studenti – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 7 https://www.carmillaonline.com/2023/09/17/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-7/ Sun, 17 Sep 2023 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78432 di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più [...]]]> di Emilio Quadrelli

Nichelino come Watts, Mirafiori come Detroit

Qui si apre una parentesi veramente interessante e di una straordinaria freschezza in quanto, negli articoli de “La classe” sul proletariato in pelle scura o su ciò che verrà chiamato operaio multinazionale, si ritrovano temi e argomentazioni che sembrano essere il frutto di analisi del presente. L’attenzione nei confronti del proletariato nero statunitense, degli operai meticci britannici, nord africani presenti in Francia o turchi in Germania non è secondaria e, sulla scia di ciò, l’individuazione di tratti spiccatamente neocoloniali all’interno del punto più alto del ciclo di accumulazione capitalista. Con ciò si pone una pietra tombale all’edulcorata visione gradualista e riformista la quale, nello sviluppo delle forze produttive capitaliste, intravvede in prima istanza un principio di civilizzazione per rimettere al centro quel lato cattivo della storia sul quale non poco si era soffermato Marx nella sua “Miseria della filosofia”. Del resto questo proletariato in pelle scura mostra non poche affinità con il proletariato locale che è andato a sedimentare la nuova composizione di classe, a ben vedere gli operai che vanno a posizionarsi intorno alla catena di montaggio sono soprattutto operai meridionali ossia prodotti diretti della colonia interna italiana 1.

Esattamente qui, contro tutte le retoriche risorgimentali care al movimento operaio ufficiale, si delinea un discorso storico–politico che non fa sconti sul tratto coloniale che sta alla base dell’unificazione italiana e che non poche ripercussioni finisce con l’avere sul presente. Molto realisticamente la monarchia sabauda è colta nella sua realtà ossia quella di una tra le monarchie più reazionarie in vena di conquiste e annessioni e non è secondario rilevare come, proprio da ambiti interni a “La classe”, prenderà forma una contro narrazione anche sul mito garibaldino il cui tratto conquistatore e coloniale sarà irrimediabilmente marchiato a fuoco riportando alla luce il massacro di Bronte2. Per altro verso sempre da ambiti interni o affini a “La classe” prenderà forma una rivisitazione storica sul brigantaggio meridionale come forma di resistenza al dominio coloniale della monarchia sabauda3.

La lettura che “La classe” dà del nuovo operaio deportato nelle metropoli industriali del nord è una lettura sostanzialmente coloniale, da qui la facile affinità con tutti quegli spezzoni e segmenti di classe operaia i quali, pur con storie diverse, respirano la medesima aria di famiglia. In ciò vi è una drastica e radicale rottura con tutta la narrazione socialdemocratica e riformista sullo sviluppo del capitalismo e sulle modalità dei suoi cicli di accumulazione4. Nella narrazione classica del movimento operaio ufficiale sullo sviluppo del capitalismo il colonialismo non è mai stato osservato come tratto essenziale dell’accumulazione. Le colonie sono sempre state considerate una appendice dello sviluppo capitalistico, sicuramente importanti per quanto concerne l’accaparramento di materie prime essenziali ma del tutto prive di interesse per quanto riguarda l’estrazione di plusvalore. Le colonie sono state considerate importanti per i materiali grezzi presenti ma non per come il capitalismo metteva a profitto il corpo dell’indigeno anzi, sotto questo aspetto, il colonialismo è spesso stato osservato come un doloroso ma necessario passaggio poiché, proprio grazie al colonialismo, i popoli colonizzati avrebbero potuto accedere ai fasti della modernità. In sostanza si è finito per ignorare bellamente l’importanza che il colonialismo e il coevo modello coloniale hanno avuto per l’accumulazione capitalista.

“La classe” non solo si emancipa da queste pastoie, ma indica una lettura, che solo molti anni dopo diventerà moneta corrente, non poco innovativa a proposito dello sviluppo capitalista. L’attenzione che il giornale riversa verso il proletariato in pelle scura, le sue lotte e le sue forme organizzative ne sono una non secondaria esemplificazione. Prima di chiudere su questo aspetto pare importante rilevare come, proprio a partire da ciò, per “La classe” l’unità operaia è, in prima istanza, unità di quei settori operai i quali poco o nulla hanno da guadagnare nel rapporto con il capitalismo. Si evidenzia, cioè, come “La classe” non sia attratta dal mostro sacro dell’unità (indistinta) della classe ma focalizzi interesse e attenzione su determinati comparti operai. In Italia, proprio in virtù della colonia interna rappresentata dal Meridione, la spaccatura dentro la classe operaia non avrà tratti macroscopici ma, se volgiamo lo sguardo verso un paese come gli USA, è facile comprendere come questa contrapposizione dentro la classe assuma contorni di ben altra natura. Negli Stati Uniti la classe operaia bianca di ceppo anglosassone ha sempre giocato un ruolo avverso nei confronti sia dei neri, sia del proletariato immigrato identificandosi quasi integralmente con le politiche imperialiste del governo, di ciò l’appoggio alla guerra contro il Vietnam ne ha rappresentato qualcosa di più che un semplice esempio.

Veniamo ora a un altro tema che caratterizza il giornale: gli studenti e il rapporto con il movimento studentesco. Agli studenti il giornale dedica un certo spazio compiendo con ciò una non secondaria rottura con la tradizione operaista. Per l’operaismo che abbiamo definito classico e/o tradizionale gli studenti non rappresentavano alcun interesse. Considerati genericamente piccola borghesia potevano riscuotere un qualche interesse se, come singoli, decidevano di approdare alla militanza operaista, ma gli studenti in quanto tali erano considerati del tutto estranei e inutili alla lotta operaia. Ciò accade, ovviamente, prima del ’68 dopo di che, nulla sarà come prima.

Non lo sarà perché si modifica radicalmente l’analisi sulla composizione di classe della scuola e in particolare sulla figura del tecnico il quale, come più volte “La classe” riporta, è artefice nella fabbrica di lotte non secondarie, anche perché, nelle punte avanzate del capitalismo, ciò è soprattutto vero per quanto riguarda le grosse fabbriche del milanese dove la ristrutturazione capitalista poggia esattamente su una dilatazione e massificazione del tecnico il quale, dentro questo passaggio, perde velocemente il suo ruolo di comparto privilegiato per farsi classe operaia a tutto tondo. La scuola, attraverso l’inaugurazione della scuola di massa5, ha cambiato volto e si è adeguata alle istanze e alle esigenze del neocapitalismo.

La proletarizzazione del corpo studentesco è un dato di fatto che non può essere ignorato e su ciò “La classe” si spende non poco. Il legame operai-studenti ha ormai perso quel tratto ideologico in cui tendevano a rinchiuderlo tanto il riformismo quanto le varie anime dell’ortodossia comunista e che riduceva questi ultimi simili a una sorta di boy scout, proni a farsi missionari davanti alle fabbriche. Con ciò veniva anche meno quella funzione sociale che riformisti e ortodossi vari avevano prefigurato per gli studenti dentro i quartieri poiché, per “La classe”, questi non sono un supporto ideologico esterno agli operai ma parte dello stesso fronte di lotta. La loro proletarizzazione li rende del tutto interni o almeno affini alla lotta operaia benché nessuno si sogni di mettere in discussione la centralità e la direzione operaia. C’è un altro aspetto sul quale, però, vale la pena di soffermarsi: ossia le contaminazioni che il mondo operaio subisce dal e attraverso il mondo studentesco.

