Stadio – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Il mondo ultrà svelato da Daniele Segre https://www.carmillaonline.com/2020/10/04/sport-e-dintorni-il-mondo-ultra-svelato-da-daniele-segre/ Sun, 04 Oct 2020 11:02:06 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56662 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Dopo il cortometraggio Il potere deve essere bianconero, poi confluito in una più ampio documentario audiovisivo sulle curve della Juventus e del Torino intitolato Ragazzi di stadio (1978) e nell’omonima produzione editoriale riportante interviste e fotografie, con Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo (2018), film presentato nel corso del 36° Torino Film Festival, Daniele Segre torna a indagare il mondo degli ultras.

I pionieristici lavori sui tifosi realizzati dal documentarista torinese sul finire degli anni Settanta, hanno concesso ai giovani ultras, per la prima volta in Italia, la [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Dopo il cortometraggio Il potere deve essere bianconero, poi confluito in una più ampio documentario audiovisivo sulle curve della Juventus e del Torino intitolato Ragazzi di stadio (1978) e nell’omonima produzione editoriale riportante interviste e fotografie, con Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo (2018), film presentato nel corso del 36° Torino Film Festival, Daniele Segre torna a indagare il mondo degli ultras.

I pionieristici lavori sui tifosi realizzati dal documentarista torinese sul finire degli anni Settanta, hanno concesso ai giovani ultras, per la prima volta in Italia, la possibilità di presentarsi direttamente: è infatti la voce degli intervistati a restituire il senso della loro esperienza collettiva e a far emergere le molteplici sfaccettature sociali, politiche, simboliche della sottocultura del tifo.

Sin dal primo lavoro audiovisivo di fine anni Settanta emerge chiaramente quanto l’immaginario dell’epoca dei giovanissimi supporter risulti permeato dal clima politico dei tempi: le immagini del corteo degli ultras diretto allo stadio mostra passamontagna calati sul volto, mani levate mimando la P38, cori e scritte sui muri che riprendono l’antagonismo sociale dell’epoca. Le inchieste sul mondo del tifo di fine anni Settanta tratteggiano una generazione di tifosi che vivono con spontaneità e allegria l’avventura ultrà, tanto che le stesse discussioni all’interno dei rispettivi gruppi, durante i preparativi in vista del derby, risultano genuine e informali, ben lontane dalle maniacali gerarchie e dalla militarizzazione che caratterizzeranno il tifo di quarant’anni dopo.

Uno degli indiscussi meriti dei pionieristici lavori di Segre sul mondo ultras è quello di aver saputo presentare i giovani tifosi all’interno di un contesto sociale più allargato rispetto alle gradinate dello stadio. Una sequenza de Ragazzi di stadio, ad esempio, mostra un giovane operaio al lavoro in officina con la macchina da presa che indugia sulla ripetuta oscillazione del capo del ragazzo intento a seguire il movimento del macchinario non lasciando dubbi sul carattere alienante della sua attività lavorativa. Dismessa la tuta da lavoro il giovane si sistema in abiti civili per lasciare la sua vita d’officina e le immagini, con lui, passano alla sua alla sua esistenza fuori dalla fabbrica ed è qui che il mondo del tifo si rivela come una spasmodica ricerca di vita oltre la routine della fabbrica.

Dai racconti dei giovani emergono le forme organizzative dei gruppi, le modalità dell’autofinaziamento e, nel caso degli “Ultras Granata”, anche il ruolo della componente femminile all’interno del tifo organizzato. Nonostante nelle curve siano presenti anche giovani di area neofascista, entrambe le tifoserie torinesi risultano in maggioranza orientate a sinistra, soprattutto estrema, dalla quale, non a caso, riprendono molti slogan. Gli attriti tra le diverse impostazioni politiche sono attenuati dalla comune “fede” calcistica che suggerisce di “lasciare la politica al di fuori dello stadio”.

Da parte loro i tifosi granata manifestano nei confronti della Juventus un odio da loro definito “classista” mentre i supporter juventini non avvertono contraddizione tra tifare per la squadra di Agnelli e dirsi di sinistra. Al di là delle appartenenze politiche a valere è soprattutto, come detto, la “fede” calcistica, fondamento del legame di gruppo, e la curva come spazio di socializzazione nel quale stringere amicizie, vivere un’esperienza disinteressata, creare un’unità che può nascere anche dagli scontri con la polizia e con gli ultras delle altre squadre.

