sport – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:26:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Sport e dintorni – Irlanda, calcio e rivoluzione https://www.carmillaonline.com/2024/08/24/sport-e-dintorni-irlanda-calcio-e-rivoluzione/ Sat, 24 Aug 2024 20:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83823 di Gioacchino Toni

Greta Selvestrel, Irlanda, calcio e rivoluzione, Rogas, Roma, 2024, pp. 270, € 21,70

Tratteggiata nella prima parte del libro la storia della presenza inglese in Irlanda, dunque la conflittualità che si è venuta a sedimentare nel tempo tra le due parti, Greta Selvestrel passa ad analizzare come l’universo calcistico, in tale contesto di pulsioni viscerali, si sia storicamente caricato di un complesso intreccio di identità, simboli e culture. La ricostruzione storica proposta dalla studiosa è affiancata, oltre che da un apparato iconografico utile a comprendere l’immaginario locale entro cui viene a collocarsi il mondo del pallone, dall’esperienza diretta [...]]]> di Gioacchino Toni

Greta Selvestrel, Irlanda, calcio e rivoluzione, Rogas, Roma, 2024, pp. 270, € 21,70

Tratteggiata nella prima parte del libro la storia della presenza inglese in Irlanda, dunque la conflittualità che si è venuta a sedimentare nel tempo tra le due parti, Greta Selvestrel passa ad analizzare come l’universo calcistico, in tale contesto di pulsioni viscerali, si sia storicamente caricato di un complesso intreccio di identità, simboli e culture. La ricostruzione storica proposta dalla studiosa è affiancata, oltre che da un apparato iconografico utile a comprendere l’immaginario locale entro cui viene a collocarsi il mondo del pallone, dall’esperienza diretta sul campo che le ha permesso di osservare con i propri occhi e di condurre interviste.

La passione viscerale per il calcio è al tempo stesso tra i pochi elementi che accomunano le diverse componenti che abitano le contee dell’Ulster e un ambito in cui si manifesta la conflittualità che regna tra di esse: «in quelle zone di conflitto, fra marciapiedi e pub segnati dalla rabbia e dal forte desiderio di liberazione, il calcio diventa uno strumento vero di battaglia e di trasmissione di una certa identità culturale» (p. 81). Soprattutto in città come Derry e Belfast, ogni aspetto della vita sociale dei cittadini nordirlandesi – quartieri, lingue, religioni, sport… – è contraddistinto «dalla logica della titolarità, della rivendicazione, della bivalenza, di ciò che avrebbe dovuto essere per naturale evoluzione delle cose e di ciò che invece, è stato imposto» (p. 84).

A Belfast l’ostilità tra repubblicani cattolici e unionisti protestanti si riflette a livello calcistico nella contrapposizione fra le tifoserie del Linfield FC unionista e del Celtic Belfast repubblicano, club fondato nel 1891 nel quartiere cattolico di West Belfast ispirandosi al Celtic Glasgow FC degli emigrati irlandesi in Scozia. La stessa rivalità in Scozia tra Celtic e Rangers è fortemente legata colonialismo inglese; mentre la tifoseria del Celtic non manca di far riferimento alla working class cattolica discriminata, quella dei Rangers si rifà all’unionismo protestante fedele alla Corona britannica.

A Derry la divisione scorre lungo il fiume Foyle che divide in due la città e non solo geograficamente: ad est la componente unionista che rappresenta il 20% della popolazione, ad ovest la comunità repubblicana, il restante 80% Il Derry City Football Club (in gaelico Cumann Peile Chathair Dhoire), nonostante abbia mantenuto una simbologia sostanzialmente neutra, avendo base nel cuore della zona repubblicana della città, è inevitabilmente la squadra tifata da tale comunità nei cui confronti si riversa l’ostilità degli unionisti che invece tendono a supportare il Linfield FC di Belstaf. A riprova dei diversi immaginari che animano le due fazioni, la studiosa ricorda come sugli spalti dei primi anni Settanta, negli scontri diretti tra le due squadre, alle strofe di We Shall Overcome intonate dai tifosi del Derry City in trasferta si contrapponevano da parte dei tifosi del Linfield quelle di God Save the Queen e di Derry Walls, canto che si rifà alle dispute secentesche fra le due parti in lotta.

L’autrice del volume ripercorre anche i problemi di ordine pubblico riguardanti le partite giocate dal Derry City contro il Ballymena United, altra formazione a tifo unionista dell’area a Nord di Belstaf, dunque come i tragici eventi del Bogside del 30 gennaio 1972, giorno passato alla storia come Bloody Sunday, abbiano avuto pesanti ricadute anche sul mondo del calcio, in particolare sul Derry City, le cui vicende sono puntualmente ricostruite nel volume.

Riprendendo l’antropologo Bruno Barba, la studiosa invita a guardare allo sport, e ancor più al calcio, come a

una sorta di educazione sentimentale per un gruppo di persone che si riconoscono in una comunità, in un imprinting, in una maniera peculiare di affrontare la vita. Per tale motivo è importante evidenziare il valore della sua intrinseca espressione collettiva che si può manifestare attraverso un appassionato, un atleta in prima persona ma soprattutto attraverso una tifoseria intera. In quest’ultimo caso, il concetto di “comunità” e cioè la passione, l’identificazione e l’appartenenza sportiva che pretende un impegno costante, assume un peso decisamente maggiore. La magia mistica che collega il momento sportivo a certe manifestazioni religiose attraverso inquietudini, paure, sconvolgimenti, rabbie e stupori conferma la ritualità di uno strumento culturale totale in quanto capace di riassumere una vera e propria fede che assume sembianze differenti all’interno di essa (pp. 111-112).

Se è pur vero che il tifo comporta faziosità, schieramento e rivalità che possono dar luogo a forme nefaste di campanilismo identitario, sostiene Selvestrel, tale forma di aggregazione può, in determinati casi, assumere connotazioni classiste manifestando una conflittualità tra realtà sociali differenti.

I rapporti tra le tifoserie di stampo irlandese, come il Celtic Glasgow, il Derry City o il Cliftonville seguono dei principi ben precisi della propria cultura al fine di creare legami stretti di supporto e riconoscimento con il resto del mondo ultras. Per questo l’aspetto politico incide fortemente sul rapporto tra tifoserie repubblicane e unioniste: il repubblicanesimo irlandese, a differenza dell’unionismo che tendenzialmente viene supportato da gruppi di estrema destra, deriva da uno scenario culturale tendente al socialismo e di conseguenza le amicizie che si vanno a consolidare con le tifoserie di altri Paesi seguono questo tipo di direzione come, per esempio, il caso consolidato da tempo del gemellaggio Celtic Glasgow-St. Pauli (p. 119).

Nel volume viene fatto riferimento anche all’universo ultras, in particolare la studiosa si sofferma sulla tifoseria del Derry City e sulla recente nascita del gruppo dei Red Partisans di derivazione working-class e legato ai movimenti antifascisti ed antirazzisti cittadini votato, come la Green Brigade del Celtic Glasgow, all’attivismo sociale e al sostegno delle cause indipendentiste come quella palestinese.

Supportata da un ampia ed utile bibliografia, quella offerta da Greta Selvestrel è una narrazione partecipata dei contraddittori intrecci che si sono dati e si danno nella società Nord-irlandese tra calcio, vita comunitaria, memoria, immaginario, classe e politica capace di restituirne la complessità.


Sport e dintorni – serie completa

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Sport e dintorni – Il valore del gioco nelle società non moderne https://www.carmillaonline.com/2024/03/26/sport-e-dintorni-il-valore-del-gioco-nelle-societa-non-moderne/ Tue, 26 Mar 2024 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81335 di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo [...]]]> di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo millennio, del fenomeno della “gamification”. Molto più semplicemente, si pensi a come alla spontaneità del calcio giocato dai bambini nelle strade e nei parchetti, con le giacche o gli zaini a fare da pali delle porte inesistenti, si stiano sostituendo le “scuole calcio” a cui i genitori iscrivono i figlioletti non appena sono capaci di stare in piedi con la malcelata speranza di rendere “produttivo” quello che dovrebbe essere il gratuito e spontaneo divertimento dei bambini.

Il soffocamento del gioco improduttivo ha però una lunga storia ed ha certamente a che fare con l’avvento dello sport moderno nato nelle scuole inglesi come dispositivo finalizzato alla creazione di élite e gerarchie che ha esacerbato lo spirito di squadra, il cameratismo e l’attitudine al comando, ossia tutto ciò che, come sostiene l’antropologo Philippe Descola nel volume-intervista Lo sport è un gioco?, «è necessario al buon funzionamento della solidarietà dei dominanti in una società di classi, e anche in una società di caste […] costituita da una molteplicità di strati sovrapposti che comunicano abbastanza poco tra loro… Solamente le grandi operazioni come la guerra o le celebrazioni sportive permettono di superare queste barriere di casta»1.

