stato nazionale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’Italia delle piccole “matrie” https://www.carmillaonline.com/2021/08/08/litalia-delle-piccole-matrie/ Sun, 08 Aug 2021 20:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67249 di Sandro Moiso

Massimo Angelini (a cura di), Un’altra Italia. Regioni storiche e culturali, terre identitarie – piccole patrie, anzi… matrie, asterismi dialettologici a cura di Nicola Duberti, Pentàgora, maggio 2021, pp. 206 illustrate a colori, con carta pieghevole allegata, euro 15,00

Che lo Stato nazionale sia sostanzialmente un’invenzione sorta a cavallo tra XV e XVI secolo, indirizzata prima a confermare lo spazio amministrativo e di dominio territoriale di una monarchia e a definire uno spazio protetto destinato a rinvigorire le casse della medesima tramite l’imposizione di una tassazione regolarmente percepibile e, [...]]]> di Sandro Moiso

Massimo Angelini (a cura di), Un’altra Italia. Regioni storiche e culturali, terre identitarie – piccole patrie, anzi… matrie, asterismi dialettologici a cura di Nicola Duberti, Pentàgora, maggio 2021, pp. 206 illustrate a colori, con carta pieghevole allegata, euro 15,00

Che lo Stato nazionale sia sostanzialmente un’invenzione sorta a cavallo tra XV e XVI secolo, indirizzata prima a confermare lo spazio amministrativo e di dominio territoriale di una monarchia e a definire uno spazio protetto destinato a rinvigorire le casse della medesima tramite l’imposizione di una tassazione regolarmente percepibile e, successivamente, a garantire alla borghesia mercantile prima ed industriale poi un’area di mercato privilegiata, sufficientemente vasta per assicurarne lo sviluppo e l’arricchimento della stessa classe, non vi è più alcun dubbio dal punto di vista storico.

Dal punto di vista politico e dell’immaginario, spesso coincidenti, invece lo Stato Nazionale sembra essere diventato una sorta di realtà astratta, sempiterna e indiscutibile, che il sempre risorgente nazionalismo, sia a destra che a sinistra, continua a sbandierare come fattore indiscutibile di unità di interessi, sicurezza, uguaglianza dei diritti e libertà collettiva e che sfocia quasi sempre in una sorta di religione laica e di fede fanatica di cui il recente sventolio trionfalistico di tricolori in occasione del campionato europeo di calcio ha costituito un’inequivocabile testimonianza.

Stato nazionale e patria, nazionalismo e patriottismo che coincidono nel pensiero comune, ma anche nelle riflessioni filosofiche e politiche ancora dominanti, nascondendo il fatto, ancora una volta certo dal punto di vista storico, che ogni stato nazionale in realtà è sorto dalla distruzione e sopraffazione di innumerevoli identità diverse, non solo di classe, ma culturali, religiose, linguistiche, produttive, economiche e di genere.

Partendo dall’ultimo punto e in attesa di recensire il testo di Michela Zucca recentemente riedito da Tabor1, occorre dire che proprio la formazione degli Stati moderni, con tutto il loro apparato repressivo, inquisitoriale, giuridico e cognitivo, contribuì a posare definitivamente una pietra tombale sull’autonomia delle donne e il loro importantissimo ruolo all’interno delle comunità locali, affermando così, una volta per tutte, un potere, una cultura e una mentalità di stampo patriarcale che contraddistinguono ancora la cultura cristiana e occidentale contemporanea.

Non a caso Massimo Angelini, autore del testo e “coltivatore”, come si definisce egli stesso, delle iniziative editoriali di Pentàgora oltre che studioso delle mentalità, del ruralismo e delle culture orali, parla provocatoriamente di “matrie” invece che di patrie per definire le più di 500 realtà geografiche e sociali illustrate nel testo.