Abbiamo detto, parlando del maoismo, di quanto l’indicazione dello sparare sul quartier generale abbia fatto presa su questa tipologia operaia e di come l’antiautoritarismo sia un tratto indelebile della lotta operaia ma abbiamo anche detto come questa classe operaia si caratterizzi per il rifiuto del lavoro e per il volere tutto. È una battaglia di potere e di libertà che caratterizza questo soggetto operaio il quale ha nelle corde non il mito soviettista dell’operaio assunto a simulacro, ma semmai la sua negazione, sulla scia di Marx è la classe, non per sé ma contro di sé. Poteva una classe operaia simile rimanere immune dalle suggestioni libertarie del ’68 delle quali il movimento studentesco era stato l’alfiere? Poteva questa classe operaia tutta protesa a liberare il tempo dal lavoro per vivere, non venire in qualche modo attratta dagli stili di vita che il ’68 aveva inaugurato? Questa classe operaia ha rotto con la tradizione comunista a trecentosessanta gradi e non diversamente dagli studenti è alla ricerca di qualcosa d’altro.

Liberare il tempo dal lavoro significa sperimentare possibili rotture con l’alienazione della condizione operaia, rompere con gli schemi esistenziali entro i quali il rapporto sociale capitalista ha confinato gli operai. Si tratta, allora, di coniugare la lotta in fabbrica con l’avventura della vita; da lì, quindi, anche uno strappo generazionale con la famiglia e gli orizzonti quanto mai ristretti che le fanno da sfondo. Questo sarà ancora più vero per le donne, quelle operaie in particolare, le quali dentro quella stagione possono porre in atto una duplice liberazione: la lotta contro la schiavitù del lavoro salariato, ma anche la lotta contro il loro ruolo sociale. Per le donne, ancora più che per gli operai maschi, liberare il tempo dal lavoro significa rompere tutte le gabbie in cui non solo il lavoro salariato e il comando le ha imprigionate ma fare i conti con il patriarcato e tutte le sue derive. Per le donne la lotta significa iniziare a riappropriarsi di sé stesse, a esistere come soggetto autonomo, a parlare in prima persona a non essere più appendici di qualcosa, tutti temi, questi, che erano stati propri del ’68 che trovano non pochi consensi tra le donne in fabbrica6.

Sulle donne “La classe”, in realtà, si mostra ben poco attenta e se sulla razza e il colonialismo anticipa temi la cui attualità oggi è a dir poco dirompente, sul genere si mostra ben poco innovativa anche se non del tutto ignara e questo, a conti fatti, è forse il vero e proprio rimprovero che le può essere fatto. Con ciò chiudiamo la parentesi sull’astratto per tornare a calarci nella concretezza delle lotte e del dibattito che intorno a queste si va sviluppando. Arriviamo così a Corso Traiano e all’epilogo de “La classe” provando, al contempo, a gettare un corposo sguardo sul presente.

Il 3 luglio 19697 segna un passaggio decisivo per il movimento dell’autonomia operaia, quella che è stata chiamata la battaglia di Torino anticipa ciò che, di lì a poco, diventerà la normalità del conflitto operaio e studentesco e dà obiettivamente il la, alla anomalia italiana degli anni settanta. Corso Traiano è una svolta dalla quale non è possibile tornare indietro, una accelerazione che finirà con lo scompaginare la stessa “La classe” a riprova di come non si possano separare le questioni organizzative da quelle politiche e come le strutture formali possano vivere ed esistere solo se in grado di stare sul filo del tempo del partito storico. Corso Traiano conferma, ancora una volta, come la dialettica marxiana prassi/teoria/prassi sia la sola e unica stella polare alla quale affidarsi e come, fuori da ciò, vi sia solo sclerotizzazione burocratica, in altre parole corso Traiano mostra come Lenin avesse ancora una volta ragione. I fatti sono abbastanza noti, pertanto ci si limiterà a riportarli in maniera estremamente sintetica.

Il 3 luglio il sindacato ha indetto uno sciopero e una manifestazione contro il caro affitti e la questione abitativa mentre, da parte sua, “La classe” ha indetto una manifestazione per il pomeriggio indicando la porta 2 di Mirafiori come luogo del concentramento. Si tratta di una decisione che ha suscitato non poche perplessità anche all’interno dell’assemblea operai–studenti poiché, non pochi, considerano l’iniziativa prona all’avventurismo con possibili ricadute nefaste per il livello repressivo che sicuramente comporterà, con la conseguenza di un vero e proprio azzeramento di tutto il lavoro politico svolto dall’assemblea e dal giornale negli ultimi mesi. Una parte dell’assemblea obietta che un conto è la forza che si è in grado di esercitare dentro la e le fabbriche, ma ben altra cosa è riversare questa forza fuori dalla fabbrica; lì la partita cessa di essere focalizzata sul padrone e si sposta immediatamente sullo stato, lì il terreno in parte consolidato della violenza operaia in fabbrica va a misurarsi su un terreno in gran parte sconosciuto, il che potrebbe comportare una disfatta con conseguente annichilimento di tutto quel tessuto di avanguardie di fabbriche che un lavoro certosino aveva costruito nei mesi precedenti.

Si tratta di dubbi più che legittimi e sensati ma che, per altro verso, mostrano come, anche inconsciamente, in non pochi casi la struttura organizzata tenda a privilegiare la conservazione di sé stessa piuttosto che arrischiare l’incognita del salto politico. Se pensiamo, infatti, a come, in un contesto ben più drammatico, a ridosso dell’insurrezione sovietica, Lenin si trovò contro una buona fetta del partito bolscevico, diventa abbastanza evidente come la decisione sia sempre un momento drammatico, ben poco lineare e come, in aggiunta, sia sempre un grano di azzardo quello che finisce con l’accompagnarla. Siamo al momento dell’audacia, dell’audacia e ancora dell’audacia, il che, per forza di cose, non può fare affidamento su troppe certezze. Alla fine, soprattutto per la spinta proveniente dalla componente operaia che evidentemente aveva maggiormente il polso degli umori interni alle fabbriche, la decisione per la manifestazione autonoma è presa, davanti alla porta 2 di Mirafiori si deciderà il destino delle lotte operaie.

Il corteo non riuscirà mai a partire perché immediatamente caricato da polizia e carabinieri, ma la sorpresa arriva esattamente in quel momento poiché dopo un attimo di sbandamento il corteo si ricompatta e inizia a reagire, mentre pressoché in contemporanea, dal Lingotto e da altre fabbriche, approdano altri cortei operai verso la porta 2 di Mirafiori e stessa cosa fanno gli studenti. In brevissimo tempo gli scontri si allargano a macchia d’olio finendo con il coinvolgere non pochi quartieri operai tanto che la battaglia di Torino si protrarrà sino a notte inoltrata e troverà nel quartiere operaio di Nichelino il suo epicentro. Polizia e carabinieri sono in rotta, la classe operaia ha vinto, questo ridefinisce per intero i rapporti di forza tra le classi in città ma non solo, poiché quanto accade alla Fiat è qualcosa che ha ripercussioni immediate sui rapporti di forza generali finendo con il porre in crisi gli stessi assetti governativi. Tutto ciò obbliga anche a un ragionamento ex novo per quanto riguarda il terreno dell’organizzazione politica e la messa in campo di adeguate strutture militari in grado di farsi carico del livello di scontro che spontaneamente la lotta operaia ha posto all’ordine del giorno e, come la dinamica stessa della battaglia di Torino ha evidenziato, si pone il problema, non più rimandabile, del rapporto tra lotta di fabbrica e lotta dentro la metropoli. Una quantità di questioni che investono direttamente tutta l’esperienza portata avanti da “La classe”, una accelerazione che va ben oltre gli orizzonti che, prima di corso Traiano, questa aveva ipotizzato.

