stragi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 31 Mar 2025 05:00:57 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gli scheletri nell’armadio di Giorgia Meloni https://www.carmillaonline.com/2024/08/19/gli-scheletri-nellarmadio-di-giorgia-meloni/ Mon, 19 Aug 2024 19:45:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83883 di Pietro Garbarino

Giorgia Meloni e gli esponenti di maggior spicco del suo partito (FdI) non vogliono dichiararsi apertamente antifascisti ma ogni tanto, in singole occasioni e per evidenti motivi di opportunità e convenienza, esprimono qualche sporadica condanna delle stragi neofasciste (dicono proprio così) degli anni ’70 dello scorso secolo.

Naturalmente lo fanno per cercare di prendere le distanze rispetto ad una stagione ritenuta lontana e passata (ma il Presidente La Russa era già grandicello e già ben attivo), tuttavia ancora qualcosa non quadra in quelle “spontanee” dichiarazioni precauzionali. Ma cosa?

Non vi è il minimo dubbio che il Movimento Sociale [...]]]> di Pietro Garbarino

Giorgia Meloni e gli esponenti di maggior spicco del suo partito (FdI) non vogliono dichiararsi apertamente antifascisti ma ogni tanto, in singole occasioni e per evidenti motivi di opportunità e convenienza, esprimono qualche sporadica condanna delle stragi neofasciste (dicono proprio così) degli anni ’70 dello scorso secolo.

Naturalmente lo fanno per cercare di prendere le distanze rispetto ad una stagione ritenuta lontana e passata (ma il Presidente La Russa era già grandicello e già ben attivo), tuttavia ancora qualcosa non quadra in quelle “spontanee” dichiarazioni precauzionali. Ma cosa?

Non vi è il minimo dubbio che il Movimento Sociale Italiano fosse un partito politico che al fascismo si ispirava. Ne fanno fede numerosissime dichiarazioni dei suoi massimi esponenti, dalla fondazione di quella forza politica (avvenuta grazie al tanto esecrato regime democratico), sino al suo scioglimento, nel 1976, allorché esso si trasformò in “Alleanza Nazionale”, sotto la guida di Gian Franco Fini. Era quello un passaggio verso un partito certamente orientato a destra, ma definitivamente inserito nel sistema costituzionale e rispettoso dello stesso.

Il successivo passo, su impulso di Silvio Berlusconi, fu quello di una unificazione con il partito (azienda) fondato dall’ex Cavaliere, per dare luogo ad una nuova formazione politica, sempre rivolta a destra, ma ormai scevra da ogni sentimento nostalgico verso il passato regime mussoliniano. Però il “Popolo delle libertà” – così si chiamava la creatura politica sorta dall’incontro tra Forza Italia e A.N. – non durò a lungo per i contrasti ben presto insorti tra Berlusconi e Fini, e il loro divorzio diede luogo all’uscita di una consistente parte della componente già di A.N. (La Russa e Meloni compresi) che fondò il partito di FdI. Tale nuova formazione politica reintrodusse nel proprio simbolo la fiamma, che era stato da sempre l’emblema principale del MSI, e che rappresenta schematicamente l’odierna sepoltura di Benito Mussolini.

Ma, ciò che ha caratterizzato specificamente tale vicenda politica è stato il rifiuto, da parte dei fondatori, di proseguire un’esperienza politica certamente populista, ma di ispirazione politica neoliberale, e neo liberista in economia, sul modello di altri partiti della destra europea, quali i gollisti in Francia o i cristiano-democratici in Germania.
Il fatto è che tutti quei partiti, per collocandosi nella destra politica, si dichiarano apertamente antifascisti e antinazisti. Però, evidentemente i dirigenti di FdI non se la sono sentita di condividere quelle posizioni e per loro è stato indigeribile il fatto di schierarsi con coloro che hanno comunque combattuto, anche se da posizioni moderate e conservatrici.

Ma vi è di più.
Il Movimento sociale italiano è costantemente evocato e ricordato nelle manifestazioni politiche, interne, ma anche pubbliche di FdI. Nelle feste popolari di FdI viene sempre ricordato l’ex segretario del MSI Giorgio Almirante, brevemente omaggiato anche sul sito della presidenza del Consiglio di quest’anno, salvo poi avere cancellato l’encomio inopportuno.
Giova ricordare che Almirante ha sempre manifestato idee razziste, ha collaborato con la Repubblica fantoccio di Salò, ha definito la Repubblica democratica con l’appellativo di “bastarda”. Ma in FdI non ci si ferma ad Almirante.

Qualche tempo fa, a Brescia, è stata inaugurata una sede di FdI intitolata a Giuseppe Umberto Rauti, detto Pino.
Questi, anch’egli repubblichino, è da molte parti indicato come uno degli ispiratori dello stragismo neo fascista che dalla fine degli anni ’60, e per oltre un decennio, funestò l’Italia con sanguinosi attentati, provocazioni di ogni genere, e tentativi di stravolgere l’ordinamento costituzionale. Pino Rauti, fondatore nel 1956 di un gruppo estremistico di destra denominato “Ordine Nuovo”, fu collegato da sempre agli ambienti internazionali filo americani e atlantisti (cioè la NATO), organizzò per conto dei supremi comandi militari italiani convegni nei quali si teorizzavano le stragi di civili come strumento per combattere il “cancro della democrazia”, e scrisse, a pagamento, perfino un opuscolo per aizzare le forze armate a rivoltarsi contro lo stato democratico che dava libertà di agire ai partiti di sinistra.

Evidentemente Pino Rauti fingeva di ignorare che, se lui poteva svolgere la propria attività quasi indisturbato, lo doveva al fatto di avere e operava in uno stato democratico. Nel 1969 rientrò nel MSI, allorché ne divenne segretario Almirante, e ricoprì cariche importanti nel partito. Ma diverse indagini giudiziarie hanno appurato che non troncò mai i rapporti con O.N., di cui invece fu sempre di fatto il massimo dirigente, e tanto meno sconfessò mai le criminali operazioni di quel gruppo.

Ora, se nel partito di FdI si ricorda e onora la memoria di un simile personaggio, si deve altresì ritenere che la di lui attività è stimata e ritenuta esemplare. Allora si comprende bene il perché non si condanna il fascismo e non ci si dichiara avversi allo stesso. Ma vi è ancora di più. Se FdI rivendica una qualche continuità con l’MSI, deve rivendicare anche l’appartenenza a quel partito di personaggi, spesso con doppia appartenenza (al MSI e a O.N.), che hanno insanguinato l’Italia.

Carlo Cicuttini, uno dei responsabili della strage di Peteano del 1972 (3 carabinieri morti) era segretario di una locale sezione MSI del Friuli, così come Eno Pascoli. Entrambi verranno condannati per la strage.
Lo stesso segretario Almirante preannuncia la strage del treno Italicus (Agosto 1974) ma cerca di depistare le indagini, offrendo agli inquirenti una falsa pista di sinistra.
Carlo Maria Maggi, condannato per la strage di Piazza Loggia a Brescia, fu iscritto al MSI dal 1969, così come Gian Gastone Romani (che fu anche consigliere regionale del Veneto) nella cui casa ad Abano Terme si decise di fare la strage di Brescia.
Lo stesso Pino Rauti venne processato, ma poi assolto, per la strage di Piazza Fontana del Dicembre 1969, allorché era appena rientrato nel MSI.
Paolo Signorelli, fedelissimo di Rauti, e iscritto al MSI dal 1969 al 1796, fu condannato per appartenenza a banda armata (O.N.).
Ed infine una recente sentenza della Corte d’Appello di Bologna ha accertato che Mario Tedeschi, direttore del settimanale di estrema desta “Il Borghese” e senatore del MSI, fu uno dei mandanti della strage della stazione di Bologna dell’Agosto 1980, e percepì lauti finanziamenti da Lino Gelli, capo della Loggia massonica P2.

Ma anche sulle sentenze che hanno accertato le responsabilità per le stragi, gli esponenti dell’estrema destra, oggi al governo del paese, sono reticenti o anche nettamente negazionisti.
Marcello De Angelis, ex portavoce, poi rimosso dall’incarico, della Regione Lazio, ha dichiarato infondata la sentenza, definitiva, che ha stabilito la responsabilità dei fascisti nella strage di Bologna. L’On. Mollicone di FdI, parla di “teorema contro la destra”. La stessa Presidente del Consiglio, con gesto inconsueto e caduta di stile rispetto al suo ruolo, ha polemizzato fortemente con il Presidente dell’associazione delle vittime della strage di Bologna, che ha di recente ricordato le responsabilità di persone legate al MSI nel terribile ed efferato episodio.

In fin dei conti e in conclusione, le reticenze nel giudizio su quell’esperienza politica quando non gli apprezzamenti e le attestazioni di stima, rivelano chiaramente quali sono i motivi per cui non possiamo attenderci da Meloni e …… soci (ma ci starebbe meglio un altro appellativo) una netta dichiarazione di presa di distanza dal fascismo storico, ma anche dal neofascismo che ha operato in modo funesto in tempi più recenti.
Evidentemente, una eventuale e auspicabile apertura dell’armadio di famiglia, potrebbe fare uscire una eccessiva quantità di scheletri.

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A raccontarla mi proverò https://www.carmillaonline.com/2022/09/02/a-raccontarla-mi-provero/ Fri, 02 Sep 2022 20:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73633 di Luca Baiada

Questo 78° anniversario della strage del Padule di Fucecchio, come delle altre grandi stragi dell’estate 1944 nell’Italia occupata, cade in un contesto speciale: di nuovo la guerra in Europa, di nuovo crimini di guerra e ancora controversie internazionali sui crimini della guerra mondiale. Come se non si volesse imparare nulla. Il moscone ripete la sua danza macabra contro il vetro. La storia maestra di vita parla una lingua morta.

