Stooges – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Kick out the jams, moterfuckers! Wayne Kramer (1948 – 2024) https://www.carmillaonline.com/2024/02/19/kick-out-the-jams-moterfuckers-wayne-kramer-1948-2024/ Mon, 19 Feb 2024 21:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81093 di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!». Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per [...]]]> di Sandro Moiso

«Fuori dai coglioni, fottutissimi stronzi!».
Quante volte dovremmo urlarlo ogni giorno, ad ogni ora, nel confronti di compagini politiche, culturali e musicali che, sotto le vesti del perbenismo borghese, sensibile soltanto all’odore dei soldi, oppure dell’alternativa liberal correct e della provocazione studiata a tavolino da manager ed esperti di marketing, ci assillano in ogni momento attraverso i media, i social e finti dibattiti politici (televisivi o in presenza poco importa)?

Gli MC5 (Motor City Five) di Detroit lo urlarono una volta per tutte con un brano musicale dallo stesso titolo contenuto nell’album omonimo uscito nel 1969 per l’etichetta discografica Elektra. I cinque di Detroit (Motor City) ovvero Rob Tyner (voce, 1944-1991), Fred “Sonic” Smith (chitarra, 1949-1994), Wayne Kramer (chitarra, 30 aprile 1948 – 2 febbraio 2024), Michael Davis (basso, 1943-2012) e Dennis Thompson (batteria, 1948), attualmente unico sopravvissuto del gruppo, si erano conosciuti intorno alla metà degli anni ’60 quando erano ancora studenti delle scuole superiori a Lincoln Park, una cittadina della contea di Wayne, nella regione metropolitana di Detroit.

Davis e Thompson erano subentrati nel 1965, al posto del bassista Pat Burrows e del batterista Bob Gaspar che avevano lasciato il gruppo quando Fred Smith (futuro marito di Patti Smith) e Wayne Kramer avevano iniziato a sperimentare muri di feedback e rumore bianco con le loro chitarre, ispirandosi entrambi al free jazz di Archie Shepp, Sun Ra e John Coltrane ancor più che a Jimi Hendrix.

Rob Tyner era entrato prima come manager, con il suo vero nome di Rob Derminer, dei Bounty Hunters, il gruppo originario formato da Wayne Kramer con Fred Smith al basso, Leo Le Duc alla batteria e Billy Vargo come seconda chitarra, ma poi aveva cambiato il suo nome diventandone di fatto il frontman e cantante. Ma, in realtà, lui e Wayne si erano conosciuti quando erano ancora ragazzini, entrambi provenienti, come poi tutti gli altri membri, da famiglie operaie di quella che all’epoca era considerata la capitale mondiale della produzione automobilistica.

Wayne se ne era andato di casa a diciassette anni, in un ambiente in cui tutti, comunque, si conoscevano sia per condizione di classe che per provenienza geografica, poiché gran parte di quegli operai, bianchi e neri, erano giunti a Detroit dal Sud degli Stati Uniti dopo la guerra, perché avevano sentito dire che lì avrebbero trovato lavoro.

Erano, in qualche modo, dei reietti quegli eredi della classe operaia, e sapevano di esserlo, come migliaia di altri ragazzi della loro stessa età che vivevano nei sobborghi cittadini a quell’epoca. Che alle spalle non avevano l’estate dell’amore di San Francisco, ma dello stesso anno, il 1967, la più grande rivolta urbana di quel decennio. Durante la quale la Guardia Nazionale, per sedare i disordini, aveva dovuto impiegare anche l’aviazione
Questo elemento, insieme all’ascolto del jazz d’avanguardia, fu sicuramente alla base del disastro sonoro che uscì dalle due chitarre di Kramer e Smith che, di fatto, costituirono sia il tappeto di distorsioni su cui si svilupparono le loro canzoni che il proto-punk cui, nel giro di pochissimo tempo, si ispirarono altri gruppi della stessa area metropolitana: gli Stooges di James Newell Osterberg Jr. (1947, in arte Iggy Pop), gli Up, i Grand Funk Railroad (originari di Flint, a nord-ovest di Detroit), la James Gang oppure Alice Cooper, in un elenco che per motivi di spazio rimane qui incompleto.

Dal punto di vista musicale, in una città in cui il proletariato bianco si frammischiava al proletariato afro-americano, grande era stata anche l’influenza del blues e del rhythm’n’blues di cui, precedentemente, si erano appropriati altri gruppi seminali quali i Woolies (resi celebri da una più che travolgente versione di Who Do You Love di Bo Diddley), i Rationals di Scott Morgan (che raggiunsero il successo grazie a una versione proto-garage di Respect di Otis Redding) e, soprattutto, Mitch Ryder con i suoi Detroit Wheels, autentico padrino di tutta la musica bianca e arrabbiata che sarebbe venuta a partire dalla fine degli anni Sessanta dall’area di Detroit. Ma, nella sostanza, la novità dirompente rappresentata dagli MC5 fu quella di costituire la prima rock’n’roll band apertamente politicizzata. Nelle parole rilasciate dallo stesso Wayne Kramer in un’intervista a Pat Wadsley, Tre anni di galera e quindici di Rock, negli anni Ottanta:

C’erano anche i Fugs, ma erano più underground, mentre noi combinavamo la retorica politica con il rock’n’roll […] Il rock è stato sempre qualcosa di politico: lo era Chuck Berry, lo erano i Doors. Il rock’n’roll ha sempre rappresentato la ribellione dei giovani contro il potere.
All’inizio tutte le nostre idee erano ad un livello molto semplice e grezzo. Eravamo ragazzotti che venivano dalla strada e sapevamo solo che potevano fregarci se solo avessero voluto, in qualsiasi momento.

Da questo primitivo sentimento di oppressione sociale derivano sicuramente le parole urlate da Rob Tyner all’inizio di Motor City Is Burning, nel primo e più riuscito album del gruppo:

“Fratelli e sorelle, voglio dirvi una cosa! Sento un sacco di chiacchiere da un sacco di stronzi seduti su un sacco di soldi dicendomi che sono l’alta società. Ma voglio che voi sappiate una cosa, se me lo chiedete: questa è l’alta società! Questa è l’alta società!“

Così mentre, da un lato, ogni loro concerto era definibile come “una forza catastrofica della natura che la band era a malapena in grado di controllare”, dall’altro, i giornali conservatori definivano le loro esibizioni “orgasmi collettivi, ubriacature selvagge, valanghe di suono scaricate alla rinfusa sul pubblico, traboccanti di oscenità e slogan.” Sesso, droga, protesta e rock’n’roll riuscivano dunque a colpire nel segno. Ma fu l’incontro con John Sinclair, il teorico e attivista delle White Panthers a definire meglio l’attitudine di Kramer e compagni:

Quando arrivò John non fece altro che dire le stesse cose in termini politici e noi fummo d’accordo. Pensammo che aveva proprio ragione. Era un poeta, un critico e un organizzatore. Era l’unico che riuscisse a comunicare con noi, a trasformare un gruppo di maniaci del rumore in un complesso musicale che potesse esibirsi e continuare a far funzionare il tutto nel tempo1.