C’è un’Italia che la geografia politica e amministrativa ignora, un’Italia di piccole patrie, anzi màtrie (come la lingua-madre e la terra-madre), sub-regioni, terre identitarie, bioregioni, case comuni, nicchie linguistiche, luoghi omogenei per ambiente o per storia o per cultura, talvolta grandi come piccole regioni, talvolta piccole come lo spazio che lo sguardo può abbracciare da un campanile; c’è un’Italia dove prossimità e vicinato forse vogliono dire qualcosa e il locale è un portato di cultura quando, però, non degrada nel localismo, in uno spazio meschino di paura e chiusura, in uno spazio di autocompiacimento attraverso la costruzione dell’altro, il foresto, l’estraneo, lo straniero; c’è un’Italia fatta di molte terre, più grandi dei singoli comuni meno dei territori amministrativi, multicolore come l’abito di Arlecchino dove, però, nessun rombo è uguale agli altri; un’Italia che tutti conoscono e forse per la prima volta qui viene rappresentata. Un’Italia composta di terre, di màtrie [ne sono state contate, descritte e cartografate 581] definite nel tempo per ragioni di omogeneità ambientale, per questioni di storia politica laica o ecclesiastica (le diocesi), intorno alla diffusione di una lingua locale o di una sua declinazione, separate da fiumi o dislivelli, o da coste e crinali o da altri confini meno visibili, meno reali, eppure veri per l’incidenza che hanno avuto nella vita delle persone e nella costruzione degli immaginari locali2.

E’ un’Italia che non compare sugli atlanti tradizionali e che la carta allegata al testo ci rivela in tutta la sua varietà e complessità linguistica, culturale e geografica. La scelta dell’autore è stata quella di chiamare regioni i territori che hanno una estensione superiore ai 1.000 kmq e terre quando sono di minor estensione, mentre in altri casi si parla di circondario, conurbazione o più genericamente di territorio. In ogni caso, poi, si usa sempre il termine dialetto per indicare le lingue locali. Tutte senza eccezione e senza svalutazione. Per ognuna di queste “matrie” vengono inoltre forniti il numero dei comuni che vi sono dislocati, il capoluogo (inteso come centro di maggior rilevanza amministrativa e/o culturale), l’origine della definizione del territorio e una lettura consigliata per comprendere meglio il tutto (in genere un romanzo).

Questa prima edizione è inevitabilmente incompleta e approssimativa, con numerose informazioni da rivedere, imprecisioni da correggere; ma è anche un’occasione per iniziare una riflessione su quei territori che in qualche misura definiscono un’appartenenza locale per ambiente, immaginario, lingua, abitazione, desiderio (jus cordis, questo è ciò che dovrebbe bastare per essere o diventare nativi di un luogo: né jus sanguinisjus soli, solo jus cordis3), e permettono ai membri di una collettività di dire ‘io vengo da…’, ‘io vivo in…’.
[… Ma] ha senso parlare di màtrie e terre identitarie nell’era declinata alla globalizzazione? C’è il rischio che il loro riconoscimento possa essere usato per ravvivare retoriche di nostalgia e rinforzare voglie di separazione o campanilismi da strapaese?
Sono domande che mi sono posto più volte durante l’intera ricerca: alla prima non so rispondere con certezza; quanto al rischio evocato nella seconda… sì, lo vedo.
Comunque, al di là dei rischi di fraintendimento, credo che ripensare le geometrie del creato e della cultura sulla base dei saperi condivisi, delle conoscenze comunitarie, dell’immaginario popolare – penso, per esempio, ai sistemi di soprannominazione personale e familiare vs l’anagrafe pubblica o alle tassonomie popolari vs quella linneiana o a tutto quanto lasci trasparire un recupero di dignità dello sguardo sul mondo prevalentemente innervato sull’oralità rispetto a quello su cui pesa il monopolio della scrittura – sia necessario per la crescita di una sensibilità profondamente democratica e altrettanto utile per mantenere aperto il respiro della poesia4.

L’elenco è lungo, ampio e dettagliato e anche se contiene, come afferma lo stesso autore, qualche imprecisione, ad esempio Oulx come luogo principale della Valsusa, che potrà essere corretto in futuro, certamente potrà essere di stimolo per vedere la geografia “politica” dell’Italia sotto un altro punto di vista. Soprattutto il testo può contribuire anche a rimettere in discussione quei confini “naturali” dati per scontati e che, soltanto per citare un esempio, nel caso delle valli occitane non sono altro che un escamotage ideologico-politico per separare popolazioni molto più vicine di quanto gli Stati vorrebbero ammettere (e permettere).

