sud america – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 21 Dec 2024 23:10:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La maledizione dell’abbondanza https://www.carmillaonline.com/2019/12/26/la-maledizione-dellabbondanza/ Thu, 26 Dec 2019 02:45:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56912 Conversazioni con Alberto Acosta [L’economista Alberto Acosta Espinosa è fra i padri della Costituzione dell’Ecuador del 2008, l’unica a riconoscere la Natura come soggetto di diritto. Sostenitore della prima ora della Revolución Ciudadana, ha ricoperto il ruolo di Ministro dell’Energia e delle Miniere nel primo governo di Rafael Correa, prima di maturare la rottura con il Correismo su posizioni antiestrattiviste ed antiautoritarie. Attualmente è autorevole membro del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, e pienamente interno al dibattito dei movimenti ecuadoriani che hanno animato la rivolta contro le politiche [...]]]> Conversazioni con Alberto Acosta

[L’economista Alberto Acosta Espinosa è fra i padri della Costituzione dell’Ecuador del 2008, l’unica a riconoscere la Natura come soggetto di diritto.
Sostenitore della prima ora della Revolución Ciudadana, ha ricoperto il ruolo di Ministro dell’Energia e delle Miniere nel primo governo di Rafael Correa, prima di maturare la rottura con il Correismo su posizioni antiestrattiviste ed antiautoritarie.
Attualmente è autorevole membro del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, e pienamente interno al dibattito dei movimenti ecuadoriani che hanno animato la rivolta contro le politiche del governo di Lenin Moreno e del FMI.
In occasione della sua presenza in Italia all’incontro “Estrattivismo. Diritti della Natura, diritti dei Popoli“, si è confrontato  con i compagni e le compagne della Associazione Bianca Guidetti Serra in merito alle ripercussioni dell’estrattivismo sulle società, sugli Stati e sulle classi sociali, ed ai conflitti ad esso correlati.
Quella che segue è la prima parte di questo confronto.]

[Ass.BGS] Da alcuni mesi l’America Latina è in rivolta, dal Cile all’Ecuador, da  Haiti alla Colombia. Come si inseriscono in questo contesto i conflitti generati dall’estrattivismo?

[Acosta] Il concetto di estrattivismo è un concetto relativamente nuovo.
Quando ci accingiamo ad analizzarlo dobbiamo ricondurlo alla storia dei nostri paesi, di questa regione del mondo e delle sue relazioni con l’economia globale.
L’America Latina è stata integrata nel mercato mondiale circa 500 anni fa come una regione produttrice ed esportatrice di materie prime,  e possiamo dire che questa essenza di esportatrice di risorse primarie della nostra economia si mantiene fino al’attualità.
Ci sono molte storie differenti, ogni paese può contare sulla sua specificità, ma c’è una specie di scenario di fondo che spiega la storia dell’America Latina vista dalla prospettiva dell’estrattivismo.
I paesi dell’America Latina sono “paesi prodotto”: paesi caffè, paesi cacao, paesi bananieri, paesi minerari, paesi petroliferi.
C’è sempre qualche prodotto che caratterizza non solo l’economia ma anche la vita politica e la società di queste nazioni.
Questo è sempre stato un processo carico di violenza, sia contro la natura che contro le comunità.
Ha portato schiavismo, distruzione delle comunità indigene, un processo di deterioramento massivo della natura: deforestazione, perdita di suoli agricoli.
E questi processi  si stanno intensificando, perché negli ultimi dieci anni si è sviluppata una domanda mondiale crescente di prodotti primari che sta provocando un maggior impatto, una pressione maggiore sopra le risorse, sulla natura e sulle comunità in America Latina.

Perù, Cerro de Pasco. La città nella miniera.

Inoltre molti giacimenti minerari dei paesi del nord, come in Canada, sono diventati di più difficile accesso, perché la società si organizza, ed ha stabilito norme ambientali.
Di conseguenza si cercano risorse in altre parti del pianeta, dove si genera un’altra caratteristica di questo tipo di attività: il gigantismo.
Sono progetti giganteschi, enormi, che provocano tremenda distruzione, un tremendo impatto, e per questo le comunità hanno cominciato a resistere con una forza maggiore.
Anche prima c’era resistenza. C’è sempre stata. Ma le resistenze di adesso sono molto più potenti dal momento che le pressioni sono maggiori, e le comunità hanno più coscienza.
Io direi che è anche il risultato degli avanzamenti tecnologici, perché ora la gente ha la possibilità di conoscere più facilmente queste realtà.
Sono resistenze che hanno messo definitivamente in discussione quel discorso dominante che ci diceva che per progredire bisognava fare certi sacrifici.
E invece non è così, perché stiamo vedendo che i sacrifici continuiamo a farli e non progrediamo mai, ma al contrario i problemi continuano ad acutizzarsi.
In questo contesto bisogna collocare l’estrattivismo in America Latina.
Possiamo dire che gran parte dei problemi che sta attraversando l’America Latina nell’attualità, indipendentemente dall’orientamento dei governi, ha a che fare con la problematica estrattivista.

[Ass.BGS] Qual’è la situazione nei singoli paesi ?
Ci sono differenze in base agli orientamenti politici dei governi ?

[Acosta] Ci sono situazioni molto complicate riguardo ai singoli paesi.
Abbiamo visto per esempio resistenze realmente interessanti in Bolivia davanti a un governo progressista, il governo di Evo Morales.
La gente ha resistito davanti all’intenzione di costruire una strada nel TIPNIS, il Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure1. Indigeni che hanno resistito di fronte al governo di un indigeno, perché questo governo approfondiva l’estrattivismo.
Abbiamo un paese con un governo neoliberista, la Colombia, dove le comunità – indigene e non indigene – stanno resistendo all’estrazione mineraria, e lo fanno anche con molta forza.
Ci sono gli esempi di resistenza pacifica in Colombia contro grandi imprese minerarie nel Dipartimento del Tolima, che affrontano una delle multinazionali minerarie più grandi del pianeta, la Anglo Gold Ashanti2.
Sempre in Colombia c’è la resistenza per preservare le lagune del Los Paramos3, e anche in Perù, in tutta la zona di Cajamarca4.

Ande argentine, quota 4000m. La miniera d’oro Veladero, causa di uno dei più grandi disastri ambientali della storia del paese.

Stiamo vedendo anche il caso del Cile5 e dell’Argentina6, dove si lotta per impedire l’ampliamento dell’attività mineraria nel sud, nella zona dei ghiacciai.
Ci sono anche situazioni molto complicate in Ecuador, nel mio paese. E’ il paese che ha inserito nella Costituzione i diritti della Natura, che però non sono rispettati, anche se le comunità li reclamano.
C’è l’esempio della lotta degli Yasunidos [i difensori del Parco Nazionale dello Yasunì.NdR], che hanno fatto un enorme sforzo per proteggere una piccola regione nell’Amazzonia ecuadoriana da un progetto di estrazione petrolifera.
La resistenza non ha raggiunto l’obiettivo  perché il presidente dell’epoca, Rafael Correa, si è opposto alla richiesta di referendum7.

In  vari casi si ricorre a consultazioni popolari per cercare di frenare queste attività, come succede per esempio in Colombia, ed è molto interessante il fatto che queste resistenze siano di diversa natura, spesso muovendosi dentro al “labirinto giuridico”.
Parlo di labirinto giuridico perché i difensori della natura vengono perseguitati, criminalizzati, per il fatto di difendere la natura e difendere la loro vita.
Però questa gente ha anche imparato a muoversi dentro il labirinto giuridico per frenare l’estrattivismo.

Con diversi tipi di governo, con diversi tipi di lotta, in America Latina in questo momento c’è un processo per cercare di recuperare qualcosa di fondamentale: il diritto alla vita.
Perché gli estrattivismi sono stati storicamente, e ora ancor di più, una minaccia permanente per la vita.
Questo sistema vive per soffocare la vita, degli esseri umani e della natura.

[Ass.BGS] Quali sono le conseguenze dell’estrattivismo sulla società e sullo Stato?

[Acosta] Gli estrattivismi caratterizzano l’economia, le società, e la vita politica.
Creano  economie basate sulla rendita, Stati rentiers.
Queste risorse economiche generano logiche sociali clientelari, e questo finisce per debilitare in ambito politico la vita democratica. Non è una caso che la crescita dell’estrattivismo vada di pari passo con la crescita dell’autoritarismo e del presidenzialismo.
L’iperestrattivismo coincide con l’iperpresidenzialismo, caratterizzato da governi autoritari, governi violenti, governi corrotti.

Perù. Protesta contro le repressione di una lotta antiminera.

Gli estrattivismi sono violenti per definizione.
La violenza per l’estrattivismo – questo per me è fondamentale – non è una conseguenza ma una condizione necessaria.
Per provocare simili distruzioni della Madre Terra – come le amputazioni per un progetto minerario, o l’inquinamento tremendo di grandi territori per un progetto petrolifero – è necessaria la violenza.
E le comunità sono le vittime di questa violenza.