Ben prima di corso Traiano “La classe” si era attivata per cercare di far compiere un salto all’organizzazione autonoma operaia e per fine luglio aveva convocato a Torino un convegno dei comitati e delle avanguardie operaie, una operazione che aveva il duplice scopo di iniziare a tirare le somme di ciò che si era andato sedimentando in termini di lotte, esperienze, progettualità e dibattito dentro la sempre più diffusa area dell’autonomia operaia e, a partire da ciò, delineare i necessari passaggi politici organizzativi in grado di aggredire e affrontare le nuove scadenze a partire da quella decisiva dei contratti dell’imminente autunno. “La classe”, quindi, è pienamente cosciente che la sua funzione, almeno in quella forma, è giunta al termine e che occorre andare oltre quella pur fondamentale esperienza, in tutto questo, comunque, immagina di attivare questo passaggio in continuità con quanto posto a regime sino a quel momento, il convegno dovrebbe mirare esattamente a ciò ovvero chiudere l’esperienza de “La classe” e dalle sue ceneri far sorgere un soggetto politico capace di farsi carico complessivamente dell’organizzazione operaia. Le cose, però, andranno diversamente.

Le due anime che avevano convissuto dentro il giornale, adesso più di prima, acutizzano le loro differenze e in ciò la battaglia di Torino ha sicuramente giocato un ruolo non secondario. Come si è detto non vi era stata unanimità dentro al giornale sull’indire una manifestazione autonoma, una diversità che rimandava, per lo più, alle due posizioni presenti nel giornale. L’ala prettamente operaista, che di lì a poco darà vita a Potere Operaio, aveva mostrato le maggiori perplessità sulla manifestazione mentre l’ala che si costituirà in Lotta Continua era stata quella che maggiormente aveva spinto perché la manifestazione si facesse. In ciò emergono e in maniera neppure troppo sottile le differenze sul modello di organizzazione che le due componenti de “La classe” hanno a mente. Per i futuri militanti di Potere Operaio l’organizzazione è organizzazione di quadri operai con funzione di avanguardia e direzione delle lotte e, in piena coerenza con ciò, il problema dell’organizzazione operaia è strutturarsi in maniera tale da prendere la testa del movimento inoltre, per questi militanti, la centralità della fabbrica rimane pressoché assoluta, è lì, senza farsi distogliere da alcuna sirena di lotta metropolitana che va concentrato e focalizzato tutto il lavoro delle avanguardie operaie. In questo senso, pur con tutte le tare del caso, coloro che daranno vita a Potere Operaio si mostrano in più di un tratto, interni alla tradizione comunista.

Molto diversa l’impostazione che fa da sfondo ai militanti che daranno vita a Lotta Continua. Anche per loro il nodo dell’organizzazione è centrale ma tendono ad affrontarlo in maniera assai diversa dai primi. Per chi andrà a formare Lotta Continua, è la lotta e le sue forme che costruiscono l’organizzazione e proprio per questo l’organizzazione non deve porsi il problema di prendere la testa del movimento ma deve, invece, essere la testa del movimento. Due ipotesi che rimandano a idee e concezioni abbastanza diverse sul senso che assume l’autonomia operaia. Ciò che diventerà Lotta Continua avrà un ampio seguito operaio e alla FIAT potrà vantare a lungo una egemonia incontrastata, cosa che obiettivamente non si può dire di coloro che perseguono l’ipotesi di Potere Operaio nonostante l’area che si coagula intorno a Lotta Continua non sia per nulla fabbrichista ma, al contrario, fautrice di una socializzazione della lotta operaia nella la metropoli il che diventerà quanto mai esplicito poco tempo dopo, quando lancerà il programma “Prendiamoci la città”8.

Questa area non rinuncerà certo alla centralità operaia, anzi, e questo era già evidente all’interno dell’esperienza de “La classe”, ma allarga il suo raggio d’azione verso la complessità delle figure proletarie che animano la metropoli. Era stata quella a rompere con gli schemi rigidi del vecchio operaismo, in parte presenti anche nel nuovo, in merito agli studenti e al ruolo giocato da questi nei nuovi scenari del neocapitalismo; non per caso proprio questa area politica fu in grado di farsi egemone soprattutto tra gli studenti medi dei tecnici e dei professionali e in più, sempre quest’area, iniziò a lavorare, frutto di un non secondario radicamento all’interno dei quartieri operai e proletari, con il proletariato extra legale e prigioniero del resto, ancor prima che lo scontro in fabbrica si radicalizzi e vada in scena la battaglia di Torino, l’11 aprile proprio Torino aveva visto la battaglia delle Nuove, quando i detenuti si erano ribellati e avevano distrutto la prigione. Ben difficilmente, a partire da queste non secondarie differenze, le due ipotesi possono convivere e pensare, per di più, di compiere insieme quel salto qualitativo politico–organizzativo che corso Traiano ha reso quanto mai urgente.

Il Convegno, di fatto, non approda a nulla. Le due principali anime che stavano dentro a “La classe” tendono a polarizzare le loro differenze ma, con ogni probabilità, non si tratta solo e semplicemente di questo, bensì del fatto che tutto quello che “La classe” poteva dare, aveva dato e questo non è stato certo poco. Corso Traiano non era stato, come gli avvenimenti dell’autunno saranno lì a dimostrare, un fulmine al ciel sereno e neppure un falò tanto intenso quanto effimero, ma il corposo incipit di una nuova e durissima stagione di lotta. L’offensiva operaia non lascia spazi a interpretazioni di altro tipo, è il salto alla guerra. Dentro tale scenario “La classe” non poteva più svolgere il ruolo che, con non poco merito, aveva svolto nei pochi mesi della sua attività, un passaggio politico si mostrava tanto urgente quanto necessario e, con ogni probabilità e proprio in virtù di ciò, più che la nascita di una organizzazione monolitica a dover sbocciare erano cento fiori. Siamo di fronte a un passaggio sicuramente complessivo ma anche complesso, passaggio che ben difficilmente può essere perimetrato in un unico contenitore. Le due aree de “La classe” rimandano a questioni reali e per nulla effimere, l’aver ipotizzato e tentato strade affini ma diverse sembra essere stato qualcosa di obbligato e imposto da una situazione materialisticamente determinatasi, più che il frutto di cattivi ideologismi.

( 7continua)


  1. Cfr. A., Serafini, L’operaio multinazionale in Europa, Feltrinelli, Milano 1974.  

  2. Su questa vicenda si veda, P. Iaccio, Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di scuola non hanno raccontato. Un film di Florestano Mancini, Liguori, Napoli 2002.  

  3. Tra l’immensa pubblicistica inerente a questo fenomeno si può vedere, F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1966. 

  4. Su questo aspetto si veda l’ottimo testo di S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre Corte, Verona 2008.  

  5. Cfr. G. Decollanz, Storia della scuola e delle istituzioni educative. Dalla Legge Casati alla riforma Moratti, Edizioni Laterza, Roma–Bari 2005.  

  6. Su questa tematica si veda in particolare: E. Bellé, L’altra rivoluzione. Dal sessantotto al femminismo, Rosemberg & Sellier, Torino 2021.  

  7. D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano (Torino 3 luglio 1969), Edizioni BFS, Pisa 1997.  

  8. Al proposito si veda, «Lotta continua», Prendiamoci la città. II Convegno nazionale, Bologna 24 luglio, Anno III, N. 12, Milano 1971.  

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I cinesi al liceo https://www.carmillaonline.com/2022/08/07/i-cinesi-al-liceo-2/ Sat, 06 Aug 2022 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73140 di Valerio Evangelisti

[Questo testo è apparso per la prima volta in Centro Studi dei Cobas Scuola (a cura di), Quando suona la campanella. Racconti di scuola, Manifestolibri, 2006.]