Nei primissimi anni Settanta, la studiosa Ulrike Prokop2, legata alla Scuola di Francoforte, intendendo demistificare la retorica olimpica a partire dall’ideologia pedagogico-sportiva del fondatore dei Giochi olimpici moderni, De Coubertin, evidenzia come il modello pedagogico di riferimento per il francese sia quello promosso a metà Ottocento dal reverendo Thomas Arnold che, per arginare le turbolenze degli allievi nel collegio da lui diretto, ricorre allo sport come a una «forma di “concorrenza regolata”, basata su criteri “oggettivi” che legittimano la formazione di gerarchie. Prestazioni valutate secondo criteri “neutrali” portano gli studenti ad accettare come “naturali” le posizioni di potere scaturite dalle competizioni. Ad una situazione caotica, che degenera in contrasti spesso violenti tra gli allievi, si sostituisce così una disciplina fondata sull’autocontrollo. […] Prokop vede nel modello della “concorrenza regolata” e della disciplina autoimposta desunta da Arnold il fondamento della concezione decoubertiniana dello sport, cardine di un progetto pedagogico di ispirazione positivista funzionale alla creazione di una società armonica nella quale gli individui sono portati a riconoscere l’autorità “oggettiva” della tecnocrazia». Insomma, secondo Prokop si tratterebbe di «un modello di democrazia “formale” che cela, dietro un’apparente uguaglianza, sostanziali stratificazioni sociali rappresentate come “leggi naturali”»3.

La preoccupazione di matrice positivistica per la coesione e la pace sociale di De Coubertin, secondo Prokop, è facilmente ravvisabile anche nei progetti pedagogici per le masse operaie (il “Ginnasio greco” e le “Università operaie”) che il francese elabora dopo la prima guerra mondiale con il fine, secondo la studiosa, di contenere i conflitti sociali e il potenziale rivoluzionario del proletariato.

All’interno del clima di generale messa in discussione della società che caratterizza il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta del Novecento, le critiche all’universo sportivo mosse da Prokop si affiancano ad altri interventi che, attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, mettono in discussione lo sport e la cultura del corpo della società capitalistica denunciando come l’invito alla pratica sportiva celi un intento educativo di stampo repressivo. Si possono vedere a tal proposito gli scritti Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm, usciti sulla rivista francese “Partisans” e pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione, e del sociologo tedesco di ispirazione francofortese Gerhard Vinnai, il cui saggio Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista viene pubblicato in Italia nel 1970. Si tratta di testi che, nella loro critica allo sport inserito nella dimensione dell’industria, del “campionismo”, dell’individualismo, della spettacolarizzazione e della ricerca del risultato ad ogni costo, hanno contribuito a formare una visione critica dello sport nell’associazionismo sportivo italiano di sinistra, come l’ Uisp, e di matrice cristiana, come il Csi, che, proprio in quegli anni, sviluppano una visione politica e sociale radicalmente alternativa dello sport, come attestano gli interventi che compaiono sulle rispettive riviste (“Il Discobolo” e “Stadium”) e nel saggio di Claudio Bucciarelli Lo sport come ideologia: alienazione o liberazione?, uscito nel 1974. Sebbene, letti a distanza di anni, tali saggi appaiono viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine riduttiva del fenomeno sportivo, rappresentano però i primi importanti tentativi di guardare criticamente allo sport prospettando una visione e una pratica di esso meno votata alla performance e più inclusiva4.

Visto che l’Occidente ha imposto al resto del mondo – tra le altre cose – il suo modello di sport competitivo caratterizzato da individualismo, diseguaglianze e sentimenti nazionali esasperati, confrontarsi con l’idea di gioco propria di mondi altri, lontani e residuali può essere utile ad una riflessione sullo sport moderno. Quando, ad esempio, gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana osservati dall’antropologo Descola – come del resto avviene in altere società “non moderne” – affrontano una partita di calcio, ad essere importante per loro non è il prevalere sull’altra squadra ma il gioco in sé, consistente nel segnare evitando che la partita conduca a diseguaglianze.

“Gioco” è una nozione ampia di cui si sono occupati pionieristicamente Johan Huizinga,5 che ha insistito sulla sua natura pre-sociale e ne ha sottolineato l’importanza nella cultura europea, e Roger Caillois6, che ha proposto una classificazione del gioco in base al predominare della competizione (agon), del caso (alea), della mimica (mimicry) o della vertigine (ilinx). Interessanti riletture di questi testi pionieristici alla luce del contesto videoludico contemporaneo sono state prodotte da Alexander Lambrow7, che contesta l’enfasi con cui Huizinga insiste sull’autonomia del gioco, per quanto sottolinei come vada riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui è stata espressa, e Lars Kristensen insieme a Ulf Wilhelmsson8, che mettono in relazione l’improduttività del gioco, dunque il suo distinguersi dal lavoro, espressa da Caillois con la lettura del sistema capitalista proposta da Marx.

Consapevole di quanto sia difficile individuare una definizione generale di gioco, da parte sua Descola, a partire dalla sua conoscenze di antropologo, ritiene sia necessario «distinguere il gioco come attività di emulazione e apprendimento che viene praticata nell’infanzia e nell’adolescenza, che è universale e che va oltre le frontiere dell’umanità»9 – visto che è riscontrabile anche tra altre specie animali –, da un gioco più sistematico e regolamentato, praticato soprattutto dagli adulti, di natura rituale, consistente «nella cooperazione tra due gruppi di persone che sono generalmente molto ben definite: dei lignaggi distinti, dei gruppi di filiazione, dei rappresentanti di diversi villaggi ecc. L’idea di cooperazione è più importante di quella di competizione; si tratta di collaborare a un’azione comune, di mettere in atto un processo che va oltre la volontà individuale di tutti i partecipanti»10.

Tra gli achuar, ma in generale in tutta l’Amazzonia, sostiene Descola, «si fa ricorso al gioco come attività di svezzamento, di apprendimento di ciò che è utile per la vita e di assimilazione delle tecniche, caratteristica dell’infanzia e dell’adolescenza»11. Ad esempio si fanno giocare i bambini di cinque-sei anni con mini cerbottane in bambù con palline d’argilla affinché, divertendosi, apprendano un’abilità tecnica a cui faranno ricorso quando, un po’ più grandi, si confronteranno con cerbottane più grandi per la caccia da appostamento, dunque, una volta cresciuti, possano destreggiarsi con la versione per adulti.

In queste società la caccia non si risolve semplicemente nell’atto del colpire la preda, ma presuppone innanzitutto trovare l’animale e adottare il suo punto di vista per avere la meglio su di esso e questo, ricorda l’antropologo, è ciò che si fa anche quando si gioca, ad esempio, a scacchi. In questi casi è dunque possibile assimilare la caccia al gioco.

Nelle società animiste anche la guerra “a bassa intensità”, consistente in raid di vendetta e scontri tra un numero limitato di individui, è stata a lungo un’attività che, come la caccia, presuppone la capacità di mettersi nei panni dell’altro. «In un certo senso, si potrebbe pensare che, nell’animismo, il gioco inteso nel senso della seconda definizione, il gioco collettivo diciamo, viene sostituito da attività di questo tipo: la caccia, la guerra, la pesca, che sono attività di emulazione, di competizione, che presentano dei rischi – spesso ne risulta un’uccisione – che prendono il posto del gioco»12.

Se il gioco ha scarsa rilevanza nelle società riconducibili a una ontologia “animista”, sostiene l’antropologo, risulta invece importante nelle società basate su sistemi “analogisti” – come nel mondo andino, in Messico, in gran pare dell’Asia Centrale e in Africa – in cui ha una funzione rituale, oltre che propedeutica. Si tratta di giochi in cui si compiono operazioni mentali con degli oggetti, che spesso prevedono una sfida tra due persone o tra gruppi che si affrontano faccia a faccia, propedeutici nel senso che predispongono a rintracciare legami tra elementi disparati.

Facendo riferimento alla sua esperienza tra gli achuar amazzonici, Descola ricorda che se un tempo tali giochi rituali erano ancora trasposti nella guerra e nella caccia, successivamente, poco a poco, le cose sono cambiate anche per l’introduzione nella loro società, da parte dello Stato nazionale ecuadoriano, del calcio e dell’Ecuavolley (una variante della pallavolo che si gioca in tre). In entrambi i casi, ha notato l’antropologo, gli achuar giocano senza porsi lo scopo della vittoria di una squadra sull’altra. Nel gioco del calcio da loro praticato tutti corrono dietro al pallone, portieri compresi, e le squadre hanno un numero di partecipanti variabile e non regolamentato; «ciò che conta, in fondo, è il gioco, prendere palla e segnare un gol»13, non farne uno in più dell’altra squadra. Ciò era già stato rilevato da Lévi-Strauss nei giochi con la palla arrivati tra i gahuku-gama in Nuova Guinea e lo stesso accade nel cricket praticato nelle isole Trobriand al largo della stessa nazione. Si tratta evidentemente di un’idea di gioco che privilegia l’attività ludica rispetto al risultato.