Nei racconti di circostanza tutto torna, in realtà ogni cosa è fuori posto. I 174 morti di quel 23 [...]]]> di Luca Baiada

Questo 78° anniversario della strage del Padule di Fucecchio, come delle altre grandi stragi dell’estate 1944 nell’Italia occupata, cade in un contesto speciale: di nuovo la guerra in Europa, di nuovo crimini di guerra e ancora controversie internazionali sui crimini della guerra mondiale. Come se non si volesse imparare nulla. Il moscone ripete la sua danza macabra contro il vetro. La storia maestra di vita parla una lingua morta.

Nei racconti di circostanza tutto torna, in realtà ogni cosa è fuori posto. I 174 morti di quel 23 agosto di sangue, vittime di una strage fra le più insensate dell’occupazione tedesca, non hanno avuto giustizia. Anche per loro – tante persone a lungo dimenticate, la più piccola di quattro mesi – adesso si versano fiumi di discorsi, si fanno spettacoli, si ripetono parole d’ordine trite. Si è persino celebrato un processo nuovo: a sua volta, ormai, è già vecchio di dieci anni; e come gli altri, ha fabbricato carte.

Dei condannati subito dopo la guerra, già negli anni Cinquanta non ce n’era più uno in carcere; i due condannati in questo secolo, invece, il carcere non l’hanno visto neanche per un giorno; sì e no l’hanno sentito nominare restando comodamente a casa loro, in Germania. Nella società dello spettacolo la caccia ai nazisti è un birdwatching.

E il risarcimento ai familiari delle vittime? Solo in questo secolo se n’è appena parlato, nel senso che una prima sentenza aveva condannato lo Stato tedesco, ma il provvedimento è stato cancellato quasi subito, appena la Germania ha fatto la voce grossa alla corte dell’Aia, per un’ipoteca su una sua villa sontuosa, a Como. È rimasto l’obbligo di risarcimento a carico dei due militari tedeschi condannati, ed è una gran bella consolazione: vai a provare a eseguire in Germania una sentenza italiana, se hai tempo e denaro da sprecare. Un senso desolante di mani vuote e di aria piena, una piega di beffa e d’operetta, qualcosa di assurdo fa sì che si possa guardare a queste cose con la rabbia della solita storia e con la tentazione della solita cronaca. In fondo, se adesso continuano le stragi, se ora tocca all’Est europeo uccidere e morire, con che coraggio si parla di 174 vittime oscure, ficcate nel mare di sangue di una guerra mondiale con decine di milioni di morti?

E invece è proprio il contrario. Si serba l’umanità se si riconosce il seme della storia in ogni storia, se di fronte a tutto questo non ci si rassegna alla forza ipnotica del racconto senza conseguenze, dei verborini, del mai più. Proprio lui, il mai più, sogghigna malizioso nella manica di ogni oratore da palco, che sia un sindaco o un presidente o un assessore o un rappresentante di qualcosa, perché se il sangue di 78 anni fa non conta, anzi, se 78 anni non sono bastati a fare giustizia, a che serve chiederla per chi muore in Ucraina? La mancata giustizia diventa l’accompagnamento naturale della legge del più forte, si trasforma in un pegno carnivoro che spinge solo alla vendetta immediata, alla legge della foresta. Un invito all’assassinio. E poi vai a parlare di giustizia internazionale, di rule of law, di valori europei.

Sorda a tutto questo, una classe dirigente che si cambia d’abito senza scrupoli, un ceto impermeabile che non fa lo schizzinoso tra feluche, toghe e grisaglie, proprio quest’anno ha servito l’ultima pietanza al banchetto. Qualcuno, come nel 2008, adesso aveva provato a realizzare i crediti da stragi e deportazioni, iscrivendo altre ipoteche su beni statali tedeschi. Ancora lesa maestà! La Germania ha fatto di nuovo causa alla corte internazionale di giustizia, proprio come nel 2008, e la legge italiana è corsa in aiuto del più forte, proprio come allora.

Con un provvedimento inserito in uno dei decreti legge sul Pnrr – nel nome della resilienza, che con la Resistenza va d’accordo come il diavolo con l’acqua santa – l’iniziativa legale contro la Germania è stata fermata. I debiti di Stato non sono come le rate di mutuo di un lavoratore malpagato. Contemporaneamente è stato istituito un «fondo-ristoro», per dar qualcosa ai familiari di queste vittime. Un fondo fatto con limitati stanziamenti italiani, non certo con denaro tedesco, perché a pagare, molto o poco o pochissimo, Berlino non ci pensa proprio. A questo fondo si può attingere solo a condizione di aver fatto una causa civile o di cominciarla entro pochi mesi, perché mica bastano 78 anni di dolore. Persone che soffrono da generazioni devono andare da un avvocato, raccontare tutto daccapo, esporsi al rischio di non essere credute; così, perché non si sa mai.

Sulle vittime grava il sospetto che si serba per gli invalidi, per gli infortunati sul lavoro, per chi chiede il reddito di cittadinanza: ma questo qui, fa mica il furbo? Quanto prenderanno, poi, è oscuro, perché i decreti attuativi non si vedono e non si sa quante saranno le domande. Sicuramente l’importo sarà molto inferiore a quello dovuto: potrebbe bastare per pagare un fascio di bollette pazze, di quelle che terrorizzano i pensionati. In compenso, il fondo-ristoro già produce i suoi effetti maligni, dividendo le famiglie colpite, creando aspettative ambigue e problemi di coscienza. Se fai causa accetti un brutto scherzo, perché forse avrai qualcosa dal contribuente italiano, cioè da te stesso e dai tuoi, e niente dagli assassini. Se non fai causa ti sembra di perdere un’opportunità; e poi magari i soldi, pochi e maledetti, servono a tuo figlio, a tuo nipote, che non trova lavoro. Questa è la bontà del paese dei mille populismi, dove tutti mettono Italia nei simboli di partito, dove tutti sono sovranisti, padroncini di qualcosa e amiconi immaginari di comunità col cuore in mano.

Non era forse più solidale quel barrocciaio padulino, in Valdinievole, con la sua ballata mandata a memoria, quando diceva «a raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò»? Cantava di una strage, del popolo e dei partigiani, e chi ha sentito almeno una volta quella melopea toccante, quei versi che sembrano venire da un tempo fuori della storia, ha intravisto un passato denso di significato. Vero o falso? Effetti distorti del lutto, sindrome del mondo perduto? In fondo, qui sta il punto. La questione della memoria, ingannevole o semplicemente malposta, nasconde la percezione di sé e la progettazione del futuro. Non è un caso, che la memoria come oggetto politico si sia affermata dopo il crollo del blocco socialista, quando la fine della contrapposizione fra i due modelli economici sembrava togliere ogni scusa alle retoriche belliciste e all’impunità dei crimini commessi nel conflitto mondiale. Ma quell’ornato linguistico era ingannevole, erano altri fiori di carta, il Ventesimo secolo si chiudeva su un equivoco e lasciava le premesse per altri raggiri, altri modi di cambiare discorso.

La mancata giustizia sulle stragi, accompagnata da una scorpacciata di narrazione spettacolare e retorica esortativa, adesso porge il suo canovaccio di impunità: per le vittime ci sono tante parole, mostre ufficiali, percorsi tematici, sentieri attrezzati, siti dedicati, applausi da dare e da prendere, gemellaggi, monumenti e molte altre cose indispensabili. La promessa per quel che accade nell’Est europeo, per quel che può accadere ovunque, è un disegno tratteggiato, che è facile riempire unendo i puntini: le vittime non hanno diritti, su ogni violenza galleggia, sguazza, si mette comoda una fungaia notabilare pronta ad ammorbidire le cose con parole caute, al limite a girare intorno al dolore coi ristori, le riparazioni, i lenimenti. La fantasia verbale non ha limiti, ma tutto deve restare come prima, perché il potere abbia sempre sotto mano sicari che restino impuniti.

A questo crocevia, su questo confine lasciamo che si affacci il nostro barrocciaio, con la sua ballata senza risposta.

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Per Tomaso Montanari https://www.carmillaonline.com/2020/12/29/per-tomaso-montanari/ Tue, 29 Dec 2020 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64101 di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro. Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il [...]]]> di Luca Baiada

Dai commenti di Tomaso Montanari sulla gestione di Firenze, a «Report», gli amministratori locali, compreso il sindaco Dario Nardella, si sono sentiti così urtati che gli hanno chiesto per vie legali un risarcimento in denaro.
Le posizioni di Tomaso Montanari, professore universitario, storico dell’arte e saggista, toccano i punti nevralgici fra potere e cultura, là dove il fare e il sapere possono molto, nel bene o nel male. Mentre la rappresentanza politica è svilita e la partecipazione democratica è mortificata, il compito dell’intellettuale è prezioso. La rassegnazione, il fatalismo, il timore, quando non le connivenze e i compromessi, sono bavagli più efficaci della censura. Se non bastano, ecco le carte bollate.

Lo scopo dell’impegno di Montanari, in questa vicenda come in altre, è segnalare scelte sbagliate, scuotere la cittadinanza fiorentina e italiana, impedire che Firenze, le altre città d’arte e in genere le città, della cultura diventino le tombe invece che le culle.
Scempi vistosi, in Italia, intrecciano affarismo, controllo del territorio e cultura reificata, immiserita in cattivo spettacolo, ridotta a trasformare lo spazio urbano in fondale da botteghe. È uno spaccato della modernità e un terreno di scontro. Montanari questa battaglia ha scelto di combatterla; perciò qui, forse, non vale la pena di sminuzzare le sue parole in un singolo episodio, di distinguerle, di ricollocarle nel contesto di un’intervista dove tutto si chiarisce.