Nato a Flint, nel 1941, John Sinclair fu tra gli organizzatori del giornale underground di Detroit, “Fifth Estate”, alla fine degli anni ’60; contribuì alla formazione della Detroit Artists Workshop Press; lavorò come giornalista jazz per “Down Beat”dal 1964 al 1965, essendo un esplicito sostenitore del nuovo movimento del Free Jazz e fu uno dei “Nuovi Poeti” presenti alla seminale Berkeley Poetry Conference nel luglio 1965. Nell’aprile del 1967 fondò l’”Ann Arbor Sun”, un giornale underground, mentre dal 1966 al 1969 è stato il manager degli MC 5. Sotto la sua guida la band abbracciò la politica rivoluzionaria della controcultura del White Panther Party, fondato in risposta all’appello delle Pantere Nere affinché i bianchi sostenessero il loro movimento.

Durante questo periodo, Sinclair, teorico dell’”amore armato”, fece in modo che la band fosse ingaggiata regolarmente al Grande Ballroom di Detroit, dove in seguito fu registrato dal vivo, il 30 e 31 ottobre 1968, il loro primo album, Kick Out the Jams. Stava gestendo gli MC5 al momento del loro concerto gratuito fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica del 1968 a Chicago, quando la band fu l’unico gruppo ad esibirsi prima che la polizia interrompesse la massiccia manifestazione contro la guerra in Vietnam. Lui e la band si separarono nel 1969. Nel 2006, Sinclair si è riunito però ancora all’ex-bassista degli MC5 Michael Davis per lanciare la Music Is Revolution Foundation.

Dopo una serie di condanne per possesso di marijuana, Sinclair fu condannato a dieci anni di carcere nel 1969 dopo aver offerto due joint a un’agente della narcotici sotto copertura. La severità della sua condanna scatenò diverse proteste pubbliche che culminarono nel John Sinclair Freedom Rally alla Crisler Arena dell’Università del Michigan ad Ann Arbor nel dicembre 1971. Tre giorni dopo la manifestazione, Sinclair fu rilasciato dal carcere quando la Corte Suprema del Michigan stabilì che le leggi statali sulla marijuana erano incostituzionali.

Nel 1972 Sinclair fu accusato di cospirazione per distruggere proprietà governative insieme a Larry Plamondon e John Forrest, ma in appello la Corte Suprema degli Stati Uniti emise una decisione storica, vietando l’uso da parte del governo degli Stati Uniti della sorveglianza elettronica domestica senza un mandato, liberando ancora una volta Sinclair e i suoi coimputati2. Sui motivi della rottura con Sinclair, Wayne Kramer si sarebbe in seguito espresso così:

Si arrivò alla rottura con John e con tutto il partito delle White Panther. Forse accadde perché in quel periodo John stava per essere condannato ad una pena detentiva e quando capisci che stai per andare in prigione cominci a diventare nervosissimo. Di solito te la prendi con tutti quelli che hai intorno oppure giuri di smetterla. John invece, per reazione, divenne ancor di più un militante convinto. A quel tempo non sapevo ancora cosa vuol dire avere davanti la prospettiva di andare in galera, lo imparai solo più tardi, così non potevo capire la sua esplosione di militanza [In precedenza] tutto era iniziato come una specie di club atletico-sociale, poi decidemmo di metterci a fare sul serio. Le Black Panthers erano tipi duri? Anche le White Panthers dovevano esserlo. Le Black Panthers avevano armi? Anche noi allora e se loro sparavano anche noi dovevamo sparare. Ci esaltavamo con la retorica del momento, ma quando decidemmo alla fine di non avere più niente a che fare con loro, capimmo che il nostro attivismo era consistito nel suonare e pagare i conti delle attività di quel partito da operetta 3.

La fine degli MC5 sarebbe arrivata nel 1971, quando la band perse il contratto discografico con l’Atlantic, che aveva sostituito quello con la Elektra, e non riusciva più a suonare. Fino a quando Mick Farren (1943-2013), capo della sezione inglese delle White Panthers e cantante della band proto-punk inglese dei Deviants (tre album tra il 1967 e il 1969) riuscì a organizzare un loro tour europeo in concomitanza con un festival musicale. Ancora dai ricordi di Kramer:

Non ci pagarono, ma ci diedero i biglietti per il viaggio, così cercammo di farci ingaggiare per qualche altro concerto in Inghilterra. Partimmo per Londra dove rimanemmo per circa un anno. Era l’ultimo viaggio all’estero degli MC5, sapevamo che non saremmo rimasti insieme ancora per molto. Ci fu poi quella tournée, la migliore che avessimo mai avuto, Avrebbe dovuto durare sei settimane, dieci giorni in Scandinavia poi l’Inghilterra, la Francia, con apparizioni alla televisione e alla radio, per finire con due settimane in Italia. Avremmo potuto separarci con stile alla fine della stessa, avendo qualche migliaio di dollari in tasca per incominciare qualcosa di nuovo, ma quando stavamo per partire arrivò la moglie del cantante: disse che non avrebbe lasciato venire suo marito. Risposi che ero pienamente d’accordo con lei sul fatto che suo marito non avrebbe dovuto cantare in un complesso, per il semplice fatto che non ne era all’altezza. A spassarsela fra un concerto e l’altro era bravissimo, ma solo a far quello. Pensavo però che avendo firmato un contratto avrebbe dovuto rispettarlo, se non altro perché se non fosse venuto avrebbe messo in difficoltà tutti noi. Finimmo però per partire senza di lui.

Io e Fred facemmo a turno i cantanti, senza sapere neanche la metà delle parole delle canzoni o cantandole nella tonalità sbagliata. Fu un’esperienza orribile, la peggiore della mia vita: si arrivava in un posto, c’era il finanziatore con la moglie, si mangiava qualcosa, si beveva, dicevamo le solite cose. «Come siamo contenti di essere qui» eccetera eccetera. Poi salivamo sul palco, facevamo uno spettacolo pietoso e quando tornavamo nei camerini se ne erano andati tutti, non riuscivamo a trovare nessuno per farci pagare. Gli italiani, visto come andavano le cose, cancellarono i nostri spettacoli: «Paghiamo per cinque e ne vengono soltanto quattro. Potete scordarvelo». Questo capitava mentre Sinclair era in prigione.4.

Una descrizione impietosa della fine di una leggenda, com’è giusto che sia, ma i travagli per Kramer erano ancora soltanto agli inizi. Tornato a Detroit, Kramer avrebbe iniziato a collaborare con il suo idolo Mitch Ryder, ma anche quest’ultimo avrebbe ben presto iniziato a dare segni di follia con comportamenti anomali e pericolosi, per sé e per gli altri che lo circondavano. Come ancora racconta Wayne: « Era diventato pazzo perché aveva venduto più di dieci milioni di dischi senza mai riuscire a vedere un centesimo, per cui non si fidava più di nessuno. Alla fine aveva dato di fuori di brutto ».

