono coperti dal cartoncino. I capezzoli sono coperti dal braccio sinistro. C’è qualcosa che vela un angolo della foto e la parte superiore della testa, dove i capelli sono più radi».
«L’hanno ucciso senza troppi complimenti, ma sembra che abbia approvato la sceneggiatura. Se è una fiction, dobbiamo aspettarci di rivederlo ancora vivo».
«Nato e morto a Santa Cruz. Ucciso in Bolivia come Che Guevara. Forse tradito. Eroe e vittima… Lo devo dire a Daniele».
«Credi che volesse morire così?»
«Ho trovato l’intervista a un uomo e a una donna ungherese. Sono presentati come il miglior amico e la fidanzata. L’amicizia risale al 1998. Invece con la fidanzata stava insieme da tre o quattro anni. Si erano conosciuti in un parco di Budapest, dove portavano il cane; ma non ci abitavano più a Budapest, si erano trasferiti in una cittadina di campagna. Ho visto la foto della donna. Sullo sfondo c’era un orto».
«Viene fuori qualcosa?»
«L’amico conferma la versione di Eduardo. Quello che dice nell’intervista rilasciata prima di partire: io non ce l’ho con Evo Morales, vado là per difendere Santa Cruz dall’esercito. L’amico dice che Eduardo alle elezioni stava dalla parte di Morales: un indigeno, una bella novità per la Bolivia eccetera eccetera. Ma poi la novità indigena in pochi mesi diventa il rischio di una dittatura ed Eduardo Rozsa Flores doveva salvare la patria, che non è più l’intera Bolivia ma solo il dipartimento di Santa Cruz. Poi va a Santa Cruz e la situazione non è quella che si aspettava…»
«Lo dice questo fantomatico amico? Che cosa vuol dire?»
«Io ti riferisco che il giornalista dice che l’amico magiaro dice che Eduardo diceva… Eduardo si aspettava un’altra situazione. La situazione in cui si trovava era diversa da quella per cui si era preparato un piano. Non lo so, troppo fumo, contraddizioni, ingenuità poco credibili. La fidanzata sostiene che Eduardo non apprezzava la vicinanza tra Morales e Chávez. Però, sei mesi prima che l’uccidano, Eduardo viene intervistato da un venezuelano, vicino a Chávez, nonché ammiratore di Ilich Ramírez, lo Sciacallo, che come sai era una vecchia conoscenza di Eduardo. L’intervistatore chiede a Eduardo: che cosa ne pensi della fase politica, cioè di Hugo Chávez? Eduardo ci gira un po’ intorno, non si sbilancia sulla politica interna venezuelana: la butta sulla fratellanza e l’avvenire dei popoli dell’America Latina, un continente attraversato da un vento di rinnovamento. Poi, però, dice chiaramente di apprezzare la politica estera di Chávez: Palestina, Iran… Non te la faccio lunga. Esiste forse una coerenza nascosta, un filo di qualche colore che tiene unite le toppe. Però Eduardo continua a cantarla in modo un po’ diverso secondo il pubblico… Uno che è fuggito da un paio di golpe in Sud America, che ha servito l’esercito nel Patto di Varsavia, pensa che Evo Morales aspiri alla dittatura? A me sembra ridicolo, assurdo, o almeno molto strano. Forse sono io superficiale. Secondo la fidanzata, Eduardo in Croazia formò la sua brigata internazionale per proteggere gli inviati di guerra, dopo che alcuni giornalisti stranieri erano stati uccisi».
«Era una donna nei secoli fedele. Pensi che sia davvero così ingenua?»
«Il busto di Stalin, che teneva in camera da letto, era stato ricollocato nel giardino di casa loro. Ci aveva scritto sotto: “Vomitate qui”. E quando c’era una festa, gli invitati sbronzi potevano vomitare in faccia a Stalin».
«Ha mai detto una sola volta: io ho sbagliato?»
«Ogni volta dissimula qualcosa. Vuole eliminare le contraddizioni. Forse il busto di Stalin, quando abitava coi genitori, lo teneva in camera per fare un dispetto al padre. O magari gli cambiava di posto, secondo l’ospite… Dopo essere stato in Russia alla scuola del KGB, ha un’illuminazione: “Mi resi conto che tutto era puro teatro, parole vuote, che non significavano nulla”. L’ho trascritto da un’intervista recente. Però a quei tempi continuava a lavorare per i servizi segreti ungheresi. E allora non si capisce bene cosa fossero questo “puro teatro” e queste “parole vuote”. Il teatro gli piaceva moltissimo. E non era solo teatro: la guerra e la polizia segreta le sapevano fare bene. Lui partecipava e ha imparato. Nel regime ci stava di casa, come soldato, come agente segreto».
«Lì non preparava insurrezioni».
«Forse sì, in Romania, per la minoranza magiara. Ma siamo già in un romanzo… In Ungheria non credo, ma a questo punto… Daniele si ricorda che diceva parole di ammirazione per János Kádár, che ha governato l’Ungheria per decenni. Ci indicava la casa. Lo stimava. Forse era riconoscenza…»
«Le parole vuote che sentiva a Mosca potevano essere uguaglianza, proletariato, internazionalismo. Doveva trovarle così vuote che, per dare sostanza al suo teatro, e a se stesso, e forse anche alla sua vaga idea di giustizia, poi ha riempito gli stampi col materiale che trovava per strada».
«La sua idea di autodeterminazione, applicata alla realtà, sembra una versione di destra del frazionismo dell’estrema sinistra. I suoi amici negano che lo facesse per soldi. Ho provato a scrivere su un foglio tutte le definizioni, oltre a mercenario, che mi venivano in mente o che trovavo scritte su di lui. Sei pronta? Islamista rivoluzionario, anti-imperialista e anti-capitalista, ma disposto ad alleanze tattiche con chiunque, con nazionalisti o con potenze locali e mondiali; sovranista, giustizialista, rossobruno, montonero di religione islamica; socialfascista, neofascista, socialista nazionale o, se preferisci, nazional-socialista delle piccole patrie; autonomista differenzialista; nazionalista antiautoritario, anarconazionalista, etnoinsurrezionalista…»
«Basta anche meno».
«Potrei continuare. È più utile rintracciare le contraddizioni, le continuità…»
«Stava nella corrente. Voleva partecipare, ma voleva ancora di più essere un protagonista. Si adeguava ai luoghi e ai tempi, ma non faceva autocritica. Nascondeva le contraddizioni, sbianchettava una parte del suo passato. Le cancellature, gli errori non si dovevano vedere. Desiderava sentirsi al centro del mondo. Aveva un ego smisurato».
«Mostra una vocazione religiosa, missionaria, umanitaria: si converte a ogni cambio di stagione, dopo la caduta di Saddam Hussein si propone come mediatore o come portavoce del governo provvisorio dell’Iraq, porta aiuti umanitari in Sudan e in Indonesia, muore come un martire a Santa Cruz».
«Non poteva scegliere un luogo migliore».
«Rozsa e Croce… Opus Dei, Rosa e Croce. E nel 2007 ha scritto versi sufi in ungherese».
«Già su questo si potrebbe scrivere un romanzo».
«Ma ha un’altra vocazione, forse più sincera, o forse no, per le armi e la guerra. Per lui la lotta di classe era diventata una di quelle parole vuote. Alla fine degli anni Ottanta le minoranze nazionali gli sembrano più tangibili, più disponibili, più facili della lotta di classe».
«Sembra che il conflitto non possa essere altro che lotta armata, guerra di soldati. Guerra tra popoli; mai lotta di proletari, operai, scioperi, movimenti. Mai movimenti di donne. Un affare di maschi armati che si mettono in posa per un film o per una foto, a quanto vedo. Uomini che spargono sangue per spartirsi la Terra. Non mi hai parlato quasi mai di donne. C’era la madre ed è morta. Mi hai raccontato che aveva qualche storia…»
«Delle hostess. Me l’ha ricordato Daniele».
«C’è l’ultima fidanzata che ripete quello che lui dice, e forse ci crede. Dove sono i proletari? Dove sono le donne? Nella sua vita, nella Storia…»
Le donne nella sua vita, nella Storia… Durante il viaggio in Europa, mentre Daniele riusciva a trovare il tempo per leggere qualche pagina in francese del saggio De l’amour, il suo balordo compagno di stanza, che si sentiva in dovere di conoscere molte ragazze, prima di uscir la sera trovava giusto il tempo per lavarsi e cambiare la biancheria. Avremmo incontrato, conosciuto, parlato, solo parlato, con parecchie ragazze ma non a Budapest.
«No, compañera. Le donne in lotta non stavano nel fascio di luce… Era fidanzato. Lei dice che si sarebbero sposati presto».
«Che poi fosse bisessuale o no non cambia niente. Sui diritti dei gay scommetto che la pensava più o meno come il collega Vladimir Putin. Direi che gli piacevano le persone che affascinava, che accettavano la sua autorità».
«Una donna c’è: sua sorella ***. Io e Daniele non l’abbiamo incontrata perché non era a Budapest. È l’unica rimasta della sua famiglia».
«Già, me l’avevi detto».
«In un’intervista viene fuori che il fratello con le sue donne era un po’ despota. Dice che la relazione più lunga era stata con una chica russa che lo avrebbe definito l’uomo della sua vita. Non so se questa ragazza esiste. Mi pare che a Budapest lui frequentasse un’ungherese. Non era la chica russa di cui parla la sorella. Noi non le abbiamo mai viste. In un parco una sera ci ha presentato un paio di ragazze. Non abbiamo fatto a tempo nemmeno a dire due parole».
«La sorella esiste, però».
«Dirige il Museo di Arte contemporanea a Santa Cruz. In quel museo ci sono anche i quadri del padre».
«Dunque, esiste. Ormai esiste più del fratello».
«Nel film su Eduardo lei non esiste. Il protagonista non ha una sorella».