Torno al punto iniziale: l’estrattivismo costituisce uno scenario di fondo della storia e della realtà attuale.
E mi pongo la seguente domanda:  i nostri paesi sono poveri perché ricchi di risorse naturali?
C’è forse una sorta di maledizione, la maledizione dell’abbondanza.
Nella teoria economica si parla della maledizione delle risorse e del paradosso dell’abbondanza. Ne ho fatto una sintesi, la “maledizione dell’abbondanza”, per spiegare la realtà di queste economie8.
Però la vera maledizione è credere che non ci siano alternative, una maledizione che ha conformato l’immaginario della gente.
Il caso dell’Ecuador è paradigmatico: paese caffettero, paese cacaulero, paese bananero, paese petrolero, e ora che sta finendo il petrolio vogliamo essere un paese minero.
Non riusciamo ad immaginare un paese che non dipenda da una rendita della natura.
Allo stesso tempo siamo avvinghiati al progresso: non possiamo mettere a rischio il progresso, non possiamo mettere a rischio la crescita economica.
In nome di questo sacrifichiamo delle realtà.

Considero gli estrattivismi al plurale, perché non c’è ne è solo uno: c’è l’estrattivismo petrolifero, minerario,  agroindustriale, forestale …
Ebbene, gli estrattivismi cominciano ad essere presenti anche nei paesi del nord globale.
In Europa e negli USA c’è il problema del fracking, delle attività minerarie, e delle megaopere infrastrutturali collegate a progetti per trasportare gas, per trasportare petrolio, progetti per rendere la vita sempre più rapida, non in funzione di un miglioramento delle condizioni di vita della gente, ma per garantire una maggiore accumulazione del capitale.

[Ass.BGS] C’è una relazione abbastanza stretta con quella che era la maledizione della economia di enclave, soprattutto in Centro America,  dove  per esempio le infrastrutture, porti  o ferrovie ecc., erano esclusivamente finalizzate al trasporto della merce, e non al trasporto delle persone.

[Acosta] Gli estrattivismi, in diversa maniera, finiscono per produrre processi di de-territorializzazione dello Stato, che organizza la società al fine di collocare questi prodotti primari nel mercato mondiale.
Per me è sempre stata motivo di attenzione la rete ferroviaria argentina.
Ora non ne è rimasto molto perché è stata privatizzata e smantellata, però era come un flusso di vene dirette interamente verso Buenos Aires, perché in ogni parte la rete ferroviaria era stata pensata non per integrare l’Argentina con gli argentini, ma per integrare l’Argentina col mercato mondiale.

I.I.R.S.A. Deforestazione.

Questa logica è ancora presente in America Latina: si chiama I.I.R.S.A. (Iniciativa para la Integración de la Infraestructura Regional Suramericana), che è un sistema per integrare tutte le risorse naturali dell’America Latina nel mercato mondiale9. E’ un sistema progettato nel 2000 per impulso del Banco Interamericano de Desarrollo10.
In seguito, con i governi progressisti di Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia, Ecuador, e dello stesso Cile, si diede il via al CO.S.I.PLAN. (Consejo Suramericano de Infraestructura y Planeamiento), che è la stessa cosa, non è un cambiamento11.
L’America Latina con i governi progressisti non ha superato la maledizione dell’abbondanza, ma ha approfondito l’estrattivismo.

I problemi non sono stati risolti, la frustrazione aumenta, e questa è una delle principali spiegazioni dei conflitti.
Abbiamo società dove la gioventù sta perdendo la speranza. Non cerca più un’opzione di futuro, non cerca più una proposta politica per una via d’uscita, ma esce in strada a protestare per la frustrazione.
Per questo è importante evitare di costruire le nostre analisi sulla base di vecchi meccanismi, sulle nostre vecchie forme di interpretazione del mondo. Dobbiamo rifondarle, lasciare da parte le semplificazioni, per poter comprendere ciò che sta succedendo nella regione. (Continua)


  1. Video: El TIPNIS y los Derechos de la Naturaleza. 

  2. Video: Profiting from Conflict: Anglo American in Colombia.
    AngloGold suspends Colombia project after anti-mining vote, Reuters, 28 aprile 2017. 

  3. Diez páramos amenazados por minería y ganadería en Colombia, El Espectador, 16 febbraio 2016. 

  4. Cajamarca: el Valle Llaucano continúa lucha contra la Minera Yanacocha, Observatorio de Conflictos Mineros en el Perù, 18 novembre 2019. 

  5. Adele Lapertosa, Cile, lobby minerarie ostacolano legge per proteggere i ghiacciai, Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2019. 

  6. Storica sconfitta delle compagnie minerarie: i ghiacciai non si toccano!, GreenMe, 6 giugno 2019. 

  7. Verdetto del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura sul caso Yasuni, 15 agosto 2014. 

  8. Alberto Acosta Espinosa, La maldición de la abundancia, Comité Ecuménico de Proyectos CEP, Ediciones Abya-Yala, Quito, 2009, pp. 240. 

  9. Ana Esther Ceceña, Paula Aguilar, Carlos Motto, Territorialidad de la dominación: La Integración de la Infraestructura Regional Sudamericana (IIRSA), Buenos Aires, 2007, 60 pp.
    Video: IIRSA, La Infraestructura de la Devastacion

  10. Il progetto dell’ I.I.R.S.A. consiste nella costruzione di 10 assi multimodali – in Europa li chiameremmo “corridoi” – attraverso il Sud America per collegare i grandi centri di produzione con quelli dei consumi, accelerando i trasferimenti delle merci (petrolio, gas, minerali, commodities agroindustriali, acqua, biodiversità) e rafforzandone il controllo. Nella sua fase iniziale il progetto dell’ I.I.R.S.A. è stato fortemente sponsorizzato dagli Stati Uniti. 

  11. Nel gennaio 2009 la UNASUR (Unión de Naciones Suramericanas), ha istituito il CO.S.I.PLAN., un consiglio che ha incorporato l’I.I.R.S.A. come foro tecnico in tema di pianificazione delle infrastrutture. Nonostante le promesse di un modello di sviluppo differente, i progressismi sudamericani hanno adottato pienamente la progettualità sviluppata nel precedente contesto neoliberista. 

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Oltre la marea rosa, i movimenti resistono e creano https://www.carmillaonline.com/2018/08/24/oltre-la-marea-rosa-i-movimenti-resistono-e-creano/ Fri, 24 Aug 2018 01:12:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47796 di Fabio Ciabatti

Raul Zibechi, Il “mondo altro” in movimento. Movimenti sociali in America Latina, Nuova Delphi, 2018, pp. 140, € 10, 00.

La marea rosa dei governi progressisti latinoamericani, che tanto entusiasmo e speranza aveva suscitato nel mondo intero, si è esaurita. Quelli che non sono stati rovesciati, sono sulla difensiva. E questo è sotto gli occhi di tutti. Quello che invece è assai meno visibile è che i movimenti sociali che avevano spinto al governo le forze politiche anti-neoliberiste non sono scomparsi. Raul Zibechi, scrittore e giornalista uruguaiano, autore di numerose [...]]]> di Fabio Ciabatti

Raul Zibechi, Il “mondo altro” in movimento. Movimenti sociali in America Latina, Nuova Delphi, 2018, pp. 140, € 10, 00.

La marea rosa dei governi progressisti latinoamericani, che tanto entusiasmo e speranza aveva suscitato nel mondo intero, si è esaurita. Quelli che non sono stati rovesciati, sono sulla difensiva. E questo è sotto gli occhi di tutti. Quello che invece è assai meno visibile è che i movimenti sociali che avevano spinto al governo le forze politiche anti-neoliberiste non sono scomparsi. Raul Zibechi, scrittore e giornalista uruguaiano, autore di numerose pubblicazioni (tradotte anche in italiano) sui movimenti sudamericani, nel suo libro Il “mondo altro” in movimento, cerca di fare il punto su una situazione che, per quanto molto ricca di mobilitazioni dal basso, non vede al momento emergere attori di portata nazionale, fatte poche eccezioni come per esempio gli zapatisti.