Le lezioni erano cominciate da pochi giorni. Era l’ottobre del 1969, e io frequentavo la prima liceo classico (oggi corrispondente, credo, alla terza) presso l’istituto Marco Minghetti di Bologna. Un liceo particolare, il Minghetti. Vi ero giunto dopo una quarta ginnasio disastrosa presso il liceo classico rivale, il Galvani. “Disastrosa” non per gli esiti, quanto per l’ambiente. Avevo per compagni di classe ragazzi in [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Questo testo è apparso per la prima volta in Centro Studi dei Cobas Scuola (a cura di), Quando suona la campanella. Racconti di scuola, Manifestolibri, 2006.]

Le lezioni erano cominciate da pochi giorni. Era l’ottobre del 1969, e io frequentavo la prima liceo classico (oggi corrispondente, credo, alla terza) presso l’istituto Marco Minghetti di Bologna.
Un liceo particolare, il Minghetti. Vi ero giunto dopo una quarta ginnasio disastrosa presso il liceo classico rivale, il Galvani. “Disastrosa” non per gli esiti, quanto per l’ambiente. Avevo per compagni di classe ragazzi in prevalenza ricchi o ricchissimi, con cui faticavo a legare. Inoltre vi era una larga prevalenza di fascisti, forse più negli atteggiamenti che nell’ideologia (appresi poi che lo stesso istituto annoverava tra i propri allievi Gianfranco Fini, però io non lo ricordo).

La composizione sociale del Minghetti era molto diversa. Vi predominava la piccola borghesia. La politicizzazione era scarsa, però nel ’68 uno studente dell’ultimo anno, soprannominato Bifo, aveva promosso uno sciopero e un sit-in nell’atrio della presidenza, a cui avevo partecipato. Si erano tenute assemblee, sebbene su temi marginali (il cattivo stato dei gabinetti, l’esigenza di un distributore di bibite, ecc.).
Bene, quel giorno dell’ottobre 1969, arrivato al liceo, mi attendeva una sorpresa. Davanti all’ingresso era schierata una fila di giovani, disposta con ordine quasi militare. Ognuno di essi aveva al collo un fazzoletto rosso con l’effigie di Mao, e ognuno reggeva una bandiera recante una falce e martello con gli angoli smussati, sovrastante la scritta Servire il popolo. Altri distribuivano volantini e il giornale La guardia rossa.
Io non aspettavo altro. A dire la verità, fino all’estate non ero stato per nulla maoista. L’anno precedente, con altri due ragazzi, avevo costituito nel mio liceo il Circolo Anarchico Bandiera Nera. Avevamo distribuito un volantino in sei copie, fatto con la carta carbone, e appeso a una finestra una bandiera per l’appunto nera, ricavata dal grembiule (che allora per le ragazze era obbligatorio) di una compagna di classe. Nient’altro. Poi, durante le vacanze, avevo letto le Citazioni dal pensiero di Mao Tse-Tung edite da Feltrinelli. Non che mi avessero convertito, però parevano mobilitare masse di giovani in tutto il mondo. Io avevo bisogno di menare le mani, e Bakunin sembrava insufficiente (Umanità Nova era un vero strazio). La clamorosa apparizione dei maoisti davanti al Minghetti fu la manna dal cielo.

Quello stesso pomeriggio io e alcuni compagni di classe – ricordo Massimo Stagni, Cesare Vianello – ci recammo all’indirizzo indicato dal volantino. L’Unione dei Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti aveva sede in una sfarzosa palazzina di Viale Dante, messa a disposizione, seppi poi, da un notaio che collaborava ai Quaderni Piacentini. Quando suonammo alla porta venne ad aprirci una ragazza bellissima, che alzò il pugno. «Cosa volete, compagni?»
L’atrio era un profluvio di bandiere rosse, e un grammofono suonava le note de L’oriente è rosso e di altri inni cinesi. Fummo fatti entrare in una sala che già accoglieva altri studenti del Minghetti: Libero Fontana, Pietro Poggi, Francesco Cifiello, più una ragazza ancor più incantevole di quella che ci aveva aperto, dai lunghi capelli rossi (il nome non me lo ricordo). Un dirigente dell’Unione, tale Briganti, stava illustrando un opuscolo di Aldo Brandirali, leader supremo del gruppo. Alle pareti, minacciosi cartelli esortavano a curare i baffi e a non portare barba, a fumare con moderazione, ecc.
Uscimmo di lì tutti iscritti all’Unione, e carichi di giornali da vendere. La guardia rossa conteneva un racconto esemplare su una lavatrice di condominio, che aveva sottratto gli inquilini alla servitù degli elettrodomestici privati. Le pagine centrali erano occupate dal testo della futura Costituzione della Repubblica Italiana. Giuridicamente era un po’ rozza – “I preti potranno dire messa, ma non riceveranno quattrini dallo Stato” – e prevedeva un sacco di fucilazioni; però pensai che, prima della rivoluzione, sarebbe stata senz’altro migliorata.
Pochi giorni dopo ero davanti al Minghetti, con il mio fazzoletto rosso al collo e la bandiera che sventolava. Passò la professoressa di italiano del ginnasio e mi disse: «Vedi che avevo ragione a chiamarti Mao-Mao?» In effetti aveva battezzato così me e una compagna di classe, Luciana Emiliani, dopo che in un tema avevamo preso posizione a favore del maggio francese. Le risposi con un grugnito.

L’avventura maoista durò pochi mesi. L’Unione non pareva avere una linea molto chiara, circa gli studenti. Un giorno alla settimana entravamo a scuola un’ora dopo, alle nove, e io venivo spedito alle otto a distribuire volantini che parlavano della Grande Rivoluzione Culturale davanti ad altre scuole più “proletarie”, come l’Istituto Tecnico Fioravanti, oppure davanti a fabbriche non lontane dal centro cittadino.
Nel frattempo, dall’Unione erano usciti quasi tutti. I miei compagni di classe avevano retto pochi giorni. La militanza degli studenti più anziani si era prolungata per poco più di un mese. Restavano, assieme a me, il capocellula Cifiello (uscì dall’Unione solo quando gli fu chiesto di piantare gli studi e di andare a lavorare in fabbrica) e la ragazza dai capelli rossi, peraltro inavvicinabile a causa del puritanesimo rigoroso che regnava tra i maoisti.
La crisi, per me, sopraggiunse dopo un poco. C’era uno sciopero generale, e l’Unione aveva formato un proprio corteo. Agitavamo i Libretti Rossi (nel frattempo erano arrivati quelli stampati in Cina), gridavamo “Stalin, Mao, Brandirali!”. Ci fermammo a salutare un pullman di turisti giapponesi, scambiati per “compagni cinesi” e ben felici di fotografarci. Già da tempo nutrivo dubbi; la messinscena mi confermò che stavo partecipando a una vera stronzata.
D’improvviso ecco che ci incrocia, all’altezza di Piazza Maggiore, un corteo tutto diverso. Non ha bandiere, procede veloce. Molti hanno il fazzoletto sul viso, i ranghi sono tenuti stretti da manici di piccone. Gridano un unico slogan: «Lotta continua! Potere operaio!» Non guardano nemmeno noi maoisti.
In un attimo faccio la mia scelta. Slaccio il fazzoletto con il ritratto di Mao e lo consegno a chi mi sta accanto. Corro a inseguire l’altro corteo, che intanto ha svoltato in via Rizzoli e sta imboccando via Zamboni. Dieci minuti dopo mi trovo a sfondare, con un segnale stradale divelto usato come ariete da decine di braccia, la porta dell’università che dà su via Belmeloro. La polizia carica ma viene respinta a più riprese. Confuso nella calca, faccio irruzione nel Rettorato. Inizia per me una nuova vita.
Qualche tempo dopo saprò che, il 16 febbraio 1970, l’Unione dei Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti mi ha espulso per “indegnità politica e morale”. Ha espulso anche la ragazza dai capelli rossi, forse per errore. Di lei non so, da quel momento ci siamo persi di vista; ma a me, dell’espulsione, non importava più un accidente.