Un ottimo libro, infine, per programmare nel corso dell’estate un viaggio di esplorazione di un paese che, dopo aver consultato le sue pagine, non vi sembrerà più lo stesso e così scontato.


  1. Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021  

  2. Massimo Angelini, Una prefazione necessaria in M. Angelini (a cura di), Un’altra Italia, Pentàgora 2021, pp. 9-10  

  3. cor, cordis: latino per animo, intelligenza, senno, cuore  

  4. M. Angelini, op.cit., pp. 10-16  

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Una critica radicale della conoscenza di stampo positivista e patriarcale https://www.carmillaonline.com/2020/05/20/per-una-critica-radicale-della-conoscenza/ Wed, 20 May 2020 20:30:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60106 di Sandro Moiso

Jineolojî, a cura del Comitato europeo di Jineolojî, pubblicato in collaborazione con le Edizioni Tabor, prima edizione italiana ottobre 2018, pp. 110, 3,00 euro

E’ un opuscolo ricco di spunti e di riflessioni quello che, con un po’ di colpevole ritardo, viene qui recensito. Un libello, anche se il diminutivo dovuto alle ridotte dimensioni e al numero contenuto di pagine non intende assolutamente sminuirne l’importanza, che definisce una scienza alternativa delle donne, sviluppatasi a partire dalle riflessioni di Abdullah Öcalan e dalle esperienze di lotta e liberazione portate avanti [...]]]> di Sandro Moiso

Jineolojî, a cura del Comitato europeo di Jineolojî, pubblicato in collaborazione con le Edizioni Tabor, prima edizione italiana ottobre 2018, pp. 110, 3,00 euro

E’ un opuscolo ricco di spunti e di riflessioni quello che, con un po’ di colpevole ritardo, viene qui recensito. Un libello, anche se il diminutivo dovuto alle ridotte dimensioni e al numero contenuto di pagine non intende assolutamente sminuirne l’importanza, che definisce una scienza alternativa delle donne, sviluppatasi a partire dalle riflessioni di Abdullah Öcalan e dalle esperienze di lotta e liberazione portate avanti dalle donne del Kurdistan.

Riflessioni, sia quelle del reber del popolo curdo che delle donne impegnate nella lotta di liberazione, che a partire dall’esclusione delle donne e del loro addomesticamento all’interno delle società patriarcali, fondate sulla proprietà privata e, successivamente, sul modo di produzione capitalistico, giungono a porre questioni che vanno al di là di quelle poste dalla condizione femminile nel corso dei secoli.

E’ sostanzialmente un’attenta critica delle scienze sociali, così come sono venute definendosi dall’età del Positivismo in avanti, quella che percorre la prima metà del libro. Un sistema di divisioni specialistiche in discipline che sempre più, con la scusa della rigida compartimentazione del sapere, hanno allontanato dal campo degli studi non soltanto le donne in quanto corpi reali, individuali e sociali, sottoposti a usanze e discipline determinate da specifici modi di produzione, ma i bisogni sociali concreti dall’ambito degli studi sociologici.

Studi determinati da un ben preciso sistema di potere e disciplinamento, basato sia sul pregiudizio di genere, destinato a mantenere nella sottomissione l’universo femminile, sia su quello di classe, destinato a mantenere determinati privilegi politico-economici in un ambito ristretto dello stesso universo maschile.

Studi e ricerche che hanno però basato la propria autorevolezza su un concetto di scienza che è servito, almeno dal xvi secolo in poi, ad escludere dal discorso della conoscenza generale, utile allo sviluppo e al benessere della specie, tutto ciò che avrebbe potuto inficiare il privilegio delle classi dominanti e maschile.
Una scienza ‘patriarcale’ che si è sviluppata fin dalle grandi religioni rivelate (ebraica, cristiana e mussulmana), con l’esclusione di figure di rilievo di carattere femminile all’interno del processo di formazione e conduzione del cosmo e delle sue leggi, che ha fortemente influenzato e favorito formazioni sociali basate sull’emarginazione del ruolo delle donne all’interno della società e una progressiva perdita di centralità della Natura in quanto eco-sistema con cui convivere e ridotta invece a risorsa da sottomettere e conquistare.