Dallo sblocco delle locazioni con la legge sull’equo canone, per poi inventare i patti in deroga, passando per le regole sulla destinazione dei suoli, proseguendo con gli strumenti urbanistici e le loro varianti furbe, e ancora attraversando le norme e gli atti delle amministrazioni sul commercio, sul turismo e sulla ristorazione, sono decenni che la forma urbana, la comunità murata e integrata con la natura, la dimensione spaziale della cittadinanza, tesori della civiltà italiana e umana, sono stravolte e prostituite. Eppure sono antichi, i moniti a far buon uso dell’antico. Giuseppe Parini: «Conviene avvertire doverci noi italiani guardare che, mentre ci stiamo da noi medesimi adulando davanti allo specchio delle nostre antiche glorie, noi non venghiamo a fare come que’ nobili, che neghittosamente dormono sopra gli allori guadagnati da’ loro avi, e tanto più degni sembrano di biasimo e di vituperio, quanto né meno i domestici esempli vagliono ad eccitare scintille di valore nelle loro anime stupide e intormentite»1. Anche la sinistra, snaturando la sua funzione storica, è stata complice, e nascondere questa responsabilità non serve. Proprio nella regione amministrata da sempre dalla sinistra è importante tenere aperti gli occhi, e proprio in Toscana è pericoloso aprire la bocca.

Curiosa, la vicenda della scritta dettata da Luigi Russo nel 1954 per la lapide di San Miniato, dove dieci anni prima, il 22 luglio 1944, c’era stata una strage tedesca. Diceva fra l’altro: «Italiani che leggete, perdonate ma non dimenticate. Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano delle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero. Ricordate che solo nella pace e nel lavoro è l’eterna civiltà». Il prefetto tolse le parole da «lo straniero di ogni parte» a «d’aiuto o d’impero»; la lapide però aveva già le lettere metalliche fissate al marmo, così le parti non approvate furono tolte lasciando i buchi. Passarono gli anni: prima fu aggiunta una nuova lapide per contraddire la precedente e dare la colpa agli Alleati, poi, con la scusa della contraddizione, finirono entrambe in un museo. Bell’esempio di come far sparire la verità: basta appenderci tutt’altro e poi dire che l’attaccapanni sfigura. Se un Montanari denuncia un obbrobrio, basta accusare quel Montanari di un altro obbrobrio; poi si mette tutto l’obbrobriume vero e immaginario nell’indifferenziato, per evitare cattivi odori, fastidiose asimmetrie e posizioni – è una parola che dice voglia di padrone – divisive. Funziona.

Il muro di San Miniato è rimasto vuoto e ignavo. L’ignavia è una colpa, lo insegna un toscano così innamorato e battagliero che morì esule. Nel 2021 cadrà il settimo secolo dalla sua morte, e certamente quelli che hanno in uggia le critiche saranno in prima fila sul palcoscenico. Ma le parole di Luigi Russo, «belle contrade», cancellate subito, additano coi buchi il vuoto di autostima di un bel paese, quello dove a chi comanda piace un popolo fatto di fascisti ringhiosi oppure di imbelli. Adesso, chi difende la bellezza e insieme la democrazia trova avversari pronti a farlo inciampare in qualche parola.

A proposito di parola. Nel 2019 un altro amministratore pubblico dello stesso schieramento che governa Firenze, l’allora presidente della Regione Enrico Rossi, ha ricordato la mancata giustizia sui crimini nazifascisti commessi durante l’occupazione – videro la Toscana fra le regioni più colpite – e ha promesso impegno concreto per ottenere i risarcimenti economici, che sono dovuti dalla Germania ai familiari delle vittime e alla stessa Regione come ente pubblico 2.. I cittadini hanno creduto a una possibilità di giustizia. Ma la parola, Rossi non l’ha mantenuta.

Sono sostanziosi, i risarcimenti che spettano alle famiglie toscane e italiane, per stragi e deportazioni, a carico dello Stato tedesco. Ma gli amministratori fiorentini levano alti lai, trascinano orrende piaghe, sanguinano da ferite immedicabili per le parole di Tomaso Montanari. Dai palazzi del potere i crediti si vedono con un cannocchiale che fa rammentare quel racconto a veglia: «Per chi è codesta minestrona? – È per voi, madre badessa! – Per me codesta minestrina?»3.

I poeti, diceva Jean Cocteau, fanno solo finta di essere morti. Quell’esule, che a Ravenna si riposa chiudendo un occhio solo, potrà commentare questa storia con due o tre parole delle sue, dure come gioielli e scottanti come lava. I suoi versi dovrebbero insegnar bene, che in Toscana non si è usi discorrere di cose pubbliche sciacquandosi la lingua col brodo di coniglio.

Ma forse no, l’esule farà parlare lo straniero, Albert Camus: «La libertà è il diritto di non mentire. Vero sul piano sociale (subalterno e superiore) e su quello morale»; e anche: «La verità è la sola potenza, allegra, inesauribile. Se fossimo capaci di vivere soltanto della e per la verità: un’energia giovane e immortale in noi. L’uomo di verità non invecchia. Ancora uno sforzo e non morirà»4.


  1. Giuseppe Parini, Corso sui princìpi di belle lettere, in Prose, Gius. Laterza & Figli, Bari 1913, p. 262  

  2. Alla commemorazione della strage del Padule di Fucecchio: «L’Armadio della vergogna c’è. Il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione». Su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale»  

  3. Una versione è in Rodolfo Nerucci (a cura di), Racconti popolari pistoiesi in vernacolo pistoiese, Premiata tipografia Niccolai, Pistoia 1901, racconto XLVII, p. 62.  

  4. Albert Camus, Taccuini. Maggio 1935-Febbraio 1942. Febbraio 1942-Marzo 1951. Marzo 1951-Dicembre 1959, Giunti Editore/Bompiani, 2018, pp. 213 e 485  

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Chi è STATO ? https://www.carmillaonline.com/2018/12/12/chi-e-stato/ Tue, 11 Dec 2018 23:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49762 di Fiorenzo Angoscini

Saverio Ferrari, 12 Dicembre 1969. La strage di piazza Fontana. La ‘madre’ di tutte le stragi, a cura de L’Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre, Milano, dicembre 2018, pag. 39 (s.i.p.)

La ‘madre’ di tutte le stragi, ma anche strage di Stato, come ricorda il dossier nelle sue pagine. Così come La Strage di Stato è anche stata intitolata la prima pubblicazione di controinformazione sull’eccidio alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano. Strage di Stato perché, eseguita da fascisti (vedi sentenze), ha visto la connivenza attiva degli apparati dello stato. Gianadelio Maletti, ex capo del reparto D (controspionaggio) del [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Saverio Ferrari, 12 Dicembre 1969. La strage di piazza Fontana. La ‘madre’ di tutte le stragi, a cura de L’Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre, Milano, dicembre 2018, pag. 39 (s.i.p.)

La ‘madre’ di tutte le stragi, ma anche strage di Stato, come ricorda il dossier nelle sue pagine.
Così come La Strage di Stato è anche stata intitolata la prima pubblicazione di controinformazione sull’eccidio alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano.
Strage di Stato perché, eseguita da fascisti (vedi sentenze), ha visto la connivenza attiva degli apparati dello stato. Gianadelio Maletti, ex capo del reparto D (controspionaggio) del Sid, è stato condannato, in via definitiva, a un anno di carcere per falso ideologico in atto pubblico; il coordinatore del Nucleo Operativo Diretto (NOD) alle dirette dipendenze del Reparto D, Antonio Labruna, a dieci mesi di reclusione.

Senza dimenticare il balletto di bugie, reticenze e “non ricordo” organizzato dai capi responsabili del Sid, dal presidente della repubblica dell’epoca, dal presidente del consiglio, ministri vari, a proposito dell’identità, ed appartenenza ai diversi ‘servizi’, di agenti segreti camuffati da giornalisti: Guido Giannettini (Il Secolo d’Italia, Il Roma, Il Giornale d’Italia), Mino Pecorelli (Osservatorio Politico), Mario Tedeschi (Il Borghese), Giorgio Zicari (Corriere della Sera), Giorgio Torchia (Il Tempo) Guido Paglia1 (Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giornale d’Italia, Il Giornale). E tutti i depistaggi connessi alle loro attività e “conoscenze”. Nonché a quelle di fascisti e bombaroli. Ai loro ruoli e…’gradi’. Così come certo giornalismo spazzatura ha sempre auspicato le soluzioni di forza. Il settimanale Epoca (gruppo Mondadori) l’11 dicembre 1969, manda il fascicolo in edicola con copertina tricolore ed un perentorio titolo: Senza peli sulla lingua, senza conformismi, CHE COSA PUO’ ACCADERE IN ITALIA. La stessa rivista, nel mese di luglio 1964, erano i giorni del cosiddetto Piano Solo,2 golpe orchestrato dal Sifar (servizio segreto militare del periodo) di De Lorenzo con il beneplacito del presidente della Repubblica Antonio Segni, con sospetta tempestività era ‘uscita’ con un edizione speciale e, già allora, copertina tricolore con all’interno ‘testina’ fotografica del Presidente. Il titolo, ancora più esplicito: L’ITALIA CHE LAVORA chiede al capo dello stato un GOVERNO ENERGICO E COMPETENTE che affronti subito con responsabilità la crisi economica e il malessere morale che avvelena la nazione. Un incredibile ‘fiuto’ per i tentativi di colpo di stato e gli avvenimenti che li precedono, stragi comprese.