Cosa resta, a distanza di tanto tempo, del mondo ultrà di fine anni Settanta? Cosa è sopravvissuto e cosa è invece decisamente cambiato? È anche per rispondere a tali interrogativi che Segre realizza Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo. Il nuovo lavoro è incentrato sul gruppo juventino dei “Drughi” che conta di una componente di tifosi di lungo corso e una di giovani. Nel corso del film si alternano in modo incalzante immagini di cortei, coreografie, interviste a camera fissa registrate nella sede del gruppo, immagini tratte dai primi lavori di Segre accostate a riprese recenti, come a suggerire possibili confronti. Nelle prime sequenze di questa nuova realizzazione, la macchina da presa conduce all’interno della sede del gruppo inquadrando i murales sulle pareti d’ingresso e la foto di Mussolini che campeggia tra i vessilli bianconeri, per poi mostrare diversi tifosi in buona parte costretti a seguire la partita alla televisione a causa delle diffide che vietano loro l’accesso allo stadio.

A differenza di quanto avvenuto nei documentari precedenti, ora i tifosi sembrano abituati a fare i conti con la macchina da presa, tanto che frequentemente si atteggiano in studiate “pose da duri”, come a voler sfruttare l’occasione offerta dalla vetrina del documentario. Nel nuovo film Segre non palesa mai la sua presenza né nelle immagini né attraverso la “voce off” e, probabilmente, ciò è dovuto anche alla maggior propensione dei tifosi di oggi ad autorappresentarsi.

Come quarant’anni prima, il film restituisce l’esperienza totalizzante del tifo vissuto in una dimensione comunitaria e la dedizione assoluta e continua alla propria causa è considerata il segno distintivo dell’autentico tifoso che si differenzia così dai tiepidi e detestati spettatori della tribuna. Alcuni supporter raccontano dei problemi che l’appartenenza al gruppo ha comportato in famiglia e sul lavoro e, in diverse circostanze, emerge come, più che la partita, ai giovani interessi conquistarsi spazi di protagonismo.

Il nuovo lavoro di Segre consente di cogliere alcune trasformazioni avvenute nel mondo degli ultras in relazione ai mutamenti sociali e politici. Se i vecchi “Fighters” bianconeri ritratti dall’autore a fine anni Settanta si presentavano come un gruppo relativamente informale e spontaneo, i nuovi gruppi hanno costruito nel tempo un preciso assetto organizzativo. I “Drughi” sollecitano la partecipazione e nello stesso tempo la incanalano e la inquadrano in un sistema di ruoli e di regole, di ordine e di disciplina interna. La struttura fa capo a un direttivo guidato da leader carismatici che si sono conquistati “sul campo” un primato indiscutibile e ribadito ogni domenica nei rituali della curva. Esiste una precisa divisione dei compiti che deve essere rigorosamente rispettata: il “lanciacori”, gli “striscionisti”, l’addetto alla “logistica” che si occupa del reperimento dei biglietti e dell’organizzazione delle trasferte e persino il “capoguerra”, colui che decide se ci si deve o meno scontrare, e con quali modalità, con i gruppi avversari.

Anche dal punto di vista politico il cambiamento è netto. Afferma risoluto un “anziano” intervistato: «la nostra è una curva che segue ideali di destra e ne siamo orgogliosi», poi aggiunge perentorio che l’ideologia politica non deve però mai prevaricare gli interessi della curva. Un altro ultras di vecchia data spiega: «non c’è democrazia allo stadio… altrimenti ognuno fa quel che vuole… un po’ di dittatura ci deve essere per forza». Un esponente storico della curva si sente in dovere di precisare che «non c’è razzismo. Il razzismo per me è un’altra cosa, non è cantare “Vesuvio lavali col fuoco” o “’Firenze in fiamme”… oppure urlare contro il giocatore “negro”… quello non è razzismo è uno sfottò… ci diverte cantare queste canzoni ma non è razzismo».