Più volte il testo rinvia al concetto di natura selvaggia che, come la donna, deve essere sottomessa e, se occorre (ma a quanto pare lo è sempre), violentata per permettere un corretto funzionamento del sistema patriarcale basato sullo sfruttamento di genere e di classe. Un’analisi che va ben oltre le banalità dell’odierno Me Too hollywoodiano che, nonostante lo scalpore destato, non riesce a liberarsi dai dettami della società dello spettacolo mercantile.

Un andare oltre che mette in discussione l’ordine scientifico su cui il sistema di appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, la cui credibilità sembra essere andata definitivamente in pezzi con l’odierna pandemia e le infinite ricette scientifiche suggerite per contrastarla, si è basato nel corso degli ultimi quattro secoli. Sistema di dominio, di genere e di classe, che ha apparentemente sostituito il principio religioso autoritari delle religioni monoteistiche con un principio ancora più autoritario basato sullo scientismo che, come già sosteneva Galileo (in un’età ancora eroica della scienza), doveva defalcare tutti gli impedimenti dalle sue ipotesi e formulazioni.

Tutto ciò che poteva contraddire le ipotesi scientifiche ‘predominanti’ ha dovuto quindi essere progressivamente rimosso e cancellato, così come di pari passo tutti gli ordini sociali, passati o futuri, che potevano respingere la validità e l’assolutismo dell’ordine vigente, dovevano essere negati, distrutti e addomesticati.

Che si trattasse infatti delle religioni animistiche oppure basate sull’idea della Grande Dea Madre, con la loro spiegazione più complessa e attinente al reale rapporto tra specie e natura, che delle comunità basate sulla gestione comunitaria dei bisogni reali e sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, con il loro rifiuto della mercificazione del prodotto sociale e dei rapporti umani, non vi è stata mai altra possibilità per i detentori del potere statale ed economico che quella di negare, quasi sempre armi e leggi alla mano, quelle possibili alternative.

In questo senso, per secoli, si sono confrontate due realtà sociali possibili: una patriarcale, basata sulla proprietà privata e sulle leggi dello Stato, e una comunista, matriarcale e/o matrilineare, intrinsecamente legata ad una differente funzione della donna al suo interno e al riconoscimento della sua importante funzione sia nella vita sociale che nella riproduzione della vita stessa. Separare il primo riconoscimento dal secondo, riducendo come nella società classica o in quelle determinate dai monoteismi la donna a fattrice sottomessa, significa da sempre negare, non soltanto alle donne, l’alternativa di una società più democratica ma anche più equa economicamente anche per la parte maschile della società.

Repressione delle comunità autonome, politicamente economicamente e culturalmente, e repressione delle donne sono andate nei secoli di pari passo e con ciò si è proceduti anche sulla strada di una sbrigativa eliminazione di saperi e conoscenze che per lungo tempo avevano accompagnato e favorito la sopravvivenza e lo sviluppo della specie. Una condizione durata molto più a lungo di quella attualmente dominante e che, per paradosso, oggi sembra rendersi necessaria per superare l’impasse creata a livello planetari dal capitalismo e da un patriarcato oggi ancora difficilmente giustificabili.

Ogni grande cambiamento ha bisogno di produrre nuove forme di conoscenza, poiché non si può superare l’esistente senza negarne e superarne le ipotesi e la conoscenza che lo fondano e giustificano.
L’opera delle donne curde, di Öcalan, dei partiti che li/le rappresentano costituiscono ancora un piccolo, ma significativo contributo in questa direzione. Questo probabilmente, è stato possibile proprio grazie all’assenza di uno Stato nazionale curdo, che si sarebbe, altrimenti, preoccupato ex-post, come tutti gli altri stati, di giustificare e fondare la propria esistenza e la propria autorità non sui bisogni reali e la conoscenza collettiva, ma su leggi giuridiche e ‘scientifiche’ selezionate e rafforzate in nome del superiore principio di legittimità statuale.