Così Kramer, dopo aver girovagato tra complessini nemmeno degni di esser ricordati, musiche pubblicitarie e infimi club, avrebbe finito con l’approdare, grazie anche alle proprie dipendenze, ai giri più che loschi legati al commercio e allo spaccio di droga. Eroina e cocaina. Come ricordava ancora nell’intervista già citata:

Mi arrestarono diverse volte in quel periodo per delle scemenze, non voglio neanche parlarne, non è interessante. Ritengo, adesso che ho avuto un po’ di tempo per pensarci su, di essere arrivato a immischiarmi in quel tipo di traffici anche perché ne ero attratto, mi sembrava di essere un ribelle […] Ma il fatto è che se non riesci nella musica perdi tempo e denaro, ma se sbagli in quel tipo di affari vai in galera o ci rimetti la pelle […] così un affare oggi, un affare domani mi ritrovai davanti ad un giudice per aver cercato di vendere cocaina a due agenti federali […] Il giudice disse: « Per il suo caso, signor Kramer, la legge prevede tre anni di reclusione». Prima mi aveva detto un massimo di cinque, per cui ero contento e mi dicevo: « Va bé, me li farò», ma in quello si alza un impiegato del tribunale e dice: « Vostro onore, c’è un errore, la legge prevede cinque anni di carcere ». E il giudice: « Insomma, tre o cinque che siano… Faremo una via di mezzo, gliene darò quattro » […] Lo sceriffo mi mise una mano sulla spalla e alle sei di quella sera ero chiuso in prigione.

Dopo gli anni di galera iniziò la lenta, faticosa risalita. Prima con l’esperienza, ancora una volta fallimentare, con i Gang War messi insieme ad un altro noto tossico e loser, Johnny Thunders, poi via via con dischi solisti o con compagni più affidabili. Dieci in tutto tra la fine degli anni Ottanta e il 2004, non molto. Eppure, eppure….

Wayne ha dimostrato, insieme a Fred “Sonic” Smith e agli altri suoi compagni di un effimero, violento, selvaggio e spericolato viaggio che la “musica giovanile” può essere ben altro da ciò che, oggi, gruppi tardo-glam o finti rapper e veri trapper vogliono proporre come novità musicali e artistiche. Lanciando, contro di loro e i vari promotori del business dello spettacolo, quell’indomito e sempre attuale grido di rabbia e disprezzo: Kick Out the Jams, Motherfuckers!!


  1. P. Wadsley, intervista a Wayne Kramer, cit.  

  2. Alcuni degli scritti di John Sinclair tradotti in italiano sono reperibili in J. Sinclair, Va tutto bene, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2006 e J. Sinclair, Guitar Army. Il ‘68 americano tra gioia, rock e rivoluzione, traduzione di A. Prunetti, Stampa Alternativa 2007.  

  3. P. Wadsley, intervista, cit.  

  4. Ibidem.  

]]>
Questa musica non è normale https://www.carmillaonline.com/2016/09/28/questa-musica-non-normale/ Wed, 28 Sep 2016 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33511 di Sandro Moiso

Dick Porter, Viaggio al centro dei Cramps, Goodfellas, Firenze 2016, pp.320, € 22,00

cramps Avvertenza: Se amate il progressive italiano degli anni settanta oppure pensate che Eric Clapton sia uno dei migliori chitarristi in circolazione e che il vero blues sia quello di Joe Bonamassa e se, per finire, tre ore di concerto di Springsteen non vi rompono i coglioni…beh, lasciate perdere questa recensione e tornate in salotto a guardare la tv. Il libro di cui si parla potrebbe infatti disgustarvi o spaventarvi oppure, ancora, suscitare in voi tutte e due le sensazioni.

“Non sappiamo leggere la musica, [...]]]> di Sandro Moiso

Dick Porter, Viaggio al centro dei Cramps, Goodfellas, Firenze 2016, pp.320, € 22,00

cramps Avvertenza: Se amate il progressive italiano degli anni settanta oppure pensate che Eric Clapton sia uno dei migliori chitarristi in circolazione e che il vero blues sia quello di Joe Bonamassa e se, per finire, tre ore di concerto di Springsteen non vi rompono i coglioni…beh, lasciate perdere questa recensione e tornate in salotto a guardare la tv. Il libro di cui si parla potrebbe infatti disgustarvi o spaventarvi oppure, ancora, suscitare in voi tutte e due le sensazioni.

“Non sappiamo leggere la musica, ma siamo bravi a muovere il culo a tempo” (Poison Ivy)

Erick Lee Purkhiser (1947 – 2009) in arte Lux Interior, nome ispirato dalla grossolana pubblicità dei lussuosi interni di un’automobile, e Kristy Marlan Wallace (classe 1953) in arte Poison Ivy, nome ispirato sia da una delle più velenose nemiche di Batman che dal titolo di uno dei più celebri brani del quintetto doo-wop dei Coasters, hanno costituito una delle coppie più selvagge del rock’n’roll. Sulla scena e nella vita.

cramps_1 Al comando di uno sgangherato vascello che prendeva il nome dai dolori mestruali, Cramps, nonostante i numerosi cambiamenti tra i membri dell’equipaggio, ne hanno saldamente retto il timone per più di trent’anni, dai primi difficili esordi newyorchesi alla metà degli anni ’70 fino alla morte, per dissezione aortica, di Lux il 4 febbraio 2009. Su un oceano tempestoso fatto di mode passeggere, synth-pop, case discografiche interessate soltanto a trasformare l’oro della selvaggia violenza del primo rock’n’roll e del primissimo punk nella merda più adatta ad essere trasmessa con successo dalle radio del mainstream culturale e musicale, i due compagni di vita, di avventure e di suoni distorti hanno continuato intransigentemente a perseguire il loro scopo: portare il verbo del blues delle origini e del rockabilly del Sud degli Stati Uniti alle orecchie e attraverso la pelle di tutti i giovani ribelli che ancora non ne conoscevano l’esistenza.

Decisi a cantare la vitalità, l’energia e l’eccesso e ispirati dai B movie horror, sexploitation e di fantascienza non si sono arrestati davanti a nulla e non si sono lasciati intimorire mai, né dal conservatorismo musicale delle major, né tanto meno da quello delle presunte avanguardie art-rock e post-punk che li deridevano, né, ancor meno, da qualsiasi tipo di moralismo religioso, culturale o pseudo-politico.

Ha affermato Poison Ivy: “Suonando rock’n’roll noi siamo in qualche modo anche una blues band.Un sacco di gente dice che noi siamo troppo ossessionati dal sesso, come se questa fosse una tendenza anomala, ma non ho mai sentito dire che Muddy Waters fosse un maniaco sessuale per aver cantato «Little Red Rooster». O Willie Dixon, o Howlin’ Wolf, non sono mai stati definiti ossessionati dal sesso per via di ciò di cui cantavano, eppure l’argomento era sempre quello1

Riscoprire le radici autentiche del blues, non il presunto piagnisteo derivato dal canto nero cristianizzato e indirizzato a forza nei gospel e negli spiritual, ma l’esplosione di energia vitale e sessuale che aveva fatto sì che i bianchi benpensanti e puritani finissero col definirlo Musica del Diavolo. Quella eccitazione elettrizzante, sensuale e conturbante che gli accordi delle chitarre nere avevano trasferito a quei giovani bianche del Sud che, stufi di chiese metodiste e citazioni bibliche, avevano iniziato a portare giacche di cuoio, a truccarsi gli occhi col mascara come Elvis e a suscitare problemi di ordine pubblico nelle piccole comunità rurali e in quelle più grandi urbane.

cramps-nagasaki Juvenile delinquent, così li avrebbe definiti un sociologo americano degli anni ’50 che avrebbe così contribuito a scatenare una caccia alle streghe degna di Cotton Mather nei confronti di fumetti, libri tascabili, film, dischi e comportamenti che potessero offendere la buona morale cristiana, disturbare, anche solo con il rumore prodotto, la pace borghese e infrangere le norme patriarcali sociali e famigliari che avevano sempre e solo saputo produrre niente altro che noia, sfruttamento, diseguaglianza, morte e distruzione.