Verosimile ma falso. Inverosimile ma vero. Ogni verità sembra parte di una menzogna, dice Luisa. Ogni scelta sembra sfuggire a una strategia chiara.
Dovrei prendermi la briga di cercare i suoi libri, i suoi articoli in ungherese. C’era un ragazzo di Napoli o di Salerno che avevo conosciuto in sala studio… Ha vissuto per anni in Ungheria, e chissà dove abita ora: lui potrebbe aiutarmi a tradurre, se trovassi il suo indirizzo, se ricordassi ancora il suo cognome. L’ho rivisto per caso una volta che passava a Bologna; gli ho chiesto se conosceva il nome di Eduardo, che ancora era vivo, e gliel’ho ripetuto tre volte, ma lui niente, mai sentito. Avevo scritto l’indirizzo su un biglietto che ho infilato nel portafoglio, che poi ho svuotato in un cassetto, che poi ho riversato in uno scatolone prima del trasloco… Tre scatoloni sono ancora chiusi, in cantina. La carta è più difficile da falsificare. Le enciclopedie online vengono continuamente modificate. Di Eduardo ci sono poesie, memorie, scritti politici, articoli sui giornali. È tutto una menzogna, un alibi? Devo mettere tra parentesi le sue imprese in Croazia e i suoi rapporti con l’estrema destra ungherese. Provo a prendere sul serio le sue parole.
«L’immoralità, la menzogna, i crimini commessi in nome del “socialismo reale” sono imperdonabili. Bisogna usare molto detersivo per lavare questa ignominia. Ti parlo della realtà, non delle idee. Non della necessità, che davvero esiste, di costruire una società più giusta. Bisogna in primo luogo tenere in considerazione i veri desideri del popolo. Ciò che facciamo non è contro ma per il popolo, nell’interesse delle nostre nazioni. Imparai a odiare le famigerate élite del campo socialista per un semplice motivo: questi miserabili erano più interessati, anzi, erano interessati solo a restare al potere, con i loro privilegi, coi loro vantaggi. Per loro il “socialismo” era solo una copertura, che non aveva nulla a che fare con ciò che in basso, il popolo, sentiva e desiderava. Sono arrivato alla conclusione che non si può parlare di socialismo né realizzarlo se non si rispettano pienamente la libertà e il diritto all’autodeterminazione, sia degli individui che compongono la società, sia dei popoli e delle nazioni. Se no che cosa ci distingue da quelli che diciamo di odiare, se commettiamo i loro stessi errori, i loro stessi crimini. Una cosa è prendere il potere, con o senza armi, imporre una direzione, innescare un processo. Ma più tardi non è possibile prendere tutte le decisioni, necessarie o no, al posto del popolo, per cui abbiamo preso il potere o fatto la rivoluzione o vinto una guerra di indipendenza. Per questo ritengo che uno degli esempi più validi sia quello della Rivoluzione sandinista in tutto il suo sviluppo… Nessuno ha il diritto di soppiantare il popolo. Noi siamo servi, impiegati, schiavi di una causa, e non abbiamo più diritti degli altri. Sulle nostre spalle abbiamo doveri, compiti da adempiere».
Lo pubblica il 31 ottobre e muore ucciso il 19 aprile, in compagnia di un contractor irlandese e di un magiaro transilvano di estrema destra, che cantava e scriveva canzoni.
Bisogna usare molto detersivo per lavare questa ignominia, diceva. Bisogna lavare l’ignominia del passato con un sapone nero, esfoliante. Sapone di Croazia, abluzioni rituali, candeggina Jobbik.
Per loro il socialismo era solo una copertura. I veri desideri del popolo. Nell’interesse delle nostre nazioni.
Quali desideri? Quali nazioni? Quanti desideri, quante nazioni? Bisogna dividere chi canta la ninna nanna in serbo-croato da chi la canta in croato-serbo. I bambini potrebbero confondersi. Gli altri fanno il segno della croce al contrario. Chi vuole ricevere una cartolina in cirillico sta da una parte, chi la desidera in alfabeto latino dall’altra. Quali desideri del popolo? I desideri del popolo prima di colazione o dopo cena? Quale popolo? Il popolo del dipartimento, della provincia, del comune, del quartiere, del condominio… I desideri di un imprenditore sono i desideri del popolo? Sono legali o illegali questi desideri? Per quanto tempo? Quanti giorni prima e quanti giorni dopo aver votato a un referendum o alle elezioni?
Il popolo desidera servire chi parla e prega in dialetto. Non vede l’ora di lavorare per i capaci e i meritevoli della sua piccola grande patria. Equilibrismo, stare a galla, volontà di emergere, cavalcare la tigre. Dal piccolo padre alla piccola patria. Dalla periferia bisogna tornare in centro; poi ci ritiriamo in campagna a coltivare l’orto; e finalmente vai a morire ammazzato sotto la Santa Croce materna. Voleva essere ricordato. Era un protagonista secondario. Ha vissuto molte vite, una vita romanzesca. Ha giocato su più tavoli. Tutte le nazioni giocano lo stesso gioco? Un’alleanza tra una parte dell’islamismo radicale e movimenti nazionalisti di destra contro il nemico. Contro il capitalismo globale, contro l’impero, contro gli imperi? Cerca alleati per combattere il nemico, ma come fa a invitare tutti gli amici al compleanno? Alle feste beveva alcolici? E durante il Ramadan? Perché combatte contro Morales? È troppo moderato, troppo pacifico, troppo indio? Neanche la socialdemocrazia della Svezia era abbastanza eroica. Il presidente indio pianifica di segregare, deculturare, sbattezzare, sterilizzare, drogare, umiliare, sfruttare, torturare, incarcerare, tassare i borghesi cattolici bianchi di Santa Cruz? Chi è questo imprenditore boliviano di destra, questo Branko Marinkovic Jovicevic, figlio di un croato, che vuole la secessione?
Poniamo che Eduardo non fosse in Bolivia per assassinare Morales. Mettiamo che non volesse uccidere qualche notabile locale, a destra o a manca, perché si gridasse al lupo, per giustificare una secessione, per rendere vero il risultato di un referendum ritenuto illegale. Lo hanno ucciso senza armi in pugno, senza processo. E forse lo hanno anche torturato. Ma non riesco, Luisa, a trovare una ragione per il resto. Non riesco a trovare una sola ragione per riabilitarlo, giustificarlo, scagionarlo… Per riconoscerlo come un amico, per perdonargli di avere assunto le sembianze e il ruolo di un nemico. Questo non è un gulag. Qui dentro lo giudico. Voglio e posso confrontare quello che dice con quello che fa, quello che fa oggi con quello che faceva ieri, quello che dice a te con quello che dice a un altro, quello che fa con uno con quello che fa con un altro, quello che dice e fa con i risultati che si producono nel mondo… Perché organizzare una milizia contro il governo boliviano? Infuriava la repressione? Perché favorire una cricca di proprietari bianchi avversi al presidente indio, eletto e confermato dal voto? Perché una faccia nota, un nome noto, uno come Eduardo che scrive e parla volentieri, che si fa notare in mille modi, dovrebbe riuscire a giocare alla guerra senza pagarne il prezzo? Perché sta in posa sul letto di un albergo di non so dove fingendo di dormire tra due armi automatiche? Perché parte in quarta, perché si gingilla con le armi, perché rischia di innescare una guerra civile, la secessione di una regione che non è colonizzata, che non è davvero assediata dall’esercito, che non subisce un’oppressione razzista o di classe?
Volevi evitare che Santa Cruz fosse schiacciata dalle forze armate boliviane? Non mi pare che sia successo. Sulla tua lapide qualcuno potrà scrivere le parole vittima, eroe, sacrificio. Col tuo sacrificio hai impedito che l’esercito della Bolivia mettesse a ferro e fuoco la tua città natale o con la tua morte hai legittimato l’invio di forze militari nella regione? Hai giustificato e favorito, in forma più blanda, quello che ritenevi una minaccia? Hai sventato un complotto contro Morales? Hai aiutato il governo a sgominare una banda di affaristi che volevano la secessione?
Ho letto che negli ultimi anni Evo Morales ha aumentato il suo consenso nel dipartimento di Santa Cruz. Sono ignorante, vivo a migliaia di chilometri. Sono un moralista ottuso. Mi hai fatto bere champagne a digiuno. Mentre ero nudo in un bagno turco, mi hai detto: «No, non credo che siamo pronti per la democrazia: io sono per la monarchia costituzionale».
Vuoi cambiare idea? Ne hai diritto, compagno post-stalinista. Ma prima di passare al nazionalismo del popolo grasso devi chiedere scusa. A qualcuno devi chiedere scusa. Devi chiedere scusa anche a me.

Lo hanno ucciso. Non posso testimoniare che le teste di cuoio lo abbiano torturato. Sulle schiene dei due che sono ancora vivi qualcuno riesce a distinguere segni che i miei occhi non riescono a vedere. Sono quasi sicuro: lo hanno ucciso mentre era disarmato. Forse li hanno lasciati morire dissanguati. La porta è sfondata, il camerata irlandese è a terra bocconi. Si intravede un tatuaggio sull’omero sinistro, il grande letto è disfatto, da una grande borsa fiorisce una sporta di plastica bianca. Il frigo bar è aperto, il televisore che guarda verso i letti è al suo posto, intatto. L’irlandese è morto tra il televisore e il letto. Due sedie stanno attorno a un piccolo tavolo tondo, la camicia di Eduardo è poggiata sullo schienale di una sedia, un’altra camicia sull’altro schienale.
Ecco l’obitorio. Ci sono tre corpi distesi su tre tavoli. Uno, due, tre teste a destra. Tre corpi su tovaglie che sono buste di plastica grigia. Oltre i cadaveri c’è una finestra, piastrelle bianche. Dalla parte dei piedi, in un angolo, appeso alla parete, c’è un tubo di gomma arrotolato. Ci lavano i pavimenti e tutto quello che si può lavare. L’acqua e il sangue escono da un tombino, come in una grande doccia. La luce al neon viene dall’alto. Un uomo canuto, calvo, capelli corti, grandi occhiali, vestito di bianco, guarda Eduardo in faccia. Sul petto del morto è posato qualcosa che somiglia a un piccolo sacco di carta marrone. Il torace dell’irlandese è ancora sporco di sangue. Il mento è alto, la bocca semiaperta. Il terzo cadavere, vicino alla finestra, ha la testa reclinata verso sinistra, le braccia rigide, gli avambracci sollevati. Sembra che i polsi siano legati.
Ti rivedo su un tavolo. La luce è diversa. Ti guardiamo da sopra la testa. Ti tocca un guanto che riveste la mano sinistra di una donna. La mano poggia, copre il pettorale destro. Il corpo è pulito; i capelli corti, radi, sono ancora bagnati. Non saprei dire se quelli che vedo sono i fori di sette pallottole. Un colpo, una ferita, una bruciatura è vicina alla clavicola. Sembra piovuta dall’alto. Ne ho abbastanza. Se gli sbirri boliviani sono cattivi, voi tre mi piacete ancora meno. Non lo so, non me ne intendo, non sono un medico legale, ho la nausea.
L’irlandese è stravolto; tu invece hai la faccia serena, quasi sorridi. Si dice spesso: sembra che dorma. Ti hanno ricomposto il viso, ti hanno lavato. Ti hanno portato fuori dall’albergo. Qualcuno, immagino, ha riconosciuto il tuo cadavere. Eri davvero tu il parassita inquieto che sommuoveva il sacco sigillato di finta pelle?
«Aveva pubblicato questa intervista, nel suo blog, sei mesi prima di morire in Bolivia. Qui, leggi tu dallo spagnolo, dichiara di apprezzare la Rivoluzione sandinista. In tutto il suo sviluppo, dice. Direi che si riferisce al sandinismo fino a oggi… Esiste l’Alleanza bolivariana per l’America Latina. Nicaragua, Bolivia, Venezuela, Cuba, quando è stato ucciso, erano già alleati. Perché lui dovrebbe andare a uccidere Morales? Perché dovrebbe favorire la secessione del dipartimento di Santa Cruz? Se si prendono sul serio le sue parole, queste sue parole… Forse non dovrei prenderlo troppo sul serio. A volte immagino, non ci credo, non sono così matto, ma immagino che sia vivo da qualche parte. E mi viene da pensare al Nicaragua. Forse c’è stato negli anni Ottanta. Prima di te. Era un militare. Un giornalista italiano scrive che gli mostrò una foto, un ritaglio di giornale, in cui Eduardo, con occhiali da sole, col kalashnikov in mano, stava dietro a Daniel Ortega…»
«È possibile. Quando i paesi socialisti europei rifornivano di armi i paesi fratelli, c’erano degli esperti che accompagnavano la spedizione…».
«Eduardo diceva che l’uomo della foto non era lui. Era un sosia. Penso che sia vero in ogni caso. Lui è stato più volte il sosia di se stesso… Mi viene da pensare che in Nicaragua vive un sosia di Eduardo che forse è Eduardo. Me lo immagino su una spiaggia. Non so se gli piacesse il mare. Gli piacevano i bagni turchi, le saune e le piscine. E senz’altro gli piaceva tenere pochi vestiti addosso. Tu, Giorgio, vorrei che mi dicessi se c’è un posto in Nicaragua dove ti saresti rifugiato, per viverci, per nasconderti».
«A Casares, all’hotel El Casino. Era una vecchia costruzione in legno, stile coloniale: un enorme patio interno, dove si mangiava, e tutte le stanze al piano di sopra… Tra una stanza e l’altra c’erano solo divisori: i letti, i rumori, gli odori, ogni cosa sotto lo stesso grande soffitto, e anche i pipistrelli che volavano dentro. Ai piedi dei letti c’era la polverina gialla contro le zecche. Sembrava di tornare indietro di un secolo. Ricordo che servivano le langostas tamaño familiar. Ogni tanto si sentiva ovunque un sibilo, più che altro un acuto. Annunciava l’ennesima aragosta che finiva viva nella pentola dell’acqua bollente di Doña Florinda, che poi morí sotto le macerie del suo hotel. E poi si digeriva con la solita media de Flor de Caña 7 años… El Casino fu distrutto dal maremoto del 1992. Sì, sul Pacifico. L’hanno ricostruito…»
«Forse un giorno mi arriverà una cartolina dal Nicaragua».