La leadership del gruppo, esclusivamente maschile, è costituita soprattutto dagli “anziani”, in alcuni casi reduci dei vecchi “Fighters”, che si autorappresentano come custodi della memoria e demiurghi del tifo juventino. Dalle loro interviste emerge la classica logica binaria che struttura l’immaginario collettivo degli ultras – fedeltà/tradimento; onore/disonore; ardimento nello scontro fisico/ignavia -, l’orgoglio per le battaglie combattute che li ha portati a essere sottoposti al divieto di partecipare agli incontri sportivi, la concezione della violenza, con i relativi codice di onore, inglobati nell’ideologia della curva che fanno assoluto divieto di denunciare i nemici. Non senza contraddizioni afferma un tifoso: «Il mondo ultras è fatto di forti, di vincitori e di vinti, di violenza verbale, anche di violenza fisica così come il mondo che ci circonda, violenza verbale la troviamo tutti i giorni, in televisione, sui giornali, al cinema, la violenza è ormai qualcosa che innaturalmente è entrata a far parte della nostra esistenza, noi l’abbiamo sempre vissuta, nel bene e nel male, per cui non è un qualche cosa che vediamo contro natura, è qualche cosa che ci appartiene, appartiene al mondo ultras storicamente».

Anche lo spazio della curva risulta ora sottoposto a una rigida regolamentazione costruita sui “meriti” acquisiti nel tempo e viene rivendicata con orgoglio la specificità della curva rispetto agli altri settori dello stadio. Alcuni ricordano anche come l’eroina nei primi anni Ottanta abbia falcidiato la tifoseria e come il ricambio generazionale abbia, in alcuni casi, provveduto ad allontanare alcuni “vecchi” perché legati a un mondo che a loro non apparteneva.

Nel documentario viene mostrata anche una riunione del “Direttivo” ove, tra i presenti, si intravedono anche alcune ragazze. Un “anziano” ricorda come molti della vecchia guardia siano diffidati e come ci si adoperi per aiutare i gruppi “più meritevoli”. A dare il senso della stretta gerarchia che contraddistingue la curva, un giovane tifoso, durante la riunione prende la parola solo per dire con orgoglio ai “vecchi”: «noi siamo qui non per dire la nostra ma per metterci a disposizione».

Alcuni intervistati approfondiscono la “logica ultrà” spiegando cosa significa stare “in prima linea” evitando di scappare durante gli scontri. C’è anche chi tiene a ricordare che «non abbiamo mai toccato i bambini e le famiglie… come facciamo a riconoscerci allora? Dall’odore! Quello puzza come te». Un “anziano” ricorda: «tanti anni fa esistevano anche delle regole; ci si trovava a mani nude, magari con qualche mazza di piccone ma niente di particolare. Il codice fondamentalmente doveva essere quello ma poi, col passare del tempo, sono successe tante cose brutte che hanno portato anche a vedere armi, coltelli e pistole nei vari gruppi ultras». Alcuni tifosi si soffermano anche sulle esperienza dell’arresto, della detenzione, delle pene subite, del sostegno legale e della rete di solidarietà in carcere.

Pur mostrando diversi elementi di continuità con le analoghe esperienze delle passate generazioni, il mondo ultras contemporaneo che emerge da Ragazzi di stadio, quarant’anni dopo, palesa diversi e profondi mutamenti a testimonianza delle grandi trasformazioni che hanno caratterizzato la società italiana e il suo immaginario. Al di là delle curiosità per un’esperienza che, tra mille contraddizioni, in risposta ad un desiderio di partecipazione e ad un bisogno di socialità, ha saputo coinvolgere in Italia decine di migliaia di individui, il lavoro di Segre, come ha spiegato lui stesso nel corso della presentazione al Torino Film Festival, si propone come spunto per «per raccontare la realtà del tempo presente e il calcio probabilmente è solo una scusa per raccontare qualcos’altro che avrebbe senso approfondire e scavare».

Negli ultimi tempi alcune tra le maggiori curve italiane sono state investite da inchieste giudiziarie che hanno fatto emergere gravi contiguità di alcuni gruppi del tifo con la malavita organizzata e con l’estrema destra. È questo un fenomeno che merita di essere indagato con attenzione al fine di comprendere quanto sia estesa tale deriva. La stessa tifoseria juventina è stata al centro di una recente inchiesta della procura di Torino coinvolgendo diversi dei protagonisti del recente film di Segre.
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Per una trattazione più articolata a proposito del lavoro di Segre sul mondo del tifo si rinvia alla pubblicazione: Alberto Molinari, Gioacchino Toni, “I ragazzi di stadio”. Il viaggio di Daniele Segre nel mondo degli ultras, in “Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi”, 3 (2019) [03-11-2019]. [Link]

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Partenio, ore 14,45 https://www.carmillaonline.com/2018/07/18/partenio-ore-1445/ Tue, 17 Jul 2018 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47213 di Giovanni Iozzoli

Deve essere il 1982. E la luce indecifrabile è quella di una domenica pomeriggio di marzo. E siamo tutti seduti sui gradoni di cemento – 8000 cristiani e qualche cane – ad aspettare che abbia inizio l’evento culminante e conclusivo della settimana: Avellino-Ascoli (o Avellino Cagliari, boh! – comunque una partita di seconda o terza fascia, una di quelle che al Novantesimo minuto avrà l’onore del primo collegamento, il meno atteso, a inizio programma).