Ancora una volta soltanto la lotta paga e insegna, come sempre è accaduto nella Storia, che è proprio nella lotta che le donne possono tornare a riconquistare e svolgere il loro inestimabile ruolo di conoscenza e organizzazione.
Il testo contribuisce così ad aprire tutte queste porte ed altre ancora, rivelando tutta la sua potenza ed utilità ben al di là dei problemi collegati alla liberazione e all’indipendenza delle donne e del popolo curdo, come tutte le lettrici e i lettori potranno facilmente scoprire scorrendone le pagine.

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Ritornare a Westfalia? https://www.carmillaonline.com/2017/08/03/ritornare-a-westfalia/ Wed, 02 Aug 2017 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39674 di Sandro Moiso

Andrew Spannaus, LA RIVOLTA DEGLI ELETTORI. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa, Mimesis Edizioni 2017, pp. 110, € 10, 00

Occorre ripartire dal Trattato di Westfalia, l’intesa che mise fine alla guerra dei trent’anni nel 1648, e che pose le basi del diritto internazionale per secoli, per comprendere il testo di Andrew Spannaus recentemente edito da Mimesis. Già autore di un testo sulla prevedibile vittoria di Trump, pubblicato lo scorso anno dallo stesso editore e recensito all’epoca su Carmilla (“Perché vince Trump”), l’autore prosegue nella sua ricostruzione dei motivi e delle ragioni che hanno portato [...]]]> di Sandro Moiso

Andrew Spannaus, LA RIVOLTA DEGLI ELETTORI. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa, Mimesis Edizioni 2017, pp. 110, € 10, 00

Occorre ripartire dal Trattato di Westfalia, l’intesa che mise fine alla guerra dei trent’anni nel 1648, e che pose le basi del diritto internazionale per secoli, per comprendere il testo di Andrew Spannaus recentemente edito da Mimesis.
Già autore di un testo sulla prevedibile vittoria di Trump, pubblicato lo scorso anno dallo stesso editore e recensito all’epoca su Carmilla (“Perché vince Trump”), l’autore prosegue nella sua ricostruzione dei motivi e delle ragioni che hanno portato al successo (relativo) dei cosiddetti movimenti populisti al di qua e al di là dell’Atlantico. Con un attenzione particolare, come si deduce dal titolo, alle contraddizioni venutesi a sviluppare in Europa tra governati e governanti.

Per l’autore “L’idea di Westfalia è semplice: «gli Stati sono responsabili per il proprio territorio e i propri cittadini, e altri Stati non dovrebbero interferire con nessuno dei due». È stato il principio guida nelle relazioni tra le nazioni occidentali per tre secoli, anche se ignorato abbondantemente nei confronti di altre aree del mondo, con l’imperialismo coloniale.”
Proprio dall’abbandono di tale principio governativo ed organizzativo egli fa derivare le attuali tendenze populiste o, come dichiara il titolo stesso, la rivolta degli elettori nei confronti delle élite.

La costruzione dell’Europa Unita si è basata infatti su una progressiva cessione dei compiti e delle scelte dei singoli governi nazionali ad un ente sovranazionale che spesso compare sotto le spoglie della Banca Centrale Europea ancor più che del parlamento di Bruxelles, che dovrebbe costituire la sede ideale per il dibattito tra i rappresentanti “democraticamente” eletti dai cittadini europei al fine di giungere a soluzioni politicamente condivise.