L’opera si presenta come una autocritica nei confronti di quanto scritto dall’autore sullo stesso tema agli inizi degli anni duemila sebbene, a ben vedere, le analisi susseguitesi nell’arco degli ultimi quindici anni mostrino una significativa continuità (a fini comparativi viene riproposto in appendice un testo di Zibechi del 2003 intitolato I movimenti sociali latinoamericani: tendenze e sfide).
La caratteristica principale dei movimenti sudamericani, tanto rurali, quanto urbani, individuata da Zibechi è la loro territorializzazione, vale a dire il radicamento in spazi fisici conquistati o recuperati attraverso lunghe lotte come risposta strategica dei poveri rispetto alla crisi della vecchia territorialità della fabbrica, frutto, a sua volta, dei nuovi modelli di accumulazione capitalistica di stampo neoliberista. Questa caratteristica influenza e rende possibili una serie di altre qualità distintive: la ricerca dell’autonomia dallo Stato e dai partiti politici, la valorizzazione della cultura e dell’identità dei popoli e dei settori sociali in lotta, il controllo dell’educazione dei propri dirigenti e dei propri membri, il ruolo rilevante delle donne e delle famiglie, la creazione di organizzazioni i cui dirigenti non sono separati dalla base, le forme di lotta auto-affermative in parziale sostituzione di quelle meramente strumentali/rivendicative.
Tutto ciò valeva quindici anni fa come vale oggi. Ciò che adesso emerge in primo piano è il frutto del fallimento dei governi progressisti che si sono affermati all’inizio di questo secolo. Un fallimento che nasce sostanzialmente dallo loro incapacità di modificare il modello estrattivista delle economie nazionali. Un modello caratterizzato da un’economia da enclave che risulta verticalmente collegata ai flussi economici internazionali e che, al contempo, depaupera le risorse e l’ambiente senza avere ricadute positive per le popolazioni interessate.
Questa struttura produttiva determina una sostanziale impermeabilità del potere economico e politico alle rivendicazioni dei movimenti popolari. Di qui la necessità da parte dei movimenti di perseguire un’autonomia che non è soltanto indipendenza da partiti e stato, ma riguarda tutti gli aspetti della vita: “dalle idee, fino alla produzione e alla riproduzione della vita, il che prevede in uno spazio ben definito la possibilità di assicurare l’alimentazione e la salute di coloro che appartengono ai movimenti e, quando possibile, della comunità in generale”.1 In base a questa caratterizzazione così forte del concetto di autonomia, Zibechi sostiene che parlare di movimenti può essere inappropriato. Il concetto di movimento è stato infatti sviluppato in relazione alle società occidentali per indicare una politica dal basso che ha come interlocutore diretto lo Stato nei confronti del quale vengono avanzate rivendicazioni, saltando la mediazione di partiti e sindacati. Potremmo parlare in questo caso di autonomia in senso debole. Avendo a che fare con l’accezione forte dello stesso concetto, più che di movimenti, sostiene Zibechi, bisognerebbe parlare di società e popoli in movimento.
Il tratto principale dei soggetti collettivi nel periodo attuale è dunque che essi “resistono e creano nello stesso tempo” perché “non hanno uno spazio nelle società estrattive … Ecco perché hanno bisogno, qui ed ora, di creare spazi in cui si possano sentire al sicuro … e che, quando possibile, siano sotto il loro controllo e da loro difesi”.2 In breve la riappropriazione degli spazi è anche la riappropriazione dei mezzi di produzione, siano esse le terre o le fabbriche recuperate.
L’esempio più compiuto di questa autonomia è rappresentato dalle comunità zapatiste che non solo organizzano autonomamente la loro attività produttive e riproduttive, l’istruzione popolare e l’assistenza medica, ma si sono date anche delle proprie istituzioni di autogoverno politico e di autodifesa. Queste ultime, aspetto centrale secondo Zibechi, vengono attentamente delimitate al fine di evitare che la loro naturale tendenza ad assumere un carattere centralizzato e gerarchico soffochi la democrazia di base che connota le istituzioni politiche.

Il fatto che gli zapatisti sono radicati in zone rurali è sicuramente rilevante nell’ambito del discorso portato avanti dall’autore. L’autonomia in senso forte sembra infatti potersi applicare soprattutto alle lotte portate avanti dalle comunità contadine in grado di gestire la propria produzione e riproduzione in modo maggiormente compiuto rispetto a quanto accade per i movimenti cittadini.
Nelle zone rurali si è mantenuta maggiormente integra la comunità, con il suo portato di cultura, conoscenze e pratiche. E’ vero che questa comunità non si ripropone semplicemente, ma nel corso della lotta viene in qualche misura reinventata. Ciò non toglie che il punto di partenza sia differente rispetto alle città.
Soprattutto “nel caso dei movimenti urbani, come quello dei piqueteros argentini”,3 nota non a caso Zibechi, la riappropriazione territoriale si è dimostrata fragile di fronte alle politiche sociali dei governi progressisti finalizzate, tra l’altro, a controllare e neutralizzare le organizzazioni popolari. Anche perché i protagonisti di tali politiche provenivano da settori anti-neoliberisti che conoscevano perfettamente quei territori. E’ vero che c’è l’importante fenomeno delle fabbriche recuperate, ma questo è presente in misura significativa solo in Argentina (350 sulle oltre 400 censite da Zibechi) e si tratta di una realtà molto differenziata in cui si trovano anche impianti produttivi gestiti in modo non dissimile dalle imprese capitalistiche vere e proprie.
Siamo insomma “molto lontani dal poter parlare di autonomia integrale nelle città”, sebbene si possano trovare alcune esperienze che vanno in questa direzione. La conclusione dell’autore è che “l’autonomia si costituisce in tempi lunghi”.4

La passione militante e la profondità analitica con cui Zibechi continua a mappare i movimenti di base sudamericani e a riflettere su di essi è molto preziosa. Essa ci consente di uscire dalle secche di un dibattito che, almeno in Italia, sembra concentrarsi principalmente sulle variabili geopolitiche della situazione sudamericana. Ciò significa considerare come attori politici effettivi soltanto gli Stati. Perciò lo scontro cui staremmo assistendo e rispetto al quale dovremmo schierarci risulterebbe solo quello tra gli stati progressisti (talvolta elevati al rango di paesi socialisti o in transizione verso il socialismo) e gli Usa. Soggetti sociali, movimenti, gruppi politici di base sarebbero soltanto variabili dipendenti, nel migliore dei casi, o burattini, nel peggiore, degli Stati. E’ chiaro che l’ingerenza imperialistica degli Usa continua ad essere forte, spesso feroce e che la difesa nei suoi confronti è sacrosanta. Ciò però non può giustificare ogni tipo di politica. Con l’URSS abbiamo già visto dove ci hanno portato le giustificazioni ad oltranza in nome dell’antimperialismo.

Nelle nostre valutazioni politiche dovremmo tornare (o iniziare) a considerare i movimenti sociali come la variabile fondamentale. Se portato all’estremo il concetto di autonomia di Zibechi ci potrebbe indurre ad un atteggiamento di indifferenza per quanto riguarda la sorte dei governi progressisti latinoamericani. Non credo che sarebbe una atteggiamento giustificato. Anzi, penso che la questione del rapporto tra movimenti e Stato non dovrebbe essere abbandonata. In fin dei conti una delle maggiori differenze che si riscontrano tra lo scritto di Zibechi del 2003 e quello attuale sta nel fatto che il primo si concludeva aprendo alle nuove sfide poste dalle possibili articolazioni tra movimenti e istituzioni, mentre nel secondo la questione scompare. E’ possibile pensare a un rapporto che non riduca i movimenti a semplice cinghia di trasmissione o che, all’opposto, non li ponga in una situazione di completa separazione al fine di preservare la loro autonomia? Certamente, data la fase attuale, rispondere a questo tipo di domande sembra essere meno pressante. Nel 2003 si poteva prospettare una qualche forma di transizione verso rapporti sociali post-capitalistici che avrebbe dovuto implicare anche una trasformazione delle strutture statuali. E’ perciò condivisibile che oggi, come fa Zibechi, ci si concentri sui processi di autonomia dei movimenti sociali. Ma se è vero quanto sostenuto a proposito della differenza tra i contesti contadini e quelli urbani e considerando il fatto che la popolazione urbana del Sudamerica è ormai superiore all’80% del totale, è possibile ipotizzare che i mondi altri crescono nelle crepe del capitalismo sostituendo l’attuale modo di produzione per semplice accrescimento quantitativo?


  1. Raul Zibechi, Il “mondo altro” in movimento, Nuova Delphi, 2018, p. 48. 

  2. Ivi p. 74. 

  3. Ivi, p. 41. 

  4. Ivi, p. 49. 

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11 tesi sul Venezuela e una conclusione maturata https://www.carmillaonline.com/2017/08/19/11-tesi-sul-venezuela-e-una-conclusione-maturata/ Fri, 18 Aug 2017 22:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39935 di Juan Carlos Monedero*

“E seguitava a ripetere la stessa cosa: “Questo non è come in una guerra… In una battaglia hai il nemico davanti… Qui il pericolo non ha volto né orario”. Si rifiutava di prendere sonniferi o calmanti: “Non voglio che mi acchiappino addormentato o assopito. Se vengono a prendermi, mi difenderò, griderò, getterò i mobili dalla finestra… Scatenerò uno scandalo…”. Alejo Carpentier, La consacrazione della primavera

1. E’ indubbio che Nicolás Maduro non è Allende. E nemmeno è Chávez. Ma quelli che hanno fatto il [...]]]> di Juan Carlos Monedero*

“E seguitava a ripetere la stessa cosa: “Questo non è come in una guerra… In una battaglia hai il nemico davanti… Qui il pericolo non ha volto né orario”. Si rifiutava di prendere sonniferi o calmanti: “Non voglio che mi acchiappino addormentato o assopito. Se vengono a prendermi, mi difenderò, griderò, getterò i mobili dalla finestra… Scatenerò uno scandalo…”.
Alejo Carpentier, La consacrazione della primavera

1. E’ indubbio che Nicolás Maduro non è Allende. E nemmeno è Chávez. Ma quelli che hanno fatto il golpe contro Allende e contro Chávez sono, e anche questo è indubbio, gli stessi che ora stanno cercando di attuare un golpe contro il Venezuela.