Ogni verità sembra parte di una menzogna, dice Luisa. Ogni sua scelta sembra sfuggire a una strategia univoca: «C’è chi ritiene che ci siano strategie senza stratega. Alcuni strateghi possono essere piccoli azionisti di una strategia più grande. Chi possiede quote di una piccola strategia, che controlla a sua volta quote minoritarie di una strategia più grande, si accontenta di piccoli guadagni, strategici per lui ma solo tattici per la strategia più grande. Molti possiedono quote di una strategia, ma ignorano o non si preoccupano di sapere che questa detiene un pacchetto di azioni di un’altra».
Per moltiplicare le trame, per evocare teorie più o meno fondate, per fornire materiale a parecchi libri e fiction televisive, mi bastava andare a cercare fra le vecchie lettere, disseppellire agende, quaderni impalliditi in un cassetto.

89 dic. Budapest
Caro Alberto!
Auguri por Natale 1989
e felicita e succesi per
il nuovo anno 1990!
affetuosi abbracci
tuo
Eduardo Rózsa

Mi scriveva questa cartolina, chiusa in una busta, forse pochi giorni prima della fucilazione del dittatore rumeno Ceaușescu. Non trovavo più l’involucro, ma la cartolina, che al posto del mio indirizzo recava una faccina sorridente, doveva essere arrivata in una busta affrancata.
Tra la rivolta di Timisoara, la sollevazione popolare nella capitale della Romania e finalmente l’uccisione del tiranno, voluta da un’ampia fazione del partito comunista rumeno, passarono meno di dieci giorni. La scintilla della rivolta di Timisoara era stata la repressione poliziesca contro László Tőkés, un pastore protestante, un cittadino rumeno della minoranza ungherese, che dal 2007 siede nel Parlamento europeo.
Eduardo conosceva certamente László Tőkés, forse ce ne aveva anche parlato. Non posso sapere se avesse contatti con lui, se il pastore fosse un agente segreto ungherese, come oggi in Romania qualcuno si permette di dire. Non so se Eduardo fosse andato in quel periodo a trovarlo, quale sia stata la rilevanza dell’azione di Eduardo in quegli anni, se Eduardo lo abbia incontrato in quei giorni o in altre occasioni. Immagino che fosse una impresa difficile, rischiosa, magari superflua… Quella cartolina così buffa, tenera, innocente, scritta a penna rossa, su cui Eduardo aveva disegnato una faccina tonda, allegra, rubiconda, quella cartolina che a gennaio del 1990 mi aveva fatto sorridere, dopo più di vent’anni, ora che mi fermavo a osservare sull’altra facciata l’immagine spettrale, invernale, notturna – il disegno di una casa, la finestra sbarrata, accesa tra due grandi alberi spogli – quella cartolina mi ricordava il giorno, l’assemblea in cui l’avevo conosciuto e avevo ascoltato per la prima volta la sua denuncia della persecuzione di una minoranza etnica, la sua difesa dei magiari della Romania.
Lungo questo filo – un filo che avevo toccato, che avevo intercettato per caso, un filo che era mio, che avevo afferrato perché non ne avevo altri, perché a Eduardo arrivai così – lungo questo filo forse si collegavano, si traducevano, si scaricavano, fluivano l’uno nell’altro il prima e il dopo, il comunista, che oltre frontiera difendeva un’immagine violata del se stesso ungherese, e il nazionalista, un nazionalista ubiquo, che si separa da una potestà considerata, sentita come illegittima. Era una vicenda per certi versi simile a quella di molti attori, grandi e piccoli, del socialismo reale: ceto politico, burocrazie, militari, agenti segreti, che si erano convertiti, se si trattava di conversione, in apparenza senza trauma e tormenti interiori, talora al mercato e a interessi privati non sempre legali, talora invece al nazionalismo separatista, allo stato etnico, allo sciovinismo e alla geopolitica. Eduardo forse si era preso qualche rischio in più, dava l’impressione di svolte più inspiegabili, radicali, individuali. Ma era davvero così? Nel primo Eduardo, che difendeva i magiari rumeni dal dittatore della Romania, non si trovava già una prefigurazione dell’Eduardo futuro?
Eduardo forse era andato in Croazia per vigilare sulle frontiere di una Grande Ungheria certo defunta, sepolta, immaginaria, ma che si doveva inventare di nuovo, che poteva rinascere solo trasfigurata. La Slavonia, la regione della Croazia dove Eduardo aveva combattuto per la secessione dalla Iugoslavia, confinava con l’Ungheria. La Croazia e l’Ungheria, come l’Austria, dove Eduardo si era affiliato all’Opus Dei, dovevano tornare a essere delle nazioni cattoliche. La Croazia, una Croazia alleata, più centro-europea e meno ingombrante della Iugoslavia, era una via d’accesso al Mediterraneo per uno stato come l’Ungheria che poteva sporgersi fino al mare solo attraverso il lungo corso tortuoso del Danubio. I reduci della Guerra d’indipendenza croata avrebbero potuto seguirlo in altre imprese. La conversione all’Islam poteva servire a creare prossimità, amicizie, alleanze, magari a collegare nuovi oleodotti, con stati dell’Asia ricchi di petrolio. La missione in Bolivia, a favore dei separatisti o anche dei loro nemici bolivariani, poteva rientrare nella stessa strategia di conquista delle risorse energetiche fossili.
Dio, petrolio, patria, famiglia… L’origine è la meta. In Bolivia Eduardo doveva lacerare ma allo stesso tempo ricucire la propria intimità, doveva riparare l’ordine corrotto da quel padre che soltanto dopo il matrimonio aveva confessato alla madre di essere comunista ed ebreo. La leale, la fedele, la cattolica Nelly Flores Arias aveva amato il comunista György Rózsa. La madre non aveva accettato, come il marito le suggeriva, di rifugiarsi con i figli a Panama: aveva scelto di non allentare i vincoli della famiglia, aveva deciso di rimanere sempre al fianco del marito, di abbandonare la patria per seguirlo in Cile, in Svezia, in Ungheria…
Qui potrebbe iniziare la storia di Eduardo in un universo possibile che assomiglia abbastanza a quello in cui viviamo.
Troppo, troppo in fretta. Eccessivo come Eduardo György Rózsa Flores. Devi diffidare del troppo, ma non sai di quale eccesso si tratti. Diffida delle storie troppo chiuse e complete; di quelle troppo piene; di quelle troppo romanzesche. Dovresti trovare il tempo, il coraggio di parlarne con la sorella di Eduardo. Dovresti parlarne con Eduardo, che forse ora è vivo in Nicaragua, in Iran… Per le strade di Budapest, sul filobus o sul tram, ma per questo sarebbe meglio chiedere conferma alla memoria di Daniele, Eduardo ci diceva che Il fu Mattia Pascal era il suo romanzo italiano preferito. E ora lui è libero dal passato, si è separato da quell’identità troppo faticosa.
Voleva chiudere il libro, uscire dal romanzo. La serie era troppo lunga, poco credibile. Voleva una vita nuova, nuda, senza peso. Voleva smettere.
Nell’isola, su una spiaggia del Pacifico, Eduardo ha trovato la pace, un Venerdì lo ha rieducato a uno stato di natura vero, riposante come la morte. Le cellule si disgregano, i liquidi fluiscono, impastano la terra, gli atomi di carbonio viaggiano tra genti e mari oltre ogni frontiera. Il conflitto è nella storia, nella natura, ovunque: non dico la guerra ma il conflitto sì. Gli interessavano i conflitti tra nazioni, dice Luisa, non i conflitti di classe e di genere, che così allo stato puro, fuori dalla mente, se sei privilegiato, spesso si faticano a vedere, richiedono discrezione, autocritica più che armi, risvegliano contraddizioni che lacerano gli individui, le famiglie ma non i territori, non sempre i corpi. Non guerre tra stati; lui voleva guerre di popolo che fondano nuovi stati, spezzando quelli vecchi. Guerre per affrontare i piccoli tiranni senza decapitare la sua piccolissima tirannia.
Volevi essere un capo. Fare quel cazzo che ti pare con il silenzio assenso degli Ordini superiori, con il beneplacito del Capo supremo: Dio, la dura Necessità, il grande Alleato, la Nazione, i veri desideri del Popolo… Purché si mantenga un privilegio, un capitale di prestigio, una patente di ribelle che sa adattarsi all’ordine mondiale.
I conflitti ti andavano bene se potevi essere un eroe. Uno dei tanti non ti accontentavi di essere. Perché quelle tre ragazze italiane se la prendono con il tipo che interviene all’assemblea? Solo perché porta una maglietta su cui sono disegnate cosce e reggicalze? Per il tono arrogante? Per la mascella? Per quello che dice? Lasciatelo parlare, su ragazze, fate le brave. Non è il caso di contestare il Rettore. Ci ha invitati in gita fino a qui, ci ospita a casa sua, questa sera siamo in vacanza. Operai, donne, fabbrichette occupate, centri sociali, giovinastri dei collettivi, gruppetti di femministe, volantini di due cartelle, riunioni in ritardo, contestazioni isteriche, cortei di studenti, conflitti di classe palesi e occulti, reduci irriducibili, assemblee fumose, precari, anarchici, anarcoidi, sindacati di base, occupanti di case, gruppi di autocoscienza, frocie in movimento, antagonisti… Siete fuori dalla vera storia. C’è qualcuno che oserebbe darti torto? Avresti dovuto restare confuso fra tanti; e tanti, per te che sei una moltitudine, sono sempre troppi. Non ti potevamo assoldare in una guerra seria. Conflitti disarmati, scioperi selvaggi, vetrine infrante ma assicurate, calci negli stinchi, manganellate, sputi vaganti, slogan, balletti, qualche sasso, lividi, nasi rotti, picchetti, qualche anno di carcere, rarissimi i morti. Niente di più. Solo guerricciole senza armi automatiche. E tu eri un soldato. Eri un soldato a cui l’esercito regolare andava stretto. «Niente di più noioso che fare il soldato in tempo di pace», dicevi. E allora meglio servire in segreto, nei sotterranei, per poi uscire a combattere le guerre che ci sono e magari quelle da inventare.
A Budapest guardavo le vetrine dei negozi, che in Italia non mi interessavano più; annotavo il salario di un operaio, il costo di un’automobile. Ti chiedevo: «Gli appartamenti di quei palazzoni quanto sono grandi? Quanta gente ci abita?» Tu sorridevi, non sapevi rispondere alle mie domande filistee, e io mi giustificavo in modo maldestro, o forse con ironia, ormai chi può dirlo: «Sai, per noi, in Occidente, la casa in cui vivi è importante».
Ero un ragazzo cresciuto lontano dalla guerra. Nella mia città poteva scoppiare una bomba alla stazione, una banda di poliziotti poteva rapinare e uccidere per anni, ma niente di più. Contraddizioni, conflitti, violenze alla periferia della storia: l’ombra di un colpo di stato, la mafia, qualche omicidio politico, ma lontano dalle grandi e piccole guerre tra stati. Fin da bambino vedevo la guerra al cinema, alla tivù, nei libri illustrati, la ascoltavo nei racconti degli antenati: guerre lontane come il Vietnam e la Linea Gotica, come l’invasione degli alieni, come la fine del mondo civile dopo una guerra con armi nucleari.
«Ricordo che in pullman, mentre si andava a San Leo dal Rettore, qualcuno cantava. Lui si buttava sempre nella mischia. Stava in piedi in coda al pullman: cantava, rideva, raccontava barzellette. Si cantava di tutto. Un festival della prima stronzata che ti viene in mente. A me, con un faccia giuliva, uscì fuori: dai, cantiamo anche gli inni nazionali degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Credo che non ci fosse un solo studente di questi paesi. Non ti so dire. Credo di no. Forse pensavo alla parodia di un videoclip sulla pace nel mondo. We are the world. Non mi ricordo. Lui si fece serio per un attimo e mi disse quasi sottovoce che non era il caso. Lo diceva come a uno che sta facendo una gaffe. Perché? Che cosa voleva dire?»
«Non lo so, Alberto, non ne ho idea. Ci dovrei pensare».
«Tu pensi che ne faccio una questione personale… Non lo è. Ma se uno ti dice “sei un amico”, è anche un fatto personale».
Dove vivrebbe, Eduardo, se fosse ancora vivo?
Con la fidanzata, forse. Non in questa cartolina.
Si vede il Castello di Praga da un’altura, da un parco innevato. Me l’aveva scritta al tavolo di una birreria o prima di prendere sonno in un albergo. L’aveva affrancata con un bollo da mezza corona, su cui non ci sono timbri, e se l’era portata in valigia o in tasca fino a Budapest, da dove l’aveva spedita dentro una busta su cui riesco a leggere il timbro postale dell’11 gennaio 1989. Sulla cartolina, con una penna di un altro colore, aveva aggiunto: «Sono stato a Praga per Natale e Capodanno». E la data: 8 gennaio 1989.