Lo sport, così come lo conosciamo e pratichiamo nelle società moderne ed ipermoderne, tende a rivelarsi un’attività di gioco particolare visto che presenta una serie di regole codificate e prevede competizioni orientate a uno specifico obiettivo: avere la meglio su altri partecipanti. Pur trattandosi di un’idea di gioco esclusiva al mondo moderno, è però all’interno di quest’ultimo che più marcatamente il conseguimento del risultato tende a soffocare l’attività meramente ludica.

«Mettere a confronto lo sport moderno con il gioco presso gli achuar o gli aztechi», scrive Stefano Allovio nella Prefazione al volume Lo sport è un gioco?,

ha la forza, per opposizione, di rendere chiara la stretta connessione fra la competizione sportiva e una specifica concezione dell’individuo emerso nella modernità: un individuo proprietario del proprio corpo e focolaio non solo della propria emancipazione e della propria libertà, ma anche [come afferma Descola nel libro] “focolaio di una competizione per acquisire beni, prestigio ecc.”. L’individualismo moderno “è racchiuso in maniera evidente e in modo permanente in quei dispositivi di competizione che consistono nell’acquisire dei vantaggi rispetto ad altri […]. Lo sport è la quintessenza intinta di bellezza di questo meccanismo. Ed è in questo che lo sport è diverso dal gioco”14.

Confrontarsi con «logiche differenti, sistemi di relazioni diversi e schemi collettivi altri, concernenti anche i contesti in cui si sviluppano e assumono senso le attitudini motorie» – sottolinea Allovio –, «permette di cogliere meglio le logiche e le epistemologie in cui ci troviamo e in relazione alle quali assistiamo storicamente all’affermarsi dello sport moderno»15.

Riflettendo su come si è evoluto lo sport in termini sempre più competitivi, mediatizzati e mondializzati allontanandosi dalla sfera del gioco, Descola ricorda come nei sistemi totalitari del Ventesimo secolo lo sport sia «stato considerato come un elemento di fierezza e di identificazione con degli eroi»16 e come, sin dagli anni Trenta, sia stato piegato alle ideologie nazionali o identitarie.

Quello che è cambiato, penso, da una ventina d’anni a questa parte – e non sono il solo a riscontrarlo –, è l’espansione, l’irruzione del capitale finanziario nello sport e il fatto che la selezione passi, in particolar modo per le grandi squadre di calcio, dal denaro e dalla capacità di attirare dei giocatori di eccezione. Lo sport così si ritrova in un certo senso spaccato a metà tra la pratica che ciascuno di noi può sperimentare all’interno di federazioni, grazie a un sistema che funziona relativamente bene, che è relativamente democratico, e poi una sorta di microsocietà d’élite nella quale questi stessi meccanismi, tutto d’un tratto, non funzionano più. A livello locale dei club sportivi, la maggior parte delle federazioni funziona bene ma, quando si giunge a quel livello in cui si gestiscono somme ingenti di denaro, i criteri, in particolare quelli morali, elementari, propri della vita civica, della vita comunitaria, scompaiono. È chiaro che le squadre finaliste, nel calcio, sono le squadre più ricche. La cosa va da sé17.

Descola si sofferma anche su come, in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato dal trionfo dell’individualismo e da un certo modello di competizione sportiva, lo stadio risulti, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, comunque uno dei pochi luoghi pubblici che permette agli individui di fuoriuscire dalla loro sfera privata e di socializzare, di passare «dal dominio di interesse a loro proprio, per proiettarsi verso un progetto comune che è quello della loro squadra di calcio» sancendo un momento di rottura «con l’attitudine del consumatore esclusivo»18. Alla luce dei rischi di identificazione identitaria costruita per contrapposizione – basti pesare a quanta nefasta retorica nazionalista si possa creare attorno a tali fenomeni con i media che, spesso, non si “limitano” a fare da grancassa –, nulla di cui compiacersi a cuor leggero, aggiunge l’antropologo, ma la frequentazione dello stadio resta una delle rare occasioni per uscire da se stessi.


Sport e dintorni


  1. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, p. 37. 

  2. Ulrike Prokop, Soziologie der Olympischen Spiele. Sport und Kapitalismus, 1971. Il saggio viene pubblicato in traduzione italiana alla vigilia dell’apertura delle Olimpiadi di Monaco con il titolo Olimpiadi dello spreco e dell’inganno, Guaraldi, Bologna, 1972. 

  3. Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 119-120. 

  4. Per una disamina di tale fenomeno si rimanda al saggio: Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica, cit. 

  5. Johan Huizinga, Homo ludens. Proeve eener bepaling van het spel-element der cultuur, H.D. Tjeenk Willink, Haarlem 1938; tr. it. Homo ludens, Einaudi, Milano, 2002. 

  6. Roger Caillois, Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1958, tr. it. I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Giunti, Firenze, 2017. 

  7. Alexander Lambrow, Prendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica, in Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 73-98. 

  8. Lars Kristensen, Ulf Wilhelmsson, Roger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies, in Matteo Bittanti, Reset, cit., pp. 79-133. 

  9. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 12. 

  10. Ivi, p. 13. 

  11. Ivi, p. 15. 

  12. Ivi., p. 20. 

  13. Ivi., p. 24. 

  14. Stefano Allovio, Prefazione a Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. XX. 

  15. Ivi, p. XXII. 

  16. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 50. 

  17. Ivi, pp. 50-51. 

  18. Ivi, p. 56. 

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Sport e dintorni – I migranti del pallone https://www.carmillaonline.com/2023/11/07/sport-e-dintorni-i-migranti-del-pallone/ Tue, 07 Nov 2023 21:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79810 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, Prefazione di Sergio Giuntini (Le Monnier, 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«Seguire le vicende dei calciatori stranieri approdati in Italia permette di ricostruire una storia della società e del costume nazionali e aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche» Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport

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Sin dalle origini, [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

[In occasione dell’uscita del volume di Alberto Molinari e Gioacchino Toni, I migranti del pallone. I Calciatori stranieri in Italia, Un secolo di storia, Prefazione di Sergio Giuntini (Le Monnier, 2023), si riporta un breve stralcio dell’Introduzione ringraziando l’editore per la gentile concessione]

«Seguire le vicende dei calciatori stranieri approdati in Italia permette di ricostruire una storia della società e del costume nazionali e aiuta a capire meglio il calcio, le sue tendenze e contraddizioni storiche» Sergio Giuntini, Presidente della Società Italiana di Storia dello Sport

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Sin dalle origini, la storia del calcio è stata caratterizzata dalla mobilità dei giocatori. I migranti del pallone sono oggi presenti in tutti i campionati professionistici del mondo. […] Nel caso italiano, alla fine dell’Ottocento una pattuglia di svizzeri e inglesi giunti a vario titolo nella penisola – come imprenditori, rappresentanti di compagnie commerciali e di navigazione, ingegneri, tecnici – diede un contributo decisivo alla nascita del football in Italia. Quasi un secolo e mezzo dopo, l’Italia era il secondo paese scelto come meta professionale dai calciatori espatriati.

Tra questi estremi, si dipana una storia nella quale i giocatori stranieri hanno avuto una parte importante nel calcio italiano, non solo dal punto di vista strettamente sportivo. La loro presenza in Italia ha suscitato passioni contrastanti e alimentato polemiche politiche; ha condizionato gli equilibri economici del mondo del pallone e dato vita a contese giuridiche; ha rappresentato talvolta una cartina di tornasole degli atteggiamenti delle istituzioni e dell’opinione pubblica nei confronti degli stranieri in generale.

Le vicende di questi atleti, come singoli o come gruppi legati dalla provenienza geografica, si sono configurate come un racconto polifonico di grande interesse nel quadro della storia dello sport e dei suoi intrecci con la società italiana e la dimensione internazionale.

Gli studi storici sul calcio italiano hanno trattato il tema in modo sporadico, all’interno di ricostruzioni complessive della storia del gioco. In campo internazionale, le prime ricerche dedicate alle migrazioni degli sportivi risalgono agli anni Novanta del secolo scorso e si sono articolate successivamente in varie direzioni attraverso indagini sociologiche e ricostruzioni storiche.

Gli studi sociali hanno messo in luce le relazioni tra fenomeni migratori e globalizzazione, hanno elaborato tipologie dei migranti sportivi e sviluppato modelli esplicativi dei flussi dalla “periferia” ai centri principali del calcio mondiale.

Gli studi di carattere storico, meno numerosi, hanno sottolineato tra l’altro la necessità di collocare le migrazioni dei calciatori, come degli altri sportivi, nell’ambito dei processi migratori generali, suggerendo di applicare al caso dello sport le categorie interpretative utilizzate nell’approccio storico alla mobilità internazionale del lavoro.