A proposito di Novantesimo: se avessi un binocolo, lì in curva, potrei vedere in sala stampa [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Deve essere il 1982. E la luce indecifrabile è quella di una domenica pomeriggio di marzo. E siamo tutti seduti sui gradoni di cemento – 8000 cristiani e qualche cane – ad aspettare che abbia inizio l’evento culminante e conclusivo della settimana: Avellino-Ascoli (o Avellino Cagliari, boh! – comunque una partita di seconda o terza fascia, una di quelle che al Novantesimo minuto avrà l’onore del primo collegamento, il meno atteso, a inizio programma).

A proposito di Novantesimo: se avessi un binocolo, lì in curva, potrei vedere in sala stampa il faccione da tricheco premuroso di Luigi Necco, che è tornato da poco in giro dopo le pistolettate alle cosce. E se avessi un dispositivo ottico ancora più potente, salendo sull’ultimo gradone della curva – quello dove le sagome si stagliano nel lucore bluastro del cielo come se fossero ritagliate e appiccicate –, potrei contemplare le baraccopoli che sorgono ai quattro angoli della città: i campi prefabbricati, i container di lamiera, le roulotte e le coorti di botteghe-baracche che hanno sostituito i negozi nella zona commerciale. E se potessi salire su una mongolfiera e gettare lo sguardo ancora più lontano, potrei cogliere lo strazio polveroso e irredimibile dei borghi cancellati, dei paesi squartati, dei quartieri cancellati, dei montarozzi di macerie ovunque, che custodiscono i loro tristi segreti. L’Irpinia è un cimitero, un enorme bacino di raccolta corpi: quelli dei cadaveri propriamente tali, da poco sepolti senza pace, sotto stele e cippi improvvisati; e quelli dei sopravvissuti, che vagano come anime perse in mezzo a quello sventramento quotidiano, in attesa di indovinare un qualche futuro plausibile per le loro vite.

Lo stadio Partenio svolge la funzione di santuario per migliaia di devoti dimessi, che ogni 15 giorni si recano in pellegrinaggio in quel tempio laico della bestemmia: vengono dal centro cittadino, dalle periferie malurbanizzate che erano già brutte prima del sisma e immaginatevi dopo; scendono dai paesi più prossimi alla città ma anche da quelli del cratere, carichi di angosce, lutti, disagi da tempo di guerra, allo scopo di celebrare un rituale che li illuda per tre ore – solo tre orette – che tutto presto riprenderà, le case risorgeranno, gli storpi cammineranno e i morti torneranno a nuova vita. Ma non è solo l’Irpinia squassata, è tutta l’Italia che è un paese duro, difficile da cavalcare. A Palermo e a Napoli le guerre di mafia stanno lasciando sul selciato centinaia di morti – il mercato nazionale dell’eroina è l’unico che tira forte e noi impariamo a districarci nel caos della nostra libanizzazione: drusi, maroniti, cutoliani e corleonesi…
Gli ultimi fuochi della guerriglia italiana si vanno spegnendo come lampi lontani all’orizzonte, mestamente, colonna dopo colonna.
I politici, poi, non ne parliamo: sono gente pericolosa, senza scrupoli, avvezza alle trame della guerra fredda, all’omicidio, alla strage, al ladrocinio sistemico – però hanno lauree, lignaggi ed eloquio, che gli attuali analfabeti di governo non si sognano neanche.
Sta piombando su tutto e tutti quella cappa che poi avrei imparato chiamarsi “riflusso”, con il prefisso post appiccicato a ogni resa.

Anche nelle nostre contrade, un tempo tranquille – quasi bucoliche – si muore con disinvoltura: attentati, overdose, omicidi bianchi in serie, dentro cantieri totalmente fuori controllo. La forza lavoro è tanta, giovane, disponibile, sovrabbondante. Tra poco aprirà il mattatoio dell’Isochimica – esempio quasi didascalico di colonialismo interno contro i ragazzi irpini, mandati al macello a mani nude, a rimuovere l’amianto dai vagoni ferroviari che nel nord Italia il personale FS ha saggiamente rifiutato di trattare. Invaso di manodopera e discarica globale, questo. Siamo nel 1982.