Dick Porter, in un magnifico libro che ricostruisce intelligentemente il ruolo avuto dal rock’n’roll nel modificare la società americana degli anni ’50 e ’60 e che si legge come un fumetto, accende l’animo di chi legge di insane passioni musicali e non solo e trasporta i lettori in un tornado di storie, avventure, delusioni, sconfitte e trionfi i cui eroi e protagonisti portano i nomi di Little Richard, Elvis Presley, Hasil Adkins, Link Wray, Duane Eddy, Gene Vincent, Charlie Feathers, The Phantom, Screamin’Jay Hawkins, Sonics, Shadows of Knight, Stooges, New York Dolls e molti altri ancora fino a Lux Interior e Poison Ivy. Tutti pericolosi in un modo o nell’altro. Tutti selvaggiamente vorticanti in un rito voodoo di suoni elettrici, frasi sconnesse ma urticanti e tutti ugualmente urlanti la loro rabbia o la loro gioia di vivere contro un mondo bigotto e falso.

cramps-3A proposito dei testi di molte di quelle effervescenti canzoni, Lux ebbe modo di sentenziare: “Penso che sia rischioso per i ragazzini non venire a contatto con questo genere di brani…crescono, vanno a scuola, trovano un lavoro e poi muoiono senza mai essersi divertiti davvero. Fate molta attenzione.2 E parlando di un grave incidente in cui era incorso uno dei suoi idoli, The Phantom, avrebbe poi in seguito aggiunto: “Una notte era ubriaco e volò giù da un dirupo con la macchina. Disse «Quando mi accorsi di essere paralizzato, mi sono incazzato davvero di brutto». E’ proprio un fuori di testa – tutti i vecchi rockabilly erano come lui, ed ecco come stavano le cose all’epoca. Erano troppo selvatici per darsi una calmata, quindi finivano nei burroni – questo è il rockabilly3

E fu proprio quella follia, quell’energia che i Cramps portarono prima sul palco del CBGB, nella Bowery in cui mossero i primi passi, e poi in tour per tutto il pianeta. A proposito delle esibizioni in Gran Bretagna, l’allora secondo chitarrista del gruppo, Kid Congo Powers, avrebbe in seguito ricordato: “Quegli show furono pazzi, magici, pervasi di voodoo e Lux fece cose incredibili sul palco, pericolose e folli, come saltar giù da una pila di casse o roteare il microfono con un cavo talmente lungo che pensavo che prima o poi mi avrebbe decapitato […] Legava le mie gambe con il filo del microfono e mi trascinava in giro per il palco mentre suonavo – di solito durante «Surfin’ Bird»4

cramps-2 Gli show dei Cramps corrispondevano allo spirito degli antenati che Lux e Ivy riportavano in vita con le loro esibizioni e i loro dischi: ”Tutti i musicisti rockabilly delle origini erano individui davvero pericolosi, aggressivi, passionali. Che avevano solo una cosa in testa – o forse due, o tre al massimo […] Ho sempre pensato che gli artisti che hanno suonato questa musica per primi fossero dei veri pazzi, gente davvero fuori di testa, molto più avanti di chiunque altro5 avrebbe ancora sottolineato in più di un’occasione Lux.

Tant’è che uno dei concerti più famosi del quartetto, show che rientra a tutto titolo nella mitologia del rock’n’roll, si tenne al California State Mental Hospital di Napa, un istituto californiano per malattie mentali: “Dal momento che non eravamo mai soddisfatti dei nostri spettatori, abbiamo sempre desiderato suonare in un istituto per malattie mentali – fu la spiegazione di Lux – Credevamo che se avessimo suonato in un manicomio, il pubblico avrebbe collaborato ed è andata così! C’erano pazienti, uomini e donne, che cercavano di accoppiarsi sul pavimento. E’ stato lo show più assurdo che abbiamo fatto […] C’era chi leccava le pareti, chi giaceva disteso su qualcun altro e balzava su all’improvviso per dirci qualcosa mentre suonavamo, ma soprattutto c’erano persone che ballavano le danze più strane che io abbia mai visto […] Continuavano a gridare ‘Reparto T! Reparto T!’ e solo dopo abbiamo scoperto che il Reparto T è il padiglione da cui nessuno ritorna […] Dicevano che noi provenivamo da quel reparto. Molti di loro non erano poi così strani. Semplicemente ignoravano che ragazzi e ragazze non dovrebbero accoppiarsi sul pavimento, tutto qui6

Con costumi che andavano dal pesante trucco trash agli abiti neri della famiglia Addams e dal burlesque al latex e ai tacchi a spillo (per uomini e donne del gruppo) ispirati ai giochi sado-maso, i Cramps con ironia e sincerità portavano in scena e nella loro musica una joie de vivre che materializzava per il pubblico ciò che andrebbe autenticamente inteso quando si parla di macchine desideranti, ovvero tutto ciò che già Lacan aveva individuato nel godimento (jouissance) al di là del principio del piacere.

Lux/Erick era originario dell’Ohio. Nato nella cittadina operaia di Stow, nelle vicinanze di Akron, la capitale mondiale della gomma, aveva usufruito di quel genio che avrebbe animato le più importanti uscite dall’aria inquinata di quella città: Devo, Pere Ubu, Electric Eels.

Ivy/Kristy era nata in California, a San Bernardino, e dalle onde dell’Oceano Pacifico avrebbe portato per sempre le stimmate delle Fender usate dai gruppi surf dei primi anni sessanta, diventando un’autentica sacerdotessa di quel dio senza nome del riverbero e del twang che Link Wray, soprattutto, e Duane Eddy le avrebbero rivelato con i loro dischi. E che poi altri, come lei e dopo di lei, sulla scia anche di Dick Dale, avrebbero riconosciuto come loro autentico e unico Dio: da Bill Frisell a Eyal Maoz (solo per citare alcuni dei migliori).