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Repressione al lavoro https://www.carmillaonline.com/2020/01/19/repressione-al-lavoro/ Sat, 18 Jan 2020 23:01:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57359 di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del [...]]]> di SI Cobas

[Pubblichiamo qui un contributo dell’organizzazione SI Cobas, pur non essendo nostra abitudine ospitare comunicati di organizzazioni politico-sindacali. In questo caso l’importanza dei temi trattati e soprattutto il drammatico peggioramento della situazione sul piano repressivo-giudiziario, con migliaia di denunce e processi in istruzione o in fase di giudizio ai danni di lavoratori e lavoratrici iscritti/e a questa organizzazione, giustificano questa nostra utile eccezione. “Carmilla” sostiene le lotte e si schiera dalla loro parte senza se e senza ma: non può esistere cultura e immaginario di opposizione, senza una pratica reale del conflitto – I.G.].

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I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta

La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.

Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.

Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.

A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.

Il decreto Salvini- Uno

Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.

Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.

Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.

Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.

Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!

Il fatto che l’orda reazionaria  rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).

Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.

All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…

Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?

Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.

Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.

E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).

Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…

Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.

Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.

Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.

E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.

Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…

Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due

Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.

Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).

E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.

Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.

E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.

Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!

Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.

Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.

Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.

E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.

Il DL Minniti-Orlando

Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.

I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.

In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…

In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.

L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).

Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.

Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.

L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas

Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.

Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.

La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.

Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.

Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).

Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.

A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.

Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.

A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.

Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.

E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.

L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.

Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.

Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.

Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.

L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.

Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.

Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.


  1. Claudio Novaro: “Il decreto Salvini e il reato di blocco stradale”, pubblicato il 6/11/2018 su www.notav.info  

  2. “Il decreto Salvini a piedi uniti sulla logistica”, pubblicato su http://www.ship2shore.it il 26/09/2018 (qua). 

  3. Le principali lotte portate avanti da SI Cobas, dapprima nella logistica e poi nella filiera agroalimentare negli anni antecedenti ai Decreto- Salvini, e gli eventi che hanno portato all’arresto di Aldo Milani sono narrati e analizzati esaustivamente in Carne da Macello 

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E’ successo un sessantotto! https://www.carmillaonline.com/2018/03/22/successo-un-sessantotto/ Thu, 22 Mar 2018 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44351 di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate [...]]]> di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate all’attuale cinquantenario di un movimento che in realtà iniziò ben prima e da ben altri lidi. Così come ha già ben sottolineato Valerio Evangelisti nei giorni scorsi proprio su Carmilla.

Per questo motivo l’attuale quarta edizione del testo di Guido Viale “Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione”, uscito per la prima volta nel 1978 per le edizioni Mazzotta, potrebbe rivelarsi utile e necessaria, considerato anche il fatto che alla stessa sono state aggiunte una nuova introduzione dell’autore, 64 pagine a colori che riproducono volantini, manifesti, opuscoli e libri dell’epoca oltre al fondamentale manifesto della rivolta studentesca “Contro l’università”, scritto da Viale e pubblicato nel febbraio di quello steso anno sulle pagine del n° 33 dei Quaderni Piacentini. Mentre per gli amanti della grafica e della memoria compare anche la ristampa (estraibile) del manifesto diffuso dal Soccorso Rosso, negli anni successivi, a difesa di Pietro Valpreda e di denuncia delle trame terroristiche di Stato, disegnato da Guido Crepax.

Guido Viale (classe 1943) vive attualmente a Milano e, dopo gli anni di militanza di cui parla nella sua nuova introduzione al testo, ha lavorato come insegnante, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente sui temi della gestione dei rifiuti, dell’ambiente, della mobilità urbana e dei migranti.
Come afferma egli stesso nell’introduzione, quello ora ripubblicato dalle Edizioni Interno 4:

“ E’ un lavoro con cui avevo cercato di “fare il punto” sul significato e la portata di quelle lotte ormai trascorse, proprio mentre prendevo congedo da dieci anni di militanza intensa e ininterrotta prima nel movimento degli studenti, poi nell’assemblea operai studenti di Mirafiori e infine nel gruppo Lotta continua. In questo libro cercavo di enucleare i contenuti ancor vivi di ciò che quei dieci anni di militanza ci avevano insegnato: erano stati una specie di “università della strada” da cui chi non vi aveva partecipato non avrebbe mai più potuto attingere gli insegnamenti che noi ne avevamo ricavato. “1

L’intento fin dalla prima edizione era infatti quello di muoversi in direzione contraria rispetto alle due strade intraprese, già a solo dieci anni di distanza, dalle commemorazioni di quell’anno e che sono sostanzialmente quelle che sembrano ancora animare gli intenti del farlocco cinquantennale di cui già si è parlato più sopra.

Da un lato si poneva , e si pone tutt’ora, il carattere formidabile di quegli anni, tutto a teso a rendere mitico l’evento collocandolo in uno spazio altro; rendendolo così non più raggiungibile né, tanto meno, utilizzabile nel contesto politico, sociale e conflittuale venutosi a determinare nei decenni successivi sia come metro di paragone sia come modello, per quanto criticabile e discutibile, di riferimento.

Dall’altro si sottolineava la deriva “terroristica” di quel movimento, finendo con l’appiattire tutte le lotte del decennio seguito al ’68 sulle scelte operate successivamente dalle numerose formazioni politico-militari che avrebbero dato vita alla lotta armata in Italia. Esperienza che, è sempre bene ricordarlo, avrebbe costituito la forma più incandescente del conflitto sociale nell’Europa occidentale e visto arruolato nelle sue file un numero incredibilmente elevato di operai, donne e giovani.

L’attuale cinquantenario, che per giunta incrocia il quarantennale del rapimento Moro messo in atto dalle Brigate rosse nel 1978, sembra rimarcare ancora con forza questo secondo aspetto con affermazioni che lasciano di stucco, soprattutto per la loro superficialità e per l’intrinseco e deviante negazionismo storico sulle responsabilità dello Stato, e dei suoi apparati militari e polizieschi oltre che partitici, nel perseguimento di un’autentica strategia del terrore a partire dall’autunno del 1969 e dalla strage di piazza Fontana in poi.

Basti citare, come esempio di ciò, la recente affermazione dell’attuale premier in stato di animazione sospesa che il 16 marzo di quest’anno ha affermato come l’azione delle Brigate rosse di quarant’anni fa abbia costituito “il più grave attacco alla Repubblica”.2 Un’affermazione che da sé basterebbe mostrare la falsità dell’antifascismo ostentato, per soli fini di convenienza elettorale, dalle forze di governo e della “sinistra” istituzionale prima della recente chiamata alla urne.