Caro Alberto,
non me ho dimenticato
di te! Ti ricordo, e nella
mia memoria sei un amico
[illeggibile] … (peccato) e tanto lontano,
ma ho la speranza di rive-
derti un giorno… prossimo!
(Amico! Questa è la seconda
cartolina che ti escribo, espero
che la riceverai e me scriverai!)
un abrascione
tuo
Eduardo Rózsa

Scrivemi e anche enviami una
fotografia di te!

È la sua lettera più vecchia. La precedente, che dice di aver spedito, non l’ho mai ricevuta o non riesco più a trovarla. Forse giace in un archivio della Repubblica Ceca o magari in un cassetto, a casa mia o di Daniele.
Dal Nicaragua non riceverò, non riceveremo mai una lettera. Eduardo non scriverà dall’isola del Pacifico del romanzo di Michel Tournier di cui ci raccontò la storia. Eduardo è morto, ma se anche fosse vivo, più che mai vivo sulla spiaggia più selvaggia del Pacifico, non avrebbe nessuna buona ragione, né il tempo né il desiderio, per scriverci.
Questo pensavo, ricordavo e mi aiutava a ricordare Daniele. Questo raccontavo alla mia compagna. Questo discutevo con Giorgio e con Luisa, finché non ho trovato una sua lettera.
Non era nella buchetta della posta, non era la prova che Eduardo è ancora vivo chissà dove. L’avevo cercata ancora una volta nei soliti cassetti. Avevo rovistato in quelle urne, in quei loculi di colombario che conservano i resti di molti incontri casuali, amicizie spente, frammenti di vecchie conoscenze, polvere di carta, ombre del futuro. Questa volta non mi ero soffermato su ogni brandello di carta, sui volantini consumati, sui biglietti d’auguri, su ogni cartolina ricevuta, sulle lettere scritte a metà e mai spedite. Avevo invece cercato quella sola lettera con una certa ansia, con fretta minuziosa, senza mettermi comodo a sedere, senza il gusto di fermarmi a ricordare chi fosse, che faccia avesse quel nome che a prima vista non mi diceva più niente.
Ecco, l’avevo trovata.
Ma non era la prima lettera che Eduardo diceva di avermi spedito nel dicembre del 1988. Era una lettera dell’anno successivo. Era solo una busta vuota. L’involucro vuoto che aveva custodito le parole, che conoscevo già, di quella cartolina in cui Eduardo, con ortografia incerta, mi augurava successi e felicità per il 1990, mi abbracciava con affetto, mi sorrideva con una buffa imitazione della sua faccia larga e allegra.
Avrei potuto inventarla questa lettera nascosta, rubata, smarrita, rivelatrice, esotica. Avrei potuto inventare altri futuri, inesistenti, del suo passato, e parlarvi di una lettera, minacciosa o consolatoria, giunta fino a me da un rifugio lontano. Avrei potuto rivelare dove Eduardo Rózsa Flores, che negli anni ha cambiato volto e nome, che non è più l’uomo che ho conosciuto, se mai lo è stato, mi ha confessato di vivere ora.
Mentirei. Ho trovato solo una busta vuota su cui un giorno Eduardo scrisse il mio nome e il mio indirizzo. E da qui potrei tornare a raccontare le nostre storie agli amici, ai compagni, alle compagne vicine, lontane, disperse tra le agende di un cassetto. Potrei raccontare quello che non so, quello che ho dimenticato, quello che ancora non mi hanno detto, quello che forse ho taciuto.

Foto 10

]]>
La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/01/la-controfigura-eduardo-rozsa/ Fri, 01 May 2015 21:00:27 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21985 di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino. Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman [...]]]> di Luisa Catanese 

Prima parte 

bp16Si celebrava il Nono centenario dell’università. Il Rettore aveva già distribuito lauree ad honorem a un principe, a un re, a un paio di imprenditori, a Madre Teresa di Calcutta. Per la classe dirigente di domani si pensò di organizzare una gita estiva a Bologna e dintorni. I rappresentanti delle associazioni studentesche arrivarono da buona parte dell’Europa e del mondo per discutere non so più di che cosa. Del futuro, immagino.
Cosa ci facevo lì? Perché una sera di giugno mi fu concesso di giungere in pullman fino alla fortezza di San Leo, dove il Magnifico Rettore aspettava la gioventù di quattro continenti, e poi di salire a bordo di uno dei due piccoli battelli da cui, all’inizio per scherzo, con gli altoparlanti ci si chiamava, si dibatteva, si litigava, tra i flutti opachi e le luci della Riviera?
«Il gelato era buono, tutto è molto bello, ma siamo venuti qui per discutere di questioni serie», sostenevano i delegati del Sud America.
«Gli abbiamo anche spazzato il culo… Dammi il microfono», borbottava un capo degli studenti bolognesi.
Mi ero imbucato. Una trafila di minimi eventi, un convergere di piccole scelte e casualità mi portarono al cospetto del Rettore; ma dubito che sarei entrato nella sua fortezza, se poche ore prima non avessi conosciuto Eduardo. Ero uno studente di Lettere, non facevo ancora parte di associazioni o collettivi studenteschi, ma incontrai per strada una compagna di corso che contribuiva a organizzare il convegno. Così in quei giorni, per le vie della città, all’università, nello studentato che ospitava le delegazioni straniere, chiacchierai con molta gente. Gente perduta per sempre, mi viene da pensare a volte, come tanti altri, ragazze e ragazzi, conosciuti all’estero nelle vacanze studio o nei viaggi per l’Europa. Riesco a rintracciare solo certi nomi, alcune facce nella Rete, ma è come se fossero tutti consegnati all’aldilà. Ne ritrovo qualche appunto scolorito anche fra vecchie lettere, biglietti, agende macerate, pile di quaderni reclusi in un cassetto.
Ecco il ghanese Alfred: «La politica degli Stati Uniti e quella dell’Unione Sovietica non sono la stessa cosa. Non credo che tu possa parlare di imperialismo allo stesso modo».
Il bulgaro Ognian Zla*ev: «Ci sono molti socialismi, diceva Olof Palme. A me piace il suo, il modello svedese».
Un cileno, lavandoci le mani, in bagno: «Ora è meglio. Non ce ne siamo ancora liberati, ma…»
L’altissimo Emídio Guerre*ro, Partido Social Democrata, per i portici di via Indipendenza: «Hanno applaudito a lungo e mi hanno chiesto se volevo diventare un dirigente. Ho chiarito che ho idee di destra. Eccomi qui. E perché dovrei vergognarmi di dire che sono di destra?»
Un tedesco: «Lo dico spesso. Non sono fiero di essere tedesco, ma sono fiero di vivere a…»
Alcuni iugoslavi: «Croazia. Veniamo dalla Croazia».
Altri iugoslavi: «Davvero ti hanno detto così?»
Il cortese, mite professore che accompagnava Dusko e gli altri iugoslavi: «No, ti confondi, il Nagorno Karabakh…»
All’assemblea plenaria, che si riuniva in una grande aula dell’ospedale universitario Sant’Orsola, nessun cartello mi aveva impedito di entrare. Gli interventi venivano tradotti all’auricolare da alcune voci di donna. Ricordo il delegato giapponese, che ci invitò a scegliere il suo paese per passare la vecchiaia, e tre ragazze, del collettivo di Lettere e Magistero, sedute dietro di me, che contestarono aspramente l’intervento di uno studente italiano. È curioso che di quei giorni non sia rimasta nella mia memoria nessuna ragazza, eccetto Lidia, Cira e Serena, che già conoscevo di vista, che avrei conosciuto meglio gli anni seguenti, dopo Tienanmen, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando, come loro, cominciai a far parte di collettivi studenteschi, a intervenire alle assemblee, a occupare l’università… Ricordo molto meglio l’irruenza, la passione, l’efficacia oratoria di Eduardo. Sapeva tenere la scena, era a proprio agio, si sentiva a casa. Aveva sorriso, si era presentato, aveva scherzato, aveva svelato qualcosa della sua complicata genealogia. Un comunista ungherese, uno studente quasi trentenne che ci parlava in spagnolo, risvegliava l’attenzione e poi gli applausi dell’assemblea attaccando il governo di un altro stato del Patto di Varsavia. Ci spiegò che la minoranza ungherese in Romania era oppressa dal regime di Nicolae Ceausescu: ai magiari si proibiva di parlare la lingua madre, con la scusa di modernizzare il paese erano stati demoliti alcuni loro antichi villaggi.
Finita l’assemblea mi presentai. Quando gli risposi che ero lì per curiosità, che non rappresentavo nessuno, mi prese in simpatia. Non credo mi sospettasse un agente in borghese che recita la parte dello sprovveduto. Mi vedeva come uno sprovveduto autentico, come un giovanotto inesperto su cui esercitare il proprio fascino. Non avevo molto da dire, ma forse gli piacevo: ascoltavo, ascoltavo molto volentieri, e lui, che parlava bene la mia lingua, si confermava come una fonte di sorprese, aneddoti, motti di spirito, notizie di prima mano. Eduardo era uno che sta dentro, che ha in tasca il tesserino per entrare ovunque, che sembra conoscere tutti quelli che contano, che sa fare di tutto; ma allo stesso tempo si mostrava affabile, gioviale, espansivo: gesticolava, raccontava barzellette, esibiva la mimica facciale di un caratterista.
Usciti dall’aula, ci fermammo. Al saluto cordiale di Eduardo la cervice taurina, l’intero corpo del delegato cubano si torse e ci puntò. Eduardo aveva lavato i panni sporchi davanti a una platea che comprendeva amici incerti, avversari, probabili nemici: aveva rotto l’unità del fronte socialista e anti-imperialista. Tanto meglio, pensavo. Mi persuadevo di aver incontrato uno strano, nuovo esemplare di comunista che si ostinava e riusciva a lottare all’interno della dolorosa parodia di un sogno millenario che si era affermata, consolidata, imbalsamata nei regimi del cosiddetto socialismo reale. Perciò lo seguii e mi fu consentito di salire in pullman: lungo la strada che ci avrebbe portato a San Leo ascoltai le sue barzellette, scherzai, feci amicizia e scambiai il mio indirizzo con lui e con altri. Eduardo se ne andò da Bologna prima della chiusura del convegno. Aveva molto da fare in patria e altrove. Di lui mi restò nel portafoglio un biglietto da visita color argento:

RÓZSA GYÖRGY EDUARDO
Budapest
Ajtósi Dürer sor 5. II/1
H-1146      Telefon: ***

L’estate successiva, l’agosto del 1989, viaggiavo con lo zaino in spalla per l’Europa insieme al mio amico Daniele. Da Vienna avevo telefonato a Eduardo Rózsa, che aspettava il nostro treno a Budapest. Ci accolse alla stazione assieme a un uomo che lo aiutò a porgere dei calici e a stappare una bottiglia di champagne.
«Manca solo il tappeto rosso», disse Daniele.
Avrei preferito una doccia, un letto. Sotto i vestiti sgualciti e una patina di sudore il mio stomaco era vuoto, ma Eduardo ci convinse a cambiare le nostre priorità. Per sgravarci dello zaino ci accompagnò all’ostello, che per la maggior parte dell’anno era uno studentato, dove lui era ben conosciuto: «Possiamo fare la doccia al bagno turco. Siete mai stati? Non è tanto lontano. Mangiamo dopo. Vi accompagno a un ristorante, poi potete tornare qui a riposarvi. Vi abbiamo trovato una stanza da due».
Sempre più stanchi, accaldati, scendiamo dal tram, che ha percorso un tratto della riva sinistra del Danubio, attraversiamo un ponte e finalmente varchiamo la soglia dei Bagni Rudas, all’ombra delle rocce e dei boschi di una collina di Buda.
Dopo una doccia scomoda, piuttosto fredda, sbrigativa, ci copriamo con una pezza di tessuto bianco che ricorda il gonnellino degli Apache, un minuscolo grembiule legato in vita che lascia nude le natiche. Sono sicuro che Eduardo veda il mio imbarazzo: «Non so che parte coprire», dico. Sono cresciuto con la paura dei microbi: «Se mi siedo, lo devo girare?». Fin da bambino mi hanno insegnato che non si poggiano le chiappe sulla panca di uno spogliatoio.
Entriamo e usciamo da piscine più o meno calde, tra uomini anziani e corpulenti. Restiamo noi tre sotto una cupola traforata, in una grande vasca ottagonale, dove Eduardo continua a raccontarci secoli di storia: le terme romane, i Mongoli, Mattia Corvino, i Turchi, i Bagni Rudas…
«Qui hanno girato un film americano… Dopo Conan il Barbaro e Terminator questa volta era un poliziotto russo».
Daniele discute con Eduardo, mentre mi estraneo, capisco le battute in ritardo, calo in un torpore demente, amniotico, oltre la fame e la stanchezza. Non sono un uomo d’azione né un guerriero.
Mi azzardo a dire: «Sembra di stare in un film di Fellini».
«È tranquillo, c’è silenzio. Una volta mi ero addormentato… E mi sveglio che c’era un grassone che mi toccava il cazzo».
«E tu?»
Eduardo ride con tutta la sua faccia larga: «Non mi aveva chiesto il permesso. Gli ho tirato un colpo sulla fronte, così…»
Si parla di politica. «No, non credo che siamo pronti per la democrazia. Io sono per la monarchia costituzionale».
Pensa che sia giusto limitare i poteri del moderno principe o dai vapori delle vasche siamo riemersi nel secolo scorso? Il viaggio, il digiuno, l’acqua calda bastano a fiaccarmi, dalle gambe alla testa. Non reggo il ritmo. Usciti dalla stazione, Eduardo ci ha parlato degli ungheresi che presero parte alla spedizione dei Mille di Garibaldi, di Emilio Salgari che si ispirava a Garibaldi per inventare i suoi eroi, del giovane Che Guevara che leggeva i romanzi di Salgari. Sono confuso. Ho sempre sentito dire che il regime ungherese è il meno autoritario tra quelli dell’Est, che le condizioni di vita sono migliori. C’è più libertà, si vive meglio. E a guardarsi intorno sembra vero. Non riesco a comprendere, però, quali siano i dissidi interni al partito, non capisco come si collochi Eduardo. Di quello che sta succedendo in Ungheria capisco poco: un processo lento, graduale, condotto per lunghi decenni dal segretario János Kádár, un cambiamento che da qualche anno anticipa, o forse cerca di prevenire, quel crollo del socialismo reale di cui assai presto tutti parleranno.
«Io sono per la monarchia costituzionale», dice sorridendo.
Sono quasi convinto che Eduardo vada preso alla lettera: lo guardo con una faccia incredula, indignata, più che altro idiota.
Usciamo dal bagno turco e, non so come, arriviamo a sederci in un ristorante di Pest, sull’altra riva del fiume, all’aperto. La brezza che spirava lungo il corpo del fiume arriva fino ai nostri tavoli. Beviamo vino rosso, mangiamo carne cruda macinata, tuorlo d’uovo crudo, salse, pepe, paprika. Eduardo tiene la scena che ha allestito; e tra una scena e l’altra non mancano i siparietti. Vuole essere tutto. È un laureando in Lettere, ha appena scritto un saggio sul romanzo Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier e mi sembra di capire che potrebbe ricavarci una tesi, ma non gli basta. Un romanzo è la vita che ha vissuto e che vuole vivere ancora. Parla più lingue di un diplomatico, e nei fatti lo è già; è segretario della gioventù comunista della Università Loránd Eötvös senza avere l’aspetto e le posture del burocrate. Per noi è la migliore guida turistica possibile: un cicerone poliglotta, un viaggiatore dalla cultura multiforme. Penso che abbia la stoffa dell’animatore; conosce, non nasconde tutte le malizie dell’accompagnatore, ma sarebbe riduttivo, sarei ingiusto, perché lo vedo padrone di sé e mi sembra sincero anche quando recita. Dopo il bagno turco, ora che mangiamo carne alla tartara, decide di buttarla in farsa: indossa la maschera dell’Orco, dell’Ungaro medievale; gonfia il petto, tende i muscoli, arcua le braccia unendo quasi i pugni, altera la voce, imita un feroce urlo di battaglia, a metà tra «Hungary» e «hungry». Sappiamo che Eduardo non è un cavaliere leggendario, un nomade della steppa turanica; ha antenati ungheresi, ebrei, spagnoli, e forse, se ho ben capito, sudamericani. Malgrado la sua attitudine a recitare e a farsi benvolere, nessuno potrebbe considerarlo un impostore: la storia della sua vita e della sua famiglia impongono rispetto. Daniele gli ha chiesto di raccontare le sue avventure, che conosciamo entrambi solo in parte.
Perché si chiama Eduardo? Perché è bilingue, anzi poliglotta?
Ne ha parlato il giorno in cui ci siamo incontrati a Bologna, gli abbiamo chiesto di riparlarne per le strade di Budapest, lo invitiamo a parlarne ancora al ristorante, e i suoi genitori, che ci ospiteranno a cena dopodomani sera, non potranno fare a meno di tornare a raccontare il loro passato.