Particolarmente interessanti risultano le chiavi interpretative e le indicazioni metodologiche proposte da Pierre Lanfranchi e Matthew Taylor che nei loro contributi hanno studiato il quadro complessivo della mobilità internazionale dei calciatori e analizzato alcuni casi specifici. Altri interventi su segmenti particolari dell’emigrazione calcistica hanno arricchito da vari punti di vista la conoscenza storica del fenomeno.

In una prospettiva storica si colloca anche questa ricerca, articolata in un arco cronologico compreso tra il calcio delle origini e gli effetti della “sentenza Bosman” del 1995 che liberalizzò i trasferimenti dei calciatori nell’Unione europea.

La ricostruzione ripercorre le vicende delle migrazioni calcistiche verso l’Italia sul versante sportivo e nei loro risvolti sociali, politici, economici, culturali, di costume, delineando le traiettorie geografiche dei flussi migratori e i profili delle più significative figure del calcio straniero in Italia, dai grandi protagonisti a personaggi minori, le cui storie esemplificano le vicissitudini professionali dei migranti del pallone.

La ricerca si concentra su diversi aspetti del fenomeno, come i fattori economici di spinta e di attrazione che hanno portato i giocatori alla scelta di emigrare, uniti ad altre cause di natura culturale, sociale, politica, geografica; le variabili sportive ed extrasportive che hanno condizionato le aperture e le chiusure delle frontiere calcistiche e il dibattito politico-sportivo che ha accompagnato questi passaggi; le reazioni nei paesi di partenza e le ricadute delle migrazioni sul calcio italiano; le modalità di integrazione dei nuovi arrivati nella realtà locale; le rappresentazioni del calciatore straniero e gli atteggiamenti nei suoi confronti, tra fascinazione per un modello esotico e pulsioni xenofobe e razziste.

[…]

La ricerca si è basata su numerose fonti a stampa (testate sportive, d’opinione e politiche) e su documenti di archivio; in particolare, per gli anni Cinquanta e Sessanta, sono state utilizzate diverse carte conservate a Roma presso l’Archivio nazionale del CONI.

Nella ricostruzione si è cercato di dare conto nel modo più ampio possibile della presenza dei giocatori stranieri in Italia per restituire la complessità e le articolazioni delle traiettorie seguite dai flussi migratori, senza una pretesa di completezza che esula dalle finalità di questo lavoro.

Dato l’elevato numero di atleti arrivati in Italia, è stato necessario operare una selezione. Sono stati presi in considerazione i calciatori più rappresentativi e di maggiore valore tecnico, quelli che costituiscono casi interessanti per diversi risvolti delle loro vicende (sportivi, sociali, politici, di ambientamento, di costume) e altri che esemplificano efficacemente le dinamiche e le caratteristiche del mercato calcistico italiano nei suoi rapporti con i paesi europei ed extraeuropei.


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Sport e dintorni – La storia di Major Taylor, il primo ciclista di colore tra trionfi e razzismo https://www.carmillaonline.com/2022/06/03/sport-e-dintorni-la-storia-di-major-taylor-il-primo-ciclista-di-colore-tra-trionfi-e-razzismo/ Fri, 03 Jun 2022 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72087 di Gioacchino Toni

In occasione dell’uscita del libro di Alberto Molinari, Major Taylor. Il negro volante. La storia del primo ciclista di colore, tra sport e razzismo (Ediciclo Editore, 2022), vale la pena rivolgere alcune domande all’autore del volume che narra una vicenda che, come scrive Stefano Pivato nella prefazione al volume, ci ricorda come lo sport si sia trovato a fare i conti con il razzismo ben da prima dei celebri pugni al cielo di Carlos e Smith a Città del Messico ’68, delle imprese di Muhammad Ali e persino dei giochi [...]]]> di Gioacchino Toni

In occasione dell’uscita del libro di Alberto Molinari, Major Taylor. Il negro volante. La storia del primo ciclista di colore, tra sport e razzismo (Ediciclo Editore, 2022), vale la pena rivolgere alcune domande all’autore del volume che narra una vicenda che, come scrive Stefano Pivato nella prefazione al volume, ci ricorda come lo sport si sia trovato a fare i conti con il razzismo ben da prima dei celebri pugni al cielo di Carlos e Smith a Città del Messico ’68, delle imprese di Muhammad Ali e persino dei giochi olimpici berlinesi del 1936 di Jesse Owens; occorre infatti risalire sino agli albori del ciclismo, a fine Ottocento, «dalle parti di Indianapolis pochi anni dopo la fine della Guerra civile».

È infatti da quelle parti, da genitori figli di schiavi, che nasce Marshall “Major” Taylor, il primo atleta di colore nella storia del ciclismo costretto a gareggiare tra «pregiudizi, invidie e tanto coraggio» in uno sport all’epoca contraddistinto da uno sforzo fisico portato davvero all’estremo, come nel caso delle massacranti “sei giorni” o delle prove votate all’esasperata ricerca dei record di velocità.

Passato, nonostante l’ostilità dell’ambiente ciclistico statunitense, al professionismo all’età di 18 anni specializzandosi nelle corse di velocità su pista – all’epoca preferite dagli organizzatori alle competizioni su strada in quanto più redditizie  –, il giovane afroamericano si impone sin da subito sui migliori velocisti del circuito statunitense nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento.

Accolto dalla stampa dell’epoca come “diamante negro”, “meteora negra”, “il negro volante”, Taylor si è sudato i successi sulle piste facendo i conti con l’invidia degli atleti bianchi – che arriveranno a coalizzarsi contro di lui per comprometterne la carriera – e i pregiudizi razziali di una società che se da un lato era affascinata dalle sue prodezze sportive, dall’altro davvero non riusciva a sopportare che un negro rifilasse sonore sconfitte ai corridori di pelle chiara, tanto da negargli, in diversi casi, soprattutto negli stati del sud, persino il semplice pernottamento in hotel.

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Conversazione con Alberto Molinari

Partirei dal contesto che fa da sfondo alle vicende narrate, che è quello degli Stati Uniti usciti dalle sanguinosa guerra civile in cui nel sud del paese la legislazione nazionale che avrebbe dovuto garantire i diritti civili fondamentali agli afroamericani viene presto aggirata da leggi locali indirizzate, nei fatti, alla segregazione razziale. Un contesto, è bene ricordare, in cui nel solo periodo compreso tra gli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento si contano oltre 2500 linciaggi ad opera del Ku Klux Klan. Nel libro spieghi come progressivamente la Color line faccia la sua comparsa anche nello sport, ti chiedo di fare qualche esempio delle ricadute del razzismo nell’ambito sportivo statunitense del periodo.

Dopo la guerra civile gli afroamericani erano presenti sulla scena dello sport in diverse discipline, talvolta in una posizione di primo piano, come nel caso dell’ippica e della boxe. Anche negli sport di squadra emersero alcune figure che provenivano dalla comunità afroamericana. Verso la fine dell’Ottocento la Color line entrò progressivamente nello sport. Gli atleti afroamericani vennero banditi dal baseball e in seguito il processo di esclusione, formale o informale, coinvolse tutti gli sport organizzati. Nel 1894 la League of American Wheelmen, l’associazione che controllava il circuito ciclistico americano, introdusse una norma che consentiva l’iscrizione solo ai bianchi. Nella boxe è emblematica la vicenda del peso massimo Jack Johnson. Nel 1910 Jackson sfidò il campione bianco James Jeffries sconfiggendolo nettamente. La sua vittoria contro la “grande speranza bianca”, così era stato definito Jeffries, fece esplodere tumulti razziali in diverse aree dell’America. I bianchi consideravano un affronto la vittoria di un nero, mentre per la comunità afroamericana Jackson era diventato un idolo. Tre anni dopo, con un pretesto, Jackson venne processato e condannato per avere violato una legge contro la prostituzione. Evitò il carcere fuggendo all’estero, ma la persecuzione che aveva subito gli impedì di continuare la sua carriera ad alti livelli.

Oltre alle pratiche di discriminazione, quali erano le rappresentazioni dell’atleta di colore che alimentavano il razzismo nello sport americano?