Negli album ufficiali (otto in studio e due live), nel numero infinito di sette pollici e di bootleg tratti dai loro concerti, Ivy fin dall’inizio avrebbe infiammato ogni passaggio vocale di Lux con autentiche sciabolate elettriche, sospese tra il suono cupo e drammatico che Link Wray aveva usato in “Rumble” e l’autentico caos sonoro provocato da un muro di feedback, distorsioni e dissonanze che affondavano le loro radici nel chitarrismo spezzato e disarticolato dei primi dischi di Gene Vincent e i suoi Blue Caps. E la stessa Ivy a confermarci le sue influenze musicali: “Buona parte della mia tecnica viene dall’ascolto di vecchi dischi. C’è una produzione talmente strana dietro molti di loro, cose che le persone non fanno più7

link-wray E più oltre avrebbe aggiunto: “Link Wray è il mio più grande eroe e penso sia davvero sottovalutato. Possedeva il suono più monumentale e apocalittico che avessi mai sentito – davvero emozionante, così schietto e allo steso tempo violento. E’ la perfetta rappresentazione del rock’n’roll, che dovrebbe essere violento e pericoloso e avere un suono pericoloso. Lui è stato dall’inizio la mia principale fonte di ispirazione, e lo è ancora […] Lui è…è una chitarra che suona mentre il mondo sta finendo. Così austera. E così drammatica. La cosa sicura è che Link riesce a ottenere il meglio con il minimo possibile8

Nel corso di una polemica sul presunto sessismo dei testi e degli atteggiamenti dei Cramps, suscitata da alcune testate musicali inglesi, ebbe occasione di affermare: “E’ un po’ strano, noi saremo anche sessisti, ma loro non si sono mai soffermati sul mio stile particolare nel suonare la chitarra, non lo hanno mai commentato, ed è questo che io considero davvero sessista. La cosa più carina che siano riusciti a dire è che riesco a suonare come un uomo. Questa è un’affermazione molto sessista. Il mio stile è inconfondibile, innovativo, originale. Io produco questa band, io faccio da manager a questa band e chiunque dica che siamo sessisti è ottuso e bigotto9

cramps-5 E Lux avrebbe aggiunto: “Ci piacerebbe portare un po’ più di umorismo vizioso nel rock’n’roll, che al giorno d’oggi è fin troppo sano. E’ orribile, intollerabile – tutte queste rock star che fanno del bene in giro per il mondo, eccetera – cristo, quando è troppo è troppo!10

Ispiratori di gruppi come i Gun Club o i White Stripes oppure ancora dei dischi di Holly Golightly e Billy Childish, Ivy e Lux ci hanno lasciato un patrimonio enorme di magnifiche cover e brani originali dai titoli indimenticabili: “Kizmiaz”, “Can Your Pussy Do the Dog?”, ”Hypno Sex Ray”, “Like a Bad Girl Should” solo per citarne alcuni a caso. E soprattutto un messaggio di anticonformismo e ribellione contro la morale corrente e il perbenismo musicale che il libro di Porter, arricchito anche da una ricca documentazione iconografica e da una vastissima discografia del gruppo, traduce e trasmette magnificamente con le sue pagine.


  1. pag. 14  

  2. pag.59  

  3. pag. 165  

  4. pag.180  

  5. pp. 182 – 183  

  6. pp.121 – 122  

  7. pag.212  

  8. pp.28-29  

  9. pag.215  

  10. idem  

]]>
Divine Divane Visioni (Cinema di papà 05/06) – 57 https://www.carmillaonline.com/2014/03/13/divine-divane-visioni-cinema-de-papa-0506-57/ Thu, 13 Mar 2014 22:40:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13380 di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005 Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta [...]]]> di Dziga Cacace

Qui sono il più grande, fuori non valgo neppure l’allenatore del Roccacannuccia (Franco Scoglio)

DDV5701 the incredibles555 – Cacace colpisce ancora e The Incredibles di Brad Bird, USA 2005
Che cialtrone, eh? Lo ammetto, ho fatto una furbata alla Kiss, col classico finto tour d’addio. Perché non ho mai smesso di scrivere i miei pensierini, anche se la venuta al mondo della piccola Sofia mi aveva idealmente dispensato dal continuare questo cine-diario. Del resto il tempo per cincischiare davanti a un PC era sempre meno, come il sonno e gli stessi film, molti meno. Qualche visione distratta distrutti sul pouf di casa (non abbiamo ancora un divano!) e al cinema mai, giusto alcuni Dvd musicali oggetto di recensioni per le mie scorribande editoriali e poco altro. E quando guardavo lo scarno elenco di titoli (il mio computer è pieno di elenchi – nomi, dischi, libri, film, diete, amici, nemici etc. – e, lo so, un Lexotan aiuterebbe) aggiungevo un commento qui, un parere là, una curiosità, e voilà, eccoci daccapo. Come sempre senza ordine, intelligenza e competenza, ma francamente non ci sono mai state e quelle potete cercarle – buona fortuna – in tutti i recensori ufficiali che infestano qualunque pubblicazione. Perché criticare non costa nulla e nessuno vi dice mai cos’ha visto prima e soprattutto cos’ha mangiato quel giorno lì. Ma niente polemiche oziose: come diceva Clint Eastwood, le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue.
Qui c’è posto e, se vi accontentate: prego, dopo di lei.
Dunque: la piccina dormicchia e, dopo un’ottimo primo mese, con le classiche 5 o 6 sveglie notturne, abilmente gestite in decrescita, Barbara e io abbiamo poi aspettato la cosiddetta svolta del 70° giorno, evento mitologico che secondo alcuni pediatri dovrebbe sancire la fine dei pasti della notte. Invano. No. Da noi non è arrivato, ‘sto cazzo di miracolo del 70° giorno. Però, pian pianino siamo venuti a capo della faccenda. Certo, abbiamo le facce come due zombie, specialmente da quando Sofia ha deciso che svegliarsi all’alba e non addormentarsi più sia cosa salutare. Ma finalmente adesso, a 5 mesi di vita, cominciamo a ragionare, con una o due sveglie al buio. E adesso ci guardiamo un film, che va bene le gioie della paternità e tutto il resto, ma c’è vita anche nel cinema. La scelta cade su un prestito che, guarda il caso, è un film per bambini. A visione ultimata, che dire? Come sempre, grande Pixar. Ottimo l’apparato scenografico, divertente la storia, azzeccato il disegno dal tratto spigoloso. Diverse ideuzze che rendono scoppiettante le vicende di una famiglia di super eroi a riposo. Buono, con la scena finale col bimbetto rovente superlativa. Carini gli extra. Sì, lo so: sembra il rapporto di un carabiniere, ma il mio cervelletto, oggi, non può elaborare diversamente e se non vi va potete non firmare il verbale, ok? (Dvd; 18/9/05)

556 – Born to Boogie, e chi no?, di Ringo Starr, UK 1972
1972. I figli della rivoluzione non aspettano altro: un folletto che sappia riprendere in mano la tradizione del rock n’roll di vent’anni prima, quando con Little Richard trionfavano una sensuale ambiguità e un’animalesca glossolalia. Marc Bolan, il ragazzo del ventesimo secolo, aggiunge alla formula un po’ di britishness, potenziando il look con lustrini e trucco. E il rock – dopo anni di troppo impegno che hanno distanziato la mente dal corpo – diventa glam e torna a liberare da lavoro, genitori e morale corrente. Born to Boogie è un rockumentary d’ingenuità commovente: mette in fila diverse esibizioni di Bolan e dei suoi T.Rex e le raccorda con surreali intermezzi felliniani (indovinate un po’: nani e suore). Ma nella sua semplicità, racconta un’epoca attraverso musiche, colori e facce: quelle estasiate del pubblico, quella sognante di Bolan, quella non ancora calcolatrice di Elton John (coi capelli veri) e infine quella del regista: il Beatle minoritario, ma non meno intelligente, Ringo Starr. Ricchissimo di extra (due documentari, due concerti e altri bonus), Born to Boogie è il modo perfetto di riproporre un vecchio film su Dvd: con amore. (Dvd; 1/10/05)