Dei parenti di György Rózsa, padre di Eduardo, in Ungheria non rimane nessuno. Il nonno fu fucilato dalle Croci frecciate, i nazisti ungheresi. Risparmiavano le munizioni: legavano tre prigionieri con filo di ferro, sparavano a uno, gettavano nel Danubio il grappolo umano. Gli altri parenti del padre, ebrei, non c’erano più. I nazisti e i loro camerati magiari avevano sterminato mezzo milione di ebrei ungheresi, mentre gli altri, circa duecentomila, talvolta con l’aiuto di diplomatici stranieri come lo svedese Raoul Wallenberg, erano riusciti a trovare un precario rifugio nel proprio paese, a ottenere i documenti o a guadagnare una qualsiasi via per espatriare. Quello che successe a György durante la Seconda guerra mondiale, quando aveva tra i sedici e i ventidue anni, non mi è affatto chiaro. Eduardo ci disse che il padre, non riesco a ricordare quando, era scappato con uno zio, ma forse mi sbaglio… Ho letto però che nel 1942, in piena guerra mondiale, prima che il governo ungherese consegnasse gli ebrei stranieri ai nazisti, prima che la maggior parte degli ebrei ungheresi fosse sterminata nelle camere a gas, il giovane pittore György Rózsa avrebbe vinto il terzo premio a un improbabile concorso internazionale per arti figurative, a Firenze. Un ebreo, credo già comunista, forse con documenti falsi, forse no, per ritirare un premio o con la scusa di ritirare un premio, sarebbe dunque passato da Firenze, in quell’Italia fascista che già quattro anni prima aveva espulso tutti gli ebrei stranieri, compresi quelli ungheresi. Non so che cosa sia successo. Non so se György Rózsa dall’Italia sia poi fuggito rifugiandosi da qualche parte; non so se in Ungheria sia tornato prima o dopo la fine della guerra. Sono trascorsi molti anni, e la memoria del mio compagno di viaggio Daniele in questo non ci aiuta. Potremmo chiedere spiegazioni soltanto alla sorella di Eduardo, l’unica persona della sua famiglia che non abbiamo conosciuto nell’agosto del 1989, l’unica che oggi sia rimasta in vita.
Dopo la guerra, nel 1948, mentre gli stalinisti prendevano il potere, György era emigrato da Budapest a Parigi dove gli era stata assegnata una borsa di studio in storia dell’arte. Si fece conoscere come pittore, cominciò a dedicarsi al teatro. Nel 1952 prese parte a una spedizione etnografica e archeologica francese in Bolivia e qui decise di stabilirsi, prima a La Paz e poi Santa Cruz de la Sierra. Era la città in cui era cresciuta Nelly Flores Arias, un’insegnante di liceo, cattolica, di origine spagnola, anzi catalana. Dal matrimonio di Nelly e György nacquero un figlio, Eduardo, e poi una figlia. A Santa Cruz de la Sierra, negli anni Sessanta, il padre di Eduardo divenne conosciuto e stimato come insegnante, pittore, scultore, drammaturgo, scenografo, architetto… Abitava ancora in Bolivia con i famigliari quando Ernesto Che Guevara fu ucciso a La Higuera, nel dipartimento di Santa Cruz.
Fu un evento che cambiò le loro vite. György, che tutti in Bolivia chiamavano Jorge, e che ormai si sentiva a casa, era un comunista e come comunista non poteva astenersi dall’attività politica. Era un intellettuale marxista, un fondatore di istituzioni culturali e laboratori artistici, un organizzatore di cultura e forse anche di altro. Il professore ungherese non era Che Guevara, ma si dava da fare. Chi si impegna per trasformare la società corre dei rischi: la storia non finisce, e nemmeno si prende una pausa, per lasciar crescere i tuoi figli in pace. La famiglia di Eduardo fu costretta a lasciare la Bolivia per il colpo di stato del generale Hugo Banzer e si rifugiò in Cile alla vigilia del colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Fuggirono anche dal Cile, vissero per breve tempo in Svezia.
«Mi mancava la luce, d’inverno, faceva troppo freddo», diceva Eduardo. «Quel temperamento, quel modo di vivere non era per me».
Nel 1974 decisero di tornare in Ungheria, dove gli anni peggiori erano passati.
«Il periodo post-stalinista…», diceva il figlio.
«Il periodo neo-stalinista…», correggeva il padre.
Si cenava nel soggiorno di casa loro. Si parlava dell’insurrezione ungherese nell’autunno 1956, dei due interventi delle forze armate sovietiche, dell’eliminazione di Imre Nagy, della lunga stagione di János Kádár. Erano argomenti che prevedevo, da cui mi aspettavo risposte su cui misurare le divergenze di opinione tra il figlio e il padre, che però non sembrava un uomo loquace.
Si era parlato, sempre in italiano, anche di Giuseppe Garibaldi, America Latina, Simón Bolívar, Grande Colombia, Panama, Bolivia… Ero il più silenzioso. Avevo poco da dire e molto da ascoltare. Non mi sentivo un figlio della borghesia colta, non ero diplomato al liceo classico, l’ultimo anno delle superiori avevo trascurato lo studio della Storia perché non era uscita come materia della maturità, all’università non avevo ancora preparato esami sugli ultimi cinque secoli. Daniele partecipava alla discussione, mostrava di sapere di che cosa si parlava. Mi sentivo superfluo, anche se Eduardo, che stava seduto di fronte a noi, con lo sguardo non mi ignorava.
Mentre Nelly Flores, in spagnolo, loquace quasi come il figlio, confrontava la Bolivia e la Colombia, parlava di cocaina, di criminalità e di case presidiate da telecamere, mi guardavo intorno. Alle mie spalle ricordo una piccola cucina; a sinistra della tavola si estendeva il soggiorno spazioso, sobrio, poco illuminato, le cui finestre si affacciavano sul Parco della città, verso Piazza degli eroi. Dietro ai due uomini della famiglia Rózsa si apriva un disimpegno da cui subito si entrava nella stanza di Eduardo.
Mentre in camera sua ascoltavamo dischi in vinile, tra cui il discorso di un comizio spartachista e l’Internazionale, mi accorgevo, con vergogna e rimorso, di covare gelosia per l’intesa che avvertivo crescere tra Eduardo e Daniele, e di non riuscire più a nascondere una blanda, vaga ostilità nei confronti del nostro ospite. Cercavo di spiegarmi, di giustificare le ragioni del rancore: ero invidioso di uno che la sapeva lunga, che sapeva giocare e forse vincere su troppi tavoli? Ci aveva ubriacati in un’enoteca, vicino al castello di Buda, nei cui cessi avevo vomitato vino rosso francese, ci aveva fatto accomodare in un grande caffè stile liberty dove nel primo Novecento avevano discusso intellettuali come György Lukács, ci aveva portati in una sinagoga e poi a pranzo in un ristorante ebraico, ci aveva permesso di visitare fuori orario un locale dove alcuni suoi amici dalla faccia molto abbronzata giocavano a biliardo, quella sera ci avrebbe accompagnati al grande parco di fronte a casa sua per assistere alle prove di uno spettacolo e, se avessimo voluto, per ballare, stretti con altri ragazzi e ragazze, le danze tradizionali dell’Ungheria.
Gli ero grato, lo stimavo per la sua versatilità, apprezzavo la sua disponibilità, la sua generosità nel condividere la sua ricchezza di memorie, di esperienze, di rapporti umani. Avevo passato quei giorni a dire: figurati, grazie, non dovevi, non disturbarti, sei proprio gentile. Facevo più complimenti di una nonna campagnola a casa dei consuoceri cittadini benestanti. Avevo bisogno di trovare una buona ragione per i fastidi, per il sospetto, per il mio senso di minorità.
A Eduardo, in fondo, si poteva perdonare l’indulgenza, o meglio la pacatezza, che suo padre però non dimostrava, verso il regime e verso i carri armati sovietici. Si poteva considerare il grande busto di Stalin, che con malizia aveva collocato all’ombra della sua scrivania, dunque ai suoi piedi, come un poderoso motto di spirito. Non avevo diritto di biasimarlo. Il suo ruolo di dirigente dei giovani comunisti si reggeva sulla capacità di temperare talento ed esuberanza nella lenta prudenza delle riforme: forse lui riteneva che questo accasarsi, questo radicarsi nelle istituzioni, non privo di benefici, fosse un modo efficace per trasformare la società, per rendere costituzionale, come aveva detto, il potere del sovrano. Ma c’era qualcosa di troppo.
Avevamo ascoltato dischi, avevamo visto un cartone animato in cui il monarca, il guerriero, l’umanista Mattia Corvino, vestito da viandante, percorreva le strade del suo regno, prendeva coscienza delle sofferenze del popolo, interveniva per riparare i torti e le ingiustizie perpetrate dai sudditi malvagi contro i sudditi più poveri. È il momento giusto per chiedere a Eduardo chi abbia dipinto le due grandi tele appese tra la finestra, aperta, e l’ingresso della camera. Posso prendermi una piccola rivincita.
«Quale ti piace di più? Attento a rispondere bene».
«Quello di tuo padre è meglio, Eduardo. Si vede che lui è un vero pittore».
«Sei un po’ stronzo, amico mio».
«Sei bravo, ma non si può essere un genio in ogni cosa».
Oltre alla scrivania, altarino sacrilego del Piccolo padre, oltre a un grande letto, abbastanza largo per dormire comodo con la fidanzata ufficiale, insieme ai quadri, ai dischi, a un minuscolo televisore, nella sua camera ci sono libri, riviste, giornali, piccoli trofei, ricordi. Scrive per l’agenzia Prensa Latina di Cuba e per la stampa ungherese. Ci mostra articoli e interviste di cui è autore o protagonista, e poi la sua foto su un quotidiano e sulla copertina di una rivista. Sulla stessa rivista ha pubblicato alcune poesie, nella lingua del padre.
Dopo più di venticinque anni non sono sicuro di ricordare l’ordine dei piccoli fatti, delle parole che ci siamo detti in quella stanza, ma sono sicuro che lì, in quel momento, con quella rivista tra le mani, ho sentito di aver scovato una buona ragione per giustificare la mia diffidenza. Per me, studente di ventuno anni, moralista imbelle, rivedibile alla visita militare, piccolissimo borghese che sta per iniziare a far politica nell’ateneo di una città che di solito è giudicata a misura d’uomo, sicura, se non fosse che… Per me, qualcosa di troppo è scrivere poesie nella strana lingua di tuo padre per una rivista delle forze armate ungheresi.