Sia il testo che le due interviste all’autore, che lo accompagnano in appendice, esprimono invece

“un modo di contrapporre a quelle opposte visioni il nucleo essenziale di un possibile recupero dello spirito del ’68 in un contesto storico e sociale completamente cambiato<. In tutti i sensi, un’altra epoca”.3

Ciò che costituì invece, secondo Guido Viale, l’essenza del ’68, fu una sorta di globalizzazione delle lotte a livello internazionale e dal “basso” che ebbe inizio a partire, sempre nel giudizio dell’autore, da un carattere unificante a livello mondiale:

“la lotta contro tutte le gerarchie, dentro tutte le istituzioni che le consolidano e le legittimano: famiglia, Università, scuola, fabbrica, pubblica amministrazione, ospedali (compresi, importantissimi allora, quelli psichiatrici), tribunali, carcere, forze armate, quartieri e strutture urbanistiche”4

La riflessione ebbe inizio a partire da quelli che sarebbero poi stati i due poli trainanti dello scontro su scala globale: la fabbrica e la scuola. Qui in Italia fin dai primi mesi, ma forse già anche prima, di quell’anno venivano al pettina alcuni nodi fondamentali di quel boom economico di cui tanto si parlava ma che aveva al suo centro una forte migrazione interna, salari e tempi di lavoro vergognosi e una riforma della scuola media che dal 1963 sembrava aver aperto le porte dell’ascensore per l’emancipazione sociale anche per le classi meno abbienti. Sembrava, appunto, poiché fin dalle prime occupazioni di palazzi universitari e scuole la riflessione degli studenti in rivolta poteva:

“constatare come scuola e istruzione non offrissero né garantissero più alcun riscatto, alcune vera emancipazione, alcune prospettiva di una vita più libera e soddisfacente; facendo così crollare sotto di sé tutte le altre gerarchie: dalla fabbrica alla pubblica amministrazione e a tutto ciò cui i saperi impartiti all’Università avrebbero dovuto fornire una legittimazione.”5

Ma anche se Viale fu tra i protagonisti dell’occupazione di Palazzo Campana a Torino, che dal 27 novembre 1967 avrebbe contribuito ad infiammare gli altri atenei italiani e anticipato il maggio francese, sono la fabbrica e la trasformazione dei rapporti sociali, politici, lavorativi e di potere tra operai ed operai, tra lavoratori e sindacati, tra militanti politici e partiti e tra dipendenti ed aziende a costituire il “core” dl libro e sostanzialmente degli avvenimenti del decennio che seguì al ’68.

Nelle inchieste che i giovani universitari e gli studenti iniziavano a far circolare tra i lavoratori delle aziende torinesi ciò che risaltava maggiormente era l’odio per il lavoro. Si parlava di «lavoro forzato; fa schifo; abbondante e poco retribuito; siamo carcerati come un innocente in carcere; [la Fiat] un campo di concentramento per anime bisognose; che il lavoro nobilita l’uomo, ma la Fiat lo fa schiavo; se penso al mio lavoro non lavoro più» e così via6

E’ l’inizio dell’autonomia operaia destinata a travolgere organizzazione del lavoro, rapporti sindacali, partiti istituzionali e gerarchie aziendali. Viale cita dai verbali di assemblee operaie di Mirafiori, all’epoca pubblicati dalla Monthly Review nel 1969):

“Io credo – è la relazione introduttiva di un operaio di Mirafiori –che al di là dell’importanza oggettiva che le lotte autonome hanno nei confronti della produzione, che sono riuscite a bloccare, il vero successo di queste lotte sta nel fatto che oggi gli operai della Fiat sono molto aperti a confrontare le loro idee, a discutere; nel fatto che qui oggi si possa discutere di tutti i problemi che ci riguardano […] Questi sono i nostri passi avanti decisivi; l’aver portato la lotta all’interno della fabbrica. Ognuno di noi sa che la fabbrica è il posto dove tutti i giorni siamo uniti, ma solo per produrre ed essere sfruttati. I ritmi di lavoro, le condizioni generali di lavoro, i ricatti della polizia padronale ci impediscono spesso addirittura di parlarci […] Ma se per il padrone la fabbrica deve funzionare così, per gli operai diventa, al contrario, il luogo dove costruiscono la loro unità non per produrre ma per lottare, per discutere insieme , per organizzarsi. La Fiat, che non è solo la più grande fabbrica italiana , ma anche il più schifoso campo di concentramento, in questi giorni è trasformata dalle fermate, dai cortei, dalle assemblee, dalla forza degli operai che hanno mandato al diavolo la divisione e la paura […] Siamo noi ora a decidere non solo della forma della lotta, ma anche dei suoi obiettivi, del modo di guidarla, di organizzarla, di estenderla. E questa è la cosa che fa paura ai sindacati e ai padroni […] La produttività è un problema dei padroni; il salario è un problema degli operai […] Nessun operaio si illude più. Il sindacalista vantava la Fiom gloriosa del ’48, ma oggi siamo nel ’69. Sono passati ventuno anni, l’operaio è maggiorenne e non ha più bisogno dei sindacati”.7

Il discorso potrebbe continuare a lungo e il testo fornisce elementi ed argomenti in abbondanza, ma prima di chiudere questa breve sintesi occorre ricordare un altro importante elemento di crescita politica e culturale che il ’68 portò con sé e che continua ancora ai nostri giorni a cozzare con le interpretazioni dei fatti di quegli anni e, ancora di oggi come abbiamo potuto vedere prima: la nascita della controinformazione.

L’autore sottolinea così il ruolo che essa ha avuto fin dagli esordi, promossa e sviluppata dalle organizzazioni di quella che sarebbe poi stata definita sinistra rivoluzionaria:

“proprio partire dalla denuncia della matrice statuale e fascista e delle finalità eversive della strage di Piazza Fontana e dell’assassinio di Pino Pinelli. A distanza di anni, quella denuncia inizialmente isolata e snobbata si è dimostrata esatta, sia storicamente che fattualmente; ma ritengo anche che abbia avuto un ruolo decisivo nello sventare il disegno sotteso alla strategia della tensione. Se per molti anni […] gli istituti basilari della democrazia parlamentare sono stati in qualche modo salvaguardati è grazie all’impegno straordinario in questo campo dei militanti «rivoluzionari» di allora; e non certo per merito della magistratura e meno che mai delle cosiddette forze dell’ordine; né grazie all’atteggiamento compiacente, quando non complie, della maggior parte delle forze politiche che sedevano – e siedono ancor oggi, mutate le vesti – in Parlamento”.8

Come si vede, dunque, un’ottima ed incisiva lettura per iniziare seriamente le celebrazioni del cinquantennio senza sommergere la memoria nel ridicolo, nello spettacolo e nella retorica. Anzi…


  1. Viale, il 68, pag. 7  

  2. Si veda repubblica.it del 16 marzo 2018  

  3. Viale, op.cit. pag. 8  

  4. Viale pag. 9  

  5. Viale, pag. 9  

  6. Viale, pag. 198  

  7. Viale, pp. 202 – 205  

  8. pag. 10  

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#Ayotzinapa #Messico: dalla “verità storica” alla menzogna storica dopo #InformeGIEI https://www.carmillaonline.com/2015/09/09/ayotzinapa-messico-dalla-verita-storica-alla-menzogna-storica-dopo-informegiei/ Tue, 08 Sep 2015 22:00:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25094 di Fabrizio Lorusso

Ayotzinapa GIEIIl 7 settembre, nuovamente, l’attenzione del Messico è tornata al caso irrisolto della mattanza di sei persone e della sparizione dei 43 studenti della scuola normale “Isidro Burgos” di Ayotzinapa, nel meridionale stato del Guerrero, durante la sanguinosa notte di Iguala del 26 settembre dell’anno scorso. “E’ stato lo Stato”, hanno ripetuto instancabili i genitori dei ragazzi e i gruppi organizzati che li sostengono per mesi e mesi. E in effetti la partecipazione della polizia locale, sotto gli occhi complici di quella federale e dell’esercito, al [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Ayotzinapa GIEIIl 7 settembre, nuovamente, l’attenzione del Messico è tornata al caso irrisolto della mattanza di sei persone e della sparizione dei 43 studenti della scuola normale “Isidro Burgos” di Ayotzinapa, nel meridionale stato del Guerrero, durante la sanguinosa notte di Iguala del 26 settembre dell’anno scorso. “E’ stato lo Stato”, hanno ripetuto instancabili i genitori dei ragazzi e i gruppi organizzati che li sostengono per mesi e mesi. E in effetti la partecipazione della polizia locale, sotto gli occhi complici di quella federale e dell’esercito, al rapimento e sparizione dei ragazzi e alla mattanza di Iguala, città amministrata da un sindaco-narcotrafficante e da sua moglie, sorella di alcuni boss del micro-cartello Guerreros Unidos, parla decisamente di apparati statali infiltrati e criminali. Le autorità di numerosi comuni del Guerrero e del Messico non sono solo corrotte o conniventi, non solo si dedicano a coprire la delinquenza organizzata, ma operano direttamente come dei cartelli e si fondono con essi.