La sera stessa di quel venerdì nero,

il commissario Luigi Calabresi dell’ufficio politico (l’attuale Digos, nda) della Questura di Milano, conversando con Giampaolo Pansa, inviato de La Stampa, esternò subito la propria convinzione che le responsabilità dovessero essere addebitate ai gruppuscoli di estrema sinistra. ‘Estremismo, ma estremismo di sinistra-disse-è in questo settore che noi dobbiamo puntare. Estremismo di sinistra…Anarchici, ‘cinesi’ operaisti. (p. 9)
Eppure, già il 13 dicembre, il Sid era in possesso di informazioni assai precise sugli autori della strage, al punto da indicare, in una nota, Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino quali responsabili degli attentati di Roma, eseguiti su ordine di Yves Guérin Serac (al secolo Yves Guillou, nda) e Robert Leroy. (p.10)

I due, ex appartenenti all’ Organisation Armée Secretè (OAS), organizzazione paramilitare clandestina francese che operò, soprattutto, durante la guerra d’Algeria, erano gli “animatori dell’Aginter Presse, una finta agenzia di stampa, con sede a Lisbona, in realtà una delle centrali dell’estrema destra adibita a ‘operazioni coperte’, legata ai servizi segreti portoghesi e statunitensi”. (p. 10)

Ma, nel documento ‘segreto’ 3 n.36369/AC di prot. OGGETTO: Attentati terroristici a Milano e a Roma, redatto definitivamente, dopo aggiunte e rimaneggiamenti, il 17 dicembre 1969, Serac e Guillou, da nazisti già appartenenti alle Waffen-SS, vengono camuffati e definiti pericolosi anarchici.
Solo l’11 aprile 1970, con un altro documento interno del Sid, riacquistano le loro reali sembianze: “Sia Guérin Serac, sia Leroy non sono anarchici, ma appartengono ad un’organizzazione anticomunista. Si suggerisce di tacere questa notizia alla pubblica sicurezza e ai carabinieri” (neretto nostro).

La pubblicazione è un agile e comodo ‘bigino’ (depurato dalla sua accezione negativa) che permette, a chi conosce la vicenda, di ricordare particolari dimenticati o sottovalutati, mentre per i neofiti è un utile strumento di conoscenza ed approfondimento.
Si ricordano gli attentati del 15 aprile a Padova (ufficio del rettore università), del 25 aprile (Fiera di Milano ed Ufficio Cambi della stazione Centrale), quelli del 8-9 agosto sui treni: Caserta, Pescara, Chiari (Bs) e quello, per fortuna fallito, alla scuola slovena di Trieste (4 ottobre).
Il sodalizo tra fascisti, militari italiani e golpisti colonnelli greci che si consolida e si organizza, tanto che il settimanale inglese “The Observer” scrive: “Un gruppo di elementi di estrema destra e di ufficiali sta tramando in Italia un colpo di stato militare, con l’incoraggiamento e l’appoggio del governo greco e del suo primo ministro, l’ex-colonnello Giorgio Papadopulos”.

A proposito dell’attivismo di certi ambienti militari e accoliti vari, è da ricordare quanto pubblicato, nel settembre 1970 (nove mesi dopo Piazza Fontana, ma sicuramente pensato e redatto prima) dalla rivista di informazione militare “Interconair Aviazione Marina”, che all’interno del suo numero 70, allega un dossier dal titolo perentorio: Le ultime 100 ore di libertà in Italia. Simulando tutta una serie di situazioni, per gli estensori, drammatiche e catastrofiche: manifestazioni e scontri di piazza, tra cui si evidenzia, giovedì 24 giugno 1971 a Bologna durante un comizio sindacale, lo scoppio di una bomba:

ore 10,30 – Grande manifestazione unitaria nelle principali vie cittadine del capoluogo, che, con tutta la regione Emilia-Romagna ha proclamato lo sciopero generale.
In particolare, a Bologna, ai dimostranti si sono aggiunti operai metalmeccanici lombardi, anch’essi in sciopero e attivisti laziali, fatti appositamente giungere con numerosi pullman e con i treni dalle centrali sindacali. Si teme che elementi “filo-cinesi” si siano infiltrati tra la folla che si sta radunando in Piazza Maggiore. Il Prefetto di Bologna ha ricevuto ordine dal Ministero dell’Interno di cercare di non far degenerare la manifestazione in scontro aperto ma di “tallonare” comunque da vicino i manifestanti senza dare troppo nell’occhio con uno spiegamento di forze troppo appariscente. In Emilia sono stati fatti affluire comunque alcuni reparti celeri di Pubblica Sicurezza e alcuni reparti mobili di Carabinieri per ogni evenienza si tratta di reparti del I V Btg. Mo ile da Padova in rinforzo al V Btg. Mobile di stanza nella città). Verso le ore 11, la folla radunatasi in Piazza Maggiore, dove è previsto che alcuni oratori prenda no la parola, é enorme. E’ a questo punto che avviene il fattaccio. Improvvisamente in mezzo alla folla, mentre il primo oratore sta per iniziare il suo discorso, si sente un terribile boato e si alza una colonna di fumo: é esplosa una bomba! La folla per un attimo rimane immobile poi é il panico, é la strage: calcoli successivamente accertati valutano in 36 i morti in seguito all’esplosione e in 71 i morti calpestati dalla folla che, impazzita, é in fuga verso qualsiasi direzione. La confusione é enorme: gli stessi sindacalisti sono rimasti come impietriti sulla tribunetta e passano preziosi minuti prima che si pensi a qualche azione di soccorso. Ai loro piedi decine di persone rantolano e si disperano, cercando gli amici e i colleghi. La piazza comunque tende a vuotarsi perché si temono ulteriori esplosioni. Dopo circa mezz’ora, i feriti, moltissimi, incominciano ad essere portati agli ospedali. Alcuni, meno gravi, alle poche farmacie che non hanno abbassato le saracinesche. Molti feriti presentano gravi contusioni causate dalla folla che li ha calpestati.4

La lunga citazione si è resa necessaria per evidenziare le analogie con quanto avviene, il 28 maggio 1974 a Brescia, durante un comizio al termine di uno sciopero generale indetto contro il fascismo dai sindacati confederali. Alle 10,12 di quel martedì maledetto, in Piazza della Loggia esplode un ordigno che, complessivamente, causerà la morte di 8 persone e il ferimento di un centinaio di manifestanti.

L’Unità del 25 ottobre 1970, a pagina 7, titola: Invasione Sovietica con l’aiuto Vaticano!, con questo occhiello: “Provocatorio libello apparso su una rivista di ‘esperti’ militari”, ed un ancora più duro sommario: “La ricostruzione delle ‘ultime 100 ore di libertà in Italia’ in una pubblicazione diffusa tra le nostre forze armate-Il lunghissimo e ridicolo (?) testo è presentato come ‘molto meno fantascientifico di quanto si possa ritenere’-Preoccupanti analogie con un discorso del ministro della difesa Tanassi5 e con un discorso dell’ammiraglio Birindelli6 – L’esaltazione del Psu7 ”.
La pubblicazione evidenzia l’arruolamento dei fascisti “soldati politici” che si richiamavano al motto nazista delle SS italiane: “Il nostro onore si chiama fedeltà”. In realtà si dimostrarono fedeli soprattutto alle ‘rimesse’ economiche che ricevevano dai vari servizi, interni ed internazionali e che, come cagnolini fedeli, scodinzolavano a comando per i loro padroni.

Il pamphlet evidenzia la predisposizione informatoria in particolare di Ordine Nuovo, ma anche Avanguardia Nazionale8 .
“Risultò che non un solo esponente di questa organizzazione fosse estraneo a rapporti di dipendenza dai servizi segreti italiani e statunitensi, a partire da Pino Rauti strettissimo collaboratore dell’ammiraglio Henke, capo del Sifar prima e del Sid poi, dal 1966 al 1970”. (p.34)
E snocciola i nomi degli “spioni patrioti”: oltre agli inflazionati Giovanni Ventura e Franco Freda, troviamo Massimiliano Fachini, Delfo Zorzi, Nico Azzi9 (per sua stessa ammissione), Gianni Casalini e Maurizio Tramonte, la fonte “Tritone”, condannato definitivamente all’ergastolo per la strage di Brescia. Tutti informatori tricolorati.

“Almeno quattro infine le pedine all’interno di Ordine Nuovo ‘dirette’ dai servizi Usa: Carlo Digilio, Marcello Soffiati, il professor Lino Franco e Sergio Minetto”. (p. 34)
Un occhio d’attenzione lo riserva anche agli infiltrati. Mario Merlino e Salvatore Ippolito (“un agente di pubblica sicurezza appositamente infiltrato dalla Questura di Roma”), Stefano Serpieri (in Grecia con Merlino, partecipi, con altri squadristi, alla gita premio alla “scuola quadri” dei colonnelli) ed Enrico Rovelli10 la ‘gola profonda’ della delazione. Denominazione in codice, forse anche per disprezzo, Anna Bolena, l’adultera ed incestuosa seconda moglie di Enrico VIII, proprio per questo condannata alla decapitazione.

Ci sono anche altre curiosità, se non si trattasse di avvenimenti collegati alla tragedia che ha sconvolto le nostre vite11 , in particolare quelle dei parenti degli assassinati, compresa la diciottesima vittima della strage del 12 dicembre 1979: Giuseppe Pino Pinelli. Come il mistero delle quattro bombe milanesi di quella drammatica giornata; i depistaggi padovani relativi all’acquisto dei timer e delle borse usati per confezionare e depositare gli ordigni, nonché il boicottaggio e trasferimento di un commissario di polizia in organico alla questura di Padova e di un giudice in servizio al tribunale di Treviso.
Il sigillo politico e l’individuazione degli autori del massacro: “La corresponsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura in ordine ai fatti del 12.12.1969 appare sufficientemente dimostrata”. Tra le motivazioni Corte di assise di appello di Milano del 13 aprile 2004. Ribadita dalle motivazioni della Cassazione depositate il 10 giugno 2005: “Freda e Ventura erano certamente colpevoli anche se ormai questo ‘approdo’ non poteva ‘provocare effetti giuridici di sorta nei confronti di costoro’ in quanto ‘irrevocabilmente’ assolti dalla Corte di assise di appello di Bari”. (p. 35)
Mentre i parenti delle vittime, sempre da questi pronunciamenti, erano condannati a pagare le spese legali. Oltre al danno, anche le beffe…

Il quaderno di “memoria attiva” si conclude, al contrario del libro La Strage di Stato,12 che si apriva così, con la “misteriosa” scomparsa (e successivo ritrovamento del cadavere) di Armando Calzolari, tesoriere del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese.