Il dispositivo razzista si fondava su un duplice processo di inferiorizzazione degli atleti afroamericani. Da una parte, erano diffusi gli stereotipi razzisti sulla loro natura considerata primitiva e selvaggia. I neri erano connotati in termini di pura fisicità, forza senza intelligenza, erano considerati pigri, indolenti e indisciplinati, quindi inadatti agli sport di squadra che richiedevano cooperazione, capacità tattiche e ruoli di regia del gioco. Il secondo dispositivo era basato sulla “naturalizzazione” della superiorità degli afroamericani negli sport di velocità, secondo lo stereotipo del “super-atleta nero”: i neri non vincevano come i bianchi per i loro meriti, per l’impegno, la preparazione, la motivazione, l’intelligenza nella gestione delle gare, ma grazie a presunti fattori innati di carattere biologico. Taylor fu il primo atleta di colore ad essere sottoposto ad una serie di indagini mediche alla ricerca di un motivo “razziale” delle sue vittorie. Negli anni Trenta per spiegare i successi di Jesse Owens furono costruite teorie pseudoscientifiche desunte da analisi anatomiche e misurazioni antropometriche. Ma ancora alla fine degli anni Settanta, dopo le vittorie di Smith e Carlos a Città del Messico, argomenti del genere circolarono negli ambienti sportivi e sulla stampa specializzata statunitense. E ancora oggi questi stereotipi a volte riaffiorano.

Nonostante la palese ostilità mostrata nei confronti di Taylor da parte dei ciclisti bianchi e diverse istituzioni sportive, e nonostante il razzismo diffuso nella società statunitense dell’epoca, dal tuo racconto emerge come il campione afroamericano fosse tra i pochi ciclisti ricercati dalle industrie del settore per reclamizzare i loro prodotti alle fiere e come tra giornalisti e pubblico convivessero atteggiamenti di attrazione per le performance del ciclista nero e ostilità pregiudiziali nei suoi confronti. Mi sembra per certi versi fare capolino quell’ipocrita atteggiamento mirabilmente denunciato da Carlos e Smith alle Olimpiadi di Città del Messico ’68: “Siamo una specie di cavalli da concorso per bianchi. Ci danno noccioline una pacca sulle spalle e ci dicono bravo ragazzo, sei andato bene”, “Non vogliamo più essere cani da corsa”. Cosa ne pensi?

Taylor fu più volte emarginato o escluso dai circuiti ciclistici ufficiali gestiti dai bianchi. Riuscì poi faticosamente ad essere riammesso anche perché, essendo un grande campione, la sua apparizione sulle piste attirava il pubblico, creava aspettative e interesse, alimentava il giro di affari delle corse, faceva aumentare le tirature dei giornali sportivi. Perciò, più per calcolo che per ragioni di principio, gli imprenditori del ciclismo lo accolsero nel circuito. Si trattava certamente di un atteggiamento ipocrita analogo a quello denunciato molti anni dopo da Smith e Carlos. A differenza di Taylor però i due velocisti afroamericani gareggiavano per gli Stati Uniti alle Olimpiadi. Il loro messaggio era: non vogliamo più essere strumentalizzati da un sistema che discrimina la maggior parte dei giovani neri anche nello sport mentre sostiene i campioni di colore finché arricchiscono il medagliere olimpico statunitense per poi abbandonarli a se stessi quando non sono più competitivi.

A fine Ottocento le gesta sportive di Taylor esercitavano un grande fascino in Europa, soprattutto in Francia – ove i giornali sportivi l’avevano celebrato come le nègre volant –, all’epoca probabilmente il paese meglio organizzato nelle competizioni ciclistiche e con il maggior numero di appassionati. In apertura del nuovo secolo, superate le problematiche religiose che gli imponevano di correre di domenica, il campione statunitense venne dunque convinto a prendere parte a un tour europeo. Come venne accolto in Europa e, a tuo avviso, con che sguardo il pubblico europeo guardava al campione dalla pelle scura?

Gli organizzatori europei invitarono più volte Taylor a venire in Europa proponendogli contratti molto allettanti ma, come dici, rifiutò perché la sua fede battista gli impediva di correre nel giorno del riposo. Per convincerlo, furono costretti a definire un calendario di corse che escludeva la domenica. Nelle città europee da tempo si attendeva l’arrivo di un ciclista di cui si conoscevano le gesta tramite la stampa che aveva alimentato le aspettative del pubblico descrivendo le sue imprese sportive, gli ostacoli che aveva dovuto superare, il carattere, le doti atletiche, la vita privata, la fede religiosa, le passioni personali come la musica e così via. “Le Vélo”, la principale testata ciclistica francese, presentò Taylor come «l’uomo dalla pelle scura, figlio della vecchia Africa e della giovane America, il campione del mondo, l’eroico difensore del Sabbath». Il tono dei commenti era spesso improntato all’esotismo. Un giornalista parigino scriveva che l’immagine di Taylor risultava affascinante perché era avvolta da un alone di «mistero dovuto al colore della sua pelle». In Europa all’epoca non c’erano però motivi per avversare Taylor dal punto di vista razziale. Anche in Italia l’accoglienza fu molto calorosa. Insomma, i tour all’estero gli garantirono non solo successi sportivi e ritorni economi, ma anche la possibilità di vivere un’esperienza senza discriminazioni razziali. Basti pensare che quando nel 1902 arrivò in Australia nel porto di Sidney fu accolto da una flotta di imbarcazioni e dal sindaco della città.


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Sport e dintorni – Calci e sputi e colpi di testa… e non è detto che vinca il migliore https://www.carmillaonline.com/2022/02/19/sport-e-dintorni-calci-e-sputi-e-colpi-di-testa-e-non-e-detto-che-vinca-il-migliore/ Sat, 19 Feb 2022 21:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70591 di Gioacchino Toni

Paolo Sollier, Calci e sputi e colpi di testa, Prefazione di Renzo Ulivieri, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 130, € 12.00

«Jürgen Klopp: “Non voterei mai un partito che promettesse di abbassare le tasse ai più ricchi”. Io sono per Klopp. “Chi è l’Italiano che stima di più, Mazzola o Rivera?” Socrates risponde: “Non li conosco. Sono qui per leggere Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio.” Io ero per Socrates e la democracia corinthiana. “Vogliamo che a fare politica siano tutti in prima persona” diceva Paolo [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo Sollier, Calci e sputi e colpi di testa, Prefazione di Renzo Ulivieri, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 130, € 12.00

«Jürgen Klopp: “Non voterei mai un partito che promettesse di abbassare le tasse ai più ricchi”. Io sono per Klopp. “Chi è l’Italiano che stima di più, Mazzola o Rivera?” Socrates risponde: “Non li conosco. Sono qui per leggere Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio.” Io ero per Socrates e la democracia corinthiana. “Vogliamo che a fare politica siano tutti in prima persona” diceva Paolo Sollier. Io ero per Sollier». Così si apre la prefazione stesa da Renzo Ulivieri alla nuova edizione del volume di Paolo Sollier uscito originariamente nel lontano 1976 e ora tornato nelle librerie grazie a Mimesis.

Calciatore, allenatore, scrittore e militante di sinistra, Paolo Sollier ha fatto parte del Perugia che a metà degli anni Settanta ha conquistato la sua prima promozione in Serie A. I tacchetti delle sue scarpette hanno calpestato i campi da gioco, quando ancora erano esclusivamente di terra ed erba naturali, soltanto una ventina di volte nella massima serie, mentre in oltre un centinaio di casi lo hanno fatto in Serie B. Pur non avendo conseguito risultati sportivi eclatanti nel corso degli anni Settanta Sollier ha ottenuto una certa celebrità. Quest’ultima, anziché derivare da funamboliche imprese da campione, gli è “piovuta addosso”, senza averla cercata.

È possibile diventare famosi senza fare niente per diventarlo? Pare di sì. Sto diventando famoso perché, udite udite, mi “occupo di politica”. Non dico fare il militante a sangue pieno o il capopopolo, no: solo “si occupa” o “si intende” di politica. Poi perché d’estate vado nei campi di lavoro. Poi perché vivevo in una comune. Poi perché “alza il pugno in campo”. Insomma, da quell’oscuro pedalatore senza pretese che ero sono diventato “il calciatore ultrarosso”, “il compagno centravanti”, “il pugno sinistro (chiuso) di Dio”. Come regolarsi? Tirare avanti e basta è la prima risposta. Migliaia di persone fanno politica, vanno nei campi di lavoro e vivono nelle comuni. Se c’è stupore perché un calciatore fa queste cose è perché il mondo del calcio è in ritardo rispetto al mondo reale. Mondo del calcio vuol dire anche i giornalisti che scoprono il giocatore comunista e lo mettono in una gabbia di righe: toh, guardate il fenomeno, e dopo averlo guardato state tranquilli, gli altri giocatori non sono come lui. Sono su tutti i giornali, per dritto e di traverso. Cosa ne faccio di questa fama? L’unica è usarla per dire quelle quattro cose che ho in testa, di sport, di politica, di vita alternativa. Mica voglio fare il profeta o il professorino; semplicemente sono uno dei pochi, tra quelli che la pensano come me, ad avere accesso a tutto, anche ai giornaletti di carta igienica. Dunque cercherò di usare questo spazio per rompere un po’ le scatole (pp. 39-40).

Ciò che davvero il mondo del pallone, e dello sport in generale, non sopportava e, tutto sommato, ancora non sopporta, è che un atleta non si limitasse ad intrattenitore le folle con le sue performance agonistiche ma pretendesse addirittura di pensare ed esprimersi anche su questioni che esulavano dalla gabbia dorata entro cui doveva restare confinato.