DDV5702 Suspiria557 – L’ansimante Suspiria di Dario Argento, Italia 1977
‘Anvedi! Storia che va subitissimo in vacca (perlomeno ai miei occhi, che sono dei piccolo Rudolph Giuliani a tolleranza zero), attori ultracani, ambientazione in una scenografia scintillante, coloratissima, folle e completamente falsa. Argento ha rivendicato l’ambientazione fiabesca e il film andrebbe visto così: una favola horror, onirica e straniante. Barbara rantolava dopo pochi minuti, a me invece Suspiria ha tutto sommato divertito, perché è un film pazzoide e senza senso alcuno se non il piacere ludico del racconto e della folgorazione visiva (e non è poco) e sto vivendo ancora una sorta di euforia post partum che mi rende imprevedibile anche nei giudizi. Chissà, in altri momenti, davanti a un film così, avrei potuto sparare al televisore. Magari a Miguel Bosé (è nel cast, assieme a Jessica Harper e Stefania Casini, la grande che in Novecento ha stretto contemporaneamente i membri di De Niro e Depardieu). Ah: due settimane fa è morto Franco Scoglio, allenatore cosmico del Genoa, poeta, professore e santone. L’ho intervistato nel 2002 e prima mi ha fatto venire un infarto per telefono, facendomi credere di essersi dimenticato l’appuntamento e di essere all’estero, poi mi ha preso per il culo durante e dopo l’intervista chiamandomi affettuosamente tutto il tempo “testa di cazzo”. “Quanti modi esistono per battere un calcio di rigore, mister?”, gli ho chiesto: “Ventuno… e sono tutti sbagliati”. Era un grandissimo e – come diceva lui – non parlava mai ad minchiam. (Dvd; 17/10/05)

558 – 1-2-3-4! End of the Century: the Story of the Ramones di Michael Gramaglia e Jim Fields, USA 2004
Certe volte il miglior rock nasce da grandi antagonismi: è il caso dei Ramones, quattro misfits affratellati dalla comune refrattarietà a tutto ciò che li circondava. È il 1974 quando, reietti di quel Queens troppo lontano da Manhattan, i Ramones spazzano via i fratelli maggiori capelloni e manierati e gettano i semi di tutto il rock a venire, ispirandosi alle sonorità di Stooges e New York Dolls. Le canzoni tornano a durare un paio di minuti e a colpire duro. Le canta Joey, il nerd per eccellenza, ipersensibile e naif, e le suona su una Mosrite scrostata il dittatoriale e cinico Johnny, mentre l’eroinomane bruciato Dee Dee percuote un basso. Oggi i Ramones originali sono tutti morti, eccetto il batterista Tommy che se n’è tirato fuori per primo garantendosi la vita, ma il suono, quella ruvida attitudine filtrata da un ampli scassato, è destinato ad accompagnarci per sempre, dalle cantine ai palchi di tutto il mondo. End of the Century racconta in maniera spietata e toccante di come dal letame (magari al CBGB) nascano i fiori e quattro asociali, brutti, sporchi e (talvolta) cattivi abbiano saputo scuotere dalle fondamenta e rifondare il rock. Gran film e gran gruppo, perché la musica non è solo musica. Gabba gabba hey! (Dvd; 23/10/05)

DDV5703 Emerson Lake559 – Welcome my friends to Beyond the Beginning di Nick Ryle, UK 2005
Visione divertentissima della storia di uno dei gruppi più tamarri e sboroni della storia del rock, gli Emerson Lake & Palmer. Dovendo intervistare a breve due terzi della band per Rolling Stone ho unito lavoro e colpevoli passioni e faccio un preambolo per chi ignora chi siano questi signori: se sei un perverso o se ami il prog più avventuroso (le due cose non si escludono) gli ELP sono la morte tua: tecnica micidiale e sfrenata teatralità, con in repertorio – tra le altre cose – un congegno che permetteva ad Emerson di performare per aria, legato a uno Steinway rotante, tipo il Corsair del lunapark. Dopo l’uscita della programmatica autobiografia del tastierista, Pictures of an Exhibitionist, dove trovate con autoironia e franchezza sesso, droga e liti della band più fastosa dei Settanta, è arrivato, per l’evidenza visiva, anche il monumentale dvd Beyond the Beginning, con assortite melodie dolcissime, cavalcate strumentali e diversi momenti esilaranti. Come il batterista Palmer che, in un assolo che lo impegna come un polipo, riesce anche a suonare una campana tirandone la corda coi denti. O come il circense Emerson che accoltella il suo organo, lo prende a calci, gomitate e ceffoni e infine lo monta, nel senso che se lo fotte allegramente pur di tirarne fuori suoni inediti. Visto il simpatico prodottino digitale, che mette in fila la biografia della band con interviste abbastanza prevedibili e immagini invece decisamente interessanti, vi relaziono sugli incontri coi suddetti musicisti. Keith Emerson, l’uomo che quando eravamo piccini suonava il pianoforte sulla spiaggia nella sigla di Variety, è al Live Club di Trezzo. Mi presento offrendogli una bottiglia di Fernet Branca, di cui lo so ghiotto. Imbarazzo: lo hanno da poco operato al cuore e rifiuta con fermezza. Cerca di mettermi a mio agio definendosi ipocondriaco ma quest’uomo s’è rotto (suonando il piano) dita, naso e costole e, cadendo dalla moto, s’è pure aperto la testa (“Il mio teschio è bianco!”). Oggi s’è dato una calmata ed è un amabile sessantenne in forma, che compone ancora al piano ma ha l’iPod col quale ascolta jazz dei fifties. Negli ultimi vent’anni l’amore per la musica è andato di pari passo alla disattenzione per gli affari e un recente divorzio lo ha steso finanziariamente. Per cui ha venduto i coltelli della gioventù hitleriana (dono di Lemmy dei Motorhead, allora suo roadie) con cui massacrava il suo Hammond e nei vari traslochi ha perso di vista la mitica giacca d’armadillo o certi costumini sbarluccicanti che lo facevano sembrare un cioccolatino Quality Street. Il punk diede una spallata al prog, e mi fa notare che oggi vive a cinque minuti da Johnny Rotten. Lui in un condominio, Rotten in un villone. Ma i rovesci della vita non gli hanno tolto il piacere dell’improvvisazione e, in un concerto dove ci delizia con un repertorio che spazia dai Nice al ragtime, si toglie lo sfizio di eseguire la Toccata e fuga di Bach al contrario (cioè suonando l’Hammond da dietro). Una settimana dopo, vicino a Como, incontro Carl Palmer. Ha fama di precisino e lo conferma dicendomi tutti i titoli esatti degli album che tiene nel suo iPod (anche lui jazz). Carl non ha mai smesso di suonare e ha cavalcato la nascente MTV con gli Asia. Oggi ammette che per quelli della sua generazione è più difficile di un tempo, ma il passato è passato ed è nella dimensione live che trova ancora la sua realizzazione (“Suonando sono una persona migliore”). È conciliante con chi scarica la musica da Internet, confessa di guardare golosamente un programma tivù domenicale con cori di chiesa e riesce a indignarsi sinceramente per la guerra in Iraq. Poi il concerto: può un batterista fare uno show per appassionati delle pelli e divertire anche gli altri? Può, altroché. Il pub Black Horse ospita buona musica rock mentre ti servono fantastici burritos e altre ghiottonerie da vecchio West. È stipato di fanatici che studiano religiosamente la batteria ancora silente di Carl o le chitarre in parata dell’axeman italiano per eccellenza, Andrea Braido (c’è chi sostiene che abbia un dito scarnificato, per ottenere sonorità inedite toccando le corde; non verifico). Quando lo show comincia è un’epifania di tecnica: ci sono i classici degli ELP e assortite acrobazie chitarristiche ma anche un appassionante assolo di batteria, cosa che mai avrei detto. E che fine ha fatto il saccarinoso Greg Lake? Prima o poi becco anche lui, promesso. (Dvd; 7/11/05)