Soprattutto quest’ultimo avvenimento, come le molte altre vicende e segnalazioni ricordate, invito a leggere nell’utile pro-memoria antifascista, che fa il paio con un’altra recente produzione dell’Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre (costola di Varese) incentrato sull’attività del gruppo neonazista dei Dodici Raggi13 .
Entrambe queste due produzioni di informazione e lotta antifascista si possono reperire in edizione cartacea, alle iniziative organizzate, o a cui partecipano, i ricercatori dell’Osservatorio.
In formato Pdf sulla pagina Facebook dello stesso.
“Il fascismo non è il contrario del comunismo, ma della democrazia”.


  1. http://www.osservatorionuovedestre.net/?s=Guido+Paglia  

  2. Prevedeva l’arresto e il trasferimento, con ponte aereo in campi di prigionia appositamente allestiti in Sardegna, di 157.000 cittadini schedati e 800 esponenti di sinistra  

  3. L’originale è riprodotto a p. 242 di, G. Fuga-E. Maltini, Pinelli. La finestra è ancora aperta, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano (Mi), seconda edizione, novembre 2017  

  4. Questo manuale delle sovversione andrebbe riprodotto e letto per intero. In pratica è una previsione, meglio una predizione di quanto avverrà. Lo riprenderemo in occasione di una riflessione sulla strage di Brescia  

  5. Più volte segretario nazionale del Psu-Psdi. Condannato per lo scandalo Lookheed, vedi https://www.carmillaonline.com/2017/04/26/le-emozioni-del-cuore-la-d-della-ragione-la-realta-dei-fatti/  

  6. Presidente e deputato del Movimento Sociale Italiano  

  7. Fondato nel luglio 1969 da una scissione del Psi, nel 1971 divenne Psdi  

  8. http://www.osservatorionuovedestre.net/?s=avanguardia+nazionale  

  9. Condannato a 13 anni di reclusione per l’ attentato al treno Torino-Roma del 7 aprile 1973. Si ferì alle gambe mentre stava preparando l’innesco di due saponette di tritolo militare da mezzo chilo l’una nella toilette, dopo aver lasciato in giro, lui e i suoi camerati, un po’ di copie di Lotta Continua, tanto per far capire dove si dovessero cercare i colpevoli. Altri due anni di carcere li ha guadagnati per l’assassinio del poliziotto Antonio Marino, Milano 12 aprile 1973  

  10. Vedi: La Spia, p. 128 in Fuga-Maltini, cit. n. 4  

  11. Vedi: https://www.carmillaonline.com/2017/12/12/le-false-verita/  

  12. AAVV, La strage di Stato. Controinchiesta, la Nuova Sinistra-Samonà e Savelli, Roma, giugno 1970. Il lavoro, coordinato dal giornalista Marco Ligini e dall’ avvocato Eduardo Di Giovanni, era stato condotto da un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare. A settembre 1970 era giunto alla quarta edizione, una al mese, e 60.000 copie vendute in quattro mesi. Sempre Samonà e Savelli ne ha realizzato una ristampa anastatica nel 1977, mentre l’ultima ristampa che ho rintracciato, a cura del settimanale Avvenimenti, è del dicembre 1993  

  13. A cura dell’ Osservatorio Democratico sulle Nuove Destre di Varese, I bravi ragazzi della provincia prealpina di Varese. I neonazisti: i Do.Ra. di Varese, Varese, novembre 2018  

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Storia di Ordine Nuovo https://www.carmillaonline.com/2017/12/16/storia-di-ordine-nuovo/ Fri, 15 Dec 2017 23:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42229 di Giovanni Iozzoli

Aldo Giannuli e Elia Rosati, Storia di Ordine Nuovo, Mimesis, Milano-Udine, pp. 240, € 18.00

Questo libro ha il valore di una testimonianza storica – rigorosa, fondata sullo studio di una ricca documentazione a cui Aldo Giannuli ha avuto accesso negli anni, in qualità di consulente della Commissione stragi, oltre che di diverse Procure impegnate in inchieste sul terrorismo nero. Ed è attraverso i documenti degli archivi di Stato che si cerca di raccontare la parabola di Ordine Nuovo, il gruppo che si è guadagnato la più fosca autorevolezza, nella [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Aldo Giannuli e Elia Rosati, Storia di Ordine Nuovo, Mimesis, Milano-Udine, pp. 240, € 18.00

Questo libro ha il valore di una testimonianza storica – rigorosa, fondata sullo studio di una ricca documentazione a cui Aldo Giannuli ha avuto accesso negli anni, in qualità di consulente della Commissione stragi, oltre che di diverse Procure impegnate in inchieste sul terrorismo nero. Ed è attraverso i documenti degli archivi di Stato che si cerca di raccontare la parabola di Ordine Nuovo, il gruppo che si è guadagnato la più fosca autorevolezza, nella storia del neofascismo italiano.

Quella di lasciar parlare le carte desecretate, custodite nei faldoni più oscuri della memoria repubblicana, non è una scelta arbitraria da parte degli autori: sta a significare che si può riscrivere la storia di quest’area, solo rileggendo in controluce la fitta trama dei suoi rapporti con istituzioni e apparati. Regimi stranieri, Ministero dell’Interno, Forze Armate, servizi di sicurezza: ON non fu mai davvero “infiltrata”, quanto consapevolmente e volontariamente organica a quei mondi. E se tra le sue fila si conteranno molti dirigenti a libro paga dei servizi – e diversi bombaroli e mercenari –, non sarà per caso, ma per coerenza alle ideologie, ai programmi e ai finanziatori del neofascismo italiano. Un capitolo finale viene dedicato alla Weltanschauung del gruppo, una formazione che vantava suggestioni iniziatico-militari, che amava descrivere se stessa come élite politica, che fu permeabile più di altri alle influenza evoliane e naziste. Ma il taglio e l’impostazione che vengono dati dagli autori a questo lavoro, non lascia spazio ad equivoci: ideologie, estetica e mitologia, vengono “dopo” – non sono l’essenza o la chiave per rileggere una storia sporca e complessa, che si colloca dentro la contesa geopolitica di quei decenni, più che nel regno dello Spirito.

La storia di ON comincia nel 1956, con la scissione di una ottantina di quadri dal MSI, partito che Michelini guida fermamente puntando a rafforzare un orientamento filo-atlantico e una prospettiva di inserimento della destra dentro i giochi politici. I fuoriusciti, guidati dal giovane Pino Rauti, si oppongono alla leadership missina che considerano garante di una “deriva moderata”: nasce così il Centro Studi Ordine Nuovo. In patria il nuovo gruppo gode di poco seguito – i micheliniani reggono alla scissione – e, almeno fino al 1959, anche di scarse risorse. Gli ordinovisti hanno però solida fama di coerenza ideologica e questo permette loro di coltivare i rapporti con Evola e con il milieu nazifascista europeo. Sarà proprio grazie alle relazioni con l’Internazionale Nera – in particolare con Jeune Europe e con l’OAS francese – che ON comincia ad accreditarsi verso le alte sfere dell’anticomunismo internazionale: «Il salto di qualità nella storia di ON sarà rappresentato, infatti, proprio dalla collaborazione con l’OAS, per conto del quale il gruppo italiano svolgerà azioni terroristiche, traffico di armi ed altro» (p.12). E questi rapporti internazionali apriranno porte importanti anche in Patria: «Fu in questo modo che un gruppo di dirigenti e fiancheggiatori del gruppo Giannettini-Ragno e lo stesso Rauti, entrò in contatto con il capo di Stato Maggiore Gen. Aloja che li introduceva, fra il 1961 e il 1964, nel Sifar» (pag.12)

È in questa fase, con l’inserimento nel traffico d’armi internazionali e con le relazioni sempre più strette con apparati di Stato e le FFAA, che ON comincia anche ad articolare la sua struttura, dotandosi di solide branche militari, con organizzazioni parallele finanziate e protette. Sarà nel rapporto con la Spagna franchista, che ON rafforzerà il suo apparato logistico ed ideologico. Un breve richiamo storico risulta utile: il salazarismo a Lisbona, il franchismo a Madrid e, più tardi, il regime dei colonnelli ad Atene, costituiscono in quei decenni una cintura fascista che stringe al cuore il Mediterraneo. L’Italia è circondata e influenzata da questa rete di forze sovranazionali che rappresentano anche il fronte sud-occidentale, della guerra ideologica e politica al blocco socialista e al movimento operaio. Al neo fascismo italiano basta attraversare un paio di frontiere o un tratto di mare, per trovare protezioni, rifugi, armi e risorse. Sono i servizi segreti – soprattutto spagnoli – a prendersi in carico questa missione di raccordo europeo delle forze anticomuniste: «I rapporti fra ON ed i servizi spagnoli non furono una casualità, ma la conseguenza logica dell’attenzione degli spagnoli per tutto quello che si muoveva sul terreno della “controinsorgenza” e della loro riconosciuta competenza in proposito» (p. 24).