Non si sopportava che sul finire degli anni Sessanta grandi eroi dello sport come Muhammad Ali, Tommie Smith e John Carlos affiancassero alle loro imprese agonistiche prese di parola critiche sulle guerre imperialiste o sul razzismo imperversante nella società e nelle istituzioni, non di meno si poteva mandare giù che un onesto calciatore di una formazione di periferia a metà anni Settanta rivendicasse anche sui campi da calcio la sua militanza politica e non la smettesse di denunciare le mille contraddizioni che toccavano, eccome, anche il mondo dello sport e gli esseri umani che ne facevano parte.

Con Calci e sputi e colpi di testa Sollier intendeva scrivere dei sogni, delle sofferenze, delle contraddizioni che un uomo come lui viveva entro un mondo che non accettava di essere criticato nel timore che il giocattolo potesse rompersi. Scrive Renzo Ulivieri nella prefazione che accompagna il ritorno del volume nelle librerie:

[Sollier] ha preso la penna e si è messo a scrivere con un lessico volutamente poco forbito per contrapporsi al linguaggio raffinato e salottiero dello scrittore borghese, con l’intento di consumare una sorta di rivincita dei proletari che, con meno parole, perché a loro non è consentito l’accesso alla cultura, riescono a esprimere idee di più alto valore morale, umano e politico. Una sfida alla cultura borghese, oltre che nella sostanza anche nella forma, perché il lessico usato viene dalla strada, dalla fabbrica o da un campo da calcio: comunque un lessico proletario (pp. 7-8).

Le riflessioni e le vicende raccontate dal libro vanno inserite nell’ambito della conflittualità che caratterizzava il periodo sin dalla fine degli anni Sessanta, quando anche nello sport si palesarono contraddizioni che ne mettevano in discussione la sua presunta neutralità e separatezza. Se in un primo momento in Italia le strutture organizzate della sinistra più radicale sostanzialmente si mostrano disinteressate alle questioni sportive, successivamente tentarono di intervenire su tale ambito, soprattutto in occasione di eventi internazionali, senza però riuscire a strutturare riflessioni importanti circa le contraddizioni che attraversano l’universo sportivo.

È probabilmente sull’onda delle mobilitazioni contro la partecipazione della squadra italiana di tennis alla finale della Coppa Davis prevista a Santiago nel 1976 contro il Cile in balia del regime di Pinochet che anche i gruppi della sinistra più radicale si trovarono quasi costretti a fare i conti con l’universo sportivo. Testate come «Il Manifesto», «Lotta continua» e «Il Quotidiano dei lavoratori» diedero conto della vicenda appoggiando il movimento di protesta contro la partecipazione italiana all’evento.

Avanguardia operaia dedicò sulle pagine del suo «Il Quotidiano dei lavoratori» un certo spazio alle tematiche sportive, e proprio a tale formazione politica aderiva Sollier, che nell’ottobre del 1976 si azzardò a fare quello che un calciatore evidentemente non doveva: pubblicare un suo libro autobiografico di denuncia delle deformazioni, delle ipocrisie e delle chiusure mentali del mondo del pallone con l’esplicita volontà di rompere quell’isolamento in cui era mantenuto rispetto alle piccole e grandi questioni che attraversavano il resto della società dell’epoca. All’uscita del libro, edito dall’editore milanese Gammalibri, Sollier venne prontamente deferito alla Commissione disciplinare della Lega nazionale calcio “per avere espresso pubblicamente in un libro da lui scritto affermazioni e giudizi lesivi della reputazione di altri tesserati”. Non erano tollerabili punti di vista critici dall’interno del sistema calcistico.

In risposta al deferimento «Lotta continua» mise in evidenza come Sollier fosse balzato agli onori delle cronache non per la sua attività di calciatore ma per il suo occuparsi di politica, per la sua ostinazione a non vivere di solo pallone. Al libro di Sollier, riconosceva il quotidiano, spettava il merito di aver provato a forzare il ghetto entro cui era costretto il calciatore: Sollier, al pari di altri militanti dell’epoca, si poneva il problema di cosa significasse essere rivoluzionari, del “personale è politico” e della sessualità.

Sulle pagine de «Il Quotidiano dei lavoratori», il collettivo editoriale della Casa Editrice Gammalibri bollò il deferimento come “un provvedimento manifestamente incostituzionale e fascista, tendente a dare continuità a uno stato di cose che vede il calciatore come oggetto muscoloso tacitato a colpi di milioni, di fatto utilizzato dal sistema non in senso ricreativo e di diffusione della pratica sportiva, ma quale ‘valvola di scarico’ di conflitti e di contraddizioni sociali e quale diversivo rispetto alla situazione sociale e politica”.

Nel libro Sollier racconta sì di politica, di amori, di partite e di ritiri ma sopratutto racconta la sua storia di essere umano.

All’inizio della mia canescioltaggine, un anno e passa fa, facevo un pensiero al PCI; ma era probabilmente la ricerca di un rifugio, la cosa più facile e comoda da fare. Mi dava l’idea di entrare in un carro armato (senza sottintesi) e al confronto gli extrasinistri erano biciclette col carrettino. Nel PCI tutto è sicuro, hai la linea e la controlinea, i fianchi e il culo coperti, tutto pronto tutto organizzato. Solo che anche gli occhi sono coperti. Insomma il PCI sta sempre peggio e sempre meno risponde alla voglia e alla necessità di lotta; continua a farsi forza della sua tradizione storica, e su quella tanto di cappello, ma con questo lenzuolo di dura tela antifascista, giorno per giorno cucita a morti e a fucilate, con questo lenzuolo per quanto crede di coprire le puttanate di oggi? Il vecchio buon Partito è diventato posato, domestico; fa tutto secondo le regole (borghesi), rispetta i vicini; e sotto sotto fa compromessi e frena. Ingrossa, certo che ingrossa, apre le porte a tutti. Non ho mai visto tanti padroni comunisti come adesso, e scusa la contraddizione. Ma il conto è facile: se sei di sinistra, magari con la giunta rossa, ti ritrovi tanta pace in fabbrica. Vuoi che i lavoratori lottino contro il compagno imprenditore? Non sia mai, niente paura, ci pensa il Sindacato. Perciò riprendo il mio posto in Avanguardia Operaia. Lì troverò anche gli amici. Del resto se non li trovo in mezzo ai compagni dove li trovo? Posizione opportunistica, dice qualcuno. Certo. Ma tra i compiti di un’organizzazione politica c’è anche quello di garantire un ambiente ai propri militanti. Né più né meno (pp. 28-29).

Nel suo racconto Sollier ha il merito di individuare nelle piccole cose, apparentemente banali, le grandi contraddizioni.

Questa degli autografi è davvero una mania pericolosa, proprio perché è considerata una stupidata. È uno dei primi passaggi per accettare le cose come stanno. Il mondo è composto da persone importanti e non importanti. Quelle importanti vanno idolatrate e messe un gradino più in alto. Ed è dovere dei non importanti andare a caccia di quelli importanti e tornarsene con un ricordo […] Questi scarabocchi di fretta sono un esempio di una delle regole di questo sistema: dare valore a cose che non ne hanno alcuno. E per farlo bisogna creare tutta una serie di falsi desideri per falsi bisogni: questo è il più stupido, ma non c’è niente di diverso dalla voglia dell’automobile più bella o dell’abbigliamento più elegante. È un’ideologia che ti bombardano addosso appena nato fino a morto, per magari farti desiderare un funerale di prima classe. Per forza un bambino che viene a chiederti la firma, se rifiuti ti fa la faccia scura. Si sente defraudato di qualcosa di prezioso; gli hanno insegnato che vale chissà cosa. Il non farli mi ha procurato infinite critiche e maledizioni. Dicono che è un fregarsene dei tifosi, prenderli per il culo, darsi arie. Tutto il contrario. Perché è molto più facile fare una firma che fermarsi a spiegare, discutere (p. 32).

Con note di malinconia, Ulivieri scrive nella sua prefazione che il libro di Sollier racconta di un

tempo in cui si gioca con un portiere “murato in porta”, un libero staccato di venti metri che non pone quindi il problema della Var per scovare millimetrici fuorigioco, due marcatori a uomo, un terzino fluidificante, un mediano incontrista, un regista di centrocampo, un rifinitore in zona più avanzata, un ala tornante e due punte: catenaccio e contropiede, giocare la palla in avanti senza tanti fronzoli, evitare di passare la palla al portiere perché viene giù lo stadio dai fischi. È un calcio che non c’è più, semplice, forse più umano. Un calcio, come diceva Socrates, “che si concede il lusso di far vincere il peggiore: non c’è niente di più marxista o gramsciano del calcio” (pp. 8-9).