2. I nemici dei tuoi nemici non sono tuoi amici. Può non piacerti Maduro senza che ciò implichi dimenticare che nessun democratico può mettersi dalla parte dei golpisti che hanno inventato gli squadroni della more, i voli della morte, il paramilitarismo, l’assassinio della cultura, l’operazione Cóndor, i massacri di contadini e indigeni, il saccheggio delle risorse pubbliche. E’ comprensibile che ci sia gente che non voglia schierarsi con Maduro, ma conviene pensare che dal lato di chi sostiene i golpisti ci sono, in Europa, i politici corrotti, i giornalisti mercenari, i nostalgici del franchismo, gli imprenditori senza scrupoli, i venditori di armi, quelli che difendono l’austerity e che celebrano il neoliberalismo. Non tutti quelli che criticano Maduro difendono queste posizioni politiche.Conosco gente onesta che non sopporta ciò che sta succedendo proprio adesso in Venezuela. Ma è evidente che dal lato di chi sta cercando un golpe militare in quel paese ci sono quelli che sempre hanno sostenuto i colpi di stato militari in America Latina o che mettono i loro affari prima della democrazia. I mezzi di comunicazione che stanno preparando la guerra civile in Venezuela sono le stesse corporazioni mediatiche che ci hanno venduto le armi di distruzione di massa in Iraq, il riscatto delle banche con soldi pubblici o il fatto che l’orgia di milionari e corrotti vada pagata da noi tutti con tagli e privatizzazioni. Sapere che si condivide la trincea con gente simile dovrebbe imporre una riflessione. La violenza deve essere sempre la linea rossa da non oltrepassare. Non ha senso che l’odio verso Maduro collochi qualcuno decente a fianco dei nemici del popolo.

3. Maduro ha ereditato un ruolo molto difficile, cioè gestire il Venezuela in un momento di caduta dei prezzi del petrolio e del ritorno degli Stati Uniti in Latinoamerica dopo la terribile avventura in Medioriente, e una missione impossibile, ossia sostituire Chávez. La morte di Chávez ha privato il Venezuela e l’America Latina di un leader capace di mettere in marcia politiche che hanno tolto dalla povertà 70 milioni di persone nel continente. Chávez ha capito che la democrazia in un solo paese era impossibile e ha messo le sue risorse, in un momento di benessere petrolifero grazie al recupero dell’OPEC, al fine di iniziare la tappa più luminosa degli ultimi decenni nella regione: Lula in Brasile, Correa in Ecuador, Morales in Bolivia, Kirchner in Argentina, Lugo in Paraguay, Mujica in Uruguay, Funes in El Salvador, Petro a Bogotá e anche Bachelet in Chile segnavano questa nuova fase. L’educazione e la salute sono arrivate ai settori popolari, è stata completata l’alfabetizzazione, si sono costruite case popolari, nuove infrastrutture, trasporti pubblici (dopo la privatizzazione di questi e l’abbandono del trasporto ferroviario), s’è frenata la dipendenza dall’FMI, s’è indebolito il legame con gli Stati Uniti creando la UNASUR (la sudamericana Unione delle Nazioni del Sud) e la CELAC (la latinoamericana Comunità di Stati Latinoamericani e Caraibici). Ci sono anche delle ombre, legate principalmente alla debolezza statale e alla corruzione. Ma ci vorrebbe un secolo perché i casi di corruzione nei governi progressisti in America Latina siano equivalenti, solo per citare u tema, ai costi della corruzione associati al riscatto bancario. La propaganda dei padroni della propaganda finisce per far sì che l’oppresso ami l’oppressore. Mai, dopo la demonizzazione di Fidel Castro, nessun leader latinoamericano era stato così insultato come Chávez.
Per redistribuire tra i poveri, si dovette dire ai ricchi d’America e anche d’Europa che dovevano guadagnare un po’ di meno. Non l’hanno mai tollerato, il che si può anche capire, specialmente in Spagna, dove, nel mezzo della crisi, i responsabili economici e politici del Partito Popolare rubavano a man bassa mentre dicevano alla gente che doveva stringere la cinghia. Avrebbe Chávez, quel “gorilla”, frenato i loro affari? Da quando ha vinto le prime elezioni nel 1998, Chávez ha dovuto affrontare numerosi tentativi di spodestarlo. Di certo, con l’aiuto inestimabile della destra spagnola, prima con Aznar, poi con Rajoy, e la già nota partecipazione di Felipe González facendo lobbying per i grandi capitali (è curioso che lo stesso Aznar, che ha fatto affari col Venezuela e con la Libia, poi si sia convertito in esecutore quando gliel’hanno ordinato; Gheddafi addirittura gli regalò un cavallo; Pablo Casado è stato l’assistente di Aznar in quella operazione, poi, cose della destra, hanno festeggiato il suo assassinio).

4. Chávez non ha lasciato in eredità a Maduro gli equilibri nazionali e regionali che ha costruito, i quali erano politici, economici e territoriali. Erano una costruzione personale in un paese che usciva da tassi di povertà del 60% della popolazione quando arrivò Chávez al governo. Ci sono cambiamenti che hanno bisogno di una generazione. E’ lì dove l’opposizione pretende strangolare Maduro, su problemi mal risolti come le importazioni, i dollari preferenziali o le difficoltà per frenare la corruzione che sfociano nei problemi di approvvigionamento.
Ciononostante Maduro ha saputo rieditare l’accordo “civico-militare” che tanto dà fastidio agli amici del golpismo. E’ una cosa evidente, dato che gli Stati Uniti han sempre provocato colpi di Stato cercando sostegni nei militari autoctoni mercenari o disertori. L’esercito in America Latina si capisce solo in relazione con gli USA. Li hanno formati, sia in tecniche di tortura che nella “lotta controinsurrezionale”, sia nell’uso delle armi che gli vendono che nel rispetto dovuto agli interessi nordamericani. In Venezuela gli stessi che hanno formato gli assassini della ESMA (Scuola Meccanica dell’Armata Argentina) o che hanno appoggiato l’assassino Pinochet hanno davanti adesso in Venezuela una situazione complicata (l’assalto da parte di mercenari vestiti da militari a una caserma a Carabobo era un tentativo di costruire la sensazione che vi fossero crepe in certi settori dell’esercito, una cosa che ad oggi pare invece non ci sia). Come hanno comprato militari gli USA hanno anche comprato giudici, giornalisti, professori, deputati, senatori, presidenti, sicari e chi dovesse servire per mantenere l’America Latina come “un cortile di casa”. Il cartello mediatico internazionale ha sempre coperto le spalle. E’ l’esistenza degli USA come impero che ha costruito l’esercito venezuelano. I nuovi ufficiali invece si sono formati nel discorso democratico sovrano e antimperialista e sono la maggioranza. C’è altresì un corpo di ufficiali, in gran parte sul punto di andare in pensione, che s’è formata alla vecchia scuola e le sue ragioni per difendere la Costituzione venezuelana sarebbero più che altro personali. Le deficienze dello stato venezuelano colpiscono anche l’esercito, ancor più in zone problematiche come le frontiere. Però le caserme in Venezuela sono schierate col presidente costituzionale. E per questo è ancora più patetico sentire il democratico Felipe González che chiede ai militari venezuelani di fare un golpe contro il governo di Nicolás Maduro.

5. A queste difficoltà consistenti nell’ereditare gli equilibri statali e gli accordi nella regione (l’amicizia di Chávez con i Kirchner, con Lula, con Evo, con Correa e con Lugo) va aggiunta la pugna dell’Arabia Saudita sul tema del fracking [per cui l’Arabia ha cercato di far scendere i prezzi del petrolio per rendere il metodo d’estrazione del fracking – che è relativamente caro, conviene solo con prezzi alti e viene visto come un’alternativa da parte degli USA – meno attraente rispetto a quelli tradizionali, n.d.t.] e con la Russia, il che ha fatto sprofondare i prezzi del petrolio, principale ricchezza del Venezuela. Questa inattesa caduta del prezzo del petrolio ha posto il governo Maduro in una situazione complicata (è il problema delle monocolture. Per comprenderlo basta pensare che cosa succederebbe alla Spagna se cadesse dell’80% il turismo per motivi esterni a qualunque governo. Otterrebbe Rajoy sette o otto milioni di voti in una situazione del genere?). Maduro ha dovuto ricostruire gli equilibri di potere in un momento di crisi economica brutale.