In effetti però ciò che ha finito col trionfare è stato uno stato di permanente eccezionalità che ha giustificato azioni di intervento decisamente autoritario sulle costituzioni dei singoli stati (come nel caso del “famigerato” pareggio di bilancio inserito nella Costituzione italiana modificando gli articoli 81, 97, 117 e 119 con la legge costituzionale 1/2012 entrata in vigore l’8 maggio 2012) e sulle decisioni degli stessi governi. Regime di eccezionalità che in Italia si è fatto sentire a partire dalla caduta “accelerata” del Governo Berlusconi nell’autunno del 2011 e ben riassunto (e giustificato) nelle parole di Mario Monti, riportate dal testo: “Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, e di grave crisi, per fare passi avanti… E’ chiaro che il potere politico ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni [di sovranità] solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore a farle, perché c’è una crisi in atto visibile e conclamata”.

Questo regime di permanente eccezionalità, che ha giustificato negli ultimi anni tagli di spesa pubblica, manovre di aggiustamento ai danni di cittadini e lavoratori e immensi favori nei confronti della finanza internazionale, ha finito però col dare vita ad uno scontento generalizzato e acefalo che nel corso del 2016 ha visto il voto favorevole alla Brexit in Gran Bretagna e la clamorosa sconfitta del progetto renziano di riforma costituzionale.

Questi due episodi, insieme alla vittoria di Trump alle ultime elezioni presidenziali americane, divengono centrali all’interno della ricostruzione che Spannaus fa del diffondersi a livello politico dei movimenti populisti. Movimenti che vengono anche presi in esame a proposito del loro parziale “fallimento” nel corso delle elezioni nazionali svoltesi in Europa, nel corso del 2017, in Olanda e in Francia.
Pur essendo convinto che tali movimenti non potranno giungere al successo nemmeno nella Germania di Angela Merkel, l’autore ritiene comunque che le vittorie dei rappresentanti e dei partiti “europeisti” non costituiscano altro che vittorie di Pirro degli stessi.

Il fatto che la protesta non ha travolto le istituzioni non significa che i problemi sono stati risolti. Anzi, diventa ancora più importante affrontarli, pena il dilagare in un futuro prossimo di una sfiducia ancora più profonda tra la popolazione e una nuova tornata di proteste meno gestibili.
L’esempio più evidente è quello di Donald Trump negli Stati Uniti. Per mesi la grande stampa e la classe politica hanno trattato Trump come un fenomeno inspiegabile, se non attraverso i pregiudizi di una classe di americani poco istruiti. Non si è voluto guardare ai motivi veri per cui un candidato così imperfetto riuscisse a raccogliere così tanti voti, e alla fine le istituzioni hanno pagato il prezzo, ritrovandosi un corpo estraneo alla Casa Bianca.
Trump è stato eletto perché ha acceso i riflettori su due grandi temi: la perdita dei posti di lavoro nell’industria e il fallimento della politica estera. Sono temi fondamentali, a prescindere dalla capacità o volontà reali di risoluzione del neopresidente. […] Lo stesso ragionamento vale per l’Europa. La protesta è cresciuta per via di politiche che hanno privato i governi di quel potere di iniziativa che avevano utilizzato in modo così efficace fino agli anni Settanta, per raggiungere un livello alto di benessere economico e sociale. Gli effetti negativi della globalizzazione non si sono prodotti per caso, grazie a inevitabili cambiamenti internazionali: sono il risultato di scelte politiche ben precise, che possono anche essere riviste.

Ma, al di là dei dati e delle spiegazioni che Spannaus fornisce a dimostrazione della sua tesi, ciò che può essere di reale interesse all’interno del testo è costituito dalle ricette che l’autore suggerisce per far fronte alla crisi economica che travaglia le economie e le società occidentali e i provvedimenti che i governi in carica dovrebbero applicare.
Partendo dal presupposto che “I grandi temi alla base della rivolta degli elettori che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca hanno un denominatore comune: la sovranità. La globalizzazione economica e finanziaria è osteggiata perché ha favorito la delocalizzazione del lavoro e perché ha permesso alla finanza speculativa di acquisire un potere spropositato sulla politica degli Stati. Tutto questo si basa sull’eliminazione dei confini, soprattutto in termini economici: ormai le grandi società e i grandi capitali possono spostarsi con facilità, un fattore che condiziona pesantemente le decisioni dei governanti che devono fare i conti con la nuova realtà dei “mercati internazionali”, spesso più potenti degli strumenti legislativi nazionali.” Spannaus giunge ad affermare che “Il fallimento dell’élite occidentale è strettamente collegato all’abbandono del concetto di sovranità. Una certa visione del mondo, da attuare con strumenti a volte democratici e a volte no, ha facilitato le politiche che hanno fomentato il malcontento di grossi segmenti della popolazione, che a sua volta vedono in questi “valori” della globalizzazione una minaccia non solo al proprio benessere, ma ancora di più alla propria identità.
Oggi, l’idea di un ritorno al “nazionalismo” viene considerato pericoloso, per forza negativo, in quanto associato alle guerre del passato. A guardare bene, però, una ripresa del concetto di sovranità nazionale sembra particolarmente importante proprio per contrastare la perpetuazione degli errori più gravi del mondo occidentale negli ultimi decenni.