La Spagna quindi, come laboratorio controrivoluzionario che fin dagli anni ’30, fornisce indicazioni preziose per ogni azione di contrasto alle forze popolari e che dal 1940 punisce il crimine di “attività comuniste” (legge rimasta in auge fino al 1977): «La guerra civile spagnola anticipò diverse soluzioni che si riproporranno nei piani di controinsorgenza degli anni 60. Infatti, nei ristretti ambienti dell’intelligence occidentale e di qui ai settori politici che avevano accesso alle loro informazioni – gli spagnoli godevano di grande considerazione in materia di guerra psicologica e guerra non ortodossa» (p. 24).

Ma in patria, il quadro dello scontro politico è altrettanto aspro che su scala internazionale. Il neocapitalismo e lo sviluppo industriale rafforzano il movimento operaio e danno al PCI un peso politico nella società italiana anche superiore a quello elettorale, pure ingente. È in questo quadro di rapporti assi torbidi, che si elaborano i progetti di Guerra Controrivoluzionaria, in cui ON fu lo snodo tra istituzioni e milizie civili: l’idea e i programmi operativi secondo cui la lotta contro il comunismo e il movimento operaio andava condotta non solo attraverso le dimensioni propriamente statuali e militari, ma anche sulla base dell’iniziativa armata dal basso. Da questo crogiuolo di suggestioni e progetti, nacquero la rete Stay Behind e i più misteriosi Nuclei difesa dello Stato, strutture in cui, quasi senza soluzione di continuità, militanti e dirigenti dell’estrema destra passarono da un livello all’altro, senza la minima remora ideologica:

In sostanza erano formati da persone che si erano tenute sempre in contatto con l’esercito, come ex sottufficiali, ex carabinieri, ex combattenti delle varie armi e costituivano piccoli plotoni che facevano addestramento anche con militari in servizio. Erano piccole unità capaci anche di essere indipendenti l’una dall’altra, secondo le tecniche di un certo tipo di difesa. Fra loro si conoscevano solo i capigruppo. L’esistenza di questa struttura in sostanza semiufficiale era pienamente nota alle autorità militari… Il suo fine era la difesa del territorio in caso di invasione e , se necessario, aveva anche compiti antinsurrezionali in caso di sommosse da parte dei comunisti. In sostanza queste strutture seguivano la linea ortodossa della Nato. Era sicuramente presente in Veneto in forze, in Alto Adige e in Valtellina, ove ad essa facevano riferimento le persone del gruppo Fumagalli… a Verona il responsabile… era il colonnello Spiazzi… La finalità della struttura era certamente quella di fare un colpo di Stato all’interno di una situazione che prevedeva attentati dimostrativi, preferibilmente senza vittime, al fine di spingere la popolazione a richiedere o ad accettare un governo forte. Ovviamente, in un attentato potevano esserci vittime casuali, ma questo, secondo chi dirigeva la struttura, era un prezzo che, in uno scontro così grosso per il nostro paese, si poteva pagare (deposizione di Carlo Di Gilio, p. 43)

Ordine Nuovo sarà la camera di compensazione in cui queste esigenze eversive troveranno spesso raccordo. Nello sforzo di rafforzare ed estendere questa intricata rete che teneva insieme militanza politica, presidio militare e servizi di sicurezza, l’attività degli ordinovisti fu infaticabile: nel libro ritorna spesso la memoria del famigerato Istituto Pollio, del quale Rauti e altri dirigenti di ON saranno tra i promotori. Ai dibattiti pubblici dell’Istituto, parteciperanno, seduti fianco a fianco, alte gerarchie delle Forze Armate, onorevoli missini, diversi direttori di quotidiani di area moderata, i vertici del Sifar, pezzi di Confindustria (generosi finanziatori, come l’armatore Costa). La campagna controinsurrezionale è già diventata il terreno comune che tiene insieme tutte queste forze. Come nella migliore tradizione italiana, però, le élite praticavano anche una guerra tra bande, dentro il fronte anticomunista, in particolare tra settori di Forze Armate più schierate e “interventiste”, rispetto alle effervescenze della società italiana; i comandi più prudentemente neutralisti e le strutture del Ministero dell’Interno – come il famigerato Ufficio Affari Riservati. Ordine Nuovo, e in particolare Pino Rauti, si alimentano di queste contraddizioni, tenendo sempre attiva una sequela di iniziative provocatorie, grandi e piccole.

Sul piano ideologico è nei primi anni 60 che dentro ON matura la svolta pienamente “occidentalista”. Ci si potrebbe chiedere, infatti: come potevano formazioni che celebravano il culto delle SS o delle “brigate nere”, zeppe di ex combattenti repubblichini e sature di retorica sul “riscatto della Patria tradita”, ritrovarsi solo pochi anni dopo, con tanta disinvoltura, a ricevere soldi e orientamento politico da parte degli ex nemici?

I movimenti fascisti e nazisti nati dopo il 1945, nella maggior parte dei casi, avevano mantenuto la contemporanea opposizione sia contro gli angloamericani che contro i sovietici… Già nella prima metà degli anni cinquanta, tuttavia, iniziava un avvicinamento tra neo-fascisti ed anticomunismo bianco. Infatti, per l’estrema destra si trattava di rompere l’accerchiamento, accettando realisticamente la sconfitta, per reinserirsi nel gioco politico. Per “l’anticomunismo bianco” la spinta veniva dal bisogno di recuperare un’area militante, disposta anche allo scontro fisico con le sinistre (p. 82)

Per potersi avvicinare agli Usa, si modificava lo statuto valoriale del neo-fascismo, si tralasciavano elementi fondanti della sua memoria di guerra, si costruiva una nuova ideologia “occidentalista”: «Per gli ideologici occidentalisti il contrasto fra occidente e comunismo non era da intendersi come confronto di natura sociale ed ideologica, ma come scontro fra modelli di civiltà irriducibili l’uno all’altro» (p. 87).

Da qui in avanti, ogni velleitaria terza via vagheggiata tra capitalismo e comunismo, ogni europeismo tradizionalista, ogni ostilità all’imperialismo americano, cessano di esistere o si limitano a esercitare solo funzioni di facciata, di agitazione, di collante ideale per le basi militanti: l’Occidente – inteso come concetto né geografico né meramente politico, ma come avamposto di civiltà contro i popoli gialli e neri, in pericolosa rivolta anticoloniale – sarà il bastione della destra radicale, in Italia e in Europa. Gli Usa e la Nato troveranno a loro disposizione una massa critica di uomini, armi, organizzazioni e quadri politici, da poter manovrare senza remore sullo scenario italiano.

Tra l’altro, dopo i fatti di Genova del luglio 60, la strategia micheliniana di approccio alla DC e di inserimento della destra italiana nel gioco politico, risulta ridimensionata. Ci si avvia alla stagione del centro sinistra. Gli apparati militari e le strutture di influenza americane in Italia entrano in fibrillazione. La critica “da destra” del Msi e la rottura rautiana con quel partito, non hanno più ragioni così forti da esibire. E del resto tra i gruppi come Ordine Nuovo e il Movimento Sociale Italiano, non si edificarono mai barriere e rigide divisioni: personalità, giornali, sedi, fonti di finanziamento, potevano attraversare labili confini di organizzazione o denominazione, continuando, più o meno, a praticare le medesime politiche (a differenza da quanto avvenne nel PCI che, già dopo il 68, eresse un muro invalicabile alla sua sinistra).

Nel 1969 Giorgio Almirante subentra al vecchio Michelini, deceduto per malattia:

con l’elezione di Almirante, la situazione mutava radicalmente ed il MSI registrava una improvvisa frustata attivistica. Già dopo pochi giorni l’elezione, Almirante, in concomitanza con la scissione socialista e con la crisi di governo, chiamava la destra alla mobilitazione di piazza… La creazione di una piazza di destra, è il primo necessario presupposto per calamitare anche i consensi di quel ceto medio impaurito dalla mobilitazione sindacale dell’autunno caldo e pronto a voltare le spalle a DC e PLI in favore di un più deciso antagonista della sinistra (p. 103).

In considerazione di questa svolta missina, la tentazione di rientrare nel MSI diventa, anche dentro ON, più pressante. La contestazione giovanile e l’autunno operaio rappresentano una scossa per la destra italiana. Tra l’altro ON, nonostante i suoi finanziatori internazionali, continua ad avere accesso a risorse troppo limitate; l’ultima velleità di trasformarsi in vero e proprio partito nazionale, è affidata a Confindustria:

Così nella primavera del 1966 ON cercava di risolvere definitivamente i suoi problemi incontrandosi con il Presidente di Confindustria. E, infatti, nel settembre di quell’anno, uno speranzoso Rauti annunciava al direttorio dell’organizzazione: i problemi finanziari di Ordine Nuovo potranno essere totalmente risolti alla fine del corrente anno o nei primi mesi del 1967 dato che sono attualmente ben avviati, con prospettive di soluzioni favorevoli, numerosi contatti e trattative con ambienti industriali italiani (p. 104).

Trattative che evidentemente non andarono nella direzione sperata. Nell’autunno del 1969 la maggioranza di ON decide il rientro alla casa madre missina. Si dice che Rauti, perorando questa decisione nel dibattito interno al gruppo dirigente ordinovista, parlasse della necessita di “aprire l’ombrello”: il partito di Almirante offriva un riparo e qualche margine di copertura politica, davanti alla durissima stagione delle stragi e dello scontro sociale che si andava ad aprire nel paese. La maggior parte del radicalismo neofascista rientrò, più o meno ufficialmente, nel MSI e questo rafforzava anche il partito e quella “destra di piazza” a cui spetterà il compito di contrastare nei territori, nei luoghi di lavoro e nelle strade, l’iniziativa di classe:

la nuova politica musclè dell’MSI almirantiano, trovava calorosi apprezzamenti nel mondo imprenditoriale scosso dalla virulenza dell’autunno sindacale. E così, le esangui casse del’MSI iniziarono ben presto a rifiorire grazie alle cospicue donazioni dell’Assolombarda ma anche dei grandi enti di Stato quali l’Iri e l’Eni, pur se a prezzo di qualche risentimento da parte di amici tradizionali del partito, come i petrolieri privati. D’altro canto, Almirante saprà giocare molto spregiudicatamente tra vecchi e nuovi sostenitori, fra capitale pubblico e privato, trovando fertile occasione di inserimento nelle vicende della Montedison, Bastogi e Sir. Requisito essenziale della fortunata ricetta almirantiana, restava il sapiente dosaggio tra manganello e doppiopetto – secondo una espressione coerente del tempo (p. 125).