6. L’opposizione in Venezuela sta provando a fare un colpo di Stato dallo stesso giorno in cui vinse Chávez. Il Venezuela è stato l’ariete del cambiamento continentale. Finire il Venezuela significa aprire la canna del gas anche in quei luoghi in cui ancora non è tornato il neoliberalismo. Alle oligarchie danno fastidio i simboli che debilitano il loro punto di vista. E’ successo con la II Repubblica nel 1936, è successo in Cile con Allende nel 1973. Finire il Venezuela chavista è ritornare alla egemonia neoliberale e, altresì, alle tentazioni dittatoriali degli anni ’70.

7. Il Venezuela ha inoltre le riserve di petrolio più grandi del mondo, e poi acqua, biodiversità, l’Amazzonia, l’oro, il coltan [minerale raro costituito da columbite e tantalite, utilizzato per la costruzione di conduttori elettrici e nelle industrie bellica, spaziale e delle comunicazioni, n.d.t. da GarzantiLinguistica.It] (forse la riserva più importante al mondo di coltan).
Gli stessi che hanno portato la distruzione in Siria, in Iraq o in Libia per rubare loro il petrolio, vogliono fare lo stesso in Venezuela. Hanno bisogno di guadagnarsi previamente il favore dell’opinione pubblica affinché il furto non sia così evidente. Hanno bisogno di riprodurre in Venezuela la medesima strategia che costruirono quando parlavano di armi di distruzione di massa in Iraq.
O non ha creduto molta gente onesta che c’erano armi di distruzione di massa in Iraq? Oggi quel paese, tempo fa prospero, è in rovina. Chi ha creduto a quelle menzogne del PP (Partido Popular, Spagna, n.d.t.), che veda adesso come sta Mosul. Benvenuti finalmente gli ingenui. Le bugie continuano tutti i giorni. L’opposizione ha messo una bomba al passaggio di poliziotti a Caracas e tutti i mezzi stampa hanno pubblicato la foto come se la responsabilità fosse di Maduro. Un elicottero rubato ha lanciato granate contro il Tribunale Supremo e i mass media sono stati in silenzio. Sono atti terroristici. Di quelli che stanno in apertura nelle prime pagine e nei telegiornali. Salvo quando succedono in Venezuela. Un referendum illegale in Venezuela “spinge il regime fino al limite”. Un referendum illegale in Catalogna è un atto vicino al delitto di sedizione.

8. Il cartello mediatico internazionale ha trovato un suo filone. Si tratta di una riedizione della paura di fronte alla Russia comunista, alla Cuba dittatoriale o al terrorismo internazionale (non diranno mai che l’ISIS è una costruzione occidentale finanziata principalmente con capitale nordamericano). Il Venezuela è diventato il nuovo demonio. Così ci si permette di accusare gli avversari d’essere “chavistas” e si evita di parlare della corruzione, dello svuotamento delle pensioni, della privatizzazione degli ospedali, delle scuole e delle università o dei salvataggi bancari. Mélenchon, Corbyn, Sanders, Podemos o qualunque forza del cambiamento in America Latina vengono screditati accusandoli d’essere “chavistas”, ora che l’accusa d’essere “comunista” o “dell’ETA” è caduta in disuso.
Il giornalismo mercenario va avanti da anni con questa strategia. Nessuno mai ha spiegato che politica genuinamente bolivariana entra nei programmi dei partiti del cambiamento. Però fa lo stesso. L’importante è diffamare. E gente di buona volontà finisce per credere che ci sono armi di distruzione di massa o che il Venezuela è una dittatura dove, curiosamente, tutti i giorni l’opposizione manifesta (addirittura attaccando strutture militari), dove i media criticano liberamente Maduro (non come in Arabia Saudita, Marocco o Stati Uniti) o dove l’opposizione governa in comuni e regioni. E’ la medesima tattica che durante la Guerra fredda ha costruito il “pericolo comunista”. Per questo in Spagna, col Venezuela, abbiamo una nuova Comunità Autonoma della quale solo ci manca che ci dicano alla fine dei TG il tempo che farà a Caracas quel giorno. Su 100 volte che si nomina il Venezuela, 95 solo cercano di distrarre, occultare o mentire.

9. Il Venezuela ha un problema storico che non ha risolto. Non avendo miniere durante l’epoca coloniale, non è stata un Vicereame, ma un semplice Capitanato generale. Il secolo XIX è stato una guerra civile permanente, e nel secolo XX, quando si cominciò a costruire lo Stato, già aveva il petrolio. Lo Stato venezuelano si è sempre basato sulla rendita, è sempre stato carente di efficacia, bucherellato dalla corruzione e ostaggio delle necessità economiche degli Stati Uniti pattuite con le oligarchie locali. Lo scontro tra il Parlamento e la presidenza della Repubblica attuale si sarebbe dovuto risolvere giuridicamente. Segnali dell’inefficienza si sono resi evidenti da tempo. L’economia di rendita venezuelana non è stata superata. Il Venezuela ha redistribuito la rendita petrolifera tra i più umili, ma non ha superato la sua cultura politica basata sulla rendita né ha migliorato il funzionamento del suo Stato.
Ma non illudiamoci. Il Brasile ha una struttura giuridica più consolidata e il Parlamento e alcuni giudici hanno fatto un colpo di Stato contro Dilma Rousseff [presidente eletta dalla maggioranza dei brasiliani nel 2014, n.d.t.]. Donald Trump può sostituire il Procuratore Generale e non succede nulla, ma se lo fa Maduro, Capo di Stato ugualmente votato alle elezioni, lo si accusa d’essere un dittatore. Una parte delle critiche a Maduro sono ingannevoli perché dimenticano che il Venezuela è un sistema presidenzialista. E’ per questo che la Costituzione permette al presidente di convocare un’Assemblea Costituente. Piaccia o no, l’articolo 348 della Costituzione vigente del Venezuela dà la facoltà al Presidente di farlo, così come in Spagna il Presidente del Consiglio può sciogliere il Parlamento.

10. Zapatero ed altri ex Presidenti, il Papa, le Nazioni Unite stanno chiedendo a entrambe le parti in Venezuela un dialogo. L’opposizione ha messo insieme circa 7 milioni di voti (anche se poi sarebbe più complicato che potessero arrivare a un tale consenso su un candidato o candidata alla presidenza del Paese). Maduro, in un contesto regionale molto complicato, con forti ristrettezze economiche che interessano l’acquisto di beni primari di base, incluse le medicine, ha raccolto 8 milioni di voti (anche fossero 7, secondo le dichiarazioni alquanto sospette del presidente di Smartmatic [azienda inglese che gestisce il processo elettorale in Venezuela da vari anni] che ha appena firmato un contratto milionario con la Colombia). L’opposizione, come in altre occasioni, ha optato per la violenza e poi non capisce come Maduro raccolga tanti milioni di sostenitori. Se in Spagna un gruppo bruciasse una clinica medica o una scuola, se sparasse contro il Tribunale Supremo, assaltasse caserme, assoldasse dei poveri per seminare il terrore, impedisse con forme di guerriglia stradale il transito e, addirittura, bruciasse vive delle persone perché la pensano diversamente, qualcuno si meraviglierebbe se la cittadinanza votasse in senso contrario a quei matti?

11. Fallita la via violenta, all’opposizione venezuelana restano due possibilità: continuare con una via insurrezionale, incoraggiata dal Partito Popolare (spagnolo), da Donald Trump e dall’estrema destra internazionale, oppure provare a vincere alle elezioni. Gli USA mantengono la pressione (in dichiarazioni a un settimanale uruguayano il Presidente dell’Uruguay Tabaré ha detto di aver votato per l’espulsione illegale del Venezuela dal Mercosur (Mercato Comune del Sud) per paura delle rappresaglie dei paesi più grandi). 57 paesi delle Nazioni Unite hanno palesato l’esigenza che si rispetti la sovranità del Venezuela. Siccome gli USA non ottengono maggioranze per forzare il Venezuela, insistono nell’inventare spazi (come la Dichiarazione di Lima, che non ha nessuna forza giuridica, in quanto non hanno ottenuto la maggioranza all’OSA, Organizzazione Stati Americani).