«Non hai abitato sempre qui, ci dicevi che parli il russo, che hai studiato anche là. Non era uno scherzo, vero?»
Prima di iscriversi alla facoltà di Lettere, Eduardo ha frequentato una scuola militare nel suo paese, ma poi ha studiato per qualche tempo a Mosca, all’Accademia dei servizi segreti dell’Unione Sovietica. Lo dice come per gioco. Non riesco a capire se vuol farci intendere che si è stancato o se ha portato a termine il corso, magari scrivendo distici elegiaci per le forze armate ungheresi. Immagino che la ragione sociale dei servizi di spionaggio e controspionaggio non sia solo organizzare complotti, colpi di stato, attentati. L’intelligence, come si dice ora, ha bisogno di gente istruita, versatile, scaltra, poliglotta: analisti, esperti di crittografia, traduttori, interpreti, accompagnatori di uomini d’affari e diplomatici stranieri. Ora il compagno Rózsa si impegna in patria, per il cambiamento: lavora e compie missioni al confine tra l’Ungheria e la Romania. Proprio domani mattina si recherà da quelle parti, in auto, poi verso il tramonto procederà a cavallo o a piedi. Forse si spingerà oltre frontiera. Ci sono persone che in Romania hanno bisogno di lui: «Ti ricordi quello che dicevo a Bologna?»
«Andrai in Transilvania travestito, come Mattia Corvino?»
E potrei forse riderne ancora, magari con un po’ di disagio, ripensando a noi due, a lui, a noi tre in quella stanza, se non sapessi che Eduardo pochi anni fa è morto, è stato ucciso in una camera d’albergo, molto lontano dall’Ungheria.
Tornerà presto a Budapest, prima che io e Daniele, col passaporto timbrato dall’ambasciata cecoslovacca, proseguiamo il nostro viaggio in treno verso Praga.
Dalla finestra spalancata un alito di vento porta un clamore, come di applausi. Eduardo ci dice che a meno di un chilometro da casa sua, allo stadio, parla un predicatore americano.
«Glielo lasciano fare?», gli chiedo per niente stupito.
Oggi, quando siamo entrati nella sinagoga per poi accedere a un museo sugli ebrei dell’Ungheria, sono rimasto sbalordito davanti a un’enorme bandiera israeliana spiegata davanti alle schiere delle panche vuote.
«Mi aspettavo un luogo di preghiera», dico mentre sento crescere in me una rabbia che riesco a motivare solo in parte.
«Ti aspettavi Cavour? La divisione tra Chiesa e Stato? Non è così. Non funziona così. Il mondo non fa quello che ci aspettiamo per renderci la vita più semplice», mi dice Daniele che ancora all’ingresso del museo mi sente sragionare, sia pure sottovoce. Eduardo ci spiega che un importante uomo politico israeliano sta visitando la capitale, ma io continuo a sbraitare anche davanti alle prime foto del museo, tanto che Eduardo, avvicinato da un guardasala o da una guida, che forse in parte comprende i motivi della mia ostilità, ha il buon senso di decidere che è meglio affrettare la fine della visita. A volte ci ripenso, con la vergogna di chi ha detto troppe parole ingiuste invece di poche e giuste.
«Billy Graham si chiama. È un predicatore americano, protestante. I suoi sermoni attirano molta gente, come uno spettacolo. Riempie gli stadi. Una volta non avrebbe avuto il permesso».
«Ma tu, Eduardo, sei religioso?»
Sua madre è credente, molto cattolica, di famiglia così cattolica da questionare se lui porta la fidanzata in camera; suo padre, invece, grazie a Marx, dice Eduardo, è ateo. Mi pare di capire che Eduardo non sia credente, anche se vuole avere le carte in regola per qualche aldilà; o forse sì, potrebbe essere deista come i dollari americani: «In God we trust». Comunque sia, credente, ateo osservante o altro, non mi sembra una malignità pensare che trovi conveniente aggiungere la tessera di altri club al suo portafoglio.
«Sono dalla parte dei palestinesi. Alla comunità di Budapest noi abbiamo proiettato quel filmato in cui due soldati israeliani spaccano il braccio a un palestinese con il calcio del fucile. C’erano alcuni vecchi che, per non vedere e non sentire, voltavano le spalle allo schermo e pestavano i piedi».
Toglie da una piccola scatola, che sta nel cassetto della scrivania, una catenina d’oro da cui pendono una stella di David e un croce latina.
«Quel predicatore riesce a riempire lo stadio di Budapest. Un po’ di gente è arrivata in pullman. Molti ci vanno per curiosità».
Però non gli interessa. Si sente più legato alla tradizione cattolica. Ci dice che lui da qualche tempo ha simpatia per l’Opus Dei. Ha avuto dei contatti con alcuni austriaci e spagnoli. Sembra che ne voglia diventare un membro, se non lo ha già fatto.
Ormai tutto è così eccessivo e inverosimile che non riesco a credere che lo dica sul serio: deve essere un’altra scusa, una ragione in più per andare in vacanza all’estero, per introdursi in certi ambienti, per acquisire credenziali, per trovare nuove vie di accesso o di fuga. Forse sente arrivare il terremoto, prevede che un’ala del grande edificio del Partito potrebbe crollare. Ma questi pensieri scivolano via, penso che in fondo sia un vezzo, un modo per giocare a vivere molte vite.
Sembra che a molti una sola vita non basti: reincarnazione, oltretomba, corsi di recitazione e, in anni più recenti, nomi di battaglia per i piccoli schermi. Da decenni, o da secoli, puoi leggere romanzi lunghissimi senza farti alcun male, puoi vedere ogni giorno senza fatica film d’azione e serie televisive, ma c’è chi desidera lasciare le periferie poco illuminate, chi vuole uscire di casa e andare a letto per ultimo, chi decide di vincere anche a costo di far vincere un altro se stesso. Non è il caso di Eduardo, penso. Lui, con tutto il suo egocentrismo, crede nel socialismo, vuole riformare il socialismo. Certo non è un Garibaldi né tanto meno un Che Guevara; ritiene che il cambiamento si diriga dall’alto, è disponibile a impiegare tutto il suo estro per recitare più di un ruolo all’interno delle gerarchie e delle istituzioni, comprese le forze armate e i servizi di informazione della sua patria socialista. I collettivi universitari, a cui questa primavera abbiamo cominciato ad avvicinarci io e Daniele, per lui sono aggregati di giovanotti velleitari, anarchici, poco più che ranocchi gracidanti in uno stagno.
«L’Opus Dei è roba spagnola, vero? Ne ho sentito parlare in Matador o in Donne sull’orlo di una crisi di nervi…»
«È internazionale», ghigna Eduardo.
Anche se fosse già incorporato nella Società Sacerdotale della Santa Croce e Opus Dei, preferisco pensare che sia un particolare irrilevante. Con Eduardo si parla del mondo intero mentre si gioca e si ride. Eduardo non ha scrupolo a vantarsi di quando ha fornicato con un paio di hostess assieme a un amico; e il pudore post-edenico inoculato dalla buona famiglia cattolica della madre, cresciuta ed educata provvidenzialmente nella città di Santa Cruz, non lo frenerà dall’invitarci domani in una piscina per nudisti.
Insomma, non riesci a sentirlo come un amico, come un individuo di cui ti puoi fidare, ma il suo fascino un po’ cialtrone, teatrale, carnevalesco, riesce a compensare i rancori, i sospetti per cui provi rimorso. Con lui te la spassi, hai il piacere sadico di ridere toccando qualche nervo scoperto della storia mondiale. Nessuno può prevedere che all’inizio del nuovo secolo, mentre le forze armate degli Stati Uniti faticheranno a consolidare l’occupazione dell’Iraq, Eduardo diventerà vice presidente dell’associazione dei musulmani ungheresi e che, poco più tardi, avrà rapporti sempre più stretti ed espliciti, o se non altro ambigui, con l’estrema destra ungherese.
Salutiamo i suoi genitori, usciamo dall’appartamento di Ajtósi Dürer sor, finiamo la serata al Parco della Città assistendo alle prove di uno spettacolo di danze della tradizione popolare ungherese. Due giorni dopo incontriamo Eduardo, ritornato dalla sua missione alla frontiera rumena, e giriamo ancora insieme a lui, sentiamo per l’ultima volta l’odore dell’ostello e della città. Se ci si allontana dalle colline di Buda o dal Danubio, ancora una volta sembra che l’aria sappia di asfalto, polvere, vestiti male asciugati, che l’aria del grande fiume ristagni come in una Pianura Padana che fugge sempre più lontano dal mare. Ma che cosa pretendo mai di sapere: sono solo un turista. Forse ciò che annuso è l’odore di questi pochi giorni, di questi mesi, dei vestiti che togliamo dallo zaino.
L’ultimo giorno che passo a Budapest non voglio certo andare in piscina. Non voglio spogliarmi e restare completamente nudo davanti a lui. Trova molto divertente la mia ritrosia: «In Ungheria non siamo pudichi come voi in Italia».
«Anche Malcolm X da giovane non voleva essere spiato nei cessi pubblici mentre pisciava…»
Quando andiamo in giro con Eduardo, spesso mi vergogno. Perciò non vedo l’ora di salutarlo e di partire con Daniele per Praga. Per strada, in tram, in metropolitana, in filobus, non importa dove ci si trovi, più di una volta si è messo a cantare delle canzoni di lotta, in italiano, e noi le abbiamo cantate con lui. Conosce Bella ciao, I morti di Reggio Emilia, Contessa, La ballata del Pinelli, Fischia il vento. Ma quando cantiamo l’Internazionale, quando Eduardo ci canta e ci traduce inni ungheresi, penso a tutti i cittadini muti che ci stanno intorno, donne e uomini che immagino con l’espressione attonita già intravista negli ascensori, negli autobus o anche nelle strade più affollate della mia città. Per loro questi sono canti di liberazione o jingle di regimi che detestano? Forse mi vergognerei anche se una parte del pubblico partecipasse: e allora canto, canto come gli altri due, non posso evitarlo, ma un po’ mi vergogno, come fino a pochi mesi fa mi sentivo a disagio se discutevo in autobus con Daniele di poeti italiani contemporanei.
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici, che forse passano l’intera giornata in piscina; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.