Forse anche per via di questo clima plumbeo e pericoloso, il calcio è diventato una roba maledettamente seria, giù in città. Antonio Sibilia non è ancora stato arrestato, troneggia a bordo campo insultando e minacciando, come suo solito. Tra qualche mese finirà in galera insieme a Enzo Tortora e altre 856 persone di varia umanità (tra cui il mio odiato professore di religione, cappellano delle carceri, più un paio di monache in offerta speciale). Ma noi all’epoca non possiamo prevederlo e non stiamo a preoccuparci: il fatto che abbia portato Juary in udienza in tribunale, a omaggiare Cutolo è un dettaglio di colore. Chi potrebbe osare la messa in discussione di quel giocattolino artigianale che è l’US Avellino – il miracolo della permanenza in serie A nel posto più scassato e disastrato d’Italia?

Io faccio parte di quel gregge anonimo e belante che ritrova un entusiasmo posticcio per quelle due o tre ore dell’evento sportivo. Ho solo 15 anni ma ho già le mie belle rogne. Non mi piace il posto in cui vivo, trovo insopportabile tutto quello squallore rassegnato – ma non so spiegare bene perché. La mia città è smozzicata, come se un lucertolone gigante l’avesse attraversata tirando codate capricciose e azzannando qua e là palazzi e casarelle. Detesto la mia scuola, che infatti vedo molto poco: per i registri risultiamo sempre latitanti o irreperibili; quando siamo lì dentro rilasciamo bigattini nei cessi per renderli inagibili, o programmiamo macchinose telefonate anonime per far chiudere la scuola; una certa indulgenza post-terremoto si protrarrà almeno per un altro paio d’anni e solo questo clima permissivo consentirà a noi caproni, anno dopo anno, di avvicinarci a un qualche immeritatissimo diploma.
Insomma, il contesto è quello giusto per vivere con disagio il mio ingresso ufficiale nell’adolescenza; l’unico antidoto alla depressione collettiva sembra nascosto, come un’essenza segreta, tra le gradinate sbrecciate del Partenio.

Mi guardo intorno, in Curva Sud. Manca poco, eppure non c’è nessuna agitazione visibile. L’atmosfera è ovattata. O meglio, si avverte una specie di fremito silenzioso, interno, sottotraccia. Di solito noi ragazzotti, tutti vestiti in modo precario (prevale il terribile azzurrognolo del Piumone Zamberletti), sputiamo, urliamo, ci tiriamo schiaffoni nel cuzzetto e palline di carta di giornale – dobbiamo far calare l’adrenalina prepartita e ingannare l’attesa, che nei match importanti può protrarsi anche di diverse ore.
Quella domenica no. Il clima è speciale. L’aria è immota. La luce è un liquido amniotico che produce una specie di consapevolezza vibrante. Tutti e 8000 sembriamo sospesi, collocati in una condizione vuota e soprannaturale. Non sento sbraitare, anzi, quasi nessuno parla – solo l’impianto audio continua a propinare musica a casaccio che nessuno ascolta.
Sembra il preludio di qualcosa – un evento, una rivelazione – e non c’entra con il clima prepartita, che era fin dal principio blando e pigro.
È come se fossimo stati convocati tutti là, in quel pomeriggio domenicale, per ricevere una iniziazione misteriosa. Anche se sono un ragazzetto, queste sensazioni mi sono chiarissime e me le ricordo nitidamente ancora oggi. Il verde chiazzato del prato assorbe luce senza rifletterla. I padri di famiglia stanno fermi, con la sigaretta in bocca, a cercare di afferrare un pensiero preciso a cui legarsi; nessuno guarda il campo o il tunnel prezioso, gli sguardi sembrano smarriti nel vuoto, assorti, accigliati, forse pronti alla meraviglia. Il sottofondo musicale anonimo continua ad accompagnare quella quiete innaturale. Il Partenio è un vascello fantasma sganciato dal mondo.