Sport e dintorni

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Sport e dintorni – Giochi diplomatici https://www.carmillaonline.com/2020/10/26/sport-e-dintorni-giochi-diplomatici/ Mon, 26 Oct 2020 22:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63220 di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Nicola Sbetti, Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra, Fondazione Benetton Studi Ricerche/Viella, Treviso-Roma, 2020, pp. 464, € 30,00

Gli studi storici sullo sport hanno conosciuto in Italia negli ultimi anni un significativo sviluppo. Anche se permangono resistenze rispetto ad una piena legittimazione della disciplina in ambito storiografico, la quantità e la qualità dei contributi testimoniano il consolidamento e la validità di un approccio ai fenomeni politici e sociali attraverso lo sport. A conferma di questa tendenza, il saggio di Nicola Sbetti – storico [...]]]> di Alberto Molinari e Gioacchino Toni

Nicola Sbetti, Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra, Fondazione Benetton Studi Ricerche/Viella, Treviso-Roma, 2020, pp. 464, € 30,00

Gli studi storici sullo sport hanno conosciuto in Italia negli ultimi anni un significativo sviluppo. Anche se permangono resistenze rispetto ad una piena legittimazione della disciplina in ambito storiografico, la quantità e la qualità dei contributi testimoniano il consolidamento e la validità di un approccio ai fenomeni politici e sociali attraverso lo sport.
A conferma di questa tendenza, il saggio di Nicola Sbetti – storico dello sport e docente presso l’Università di Bologna – si segnala per la profondità della ricostruzione storica e la ricchezza di spunti interpretativi. Attraverso numerose fonti a stampa e intrecciando carte di vari archivi politici e sportivi (tra gli altri, del Ministero degli Affari Esteri, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del CONI e del Comitato Internazionale Olimpico), l’autore analizza il rapporto tra sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra.

Il testo si concentra inizialmente sul ruolo degli attori del sistema sportivo italiano e internazionale nel decennio 1943-1945 e propone poi diversi casi di studio e percorsi cronologici che si snodano dall’immediato dopoguerra fino alle Olimpiadi di Roma del 1960.
In questo quadro, vengono affrontate trasversalmente questioni che rappresentano altrettanti nodi problematici di carattere storiografico: l’influenza delle relazioni nel campo internazionale sullo sviluppo dell’attività internazionale dello sport italiano; i motivi che consentirono all’Italia di evitare, almeno parzialmente, la “quarantena olimpica” che subirono invece la Germania e il Giappone; il ruolo dei governi repubblicani nell’utilizzo dello sport come strumento di politica estera o nella delega di questo settore alle istituzioni sportive; l’allineamento della “politica estera sportiva” alla diplomazia tradizionale.
Nel complesso, il saggio di Sbetti dimostra ancora una volta le potenzialità euristiche di un’analisi dei fenomeni storici attraverso la lente dello sport e ha il merito di affrontare in modo organico il tema dello sport come chiave di lettura delle relazioni internazionali, arricchendo un filone di studi fino ad ora poco trattato che merita di essere approfondito ed esteso al di là dell’arco temporale di Giochi diplomatici.

Per segnare le distanze dal ventennio fascista, quando lo sport era stato asservito al regime, dopo la guerra la politica italiana trascurò la dimensione sportiva. L’organismo centrale rimase il CONI – guidato da Giulio Onesti – che scelse di autorappresentarsi attraverso il motto “lo sport agli sportivi”. Questa formula venne assunta anche dai governi repubblicani che rinunciarono a sviluppare un’organica strategia di politica estera sportiva, delegando questo compito agli attori istituzional-sportivi.
La pretesa di indipendenza dello sport nei confronti della politica non era peraltro assoluta: «Da un lato si desiderava che i politici non entrassero nel merito delle decisioni prese dalle istituzioni sportive, dall’altro esse cercavano il pieno supporto del governo per le loro iniziative».

Parallelamente agli sforzi della diplomazia italiana per tentare di ammorbidire le clausole di un trattato di pace punitivo, la principale preoccupazione della “diplomazia sportiva” fu il rientro dello sport italiano nel consesso internazionale.
Nell’immediato dopoguerra la “volontà punitiva” della Federazioni sportive internazionali, perlopiù implicita, determinò una «silenziosa esclusione»: come notava Onesti l’Italia sportiva, considerata un «Paese nemico o – nella più favorevole delle ipotesi – Paese ex nemico», si trovava in una «posizione difficilissima».
Diverso fu l’atteggiamento del Comitato Olimpico Internazionale. Richiamandosi all’universalismo e all’apoliticità della dimensione sportiva il CIO, a partire dal suo presidente, lo svedese Sigfrid Edström, assunse un atteggiamento conciliativo nei confronti dell’Italia, preludio al riconoscimento del CONI e alla partecipazione italiana alle Olimpiadi di Londra del 1948.
Progressivamente ripresero anche le relazioni bilaterali con le Federazioni sportive internazionali, favorite dalla risoluzione delle tensioni politiche e dalla ripresa delle relazioni economiche con diversi paesi europei.

Rispetto alla strumentalizzazione fascista delle imprese sportive in funzione propagandistica, nel contesto repubblicano del dopoguerra cambiò radicalmente anche l’immagine degli atleti italiani: «Essi non erano più dei militi in camicia nera ma degli sportivi liberi. Continuavano a rappresentare il proprio Paese all’estero ma più come ambasciatori di pace che non come soldati di un regime con ambizioni totalitarie».
Le vittorie di Coppi e Bartali, i record di Consolini o il gioco espresso dal Grande Torino contribuirono a promuovere all’estero «una nuova, positiva e non più aggressiva immagine dell’Italia», al punto da avvalorare l’ipotesi avanzata da Onesti secondo il quale proprio lo sport, «la più sottovalutata fra le forme della diplomazia culturale», si rivelò nel secondo dopoguerra come «la più efficace».

Agendo come un “Ministero degli Esteri dello Sport”, il CONI realizzò una diplomazia sportiva nel complesso autonoma. Nonostante la «sostanziale delega della “politica estera sportiva”», le istituzioni politiche non fecero comunque mancare «il loro supporto in caso di bisogno» e «a partire dagli anni Cinquanta, pur in maniera disorganica e continuando a delegare al CONI il ruolo di indirizzo, cominciarono a rivolgere maggiore attenzione allo sport». Sbetti sottolinea in particolare la centralità dell’asse CONI-Presidenza del Consiglio dei Ministri, sul quale «si instaurò una proficua linea di comunicazione – inizialmente formale e poi, con il nascere dell’amicizia fra Onesti e Andreotti, sempre più informale – che permise di dirimere in maniera efficace diverse questioni politiche che andavano oltre alla mera diplomazia sportiva».

Alcuni casi di studio proposti da Sbetti riguardano l’azione del governo e della diplomazia italiana rispetto alle “crisi sportive”, come quella occorsa durante il Tour de France del 1950 quando Gino Bartali, dopo avere vinto l’undicesima tappa, annunciò l’intenzione di ritirarsi dalla corsa a seguito delle violenze fisiche e verbali subite da lui e dai suoi compagni in particolare durante la salita dell’Aspin.
Attraverso lo spoglio dei quotidiani italiani e francesi del tempo e le fonti rintracciabili negli archivi diplomatici del Ministero degli Esteri, l’autore ricostruisce le cause che portarono la squadra italiana a ritirarsi dalla competizione, allargando lo sguardo alle tensioni sociali che si erano create fra Italia e Francia negli anni precedenti. Sbetti evidenzia il ruolo svolto dalle diplomazie per scongiurare un crisi che rischiava di andare oltre l’ambito sportivo minando la ripresa delle relazioni tra i due paesi dopo il secondo conflitto mondiale, alla quale aveva contribuito lo sport come testimone del reciproco riconoscimento diplomatico.
In questo come in altri casi, lo sport appare come «un Giano bifronte» – scrive Sbetti – «in quanto può essere un fattore di riavvicinamento e di pacificazione, ma allo stesso tempo può fungere da agente divisivo contribuendo ad accrescere tensioni preesistenti».