Verità storica smontata

La presentazione del volume di 500 pagine “Informe Ayotzinapa: investigación y primeras conclusiones sobre las desapariciones y homicidios de los normalistas de Ayotzinapa” (#InformeGIEI + #GIEIAyotzinapa) in conferenza stampa da parte del Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti (GIEI), istituito dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani, organo della OAS (Organizzazione degli Stati Americani), ha demolito la “verità storica” della PGR (Procura Generale della Repubblica), come l’aveva chiamata pretenziosamente l’ex procuratore Jesús Murillo Karam. E’ passato quasi un anno, dodici mesi di menzogne governative e tergiversazioni della procura, di proteste e repressioni durissime per le strade, di carovane dei genitori di Ayotzinapa e di indagini indipendenti da parte di giornalisti e istituzioni straniere.

La prossima giornata globale, la sedicesima, per esigere giustizia per i 43 studenti dovrebbe svolgersi il 26 settembre. Adesso è maggiore la consapevolezza del fatto che la “verità” della procura coincide sempre più con una vergognosa “menzogna storica” che gradualmente è stata decostruita dalla parte sana e attiva della società e ricomposta nei suoi terribili e dispersi frammenti di senso. Negli ultimi sei mesi gli esperti del GIEI hanno lavorato sul caso e potrebbero continuare per un altro mezzo anno, in caso che venga ampliato loro il mandato iniziale secondo la convenzione tra Messico e OAS in vigore dal marzo scorso. Il presidente messicano Peña Nieto ha manifestato l’intenzione di riunirsi coi genitori dei 43 studenti e rinnovare il mandato dell’equipe internazionale. In questo periodo sono state decine le raccomandazioni ufficialmente emesse dal Gruppo e rivolte a diverse istituzioni governative, presiedute, in ultima istanza, da Peña Nieto: il Ministero degli Interni (Segob), la PGR, ora diretta da Arely Gómez, il Ministero (Sedatu) dello sviluppo agrario, territoriale e urbano. L’unica istituzione alla quale gli esperti non hanno potuto accedere è stato il Ministero della Difesa Nazionale (Sedena).

Il ruolo dell’esercito

Informe AyotzinapaIn particolare il 27esimo battaglione dell’esercito di stanza a Iguala, che ha avuto una partecipazione attiva nei fatti di Iguala nella notte del 26-27 settembre ed è stato segnalato da più parti come uno dei possibili responsabili della desaparación dei normalisti, non è stato sottoposto a nessun tipo d’indagine né i suoi membri hanno rilasciato alcun tipo di intervista o testimonianza. L’omertà e la protezione nei confronti dell’esercito sono stati totali e ora anche il rapporto del GIEI conferma, grazie a interviste e all’incrocio di versioni fornite dai normalisti, il ruolo ambiguo e repressore dei militari, in particolare nella clinica privata “Cristina” in cui s’erano rifugiati gli studenti perseguitati dopo la mezzanotte del 26.

Murillo Karam, prima di “stancarsi”, come aveva dichiarato in una conferenza stampa, delle domande e delle critiche dei giornalisti, e prima di lasciare l’incarico di procuratore nella mani di Arely Gómez il 3 marzo scorso, aveva fornito una versione ufficiale, descritta come “storica” anche se basata su testimonianze incongruenti di testimoni torturati, incarcerati e presumibilmente appartenenti alla criminalità organizzata locale. Nella narrazione gli studenti sarebbero stati perseguitati durante alcune ore e poi sequestrati dalla polizia locale di Iguala e da quella di Cocula che li avrebbero consegnati ai narcos dei Guerreros Unidos. Questi a loro volta li avrebbero portati nella discarica di Cocula per bruciarli e avrebbero gettato i loro resti nel fiume sottostante.

Dopo che il presidente Peña, alle corde, ha detto che si dovrà tenere in considerazione l’opinione della squadra della CIDH, Arely Gómez ha risposto alle critiche del rapporto GIEI annunciando nuove perizie, mentre altri funzionari della procura continuano a sostenere la veracità e correttezza delle ricostruzioni ufficiali su Ayotzinapa. Sembrano ignorare le condanne fortissime di Amnesty International e Human Rights Watch contro il Messico, le quali parlano della “peggiore crisi nel rispetto dei diritti umani degli ultimi decenni”, di “scuse” e di “pigra inazione” da parte del governo.

Alcuni punti importanti dello studio del GIEI

Ecco cosa ha scoperto o confermato, invece, l’investigazione indipendente e meticolosa del GIEI, che viene tra l’altro ad avvalorare la versione di mezzi stampa, accademici e giornalisti che per settimane hanno contrastato le imprecisioni e le bugie ufficiali:

  1. Non esiste nessuna prova che possa sostenere l’ipotesi generata a partire dalle testimonianze secondo cui 43 copri sono stati cremati nella discarica municipale di Cocula.
  2. Tutte le prove raccolte mostrano che nella discarica solo ci sono stati dei fuochi di piccole dimensioni la cui scansione temporale non può essere dovutamente definita.
  3. Non c’è prova che sostenga l’ipotesi secondo cui i corpi sono stati cremati con un fuoco alimentato in gran parte da grassi sottocutanei.
  4. Tutte le prove raccolte mostrano che l’incendio minimo necessario per la cremazione di questi corpi non può essere stati generato nella discarica di Cocula. Se fosse esistito un fuoco di tale grandezza, i danni generali sarebbero stati visibili nella vegetazione e nella spazzatura. Nessuno di questi elementi mostra danni di questo tipo.
  5. E’ impossibile stabilire se i fuochi accesi nella discarica di Cocula sono stati di dimensioni sufficienti per l’incinerazione di uno o più corpi, e inoltre non c’è nessuna evidenza che indichi la presenza di un fuoco della grandezza di una pira per la cremazione anche di un solo corpo.
  6. Non esiste nessuna evidenza che mostra che il combustibile necessario per la cremazione dei corpi sia stata disponibile in qualche momento presso la discarica.
  7. Le testimonianze indicano eventi che non sono possibili date le condizioni generate e per come dovrebbe essere il fuoco minimo indispensabile per la cremazione dei corpi.
  8. La perizia relativa al fuoco non è stata fatta secondo le regole internazionali ampiamente accettate dalla comunità forense. Non è stata data la priorità necessaria alla perizia relativa al fuoco, si è disposto di prove critiche (vegetazione adiacente) senza le necessarie analisi, la raccolta di prove ha trascurato elementi critici e necessari e l’evidenza non è stata strutturata in modo adeguato.
  9. L’Opinione Ufficiale emessa sugli Incendi (AP/PGR/SEIDO/UEDMS/871/2014, Pagine 80002, 83278, 88350) non ha gli obiettivi, la profondità e il rigore necessari per un’investigazione di questa natura.
  10. Le conclusioni della riferita Opinione sono in gran parte errate e in molti casi non emergono dalla evidenza materiale e dalla sua possibile interpretazione.
  11. I periti della PGR autori dell’Opinione non hanno le conoscenze né l’esperienza necessaria per affrontare un caso della complessità di quello che riguarda i fatti del 27 settembre 2014.