DDV5704 Grateful Dead560 – The Grateful Dead Movie, uno sballo di Jerry Garcia, USA 1977
Utopia hippy, ritorno alla natura, recupero delle forme musicali tradizionali, l’idea di una famiglia che non sia vincolata dal sangue, uso liberale di sostanze per permettere alla mente e al corpo (e alla musica) di spaziare… Questo e altro erano i Grateful Dead, band e concetto che potevano nascere solo nella California degli anni Sessanta e prosperare nell’America prima illusa e poi presa per il naso, dagli anni Settanta fino ai Novanta. Prevedendo uno iato nell’attività concertistica, nel 1974 Garcia decise: giriamo un film. Una troupe in acido agli ordini di Leon Gast (il genio di Quando eravamo re, documentario sullo storico match in Zaire tra Muhammed Ali e Gorge Foreman), riprese i concerti tenuti al Winterland di San Francisco e, dopo tre anni di lavoro per il montaggio, nelle sale arrivò The Grateful Dead Movie. Oggi, recuperato dagli archivi, è il Graal dei Deadhead, il colorato pubblico dei fan dei Grateful che hanno continuato a seguire religiosamente i concerti del gruppo fino alla morte del buon Jerry, nel 1995. Lungo come solo certe jam chitarristiche del leader, piacevolmente datato, è la messa in scena dell’ultimo sballo collettivo, già nostalgico e fuori tempo. All’epoca se lo filarono in pochi, oggi è la dimostrazione che quando uno è un’artista, può creare un universo immaginifico con una chitarra ma anche montando una pellicola. Cosa sono 5 ore di tempo di fronte alla vostra vita? Vi aspettano film, musica celestiale e bonus in abbondanza, da vedersi magari con un’innocente paglia in mano: Garcia vi benedirà col suo sorriso bonario dall’alto dei cieli. (Dvd; 21/11/05)

561 – L’emozione fredda di Mad Dog and Glory di John McNaughton, USA 1993
Commedia strana, algida e inaspettata, conosciuta in Italia col titolo da strapazzo Lo sbirro, il boss e la bionda (complimenti vivissimi ai distributori nostrani), è frutto del regista dell’osannato Henry pioggia di sangue, film che anni addietro mi ha fatto cagare a sifone. Un boss mafioso (De Niro, prigioniero della parte) vuole sdebitarsi con un fotografo della polizia (Bill Murray) e gli regala una settimana con Glory, cameriera in debito (Uma Thurman). I due si innamorano, complicazioni. Ne esce una storia carina a tratti, però trattenuta, ed è più l’incertezza del piacere, come se non decollasse mai e dove molte volte mi chiedo: ma dovevo ridere, qui? Boh: gode di statura di film di culto, ma praticamente tutti i film dove ha recitato Bill Murray lo sono e io non faccio parte del fandom. Per cui, niente, non lo consiglio granché. (Dvd; 6/12/05)

DDV5705 Weather Underground562 – The Weather Underground di Sam Green e Bill Siegel, USA 2003
Anche gli americani hanno avuto i loro “terroristi”. Il ritratto è impietoso e per fortuna poco corretto politicamente: una banda di sfigati in fuga perenne, idealisti fino all’autolesionismo, ignoranti come delle capre, cui però, in qualche maniera, non puoi che voler bene. Il racconto è chiosato da storici destrorsi che non risparmiano stilettate e noi europei rimaniamo interdetti: una cosa grave come la lotta armata non può essere gestita da degli hippie frustrati. Però questi sapevano bene chi e cosa colpire: non gli uomini ma i simulacri del potere, i palazzi e le banche. Una lotta velleitaria, confusa, ma sincera. La fine ingloriosa e l’infinitesimale incidenza sull’opinione pubblica sono riscattati dall’umanità di questi non tanto beautiful losers e dalla compassione che suscitano per una scelta apparentemente suicida ma in realtà altissima perché veramente ideale e non calcolata. Il film è molto stimolante (anche se sinceramente sopravvalutato) e io e Barbara abbiamo avuto un tuffo al cuore quando abbiamo visto dove sono nati i Weathermen: al motel Capri di San Francisco dove eravamo finiti tra le bestemmie una notte dell’agosto 2002, dopo aver cercato per una giornata intera una camera nella Napa Valley. (Dvd; 9/12/05)

DDV5706 Festival Express563 – Si parteeee! Festival Express di Bob Smeaton, USA 1994
Chi era particolarmente ricco, un tempo, il tour se lo faceva in aereo (vedi il faraonico Starship One usato da Led Zepp e compagnia cantante). Se no c’era il buon vecchio pullman, con centinaia di musicisti dimenticati in aree di servizio mentre pisciavano o indulgevano in altre attività ricreative. Finché a qualcuno non venne un’idea folle: la tournée, stavolta, facciamola in treno! Siamo nel 1970 e a bordo zompano Janis Joplin, Grateful Dead, the Band, Buddy Guy e altri hobos affamati di avventure. Le fermate sono ai festival di Toronto, Winnipeg e Calgary, in Canada. Ovviamente il pubblico hippie vuole assistere gratis ai concerti: casini a non finire, discussioni tra artisti e management e poi, ogni sera, il miracolo di performance elettrizzanti. Janis strapazza il blues, i Dead sono nel periodo campestre, la Band sprigiona insospettabile energia, Buddy Guy sembra connesso all’amplificatore… Dal treno era difficile scendere e i musicisti si dedicarono anima e corpo ad alcol, droghe assortite e jam straordinarie. E i pochi che dormivano, si persero decisamente qualcosa. Nessuno sperava che esistessero immagini di questa allegrissima follia, finché dagli archivi, nel 1994, non son saltate fuori delle bobine sospette. Bob Smeaton (già compilatore del monumentale ed essenziale The Beatles Anthology) s’è messo al lavoro e oggi possiamo staccare anche noi il biglietto del Festival Express per viaggiare a fianco della compagnia di sballoni. Rigorosamente in inglese, con tante bonus tracks: una pacchia per chi ama le buone vibrazioni, una scoperta per chi non sa da dove veniamo. E quando Janis si scortica la gola, io ho pianto, giuro. All aboard! (Dvd; 10/12/05)