Il Centro Studi Ordine Nuovo cessa di esistere, Rauti diventa un onorevole missino e solo una fronda minoritaria persiste nell’extraparlamentarismo, appellandosi come Movimento Politico Ordine Nuovo – vicende convulse tra aree che si sovrapponevano, cooperavano, si facevano concorrenza, sempre all’ombra dei poteri forti che ne garantivano l’agibilità politica e il supporto finanziario a cui contribuiva, ancora fino alla metà dei settanta, il traffico d’armi internazionale:

Come si sa, la produzione e il commercio di delle armi sono sempre assoggettati a particolari misure di sorveglianza:… L’attività di compravendita è soggetta ad una complessa serie di autorizzazioni e controlli cui non restano certo estranei i servizi di sicurezza. È dunque inevitabile che, svolgendo intermediazione in quel settore, si venga in contatto con gli apparati di intelligence e questo rimanda ad un’altra caratteristica della storia di ON: il costante rapporto con i servizi segreti e l’altissimo numero di collaboratori, informatori e confidenti più o meno occasionali presenti tanto nel gruppo dirigente nazionale, quanto nelle sedi locali e nell’ambiente più prossimo (p. 143).

Un paragrafo a parte merita Franco Freda, figura di riferimento (ancora oggi) del milieu nazifascista. Non un militante di Ordine Nuovo, in senso stretto, ma sicuramente molto vicino ai suoi vertici. Nel 2005 una sentenza della Cassazione stabilirà definitivamente la responsabilità di Freda in ordine alla strage milanese, organizzata da «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’ambito di Ordine Nuovo, capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura» (entrambi non perseguibili perché già processati e assolti per lo stesso reato). Anche qui, grande “mobilita’” delle sigle e delle appartenenze, ma ferrea unità nel perseguire la via della “Guerra controrivoluzionaria” di cui la strategia della tensione fu il capitolo propriamente italiano.

Con il 12 dicembre 1969 si comincia a sgranare il rosario dello stragismo, nel quale l’ambiente di Ordine Nuovo – formalmente disciolto ma assolutamente operativo nella guerra sporca lanciata contro le sinistre – si distinguerà senza remore: sono ordinovisti gli autori della strage di Peteano del maggio 72; è vicinissimo ad ON il gruppo milanese della Fenice, coinvolto in più di un attentato; ebbe rapporti con ON anche Bertoli, sedicente anarchico, attentatore alla questura di Milano; è ordinovista Carlo Maria Maggi, condannato in via definitiva per la strage di Brescia.

Le vicende successive alla confluenza di ON dentro il Msi, alla creazione del MPON e infine alla nascita di Ordine Nero, raccontano la solita trama di sigle, scioglimenti e autoscioglimenti – rapporti da retrobottega da cui viene forte odore di zolfo, caserme e nitroglicerina. La caduta del Muro di Berlino e la sconfitta di parte operaia che, tra gli ’80 e i ’90, disegna nuovi equilibri in Italia e in Europa, vedono l’estrema destra cambiare e adattarsi alla mutevolezza dei tempi. Anche il mondo degli “apparati riservati” riadatta le sue funzioni, in epoca post-guerra fredda.

In mezzo a questi terremoti, Pino Rauti sopravvive come una salamandra, collezionando rinvii a giudizi e schivando sentenze. Faro morale della destra sociale, diventerà anche segretario del MSI nel 1990, cercando di promuoverne una improbabile svolta movimentista. Ma la strada dei missini, alla fine del secolo, si presenta decisamente in discesa: basta attendere il passaggio del cadavere della prima Repubblica, un paio d’anni dopo, per cominciare a prepararsi all’ingresso nella stanza dei bottoni. Molto personale politico passato da Ordine Nuovo si ritroverà a sedere nel Parlamento della seconda Repubblica, così come fu per la prima.

La parte finale del volume, a cura di Elia Rosati, si occupa del variegato bagaglio di suggestioni filosofiche e ideologiche che ON porterà in dote al dibattito dentro la destra italiana. Si ricorda la tensione ideale verso Evola e il nazionalsocialismo, la continuità con la memoria repubblichina (che pure Evola non esaltava), l’idea di Europa e Tradizione, contrapposte alla modernità decadente nelle sue due varianti – quella yankee e quella bolscevica. Tutto materiale interessante, ma collocato nel libro in una posizione indiscutibilmente “da appendice”: come a dire, nella vicenda di Ordine Nuovo, l’essenza della storia va cercata nel suo essere consapevole strumento del terrorismo di Stato. La mitopoiesi del “soldato politico” in lotta contro la “barbarie materialista”, è parte di una narrazione precocemente usurata: mai come nella destra radicale italiana idealità e prassi si scindono brutalmente e le ragioni del neo-fascismo si piegheranno docilmente alle esigenze di realpolitik dei mandanti e dei finanziatori – lasciando dietro di sé libri bislacchi, documenti pomposi, declamazioni di “sovversivismo esistenziale” e una gran massa di documentazione compromettente, a cui Aldo Giannulli ha avuto il merito di attingere con metodo e pazienza.

Si discute molto, oggi, di una presunta rinascita dell’estrema destra. Troppo complesso affrontare in questa sede la questione – e ovviamente, il libro non se ne occupa. Di fascisti in giro, in questo paese, ce ne sono sempre stati tanti. Diciamo che quelli all’opera oggi sembrano piuttosto cambiati: anziché “cavalcare la tigre” preferiscono cavalcare la protesta contro i campi rom, un po’ più agevole ed elettoralmente redditizia, rispetto alla titanica “lotta alla Modernità”. Giri vorticosi di società, merchandising, corsa ai talk show. A vederli tutti compunti a raccogliere firme contro un centro di prima accoglienza, mettono un po’ di tristezza: confermano una sorta di generale ridimensionamento delle velleità ideologiche – anche delle più ignobili –, tipica di questi tempi grami. Se questi tardi epigoni cominciassero a leggere libri come questo, forse conoscerebbero meglio le radici – marce – della storia che pretendono di rappresentare e reiterare oggi.

Mentre chiudo queste brevi note, le agenzie internazionali diffondono una notizia inquietante: l’Imam di Ripoll, Abdelbaky Es Satty, indicato come mente e organizzatore del nucleo jhiadista autore della strage di Barcellona, era ufficialmente in rapporto con i servizi segreti di Madrid. Non è il primo e non sarà l’ultimo, di quel mondo. L’impressione è di una tremenda coazione a ripetere. Pur nel profondo cambiamento di forze e contesti, mercenari, imbecilli e infiltrati, continuano a rappresentare un’arma persistente ed inossidabile della scontro geo-politico in atto. E i corpi delle persone comuni, diventano, di regola, terreno di battaglia: una storia che noi in Italia conosciamo bene.

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Poveri cuori umani https://www.carmillaonline.com/2015/08/23/poveri-cuori-umani/ Sun, 23 Aug 2015 00:41:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24721 di Luca Baiada

Fucecchio«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano [...]]]> di Luca Baiada

Fucecchio«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano la Toscana coperti da una piramide di fiaschi. Ma forse non era lui, forse la ballata è nata da sé, fra i contadini e i cacciatori del Padule di Fucecchio.

Davvero, eran tutti innocenti, il 23 agosto 1944, quando i tedeschi, accompagnati da fascisti italiani, massacrarono 174 persone, compresi bambini piccolissimi. E innocenti non vuol dire ignavi. La questione dell’innocenza tornerà, si ripresenterà ogni volta che il tema sarà affrontato, dura e aguzza come una pietra. In realtà, fra i caduti c’erano un paio di partigiani, c’era una persona in contatto con gli Alleati, ce n’erano altre che aiutavano la Resistenza. Insieme morirono anche fascisti, di quelli senza importanza nell’apparato repubblichino, presi a caso. E poi c’erano tutti quelli che avevano disertato: militari, un poliziotto, un carabiniere, persone che la guerra aveva sospinto nelle sacche del conflitto, dove le ombre rendevano oscura la differenza fra militanza non armata e attendismo, ma dove per i tedeschi che occupavano l’Italia anche la non collaborazione coi burattini di Salò significava ostacolo e sabotaggio.

Su queste categorie, col loro portato di ambiguità e con le loro conseguenze storiche, giuridiche, morali, si giocheranno distinguo che non hanno mai smesso di produrre perplessità e frizioni. Se i morti sono combattenti, si rischia di giustificare la strage, di confonderla nel ribollire del sangue e della guerra. Se invece sono spettatori di un conflitto in cui non hanno preso posizione, il loro rifiuto di impegnarsi per Hitler e Mussolini, un rifiuto che per molti fu privo di connotazione partitica, e ricco invece di senno, di onestà, di bisogno di pace e lavoro dopo anni di dittatura, viene dimenticato: così, l’arma invisibile che impugnarono in un passaggio cruciale della storia del Novecento viene strappata dalle loro mani, condannandoli a sembrare imbelli, contro la loro volontà.