Eduardo Rózsa non fu l’unico volto, l’unico incontro di quel lungo viaggio in treno, iniziato in Austria e Ungheria, che ci portò in Cecoslovacchia, Germania Ovest, Belgio, Francia. Eduardo non restò in cima ai miei labili pensieri estivi: Sergej, Heike, Anja, Letizia, Wing May non mi interessavano meno di uno studente trentenne che forse millantava un ruolo nei servizi segreti ungheresi. In autunno, mentre crolla il Muro di Berlino, poco prima che sia fucilato il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, che lui tanto odiava, ci daremo da fare all’università di Bologna: seminari, volantini, manifesti, occupazione di aule, autoriduzione in mensa, corteo, contestazione al Rettore. A gennaio del 1990 occuperemo la nostra università per più di due mesi, così come faranno gli studenti italiani che detestano l’Italia di Giulio Andreotti, di Bettino Craxi, delle tivù di Silvio Berlusconi: «Noi da qui non ce ne andremo più». Solo quando l’occupazione volgerà alla fine mi deciderò a telefonare a Eduardo dall’Ufficio Erasmus occupato, la prima porta a sinistra del Rettorato, che i primi giorni d’aprile è ancora il Centro stampa del Movimento.
Mentre noi, la Pantera, occupavamo da più di un mese, alla fine di febbraio i sandinisti hanno perso le elezioni in Nicaragua, e io quella sera ho preferito smaltire la delusione dormendo nel letto di casa invece che in facoltà. Giorgio, un compagno di Scienze politiche che è là in Nicaragua per scriver la tesi, ci ha raccontato al telefono che i sandinisti, malgrado i bruciori di stomaco, non hanno intenzione di insorgere contro il nuovo governo. Ora, invece, in aprile, si attendono i risultati delle elezioni in Ungheria, le prime, dopo molti decenni, in cui i cittadini potranno scegliere fra più partiti. Non mi aspetto, non spero nulla dalle elezioni in Ungheria, dico a me stesso, anche se prima o poi, in un modo o nell’altro, mi piacerebbe che per qualche prodigio della Storia si uscisse dal «socialismo reale» per entrare in un socialismo più vero.
Per avere notizie telefono a casa di Eduardo, che è contento di sentirmi, ma si lamenta: «Non hai risposto neanche alla mia cartolina con gli auguri di Natale e Capodanno».
Gli dico che siamo impegnati da mesi nell’occupazione; chiede di me, di Daniele, dei miei studi, degli esami.
«Allora, vincete?»
«No, Alberto, non vinciamo».
«Sarà per la prossima volta, allora».
«Nemmeno la prossima volta. Ci vorrà molto tempo».
Lo richiamo da casa, quando l’estate è alle porte, con più calma, questa volta a spese dei miei genitori: «Quando vieni a trovarci in Italia?»
Presto sarà a Venezia per lavoro, ma si fermerà solo qualche giorno, i tempi sono stretti: «No, ho messo la politica a riposare per un po’. Scrivo per un giornale spagnolo».
Ha trovato una strada per andare avanti e se la cava assai bene, penso, malgrado il suo passato o proprio grazie a quel capitale accumulato negli anni. Mi chiede di raggiungerlo a Venezia, ma anch’io ho molto da fare: quasi tutta una vita. Passano anni prima che mi decida a richiamarlo. Non ricordo quante volte provo; gli telefono più di una volta, ma senza riuscire a parlargli, forse tra il 1994 e il 1999, dalla casa dei miei o dal piccolo appartamento in cui vivo con la mia compagna. Soltanto in anni più recenti comincerò a ricercare per la Rete i nomi delle persone che non vedo da anni. Perciò, quando la sua voce risponde al telefono, della nuova vita di Eduardo non so ancora niente.
Non gli dispiace di sentirmi, ma sembra in attesa di qualcosa: come se cercasse di estrarre dalle mie parole il movente della chiamata. Mi risponde che i suoi genitori non vivono più con lui. È stato corrispondente di guerra nell’ex Iugoslavia. Ha girato e vissuto all’estero per alcuni anni. Scrive poesie e ricordi di quella guerra…
«Il fascismo sparisce», gli dico, «ma si moltiplica nei suoi discendenti di formato ridotto. Sembra che nei Balcani si faccia la gara a chi è più fascista».
Mi risponde che il tiranno è la Serbia: «Io vivo per combattere i tiranni».
«Sei ancora legato ai comunisti?»
Non ha nulla a che fare con loro. Il bolscevismo ha tradito le sue promesse, ha negato l’autodeterminazione degli individui e dei popoli.
Non ricordo altro. Non sono nemmeno sicuro di avergli parlato. Forse rammento un sogno.
Sono certo invece di averlo chiamato in anni più recenti. Avevo scoperto con molto ritardo che, nel 2001, Eduardo aveva interpretato se stesso in un film, presentato e premiato a diversi festival, un film che raccontava la sua vita, dall’infanzia alla guerra di secessione della Croazia. In Croazia era andato come giornalista, corrispondente del quotidiano La Vanguardia e collaboratore della BBC, o anche, mi venne poi da pensare, come agente segreto ungherese. Nell’autunno del 1991 era avvenuta, si direbbe, una svolta: si era arruolato nella Guardia nazionale croata, con il nome di battaglia Chico, per combattere le milizie serbe in Slavonia. Aveva fondato e diretto la Prima unità internazionale dell’esercito croato, aveva fatto parte delle forze speciali, era stato ferito più volte e decorato, aveva ottenuto il grado di colonnello, gli avevano concesso l’onore della cittadinanza croata e nell’estate del 1994 era stato congedato.
«Te l’ho detto. Non sono loro i fascisti. Dovresti essere qui per giudicare», rispondeva al padre.
«E io dico e ti ripeto che gli ustascia sono fascisti. Non ti ricordi che i fascisti hanno ucciso tuo nonno?»
«No, non lo sono. E se dici che loro sono fascisti, allora sono fascista anch’io».
Del film avevo visto pochi passaggi. Temevo di velare le mie poche certezze con un altro filtro, di saldare in una nuova compiuta narrazione le ambiguità, le contraddizioni, forse le menzogne, che giacevano come ossa spezzate nella mia memoria. Ricordavo il busto di Stalin in camera sua, l’impegno a favore della minoranza magiara di Romania, ricordavo anche le battute in cui mostrava indulgenza se non proprio simpatia per la Lega Nord di Umberto Bossi. Siamo quasi tutti intossicati di finzione: potevo immaginare qualsiasi complotto, mescolando i suoi racconti sul Golem impazzito, l’Opus Dei, l’apprendistato a Mosca, le sue missioni come giovane agente dei servizi segreti. Ma allo stesso tempo mi sentivo autorizzato a pensare che ci sono persone che nascono in alto, o ci arrivano, e vogliono rimanerci a ogni costo.
«A Zelig set in contemporary international hot zones», avevo letto in un sito che mi rivelava l’esistenza di altri film in cui Eduardo aveva interpretato ruoli secondari.
«Vorrei parlare con Eduardo Rózsa? È la casa della famiglia Rózsa? Il signor Eduardo Rózsa… Lei lo conosce?»
Una voce maschile, che rispondeva in inglese al mio inglese, aveva riso: «Certo, tutti lo conoscono».
Non abitava più in quelle stanze che ci avevano accolto una sera di estate del 1989. Dopo aver combattuto in Croazia e aver interpretato l’ultima versione di se stesso nel film Chico, Eduardo continuava a recitare altri ruoli. L’avevo cercato per sentire se aveva qualcosa da dirmi, ma non avevo più intenzione di sforzarmi per trovare un nuovo recapito. Tutto quello che scoprivo di lui, se era vero, lo leggevo, talvolta lo decifravo a fatica sulla Rete, da siti e articoli scritti in lingua spagnola e ungherese, raramente in inglese. Rovistando nel suo passato, senza aver la possibilità di verificare quanto leggevo, il disagio cresceva, prevaleva sulla curiosità e sullo stupore.
Scoprivo che all’inizio del 1991, quando era stato inviato in Albania come giornalista, aveva favorito la partenza degli ebrei albanesi verso Israele, dove era stato per qualche tempo a visitare i luoghi santi. Leggevo che in anni recenti, dopo l’attentato al World Trade Center, o meglio dopo che gli Stati Uniti avevano invaso l’Iraq, si era convertito alla religione musulmana ed era diventato il vice presidente della comunità islamica dell’Ungheria. Si era recato per ragioni umanitarie, come inviato dei musulmani del proprio paese, ma forse anche prima della conversione, in Palestina, Indonesia, Sudan, Iraq, Iran. Negli anni Ottanta e anche più tardi, aveva avuto contatti con il venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, condannato all’ergastolo nelle galere francesi, conosciuto come Carlos o anche come lo Sciacallo.
Chi era costui? Lo avevo già sentito nominare… Era un rivoluzionario di professione o un terrorista internazionale o un mercenario, secondo i punti di vista, un marxista-leninista legato ai servizi segreti dell’Est, nonché membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che in anni più recenti sosteneva di avere abbracciato una versione socialista dell’Islam politico radicale. Che rapporto c’era tra Eduardo e Ilich Ramírez? Eduardo, poco prima che io e Daniele lo conoscessimo, era stato la sua guida turistica, il suo interprete, in Ungheria, dove Ilich Ramírez aveva vissuto per alcuni anni. E proprio per questo Eduardo, nel 1991, era stato coinvolto in un processo che nel suo paese fece scalpore. Era un lavoro, obbediva agli ordini, rispettava la legge: fu assolto.
Avevo spedito una lettera per avvisare Daniele, che già viveva a Milano e lavorava all’Università di Bergamo. Daniele non aveva risposto, come se la e-mail non gli fosse arrivata. O forse l’aveva ricevuta, ma era rimasto così segnato da quel che poi aveva letto sulla Rete da cancellare le mie parole scrivendoci sopra le nuove. La nostra memoria umana viene assiduamente raschiata dal trascorrere del tempo come un antico palinsesto di cartapecora, che serba e cela i tenui graffi delle scritture precedenti.
Alcuni mesi dopo Daniele mi telefonò per dirmi che aveva scoperto il film Chico e la nuova vita del compagno Eduardo. Aggiunse qualcosa che ancora non sapevo. Uno scrittore francese, Mathias Énard, aveva pubblicato un romanzo, non ancora tradotto, in cui si parlava di un Eduardo Rózsa. Nel libro si raccontava che, ai tempi della guerra per l’indipendenza della Croazia, Eduardo fu sospettato di aver ucciso un giornalista svizzero e un fotografo inglese, infiltrati o incorporati nella brigata internazionale che lui comandava. Lessi poi che i due indagavano su un traffico internazionale di armi.
Mentre Daniele mi parlava, Eduardo viveva gli ultimi mesi della sua vita. Poteva essere la fine del 2008 o una data qualunque che preceda il 16 aprile 2009, il giorno in cui Eduardo fu ucciso a Santa Cruz de la Sierra, la città in cui era nato il 31 marzo 1960.
A volte la verità colpisce come un pugno in faccia: una scarica di parole che ascolti di sfuggita e capisci solo quando riprendi i sensi, con i gomiti puntati a terra. A qualcuno può perfino capitare di rialzarsi in piedi e non ricordare bene quello che è appena successo. Sono una persona che rumina i pensieri a lungo, e che troppo spesso capisce in ritardo. Sono una persona piuttosto comune. Quella primavera mi sentivo come se, arrivato in cima a una collina, avessi posato un sacco pieno di pietre. Avevo combattuto e stavo vincendo una lunga battaglia segreta di cui non potevo vantarmi. La mattina seguente mi sarei svegliato alle sei e venti per andare al lavoro, ma potevo dire a me stesso: abbiamo casa e reddito; ci amiamo, conviviamo da anni, abbiamo deciso di festeggiare con un matrimonio.
Mi ero seduto a tavola per cenare, cambiavo i canali con il telecomando, non so che cosa cercassi di vedere e ascoltare. Una notizia veloce, solo una foto che scompare dallo schermo mentre alzo la testa. Qualcuno è stato ucciso dalle teste di cuoio in Bolivia. Faceva parte di un commando che progettava l’assassinio del presidente Evo Morales. Il sicario, mi pare di sentire, sarebbe un certo Rosa Flores.
Eduardo non si chiama Flores. Non mi ha mai detto che si chiama Flores. Non mi ricordo. Sul biglietto da visita argentato c’è scritto Eduardo György Rózsa. Sulle lettere che mi ha spedito scriveva Eduardo Rózsa. Al telegiornale non ho sentito dire Eduardo. Non ricordo il cognome di sua madre. Mi sembra di ricordare che lei fosse colombiana. Non ha senso, non esiste un movente: perché Eduardo dovrebbe uccidere Evo Morales? Evo Morales non cerca di affermare la sovranità della nazione sulle risorse della Bolivia?
I giorni seguenti non leggo il giornale. Per settimane, mesi, forse per un paio di anni, non ci penso più, finché una folata della storia mondiale agitando le chiome dei miei nervi si incarica di ripetere la verità con maggiore chiarezza.
Eduardo György Rózsa Flores, figlio di György Rózsa e Nelly Flores Arias, è stato ucciso, assieme ad altri due uomini, dalle forze speciali boliviane nell’albergo Las Americas di Santa Cruz de la Sierra.

[Qui la seconda parte]

]]>