DDV5707 Parenti serpenti564 – Parenti serpenti di Mario Monicelli, Italia 1992
Visto a Natale, giustamente in famiglia, a Genova. Buona partenza che promette tantissimo, ma poi il film non mantiene e diventa presto una rottura di palle. Sarà pure cattivo (e lo è fino in fondo, senza assoluzioni di comodo, ed è il grande pregio del film), ma serve ritmo, cari. Monicelli dispensa il consueto cinismo, ma ne risente anche il film, piagato da sciattezza visiva e con troppe vignette che sfociano nella macchietta (il cast non è eccezionale, purtroppo). Una riunione di famiglia vede diversi nuclei riunirsi a Sulmona intorno agli anziani genitori, che annunciano che poi qualcuno se li dovrà prendere a carico. Finale col botto, coerentemente maligno, dopo aver descritto un’Italietta meschina attaccata a denaro, ignoranza e tornaconto. Mah. Rivisto, mi ha deluso molto: si affloscia nella seconda parte, senza verve, al risparmio. Oh, lo vedi, perché Monicelli è mica un fesso, però è più il dispiacere per lo spreco che la felicità per quel che vale. (Diretta La7; 26/12/05)

565 – Un soffio al cuore di natura elettrica di Pietro Maria Tirabassi e Riccardo Sgalambro, Italia 2005
Il titolo riesce a dire tutto: trattasi di dvd-concerto allegato all’ultimo live di Franco Battiato, notevole sia per la qualità della performance (rarefatta ma molto rock) che per la soluzione produttiva, con l’alta definizione che permette una regia minimale e inventiva e una troupe ridotta all’osso. E Francuzzo beddo nostro è sempre grandissimo. (Dvd; 28/12/05)

DDV5708 Five Easy Pieces566 – Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, USA 1970
Storico titolo che racconta dell’insofferenza di Bobby (Jack Nicholson) verso la famiglia e la società. Un inno alla libertà (anche se quando è così “individuale” vedo anche dell’egoismo, ma non sto a sottilizzare), un po’ datato ma ancora valido, con almeno una scena stracult, quando Nicholson parla col padre malato che però ormai non capisce più una mazza. Vedendolo non posso non pensare alla parodia di Riccardo Pangallo (Lo spezzone) in onda su RaiTre a Va Pensiero quasi vent’anni fa. Film pensoso-anni Settanta, Cinque pezzi facili non è facile per niente, ma è libero e sincero e comunque godibile, forse più per i significati che gli attribuiamo che per quello che realmente dice. Ma sto anche diventando cinico, per cui poco attendibile. Il finale con Jack Nicholson che abbandona in una stazione di servizio l’insopportabile (e mostruosa) Karen Black è impagabile. Bello. (Diretta Sky; 29/12/05)

567 – L’inaspettato Quando sei nato non puoi più nasconderti di Marco Tullio Giordana, Italia 2005
Beh, non male. Figlio dodicenne di ricconi bresciani in crociera viene recuperato e portato a terra da dei migranti. Tornato a vivere coi suoi, decide di dare una possibilità a chi lo ha salvato, con conseguenze non pienamente prevedibili. Ovviamente – siccome si parla di immigrazione clandestina – il film non se l’è cagato quasi nessuno perché al posto della meglio gioventù qui si parla della peggio adultità e ci sono molte facce scure. Però m’è sembrato un film civile senza essere edificante, schematico com’è sempre Giordana, ma coraggioso, non facilmente consolatorio e con un elemento fantastico, fiabesco, che illude e (forse) affranca dalle sofferenze terrene. (Dvd; 30/12/05)

DDV5709 Viva Zapatero568 – Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti, Italia 2004
Film decisamente interessante, anche se non so fino a che punto riuscito, per un argomento molto difficile da toccare senza essere frainteso. Servirebbero più pagine per un’opera che è volutamente provocatoria, scostante, ambigua, personalistica, maligna e paracula al tempo stesso, e affronta il caso di censura subito dall’autrice col suo programma televisivo Raiot, occasione per allargare il discorso anche allo stato della libertà dell’informazione nel nostro paese. Ma non ho né competenza dialettica né voglia: la Guzzanti – autenticamente geniale sinché l’ormone non le oscura il lobo frontale – non mi merita, neanche se avessi cose intelligenti da dire. (Dvd; 2/1/06)

569 – Il pippatissimo Scarface di Brian De Palma, USA 1983
Drogato, urlato ed esageratamente divertente, gli anni Ottanta su pellicola, con godibile ambiguità. (Dvd; 6/1/06)

570 – L’ubriacante Mondovino di Joseph Nossiter, Francia 2004
Il business del vino, tra produzione industriale, standardizzazione del gusto e resistenze locali. Cinematograficamente non vale molto: ripetitivo, girato veramente col culo e organizzato male. Ma il tema è spumeggiante e la galleria di personaggi molto curiosa (e in taluni casi inquietante). Per cui alla fine me lo sono scaraffato e ingollato con soddisfazione. Sa un po’ di tappo, con sentori di sottobosco e letame, ma il retrogusto è singolare e – oh, siamo tutti antiamericani o sono loro un po’ birichini? – alla fine hai la conferma che il Capitale distrugge tutto, anche una bevanda antica come il vino. (Dvd; 17/1/06)

DDV5710 negrita571 – Viaggio Stereo di Gianni Russo, Italia 2003
I miei amati Negrita, in un live in qualche modo amaro (di lì a poco il batterista originale avrebbe mollato il colpo) e con un repertorio che pesca nell’ultimo album (Radio Zombie), interlocutorio. I concerti hanno perso progressivamente l’improvvisazione e l’estensione dei pezzi, cosa che negli anni passati mi faceva godere di bestia, ma c’è sempre un bell’approccio ruvido. In un’intervista che gli feci a fine 1998 mi ero fatto promettere solennemente che non avrebbero mai abbandonato il funky rock degli esordi. Evidentemente si cresce e si cambia. E la colpa, è chiaro, è mia che voglio tornare ai miei vent’anni (quando però avevo ragione quasi su tutto). Siccome i cinque della band non fanno proclami politici di bassa lega, non pubblicano inascoltabili dischi finto-impegnati e non offrono golosi spunti per il gossip, non sono i beniamini della stampa specializzata e/o militante né hanno mai raggiunto un successo di massa da stadio. Meglio così: lascio gli altri a ubriacarsi di Negramaro novello o a calarsi qualche merda afterhours: io preferisco sempre il mio Chianti dei colli aretini, ormai vecchio di dieci anni e sempre gagliardo. (Dvd; 17/1/06)

572 – Il folgorante Che idea nascere di marzo di Osvaldo Verri, Italia 2005
Un collega adorabile, uno che qualunque cosa sia accaduta negli anni Settanta, lui c’era (ed era probabilmente colpevole!), ha girato questo straordinario corto sulla morte di Fausto e Iaio – diciottenni del Leoncavallo assassinati nel marzo 1978 –, difficile ma, nella pur breve durata, pieno di tuffi al cuore e di speranza. Come Ma chi ha detto chi non c’è sui titoli di coda. E bravo Osvi! (Dvd; 22/1/06)

573 – Tokyo Monogatari di Yasujiro Ozu, Giappone 1953
Come certi vini: fermo, completamente. Ma invecchiato benissimo e di pronta beva. Viaggio a Tokyo è splendido: un’emozione antica che ho delibato con commozione. (Oh, dopo aver visto Mondovino non riesco più a evitare paragoni enologici!). (Vhs da RaiTre; 28/1/06)

Qui tutte le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 57)

]]>