Qual è dunque la lettura giusta dei fatti? Le parole di una vecchia ballata aggirano il dilemma vittimacaduto, mettono da parte la scelta angusta fra innocenti e militanti, e rovesciano l’accusa di brigantaggio sui tedeschi: i malviventi, i Banditen sono loro. I morti, dice il barrocciaio, erano innocenti, eppure quell’accusa insistente – alle Partisanen, parole che echeggiarono sin da quel terribile 23 agosto a Fucecchio, come in altre zone di rastrellamenti e massacri nell’Italia occupata – non viene né smentita né ammessa. Ci sarebbe da congratularsi, con l’anonimo compositore, per il modo intelligente in cui affronta il tema, ma appunto non sappiamo neppure il suo nome. Conosciamo quello di Liduino Tofanelli, padulino tenace e appassionato – passionista, si dice in Valdinievole – che tanti anni fa mandò a memoria la gagliarda ballata, e quello dello storico Marco Folin, che la raccolse per iscritto negli anni Novanta. Ma l’autore, vai a cercarlo: vaga è la vita di un barrocciaio, oggi qui, domani là.

Il percorso tortuoso con cui la memoria – su questa e su altre stragi – si è avvitata e imbrigliata nelle suddivisioni e nelle regole vere o immaginarie, costituisce in fondo una deviazione, torva e rassegnata, verso la pretesa di mettere ordine, e verso una caduta di autostima, quindi verso una resa morale e un’accettazione della violenza. Si comincia a perdere quando si vuole essere impeccabili, e questo è un tranello con cui ogni vittima deve fare i conti. Ed ecco le leggende sugli avvisi di sfollamento e sulle delimitazioni delle aree vicine al fronte, ecco i miti sugli antefatti, sulle cause del massacro: la disinvoltura di una donna, l’uccisione di un tedesco, il furto di armi. Ecco la regola immaginaria dieci italiani per un tedesco, ecco il fantasma della rappresaglia. Insomma, tutti gli arnesi dell’autocolpevolizzazione e del giustificazionismo, che insidiosamente, tenacemente, nel corso dei decenni hanno finito per far accettare il sangue e l’impunità degli assassini.

Eppure era tutto così chiaro. La Valdinievole occupata, Pisa ancora sotto il fronte, a Firenze il centro liberato ma la periferia ancora in mano tedesca, la Linea gotica fortificata ma gli Alleati sempre più vicini. In quel tratto del Valdarno, il lato sinistro del fiume era già liberato, mentre sul lato destro c’era la 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, col generale Peter Eduard Crasemann. Dall’alba al pomeriggio del 23 agosto 1944, i tedeschi e alcuni fascisti girarono intorno al Padule di Fucecchio, la palude interna più vasta d’Italia, uccidendo soprattutto lungo i margini settentrionali e orientali. Non entrarono negli acquitrini, per non incontrare la formazione Silvano Fedi, e in questo modo dimostrarono come la distinzione fra partigiani e italiani fosse un imbroglio morale, una carta truccata: quando si trattava di uccidere, ogni italiano era un partigiano, anche se aveva quattro mesi come Maria Malucchi, però quando si trattava di combattere la differenza era chiara.

La limpidezza dei fatti è stata intorbidata da cattiva memoria, ancor più dall’incompleta realizzazione della democrazia in Italia, e in fondo da quella crisi dell’autostima che pesa sulle conquiste italiane dal Risorgimento a tutto il Novecento. Così, mentre la strage di Fucecchio supera anche il settantesimo anniversario, la mancata giustizia si continua a sentire. Pochi processi a ufficiali tedeschi, celebrati negli anni Quaranta, ma già all’inizio degli anni Cinquanta non ce n’è più neanche uno in carcere. Poi tutto a Roma, nell’armadio della vergogna, e infine un processo nel 2010-2012, con altri due militari condannati e mai estradati dalla Germania. I danni, mai risarciti. Lo Stato tedesco in un primo momento condannato a pagare, con acconti per quasi quindici milioni di euro, poi anche quel capo della condanna è stato revocato, dopo una pronuncia della Corte internazionale dell’Aia. La Germania si era rivolta all’Aia sin dal 2008 per non risarcire, e per offrire invece parole, parole, tante parole di riconciliazione, di perdono, e limitarsi a finanziare con poca spesa qualche iniziativa memoriale.

Sul piano penale, di recente c’è stata una novità, di quelle prevedibili: ad aprile 2015 un’autorità giudiziaria, in Baviera, ha negato l’esecuzione nei confronti del condannato ancora in vita, Johann Robert Riss. Su quello civile, però, c’è una bella pagina aperta: il Tribunale di Firenze, in processi civili contro la Germania, per altri casi di uccisione e deportazione, si è rivolto alla Corte costituzionale, che a ottobre 2014 ha fatto piazza pulita della decisione della Corte dell’Aia, e ha riaperto la strada alla possibilità di condannare lo Stato tedesco: «[Si deve] escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini». Forte di questa pronuncia, a luglio 2015 lo stesso Tribunale di Firenze ha nuovamente condannato la Germania per due casi di deportazione; c’è chi si domanda se sulla base di questi principi anche i superstiti, o i familiari delle vittime di Fucecchio, potrebbero tentare nuove strade. Che la Germania faccia di tutto per non pagare è ovvio, ma perché gli italiani dovrebbero rassegnarsi?

Chissà cosa direbbe il barrocciaio, quello della ballata, di fronte a tutto questo, lui che aveva attraversato la guerra, i bombardamenti e le stragi. Possiamo immaginarlo con uno di quei visi arguti, alla Yves Montand, attore originario della Valdinievole e costretto a crescere in Francia per sfuggire alla persecuzione fascista contro la sua famiglia. Eccolo, guarda un po’! Si avvia col suo carro, rinsaccato in una giacchetta di fustagno, un berretto calcato sugli occhi e un cane smilzo, è proprio Ivo Livi cresciuto a Marsiglia, ma canta in italiano: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia. / A raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò…».

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Delitto Perfetto https://www.carmillaonline.com/2010/11/22/delitto-perfetto/ Mon, 22 Nov 2010 06:00:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=3685 di Alessandra Daniele

Bomba1.jpgQual è il reato con la più alta percentuale statistica d’impunità? Scippo, spaccio, evasione fiscale?… No, strage. Chi organizza un massacro ha cento volte più probabilità di farla franca di chi uccide al dettaglio. Quindi attenti, non rischiate di finire in pasto ai RIS e a Barbie Criminologa, non ritrovatevi costretti a cambiare versione dei fatti ogni settimana come gli sceneggiatori di Lost, non fate di casa vostra il prossimo plastico di Vespa. Se dovete delinquere, imparate dai professionisti: fatela saltare in aria. L’esplosivo però non è che l’ultimo ingrediente, prima ve ne servono altri molto più importanti. [...]]]> di Alessandra Daniele

Bomba1.jpgQual è il reato con la più alta percentuale statistica d’impunità? Scippo, spaccio, evasione fiscale?… No, strage.
Chi organizza un massacro ha cento volte più probabilità di farla franca di chi uccide al dettaglio.
Quindi attenti, non rischiate di finire in pasto ai RIS e a Barbie Criminologa, non ritrovatevi costretti a cambiare versione dei fatti ogni settimana come gli sceneggiatori di Lost, non fate di casa vostra il prossimo plastico di Vespa. Se dovete delinquere, imparate dai professionisti: fatela saltare in aria.
L’esplosivo però non è che l’ultimo ingrediente, prima ve ne servono altri molto più importanti. Ecco quali, e dove trovarli:

Neofascisti
I più grossi sono ormai quasi tutti al governo, o ci saranno presto. E’ possibile però trovarne di più piccoli allo stato brado, impegnati comunque in attività filogovernative, come pestare a morte un immigrato, e cinghiamattarsi a vicenda al centro sociale Cristo s’è Fermato a Evola. Oppure, nella rara e curiosa varietà antigovernativa, a discutere di signoraggio su Pinocheguevara.com

Piduisti
Sono reperibili dappertutto con estrema facilità. Lasciate un pezzettino di potere sul pavimento, e subito salteranno fuori tre o quattro piduisti per rosicchiarselo. Non preoccupatevi per la sicurezza: ai bug della P2.5 hanno di recente rimediato le patch della P3.

Generali golpisti
Non tutti gli ufficiali italiani sono interpretati da Raul Bova. Qualcuno di loro ha vita propria, e sogna un paese più ordinato, ai suoi ordini. Difficilmente li troverete in zona di guerra. Anzi, in genere negano che esista una zona di guerra, chiamandola con termini pittoreschi come ”teatro delle operazioni di peacekeeping”, ”scenario dell’intevento umanitario congiunto”, o ”palcoscenico della democrazia a tappeto”.

Servizi Segreti
La fine della Guerra Fredda non ha ridotto la quantità di intrighi spionistici, l’ha moltiplicata in modo esponenziale. Il numero di gruppi terroristici infiltrati è stato da tempo abbondantemente superato dal numero dei gruppi terroristici composti da soli infiltrati. Trovare orme di Servizi Segreti è facilissimo ovunque. Non trovarne è impossibile.

Politici collusi
La grande svendita di Fine Legislatura è iniziata: affrettatevi, o vi resteranno solo taglie piccole, colorazioni politiche ridicole, e deputati sformati dai troppi cambi di prova.

Capri espiatori
Basta inventarli. Va bene qualsiasi denominazione idiota che suoni vagamente anarcoide, tipo Insurrezionanisti dell’Insubria, o Anargraffitari di Griffondoro.
Poi si procederà a sgomberi, retate, pestaggi, carcerazioni, e condanne dei soliti sospetti che non c’entrano un cazzo.

Mescolate tutti gli ingredienti, aggiungete abbondanti depistaggi e mafie a piacere, e avrete anche voi il vostro Delitto Perfetto. Per sfornarlo non vi resterà che scegliere un momento di crisi della democrazia italiana. Cioè un momento qualsiasi.

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