Per questo alcuni oppositori, come Henry Ramos-Allup, hanno fatto appello alla fine della violenza. Il Venezuela ha in programma elezioni comunali e regionali. E’ lo scenario in cui l’opposizione dovrebbe dimostrare quella maggioranza che reclama d’avere. Il Venezuela deve convocare quelle elezioni ed è un’opportunità eccellente per misurare elettoralmente le forze. Perché, in caso contrario, lo scontro che stiamo vivendo s’incisterà e diventerà un’enorme cancrena. A chi interessa una guerra civile in Venezuela? Non facciamoci illusioni. Né al P.P. né a Trump interessano i diritti umani. Se fosse così, romperebbero con l’Arabia Saudita, che decapiterà 15 giovani per aver manifestato durante la Primavera Araba o dove vengono frustate le donne che guidano un’auto; o con la Colombia, dove sono 150 gli omicidi commessi dai paramilitari negli ultimi mesi; o col Messico, dove si assassina ogni mese qualche giornalista e vengono rinvenute fosse comuni con decine di cadaveri. Pene di 75 anni stanno chiedendo negli Stati Uniti contro i manifestanti che s’oppongono alle politiche di Trump.
Il Venezuela è diventato in Spagna la diciottesima Comunità Autonoma solo perché il presidente Rajoy si è dovuto presentare come testimone per la corruzione del suo partito. E’ più bello parlare del Venezuela che della corruzione degli 800 funzionari del P.P. imputati. Ci sono ingenui che credono loro. Che diranno adesso che il grosso dell’opposizione ha accettato di partecipare alle elezioni regionali in Venezuela? Il patto tra il PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo) e Podemos in Castilla-La Mancha è stato presentato dalla destra della regione come l’inizio della “venezuelizzazione” della Spagna. Che faccia tosta e quanta stupidità. C’è gente che vi crede. Intanto il P.P. sta in silenzio, per esempio, di fronte alle persecuzioni che la dittatura monarchica marocchina gestisce in Spagna contro i dissidenti politici, o all’incarcerazione ordinata dal dittatore Erdogan ai danni di un giornalista critico con la dittatura turca. Qualcuno avrà il coraggio di venirci a dire che a questi governi interessano i diritti umani?

Conclusione: non c’è bisogno d’essere d’accordo, né molto meno, con Maduro e il suo modo di fare per rifiutare il colpo di Stato che si vuole allestire in Venezuela. Stiamo parlando di non ripetere gli stessi errori credendo alle bugie che costruiscono i mass media. Il Venezuela deve risolvere i suoi problemi col dialogo. Anche se una fazione la sostengono i paesi più potenti dell’ambito neoliberale. Né il P. P. né la destra vogliono il dialogo. Vogliono che Maduro rinunci. E crede qualcuno che gli otto milioni di votanti dell’Assemblea Costituente resterebbero con le mani in mano? Un nuovo governo li reprimerebbe e perfino li assassinerebbe. I media direbbero che la democrazia venezuelana si starebbe difendendo dagli attacchi dei nemici della democrazia. E ci sarebbe di nuovo gente ingenua che vi crederebbe. Da parte del resto del mondo, in nome della democrazia, non ci si devono aspettare che due cose: esigere e incoraggiare il dialogo in Venezuela e capire che sarebbe meglio non permettere né al P.P. né alle destre internazionali, cominciando da Trump, di riproporre una delle loro miserie più terribili, che consiste nel seminare dolore in altri posti per nascondere il dolore che diffondono nei nostri stessi paesi.

*Juan Carlos Monedero è saggista, dottore in Scienze politiche e sociologia alla Università Complutense di Madrid, Spagna, e tra i fondatori del partito Podemos. – Traduzione dell’articolo in italiano: Fabrizio Lorusso – Link originale http://www.alainet.org/es/articulo/187390

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L’anno di Mújica e dell’Uruguay https://www.carmillaonline.com/2014/01/01/lanno-di-mujica-e-delluruguay/ Tue, 31 Dec 2013 23:00:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11787 di Fabrizio Lorusso

mujica rojo

Il presidente dell’Uruguay, l’ex guerrigliero José “Pepe” Mújica, vive in una fattoria alla periferia della capitale Montevideo con sua moglie, la senatrice Lucía Topolansky, guida un vecchio maggiolino e si dichiara vegetariano sfegatato. Salvo un paio di poliziotti di guardia all’entrata, cosa peraltro molto comune quasi ovunque nelle città latinoamericane, non si serve di particolari protezioni o scorte e conduce una vita umile e dignitosa, senza eccessi né lussi. Mújica dà in beneficienza il 90% del suo stipendio di 12mila dollari al [...]]]> di Fabrizio Lorusso

mujica rojo

Il presidente dell’Uruguay, l’ex guerrigliero José “Pepe” Mújica, vive in una fattoria alla periferia della capitale Montevideo con sua moglie, la senatrice Lucía Topolansky, guida un vecchio maggiolino e si dichiara vegetariano sfegatato. Salvo un paio di poliziotti di guardia all’entrata, cosa peraltro molto comune quasi ovunque nelle città latinoamericane, non si serve di particolari protezioni o scorte e conduce una vita umile e dignitosa, senza eccessi né lussi. Mújica dà in beneficienza il 90% del suo stipendio di 12mila dollari al mese, un gesto piccolo rispetto ai costi generali della politica o al bilancio statale, ma di certo molto significativo e simbolico, soprattutto in una regione come il Sud America  che è al primo posto per le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, cioè per la breccia tra ricchi e poveri. Per lui questo è un modo di “restare libero” e non un escamotage per creare un “personaggio” e ottenere riconoscimenti. Infatti, Mújica non ama essere chiamato “il presidente più povero del mondo”, un titolo affibbiatogli dalla stampa internazionale negli ultimi anni.

“Non sono povero, ma poveri sono quelli che hanno bisogno di molto per vivere, quelli sono i veri poveri”, replica il presidente parafrasando Seneca. Molti reportage e interviste tendono a esaltare il suo stile austero e sobrio, la sua vena contadina e la sua vita da persona “normale”, in controtendenza con una politica insultante e sempre più distante dalla gente in tutto il mondo. Tutto vero, ma si parla poco della sua storia politica e combattente, delle prigionie e delle sofferenze e dei successi ottenuti dopo la fine della dittatura che durò dal 1971 al 1984. Quegli anni Pepe li passò prevalentemente in carcere. Fu arrestato quattro volte in quanto membro del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros e l’ultima prigionia durò 13 anni, per cui fu liberato solo nel 1985 e si reintegrò alla vita politica dopo l’approvazione delle leggi di amnistia e il ritorno a un regime democratico.

Nel 1989 i Tupamaros entrarono a far parte della coalizione di partiti del Frente Amplio, al governo dal 2004, e si trasformarono nella sua anima maggioritaria e progressista con la fondazione dell’MPP, il Movimiento de Participación Popular. Pepe fu eletto deputato nel 1994 e poi senatore cinque anni dopo. Durante la presidenza del medico Tabaré Vázquez (2004-2009) Mújica diventa ministro dell’agricoltura, l’allevamento e la pesca ed entra quindi nel primo governo del Frente Amplio. Questa forza politica è nata nel 1971, ma è stata proscritta e i suoi esponenti perseguitati durante la dittatura. Ad oggi ne fanno parte numerosi partiti, ben sedici liste, in rappresentanza delle principali anime della sinistra ma anche di alcune forze d’ispirazione democristiana e di tradizione liberale.

Coerentemente col suo passato e il suo presente Mújica ha formulato discorsi energici e decisi nei summit internazionali contro il consumismo e il modello di sviluppo capitalista, con le sue espressioni ed eccessi degenerati e aberranti, e a favore dell’integrazione latino-americana e di una rivoluzione culturale ed educativa profonda: “Il mondo è prigioniero oggi della cultura della società dei consumi e ciò che sta consumando è la vita umana, in quantità tremende” per cui la gente ormai “non compra con i soldi, ma con il tempo che ha dovuto spendere per avere quei soldi. Non si può sprecare, quel tempo, va lasciato del tempo alla vita”. Di seguito incorporo un video, sottotitolato all’italiano da Clara Ferri, col discorso tenuto dal presidente uruguaiano alla conferenza della CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi) del 26-27 gennaio 2013.

Il 22 marzo 2012 il presidente ha letto un discorso in cui lo stato uruguaiano riconosceva pubblicamente la sua responsabilità nelle violazioni ai diritti umani durante la dittatura. In più occasioni Mújica, insieme a una parte della sua coalizione, ha promosso attivamente sia la revisione che la cancellazione della Ley de Caducidad, la legge che nel 1986 concesse l’amnistia ai repressori del regime dittatoriale, ma le misure adottate dal parlamento hanno subito in varie occasioni la bocciatura da parte della Corte Suprema (Costituzionale) che ne ha annullato gli effetti. Quindi la questione resta ancora in sospeso e, nonostante l’appoggio di Onu e Corte Interamericana dei Diritti Umani, sembra difficile che Mújica e la sua maggioranza, divisa su questo punto, riescano a trovare una soluzione e far riaprire i processi proprio a pochi mesi dalle prossime elezioni presidenziali.

Andando oltre i discorsi e le dichiarazioni, la novità rappresentata dall’esperienza dei governi del Frente Amplio e specialmente di José Mújica risiede nei fatti concreti, nella politica sociale ed economica, rivolte verso i più poveri, e nelle misure coraggiose approvate negli ultimi anni che stanno cambiando il volto del paese sudamericano e ravvivando le speranze dell’ondata progressista in America Latina.