Il quinto autobus “fantasma”

peritos ayotziCarlos Beristaín, uno degli autori del rapporto, ha spiegato in un’intervista alla CNN come questa possa trasformarsi in una “opportunità per cambiare le cose, per fortificare la lotta per i diritti umani e contro l’impunità” e come “molte informazioni erano già presenti nei fascicoli della procura ma non erano state processate correttamente”. Ha anche sottolineato che bisogna rivedere urgentemente il ruolo del “quinto autobus per formulare un’ipotesi consistente, visto che non era stato tenuto da conto nell’indagine”. I bus occupati dagli studenti di Ayotzinapa a Iguala erano, infatti, solo quattro, ma la ricerca del GIEI ha fatto emergere l’esistenza di un quinto autobus che non c’era nel fascicolo originale e che sarebbe stato carico di droga. Beristaín ha dichiarato che sono tante le inconsistenze nelle dichiarazioni dell’autista e che l’autobus ripreso dal video registrato alla stazione dei bus di Iguala e quello, che sarebbe il quinto, ritratto dalle fotografie che hanno consultato gli esperti sono diversi. Le linee aperte sono dunque molte. Esiste la possibilità che uno dei mezzi di trasporto presi dai normalisti quella notte contenesse eroina che i Guerreros Unidos intendevano trasportare alla frontiera statunitense.

Attacco massivo e contro-insurrezione

I fatti di Iguala sono stati descritti dalla CIDH come “un attacco massivo” in cui ci sono state 180 vittime dirette, tra cui 6 morti da considerare come “esecuzioni extragiudiziarie” e 43 sparizioni forzate. Lo scrittore e giornalista Sergio González Rodríguez, autore del libro Los 43 de Iguala, ha parlato di vere e proprie operazioni contro-insurrezionali nei confronti dei normalisti. Uno degli esperti della Commissione ha affermato che “c’è stata la presenza di differenti agenti dello stato (polizia municipale, ministeriale, federale) e non abbiamo riscontrato alcuna azione di protezione. Quello che stava succedendo erano aggressioni che superavano qualunque azione di neutralizzazione di persone. Avevano a che vedere con spari da armi da fuoco, attacchi e attentati contro la vita, eccetera.

 Inoltre c’è stato un ritardo nel prendersi cura delle vittime, le ambulanze avevano paura di uscire”. E anche per questo si può parlare di desaparición forzata e secondo gli esperti s’è trattato di un livello d’aggressione brutale, “indiscriminato, con autori che non occultano la propria identità, non c’è nessun occultamento della loro identità inizialmente. Si sa che si tratta della polizia municipale, alcuni sono incappucciati ma poi si scoprono. Questo attacco mostra il tipo d’impunità su ci potevano contare i vari autori e la mancanza di meccanismi di controllo di un’azione così violenta contro la popolazione, oltre al terrore esercitato e al controllo territoriale che aveva la polizia municipale con altre autorità, insieme al crimine organizzato”.

Il vuoto nelle indagini non è riuscito a colmarsi: non sappiamo ancora esattamente cosa è successo tra il momento della cattura degli studenti e quello della loro scomparsa. Ma sappiamo che la procura non ha prodotto nessuna “verità storica”, men che meno giuridica.

Il GIEI ha segnalato anche la presenza di “molteplici scenari”, almeno nove, in cui vi sono stati attacchi diretti con la presenza di funzionari statali e il fatto che i normalisti la notte del 26 settembre sono stati sorvegliati e seguiti dalla Polizia Federale da quando sono passati dalla capitale del Guerrero, Chilpancingo, ore prima dell’aggressione armata contro di loro. “La responsabilità degli attori che portano a termine la sparizione forzata, che mettono in atto il sequestro all’inizio, risiede anche nella desaparición successiva delle persone, indipendentemente da quale sia stato il meccanismo finale che ha portato a prendere decisioni sul destino o la situazione dei desaparecidos. Non bisogna separare le due cose, sono parte della medesima azione, non sono due azioni differenti”.

Verdad Histórica Verdad CIDH Ayotzinapa

Reazioni e azioni in vista del 26 settembre

Un altro degli esperti del GIEI, Alejandro Valencia, ha sottolineato che nel rapporto si segnalano 20 raccomandazioni per le autorità suddivise in quattro categorie: l’indagine, le responsabilità, le ricerche e la cura delle vittime. Andranno promosse l’unione delle varie indagini e la realizzazione di incroci delle informazioni tra il DNA ritrovato negli autobus in cui c’erano i normalisti e i loro familiari. Le ricerche dovranno allargarsi e includere fotografie satellitare e altri luoghi compatibili con le prove in possesso degli inquirenti. Vanno anche investigate le responsabilità delle autorità finora tralasciate e le colpe di chi avrebbe intralciato le ricerche in questi mesi.

In tal senso parte dell’opinione pubblica e parlamentari del PRD (Partido Revolucion Democratica), partito politico cui apparteneva l’ex sindaco di Iguala, José Luis Abarca, stanno chiedendo già l’istruzione di un giudizio politico contro l’ex procuratore Murillo Karam. Tra l’altro Abarca e sua moglie Maria Pineda avrebbero negato, in un intervista rilasciata agli esperti del GIEI, la loro partecipazione ai fatti della notte di Iguala: le versioni e le confusioni si moltiplicano. Urge anche la creazione di un’anagrafe delle persone scomparse e di un sistema di ricerca implementato dallo stato dato che le prime 72 ore dalla scomparsa di una persona, in genere, sono cruciali. Il GIEI ha chiesto altresì la creazione di un programma nazionale per le esumazioni.

Chi dispone dei forni crematori necessari per ridurre 43 corpi in cenere in poche ore? I militari, per esempio. Ma non sono stati indagati. E allora la società, almeno le sue componenti più attive e consapevoli, reagisce e chiede spiegazioni, giustizia, ancora una volta. Uno sparuto manipolo di narcotrafficanti in una discarica di provincia avrebbe avuto bisogno di almeno 60 ore (non 16 come attestano le dichiarazioni dei detenuti) e di una “potenza di fuoco e di calore” di gran lunga superiore, oltre che di una capacità organizzativa elevata. Gli esperti hanno chiesto che siano aperte ricerche sui forni crematori disponibili nel paese e hanno parlato di almeno 700 familiari coinvolti e colpiti direttamente in seguito ai fatti di Iguala.

E sono milioni le persone che da vicino o da lontano stanno con loro. Sono 30mila i desaparecidos messicani e decine di migliaia in più quelli centroamericani in terra azteca negli ultimi 10 anni. Più di 100 i giornalisti silenziati dal patto criminale e d’impunità narco-governativo. Sono oltre 130mila i morti ammazzati della narcoguerra in nemmeno un decennio, da quando nel 2006 il presidente Felipe Calderón lanciò un’improvvisata e sanguinosa campagna militare “contro i narcos”. Le virgolette sono d’obbligo, visto che di fatto l’offensiva governativa e la violenza dei cartelli del narcotraffico si ritorcono soprattutto, sinergicamente, contro la società e la popolazione, specialmente contro le sue frange più organizzate e resistenti, in lotta contro la spoliazione economica e ambientale di territori e comunità. Alla luce di tutto questo e del rapporto steso dagli esperti del GIEI la società e i movimenti organizzati in Messico e nel mondo, i genitori di Ayotzinapa, la stampa, i difensori dei diritti umani, i solidali e la gente si chiedono: “Dove sono i 43 studenti?” Lo stato messicano non può, anzi non vuole rispondere. #MexicoNosUrge

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