Il nazionalismo identitario ed economico diventa così l’apparente soluzione, tipica del populismo, dei problemi sociali ed economici. Da qui il ritorno a Westfalia e al riconoscimento dei confini e dei poteri nazionali. In una prospettiva che non si allontana nemmeno di una virgola dalla vecchia concezione borghese, poi socialdemocratica e fascista, del mondo. Ma è davvero questa l’unica, fuorviante a parere di chi scrive, prospettiva possibile per il movimento antagonista?
Oppure sarebbe meglio, approfittando dell’abolizione dei confini e dei fasulli governi nazionali operata dal capitalismo stesso (i cui limiti secondo Marx erano rappresentati dal modo di produzione capitalistico medesimo), operare al fine di ritrovare un’unità internazionale dei lavoratori e dei movimenti di lotta?

Spannaus sottolinea le scelte di Trump e le loro conseguenze possibili, condivise da milioni di elettori e lavoratori americani: “Il 23 gennaio 2017 il presidente Donald Trump ha firmato un decreto per certificare il ritiro degli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP), l’accordo commerciale che l’amministrazione precedente aveva negoziato per anni con altri undici paesi dell’area del Pacifico. Questo ordine esecutivo rappresenta un primo passo verso una nuova direzione, controversa, della politica commerciale americana.[…] Le bordate di Trump contro gli accordi di libero scambio hanno provocato una risposta di orrore in buona parte del mondo politico e accademico. Le temute politiche “protezionistiche”, che economisti di destra e di sinistra ci hanno assicurato essere la formula per il disastro, sembrano essere tornate in auge, minacciando di riportare il mondo a un passato terribile quando i governi intervenivano troppo nell’economia.1

I dati successivi alle politiche di delocalizzazione del lavoro sono certamente allarmanti: “Il numero totale dei posti di lavoro nelle manifatture negli Stati Uniti è crollato di oltre 7 milioni di unità dal 1980, men¬tre la popolazione complessiva è cresciuta di quasi 100 milioni di individui. In termini percentuali, attualmente i lavoratori nelle manifatture rappresentano solo l’8% della forza lavoro, circa un terzo rispetto al 1970. È risaputo che gran parte di questi lavoratori ora si trovi con impieghi meno retribuiti in termini reali e più precari, sempre che abbiano ancora un posto di lavoro. Una delle risposte più abusate dagli esperti è che la perdita del lavoro industriale non è dovuta al commercio, ma alla tecnologia. L’automazione sta accelerando e lo farà ancora di più con la rivoluzione digitale. Si produce di più con meno lavoratori al giorno d’oggi, una tendenza irreversibile.2