All’improvviso, dagli altoparlanti Pierangelo Bertoli irrompe con “So che sembra facile” – solo voce e pianoforte. So che sembra facile. E mi entra in vena fortissimo e non capisco perché. Ho voglia di piangere, forse tutti gli 8000 stanno per scoppiare nel pianto sommesso della brava gente. Cosa vuole quel cantante in carrozzella, che ci tortura così, con quella voce lugubre che ci scava dentro? Cosa vuole questa luce opaca che congela il tempo e non lo lascia fluire, cosa vuole Dio, da questa massa sbrindellata, più o meno povera e sottomessa: perché ci sta sottoponendo alla tortura della consapevolezza, prima del fischio d’inizio di Avellino-Ascoli? Mi afferra una nostalgia struggente (ma ho solo quindici anni, per Dio!), nostalgia di ciò che non ho vissuto e mai vivrò, nostalgia di nobili altezze, di elevazione, di ascesi, di una vita densa, generosa, eroica, che vorrei fosse già lì, pronta, squadernata davanti ai miei 15 anni, ma che intuisco lontana distanze siderali. Lo so, lo sento che tutti loro stanno provando il medesimo nodo alla gola e al cuore. Tutti vorrebbero liberarsi del loro peccato originale, delle loro meschinità, delle limitatezze in cui la loro esistenza li ha confinati e schiacciati. Vorrei qualcosa dalla vita e non so dare un nome a questa cosa. Mi mancano le parole. I bagliori di rivolta ai quattro angoli del mondo che senti nei telegiornali, l’idea di infilarti dentro la Storia senza mai (che beffa) averla studiata. E la parola Ricostruzione che senti invocare mille volte al giorno, nella fantasia di un adolescente diventa impresa epica, cosmica, di rigenerazione antropologica. Sto per piangere, mi giro affinché Cucciniello non mi veda, ma dall’altra parte c’è Ciccio che mi sta guardando e devo coprirmi gli occhi – mentre Bertoli picchia dolcemente – preferisco fingere che tu mi capirai – e vorrei dirlo anche a loro: ma non sentite niente, ma non riusciamo a trattenere per sempre questo sublime nulla che ci balla in corpo?

All’improvviso una voce divina, la Voce del Sinai, la voce della Montagna:

PER UNA VITA LUNGA E SANA, MANGIATE PASTA LA MOLISANA!

È il primo avviso, tra pochi istanti scenderanno in campo le squadre.
L’incantesimo inizia a rompersi. La gente ricomincia a borbottare, guardarsi intorno, stiracchiarsi, ruttare. Solo io resto immobile, nel mio minuscolo angolino di Curva Sud, a contemplare quel che resta nell’aria di quella malia. I ruminanti tirano fuori noccioline, lupini e Caffè Borghetti, qualche mentecatto si mette a urlare, per trascinarsi dietro gli altri e incitarli alla contesa contro il nemico ascolano. Io vorrei invece che tutto si fermasse. Bertoli in sottofondo non si sente più. Il cielo e la luce hanno ripreso la loro colorazione consueta. No, vi prego. Ci stavo arrivando. Stavo afferrando quella cosa. Due petardi pigri scoppiano in pista, come echi di una guerricciuola che sta finendo. Due o tre fumogeni, puzza, coriandoli, fischietti – bisogna tornare al proprio dovere.

ATTENZIONE ATTENZIONE: OGGI SI BEVE ARNONE!
LA FIAT PARTENAUTO E’ LIETA DI OFFRIRVI LE FORMAZIONI.

La zucca pelata di Di Somma emerge dalla caverna platonica, lo stendardino dei colori sociali in mano e la fascia di capitano bianca con al seguito gli altri della banda che si guardano intorno, accennano qualche passettino di corsa e qualche torsione laterale in movimento. Da quello stesso tunnel avevo visto in passato uscire tante volte Luis Vinicio De Menezes caracollante con la sua sciatica e le mani in tasca, quasi a chiedersi come avesse fatto a finire lì, nel buco del culo del calcio.

La quinta, o sesta, o decima dimensione – quello che era – si è richiusa. Siamo ripiombati tutti e ottomila nel panem et circenses che è la nostra vita quotidiana. Domani dovremo assolutamente inventarci qualcosa per non andare a scuola. La telefonata della bomba non funziona più, il preside lo sa che siamo noi.

P.S. Ho rivissuto qualche altra volta, in età adulta, quella speciale sensazione. Raramente.
Non sono mai riuscito a decifrarla, farla mia. L’unica cosa che so, è che ogni tanto tutto si sospende. Poi ritorna.

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