Sicuramente i provvedimenti più trascendenti, che sono stati anche al centro delle cronache e delle inevitabili polemiche internazionali, sono quelli dell’anno che s’è appena concluso e che riguardano i matrimoni tra persone dello stesso sesso e la legalizzazione della marijuana.

Nello scorso mese di dicembre è stata promulgata la legge che legalizza e regola la produzione, il consumo e la vendita di marijuana nel paese, primo e unico caso in America Latina. Il consumo era già permesso, anche in luogo pubblico, ma restavano dei vuoti per le altre attività che da quest’anno saranno sotto il controllo statale. L’Uruguay è il primo paese al mondo a mettere sotto il controllo dello stato tutti gli aspetti legati alla vendita e produzione di cannabis e dei suoi derivati attraverso la creazione di un Istituto per la Regolazione e il Controllo della Cannabis dipendente dal Ministero della Salute. Potranno comprarla in farmacie autorizzate gli uruguaiani e gli stranieri residenti maggiori di 18 anni, ma potranno anche coltivarla privatamente (al massimo sei piante e 480 grammi di raccolto all’anno) o in club speciali riservati agli iscritti con un minimo di 15 soci e un massimo di 45.

Si potranno portare con sé o acquistare al massimo 40 grammi al mese. Il prezzo non è ancora stato definito, ma si pensa per esempio a una media di un dollaro al grammo per poter competere con l’attuale mercato illegale. Le persone che la coltivano in casa e i grossi produttori legali del mercato nazionale dovranno ricevere una licenza statale ed essere registrati. Chiaramente i coltivatori uruguaiani potranno esportare semi e piante nei paesi in cui l’uso medicinale o ricreativo della marijuana è permesso, per esempio negli stati nordamericani di Washington e del Colorado dove dal 1 gennaio è permesso il consumo.

Mujica bochoIl governo farà dei piani di prevenzione e sensibilizzazione ed è stata vietata la pubblicità della marijuana, come succede già con il tabacco in numerosi paesi. Sebbene l’Uruguay non sia uno dei paesi più colpiti dalla violenza della “guerra alla droga”, promossa ipocritamente di paesi proibizionisti come gli Usa e adottata massicciamente come politica di sicurezza nazionale, per esempio, dal Messico e dalla Colombia, la presenza del narcotraffico costituisce un problema grave, considerando anche che i paesi del Corno Sud sono tra i principali punti di transito e d’imbarco della coca diretta in Europa via Africa e Suez.

Una soluzione pragmatica e alternativa, seppur sperimentale, come ha ribadito lo stesso Mújica, rispetto alle fallimentari ingerenze statunitensi nella regione e alle politiche nazionali repressive e militari, corresponsabili di centinaia di migliaia di morti in America Latina, viene quindi da un piccolo paese che ha saputo sfidare l’opposizione interna delle destre e quella della comunità internazionale, in particolare dell’Onu e del suo Ufficio su droga e crimine, l’Unodc, secondo cui si starebbe violando la Convenzione sugli Stupefacenti del 1961.

E anche gli Usa hanno intimato il rispetto della Convenzione e degli impegni internazionali mentre al loro interno i cittadini di due stati hanno scelto di legalizzare l’uso ricreativo della marijuana, sancendo una svolta storica a livello culturale e di politiche pubbliche. Ma l’Uruguay va avanti e se l’esperimento avrà successo (o comunque sia, in realtà), avrà molto da insegnare al continente e al mondo e propizierà il ripensamento dei dogmi sul traffico e il consumo di stupefacenti che risalgono alla metà del secolo scorso e che hanno permesso soprattutto agli Stati Uniti, mossi dalla politica della guerra alla droga, di giustificare il loro enorme potere d’ingerenza negli affari continentali.

Sempre nel 2013 è stata promulgata anche la Legge del Matrimonio Egualitario per cui le coppie di persone dello stesso sesso potranno sposarsi ed è prevista “l’unione di due contraenti, qualunque sia la loro identità di genere o orientamento sessuale, negli stessi termini, con gli stessi effetti e forme di scioglimento che stabilisce il Codice Civile”, recita il testo della norma. S’è anche deciso che il cognome dei figli delle coppie omosessuali sarà stabilito da un accordo tra i due coniugi o da un sorteggio in mancanza di un accordo. Inoltre è stato fissato il diritto dei figli a riconoscere il loro padre biologico nel caso in cui la madre, sposata con un’altra donna, lo abbia concepito con un uomo e non in vitro.

L’Uruguay nel 2012 è diventato il primo paese sudamericano a permettere una depenalizzazione ampia dell’aborto, ora permesso nelle prime 12 settimane di gestazione dalla nuova Legge sul’Interruzione Volontaria della Gravidanza. In America Latina esistono norme simili solamente a Cuba, a Città del Messico, nella Guyana e a Porto Rico. Mújica spiegò in quell’occasione che depenalizzare “sembra molto più intelligente che proibire”, infatti, se “lasciamo sole le donne, se non ce ne curiamo e non diamo loro sostegno, la cosa va male”.

Vista la spiccata vocazione rurale, forestale e turistica dell’Uruguay, con l’84,6% del territorio dedicato all’agricoltura (primo posto al mondo) e la storica importanza dell’allevamento, anche in seguito all’incremento esponenziale negli ultimi anni del valore della terra, la stessa è considerata come un elemento strategico fondamentale per cui il governo Mújica ha proposto una legge che limita l’acquisto di terre da parte di imprese o gruppi in cui vi sia la partecipazione di un paese straniero come socio investitore. L’obiettivo è salvaguardare la sovranità alimentare e delle risorse naturali del paese, in controtendenza con quanto accade in altre realtà come l’Italia e il Messico, dove la svendita di spiagge e terreni o del patrimonio artistico e immobiliare si è trasformata in una soluzione facile per i problemi di bilancio o per ottenere l’approvazione di agenzie di rating, troike e business community internazionale. Il problema è che i conti si risanano per un anno o due, gli interessi sul debito si ripagano per un po’, però il patrimonio che viene alienato, invece di essere reso produttivo e valorizzato, è perso per sempre.

Nel 2012 è stata approvata la legge sulla donazione degli organi, pensata per ridurre in breve tempo la lunga lista d’attesa di pazienti in attesa di trapianti, stabilisce che ciascuno dei tre milioni e 400mila uruguaiani diventa un potenziale donatore di organi dopo il decesso, a meno che esplicitamente non decida il contrario e, nel caso dei minorenni, ci vuole il consenso del rappresentante legale.

Alle elezioni presidenziali e parlamentarie dell’ottobre di quest’anno il candidato del Frente Amplio sarà l’ex presidente Tabaré Vázquez che, dopo un quinquennio di pausa, ha annunciato recentemente la sua ridiscesa in campo. Più moderato rispetto a Mújica, che non può candidarsi a un secondo mandato per proibizione espressa della costituzione, e legato all’FMI, in quanto parte del Gruppo di Consulenti Regionale del Fondo per l’emisfero occidentale, il sessantanovenne Vazquez e il Frente sono in testa nei sondaggi. Nel 2008 Vázquez aveva mostrato il suo lato conservatore bloccando la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, anche se dal punto di vista economico nel 2007 aveva implementato una riforma fiscale progressiva che ha prodotto una diminuzione della povertà e delle disuguaglianze.

Inoltre, nonostante le misure “eterodosse” rispetto al dogma neoliberista, i governi del Frente hanno ottenuto buoni risultati economici con il PIL in crescita del 126% dal 2000 al 2011 (anche se una parte di questa crescita ricade negli anni del governo precedente) e del 5,7% e 3,8% nel 2011 e 2012. La riduzione della povertà è stata impressionante, dal 40% della popolazione nel 2005 al 12,5% nel 2012. La povertà estrema o indigenza è stata quasi azzerata. Statistiche a parte, non sembra comunque che ci siano intenzioni da parte del Frente e del suo candidato di fare marcia indietro sulle conquiste sociali dell’amministrazione Mújica, ma il loro destino evidentemente dipenderà anche dalla difesa che ne faranno la società e i movimenti oltre che dai risultati elettorali.

Emir Kusturica si appresta a girare un documentario sulla vita di Pepe Mújica. Mentre aspettiamo l’uscita del film, resta meno di un anno di governo al presidente guerrigliero per consolidare l’opera riformatrice che ha messo l’Uruguay al centro del mondo e ne ha fatto uno dei punti di riferimento in America Latina. Con l’augurio che anche i prossimi continuino ad essere gli anni di Mújica e dell’Uruguay.