La spiegazione non convince certo né i lavoratori, né coloro che, come l’autore, in un ritorno alle politiche protezionistiche vedono una possibile panacea.
Come mai buona parte dei prodotti di consumo comprati negli Usa e in Europa vengono prodotti in paesi come la Cina, il Bangladesh, il Messico e il Guatemala? La tecno¬logia non fornisce la risposta; gli stipendi e i costi operativi bassi sì.
Un argomento più coerente è quello dei prezzi. Si dice che in molti settori ad alta intensità di lavoro i processi produttivi siano semplice¬mente troppo costosi per rimanere nei paesi più avanzati, e quindi il commercio mantiene i prezzi bassi. Cosa direbbero i consumatori del¬le fasce basse se non potessero trovare i beni economici a Wal-Mart?
Si tratta di un problema reale, che solleva questioni complesse su come invertire la corsa verso il basso dell’economia low-cost, ma è possibile cambiare rapidamente la prospettiva se si adotta una visione più a lungo termine: perché i poveri (compresi i working poor) non possono permettersi beni più costosi? Non ha a che fare proprio con la perdita di posti di lavoro ben pagati? Uno sguardo veloce al mondo mostra la debolezza della tesi che i costi bassi siano essenziali per il benessere economico. I paesi più ricchi non sono caratterizzati dai costi bassi; è proprio il contrario.
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Citando l’economista americano Henry Carey che, nel 1851, scrisse L’armonia degli interessi, Spannaus ricorda che: “Nel suo libro Carey esprime una visione che è ancora oggi pertinente: a lungo termine o la condizione dei lavoratori sfruttati in altre aree del mondo sarebbe stata innalzata, avvicinandosi a quella dei paesi più sviluppati, oppure il lavoratore americano sarebbe stato abbassato al livello delle persone sfruttate dal sistema imperiale.
La premessa centrale di Carey è che “ogni uomo è un consumatore nella misura in cui produce”; cioè, se produci qualcosa, avrai il reddito necessario anche per consumare, e alla fine aumenterà il commercio. Quest’idea sarebbe considerata terribilmente antiquata da parte di molti economisti oggi. Eppure, per i lavoratori americani ed europei che hanno vissuto la fase recente di globalizzazione è fin troppo reale
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Ecco quindi riproporre un’impossibile unità di interessi tra lavoratori ed economia nazionale, in nome della produttività e del lavoro industriale, in cui il vantaggio consumistico del lavoratore sembra discendere direttamente dal vantaggio della propria impresa o del proprio stato di appartenenza nel mercato mondiale. Ora, senza citare obbligatoriamente il Discorso sul libero scambio di Karl Marx, è evidente che una tale visione giustifica sia il rilancio dell’estrazione e dell’uso del carbone promesso da Trump ai minatori impoveriti degli stati dell’Est sia, altro esempio, la “compartecipazione” dei lavoratori dell’ILVA di Taranto alla distruzione della vita e dell’ambiente in nome del valore-lavoro oppure le speranze riposte negli effetti benefici delle Grandi Opere. Ma una tale visione sta proprio alla base della concezione economica e politica interclassista.

Serve un nuovo approccio alla politica commerciale, per iniziare un cambiamento fondamentale che archivi le politiche low-cost, anti-produttive degli ultimi decenni. Servono misure specifiche da attuare per cominciare a cambiare, prendendo spunto da concetti già presenti nel dibattito politico attuale. Per cominciare, si considerino i dazi.5 Dazi ovvero protezionismo, ovvero accettazione del principio di concorrenza con i lavoratori degli altri stati o dell’esclusione dei lavoratori immigrati dai diritti dei lavoratori residenti: una politica di separazione all’interno del mondo del lavoro che va in direzione esattamente opposta a quella che si prospettava poco sopra.

Direzione, quella del protezionismo economico, che non può avere alla fine altri sbocchi che non siano quello della guerra (inevitabile nell’epoca dell’imperialismo finanziario), accompagnato da quello, ancor più tragico, della passiva accettazione della stessa da parte dei lavoratori, in nome del supremo interesse nazionale.
Magari attraverso la riproposizione, qui in Occidente dove la questione nazionale si è chiusa almeno da un secolo, di un terzo risorgimento, così come già fu qui in Italia quella del secondo risorgimento destinata a castrare e soffocare qualsiasi elemento di autonomia e azione proletaria e rivoluzionaria all’interno della lotta di Liberazione dal fascismo e dal capitale.

Il testo di Spannaus può perciò aiutarci, anche se in negativo, a riflettere su tutto ciò e questo può costituire già per sé un motivo sufficiente per una sua attenta lettura.


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