LINK

Intervista a Monica Xavier, presidentessa del Frente Amplio  QUI

Video sottotitolati all’italiano:

Discorso di Mújica al vertice Rio+20

Essere di sinistra secondo Mújica

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Il Brasile non si ferma e manifesta https://www.carmillaonline.com/2013/07/05/il-brasile-non-si-ferma-e-manifesta/ Thu, 04 Jul 2013 22:00:12 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=7311 di Fabrizio Lorusso

TARIFA ZEROLa Confederation Cup è finita, il Brasile ha vinto il torneo, ma le piazze di decine di città non si sono più svuotate da quando, il 6 giugno scorso, il Movimento Passe Livre (MPL, nato nel 2005, di natura autonoma e orizzontale) convocò le prime manifestazioni della stagione contro l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico. L’MPL lotta per una “tariffa zero” nei trasporti, un “diritto alla città” per tutti che eliminerebbe le barriere alla mobilità e la ghettizzazione di classe nelle [...]]]> di Fabrizio Lorusso

TARIFA ZEROLa Confederation Cup è finita, il Brasile ha vinto il torneo, ma le piazze di decine di città non si sono più svuotate da quando, il 6 giugno scorso, il Movimento Passe Livre (MPL, nato nel 2005, di natura autonoma e orizzontale) convocò le prime manifestazioni della stagione contro l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico. L’MPL lotta per una “tariffa zero” nei trasporti, un “diritto alla città” per tutti che eliminerebbe le barriere alla mobilità e la ghettizzazione di classe nelle metropoli brasiliane. Per questo il movimento precede e trascende le proteste di questi giorni e ha una visione di lungo periodo che punta a mettere in discussione il modello di sviluppo postcapitalista e postmoderno delle città brasiliane che riproduce gli schemi della segregazione etnica e di classe.

In giugno, dopo una settimana di manifestazioni pacifiche, interrotte da meno pacifiche cariche della polizia, milioni di persone non protestavano più “solo per 20 centesimi”. Ed anche l’MPL, in realtà, non ha mai lottato “solo per 20 centesimi” ma per ben altro. Fino ad oggi, però, quella frase, riprodotta dai titoloni dei media di mezzo mondo fino allo spasimo, è servita da una parte a rendere l’idea della crescita del movimento e delle sue richieste, ma dall’altra ha contribuito in qualche modo a mettere in secondo piano o a diluire le rivendicazioni e la portata radicale, fondamentalmente anticapitalista, dello stesso MPL che è stato incalzato dagli eventi, almeno nelle prime fasi.

Da allora le manifestazioni continuano, anche se con intensità e partecipazione affievolite, e continua anche la repressione dalle Ruas alle favelas, con le incursioni della polizia che in questi quartieri popolari non usa “solo” proiettili di gomma ma pallottole vere e approfitta delle operazioni contro i manifestanti per rincarare la dose e invadere le comunità. La lotta storica dell’MPL e l’apparizione sulla scena e nelle strade della “nuova classe media”, cioè quegli oltre 40 milioni di brasiliani emersi dalla povertà con le politiche distributive di Lula e Roussef dal 2003, sono state accompagnate e, in più occasioni, messe in ombra dalla presenza di provocatori, di neofiti delle piazze esaltati o spaesati, da settori di classe medio-alta con un discorso più classista e nazionalista.

La moltiplicazione delle iniziative, delle città mobilitate, delle interpretazioni azzardate intorno al movimento e, infine, delle motivazioni scatenanti delle manifestazioni, con organizzazioni e persone molto diverse e addirittura contrapposte nelle stesse piazze, risponde a un’effettiva eterogeneità di idee e intenzioni, di lotte ed esigenze, che viene propiziata dall’uso massiccio dei social network come spazi dell’attivismo virtuale fai da te e del dibattito a colpi di slogan efficaci e click facili. Questo mix ha finito per mettere troppa carne al fuoco: richieste nuove, più astratte o generiche, come la lotta alla corruzione, alle tasse o all’inflazione, funzionavano come slogan e catalizzatori di un consenso traversale e di un malessere reale senza tradursi, però, in un programma politico che andasse oltre una lista di rivendicazioni.

san paoloAnche i reazionari media mainstream (Globo TV per prima) e le reti sociali, uno strumento utile ma ambiguo nel contempo, stavano palesemente contribuendo a trasformare le percezioni e la natura stessa della protesta, o almeno parti significative (e più mediatizzate) di essa, soprattutto in alcune città (per es. San Paolo): le rivendicazioni concrete passavano in secondo piano sotto la bandiera brasiliana, che “mette tutti d’accordo”, e sotto l’egida dell’antipolitica, non solo antigovernativa, ma anche potenzialmente antidemocratica.

Il “risveglio” è comunque andato avanti: anche docenti, camionisti, abitanti delle favelas, contadini e gruppi afrobrasiliani manifestano, nonostante il circo mediatico non se ne occupi. Circola uno slogan eloquente in rete: “chi non ha mai dormito abbraccia chi s’è svegliato”, che sta quasi a celebrare, con un pizzico di sarcasmo, un’unità d’intenti di vecchi e nuovi movimenti, di realtà vive e vegete e di altre, risvegliate dalla congiuntura, che sono più o meno strutturate, si ritrovano ora nelle piazze insieme alle altre e non si prevede quanto dureranno e come evolveranno.

Si ritrovano alcuni elementi del concetto di moltitudine, sviluppato da Michael Hardt e Toni Negri, nel movimento brasiliano, che tende a rifiutare i canali politici tradizionali e ad organizzarsi nella pluralità, orizzontalmente, senza leader, ma non in modo disorganizzato e del tutto spontaneo. Ne ha parlato Hardt in un’interessante intervista tradotta in italiano su GlobalProject, sottolineando come la tecnologia, anche nel caso brasiliano, sia solo uno strumento mentre l’organizzazione sociale e politica, insieme alla “maturità per combattere le provocazioni e gli interventi della destra” e la capacità di formare un potere “costituente” e non solo “destituente”, restino le vere sfide per il futuro del movimento.

Le proteste di buona parte dei movimenti non si erano mai addormentate. Alcuni risultati sono stati ottenuti nelle ultime due settimane, ma mi sembrano più congiunturali, magari anche emblematici, piuttosto che strategici: bloccato l’aumento del prezzo dei biglietti per il trasporto pubblico nelle grandi città, stanziati maggiori fondi per le infrastrutture, ritirate la PEC 37 (la legge che limitava le indagini sul reato di corruzione sottraendolo all’azione dei PM su cui, però, esiste un dibattito a sinistra relativo ad eventuali derive giustizialiste per l’eccessivo potere dei PM) e la legge omofoba e assurda nota come “cura gay” che trattava l’omosessualità come una malattia e prevedeva cure psicologiche per gli omosessuali.

Il senato ha approvato un provvedimento per ridurre a livello nazionale le tariffe dei trasporti pubblici che ora passa alla camera. La presidente Dilma Roussef ha incontrato l’MPL e i governatori, ha chiesto al parlamento di convocare un referendum sulla riforma politica e ha deciso di destinare il 75% dei proventi del petrolio all’istruzione e il 25% alla sanità. Ha anche rispolverato una vecchia proposta, da sempre osteggiata dai medici brasiliani, di contrattare dottori stranieri per far fronte alle emergenze sanitarie nazionali. Ma i medici dicono che non servono più dottori ma più investimenti.

A Belo Horizonte gli studenti dell’Assemblea Popolare Orizzontale (APH) da una settimana occupano l’edificio della camera, sede del potere legislativo locale dello stato di Minas Gerais, ed esigono la revoca degli aumenti dei biglietti dei mezzi pubblici, maggiore trasparenza nei contratti tra il comune e le imprese di trasporti, la tariffa zero per studenti e disoccupati oltre ad una riduzione generalizzata delle tariffe.

Il 3 luglio il Movimento dei Lavoratori Senza Tetto (MTST), i collettivi Resistencia Urbana, CSP-Conlutas, Itersindical, Periferia Ativa, il Forum Popolare per la Salute e l’MPL sono scesi in piazza a San Paolo, occupando la rinomata Avenida Paulista, per proporre alla Roussef un’agenda che superi i punti da lei proposti e le prime misure adottate: quindi tariffa zero, 10% del PIL per l’educazione, orario di lavoro a 40 ore settimanali senza riduzione del salario e dei benefici previdenziali, controllo statale sugli affitti ed eliminazione degli  sfratti, no alla privatizzazione della sanità, la classificazione della repressione delle forze dell’ordine come crimine grave e la demilitarizzazione dei corpi di polizia.

L’11 luglio ci sarà uno sciopero generale, indipendente dalle proteste dell’ultimo mese anche se ci sono molte rivendicazioni comuni, e unirà i sindacati delle città ai movimenti rurali per chiedere trasporti a “tariffa zero”, l’aumento degli investimenti in salute ed istruzione, lo stop alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro. L’MPL, che si mantiene molto attivo anche per la difesa dei detenuti politici (link bollettino), ha annunciato nuove mobilitazioni contro la repressione e la criminalizzazione dei movimenti sociali, per la tariffa zero, per una sanità e un’educazione pubbliche e gratuite e per il diritto alla casa.

Infine segnalo (e raccomando) il racconto “Cronaca di un titano incompreso”, metafora della situazione del Brasile e delle proteste.

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