La funzione dello sport come “continuazione della politica con altri mezzi” risultò evidente nel clima della guerra fredda.
Lo spazio dello sport divenne una delle innumerevoli arene in cui fu “pacificamente combattuta” la guerra fredda. Le competizioni sportive furono ampiamente utilizzate da entrambe le superpotenze: attraverso le vittorie e le medaglie tanto gli USA quanto l’URSS, insieme ai Paesi che rientravano nelle rispettive aree di influenza, potevano dimostrare il valore e la vitalità non solo dei propri atleti, ma anche del loro modello politico e socio-economico e del loro stile di vita.
La guerra fredda ebbe rilevanti ripercussioni anche sulla dimensione sportiva italiana. L’adesione alla NATO consentì all’Italia di acquisire maggiore autorevolezza nell’arena diplomatico-sportiva internazionale, mentre si raffreddarono le relazioni con i Paesi dell’area danubiana, tradizionalmente legati al mondo sportivo italiano, come l’Ungheria e la Cecoslovacchia entrate nell’orbita comunista. La barriera della “cortina di ferro” in ambito sportivo venne attraversata dall’ UISP – l’organizzazione collaterale ai partiti di sinistra – che, in linea con la diplomazia del Partito comunista, cercò di tessere una rete di rapporti oltrecortina, fortemente osteggiata dalle istituzioni sportive ufficiali e dal governo.
Nel contesto della guerra fredda l’attenzione della politica estera italiana si concentrò in particolare sul confine orientale e sul destino di Trieste. Sbetti propone un’interessante ricostruzione di questa complessa vicenda nei suoi risvolti politico-sportivi, dal passaggio del Giro d’Italia a Trieste nel 1946, al salvataggio in serie A della Triestina e al valore simbolico assunto dagli atleti e dalle squadre giuliane, fino alla ripresa delle relazioni sportive italo-Jugoslave.

La ritrovata legittimità sul piano sportivo consentì all’Italia di presentare con successo la propria candidatura per le Olimpiadi invernali di Cortina 1956 e di orientare poi la strategia del CONI verso il grande obiettivo dei Giochi olimpici estivi, realizzato a Roma nel 1960. La “diplomazia sportiva” «interpretò la candidatura ai Giochi del 1960 come “una battaglia intrapresa dallo sport italiano” che andava perseguita “con ogni mezzo morale, tecnico, organizzativo, finanziario, nell’intento di raggiungere un obiettivo destinato a segnare la più alta quota di progresso dello sport italiano”». Alla vigilia dei Giochi, «autocelebrandosi», Onesti definì le Olimpiadi romane come «la dimostrazione tangibile del cammino ascensionale compiuto dallo sport italiano». D’altra parte, anche l’organizzazione di grandi eventi internazionali contribuì ulteriormente a «(ri)legittimare un Paese la cui immagine internazionale era stata fortemente incrinata dopo un ventennio di dittatura fascista».


Sport e dintorni

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Sport e dintorni – Il calcio moderno è già antico https://www.carmillaonline.com/2019/03/30/sport-e-dintorni-il-calcio-moderno-e-gia-antico/ Fri, 29 Mar 2019 23:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51630 di Massimo Angelilli

Di feconde e tra le più svariate delle metafore applicate al football, se ne trovano a dismisura. E a proprio piacimento. Esercizi narrativi estesi fino ad accarezzare le zone più recondite e pudiche del genere umano. Ipotesi similitudini e ricostruzioni anche azzardate, ma al contempo affascinanti, intrecciate a eventi personaggi ed epoche che ne hanno giustificato il concepimento. Da Albert Camus, per arrivare a Eduardo Galeano. “Quello che so più sicuramente della moralità e del dovere dell’uomo, lo devo al calcio.” Diceva il primo. “In cosa assomiglia il calcio a [...]]]> di Massimo Angelilli

Di feconde e tra le più svariate delle metafore applicate al football, se ne trovano a dismisura. E a proprio piacimento. Esercizi narrativi estesi fino ad accarezzare le zone più recondite e pudiche del genere umano. Ipotesi similitudini e ricostruzioni anche azzardate, ma al contempo affascinanti, intrecciate a eventi personaggi ed epoche che ne hanno giustificato il concepimento. Da Albert Camus, per arrivare a Eduardo Galeano. “Quello che so più sicuramente della moralità e del dovere dell’uomo, lo devo al calcio.” Diceva il primo.
“In cosa assomiglia il calcio a Dio? Nella devozione di molti credenti e nel disinteresse di molti intellettuali”, ha scritto Galeano.

Un mondo lontano, un mondo sorpassato, un mondo volutamente dimenticato. Un mondo che forse, anzi di sicuro, ricordiamo con quel flusso nostalgico che ci aiuta a esorcizzare il presente nella terapia autoassolutoria da colpe per le mostruosità che manifesta. Il football dunque, nella sua doppia insidiosa veste di fenomeno indiscutibilmente reale e contemporaneamente metafisico, non sfugge a questo ricorrente tranello esistenziale. Un test faticoso e costante di maturità. Personale e collettiva. Come tante passioni che smuovono masse popolari, lo sport coniuga la genuina spontaneità dell’infanzia con la (presunta) ratio della età adulta. Pertanto, ciò che chissà meglio aderisce al corpo totemico del calcio è proprio l’aspetto religioso. Per quella devozione, per l’appunto, esagerata o mancata che scatena al suo mostrarsi. Da parte dei protagonisti così come da quella del tifo, che spesso aspira al ruolo di attore principale. E spesso riuscendoci, in versione tragica o pittoresca. C’è però un elemento, tra i tanti, che ha caratterizzato il gioco più amato e seguito del mondo.

La sua riproduzione, sul famoso rettangolo verde, di modelli di società vincenti e contrapposti. Vincenti, indipendentemente dal risultato; contrapposti, giacché rappresentativi di concezioni differenti e distanti della realtà. Calcio inteso come organico ergo basato sul concetto di fabbrica obbligato a presentare un prodotto. Schemi tattiche e strategie disegnate secondo il modo di produzione capitalista. Lo stadio, con al suo interno entrambi i protagonisti che ne determinano il fragoroso successo, è uno dei simulacri del capitalismo impeccabilmente intuiti da Guy Debord nella sua “La Società dello spettacolo”. La fede e la dedizione per la propria squadra diventano così il plusvalore occulto di un sistema produttivo al quale tutti contribuiamo. La Fabbrica dei Sogni, sempre in funzione e sempre in attivo.
Su tutto, regnano incontrastate le leggi di mercato. Anche in questo caso, molto più prossimo a un ambito religioso che materiale, per quanto il profitto preveda una sua interminabile moltiplicazione, ma non una equa distribuzione dei pani e dei pesci. Il mondo bipolare, da un lato l’Occidente buono, dall’altro l’impero del Male, aiuta al consolidamento di teorie positiviste opposte al materialismo storico di stampo sovietico. Nondimeno, esperienze del tutto alternative alla riproposizione della catena di montaggio sul campo di calcio, dunque radicalmente contrarie a essa per forma espressione e significato, sono rilevabili in tutto il Secolo breve, per dirla alla Hobsbawm. E cioè il team inteso come un unicum impegnato nel raggiungimento del risultato; nella prassi solidale di correre l’uno in aiuto dell’altro fino a costruire una tela di passaggi e trame di gioco che esaltino il collettivo a detrimento dell’individualismo.

“Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.

La società comunista si definisce anche sulla identità delle squadre. Non al ritmo tirannico dei capireparto ma con la consapevolezza di essere utili e indispensabili in egual misura alla medesima causa. La coscienza del proletariato che avanza verso il sol dell’avvenire contro il falso idealismo borghese che lucra sullo sfruttamento dei più deboli. Quarto Stato contro Reazione. Socialismo o barbarie.

Esistono quindi blasonati club che riecheggiano le traiettorie fordiste e toyotiste, godendo del sostegno incondizionato delle classi popolari, e altrettanti che invece si contraddistinguono per le impostazioni tipicamente operaie, con i quali flirtano anche insospettabili settori sociali molto più agiati. Contraddizioni del capitalismo, contraddizioni del football.

O meglio, magia di un gioco che di ludico ha solo la proiezione infantile che imperterriti continuiamo a irradiare per alimentare un immaginario altrimenti destinato a sgretolarsi, sotto i duri colpi della modernità. Una modernità caratterizzata non certo da uno stile al passo con i tempi, quanto piuttosto sequestrata dalle draconiane regole della finanza. La caduta del Muro di Berlino, la fine della Unione Sovietica, la dissoluzione mortifera dei Balcani, il neo-colonialismo asiatico; sono solo alcuni degli eventi storici che hanno non solo sancito il doloroso passaggio dal un millennio all’altro, ma riposizionato anche presupposti e finalità della economia mondiale. La quale, ça va sans dire, civetta con i desiderata più intimi del neoliberismo. Le varie “bolle” che si sono susseguite in questo periodo, hanno ristretto maggiormente gli accessi al benessere per il 99% della popolazione e allargato all’eccesso il plusvalore per il restante 1%. Grazie all’accelerazione massiccia data alla finanziarizzazione e pertanto alla ultima, finora, rigenerazione della filosofia del lucro: il capitalismo digitale. Il football, come qualsiasi altra sana attività umana dalla quale sia possibile trarne giovamento economico, non sfugge a questa metamorfosi. Anzi, in alcuni casi ne anticipa addirittura gli effetti.

Il selvaggio trasferimento di capitali dalle economie emergenti, come Arabia Saudita Cina India e Russia, alle capitali del calcio europeo, ne sono un limpido esempio. Sono moltissime le società “cadute” nelle grinfie di aggressivi manager stranieri. E da qui, un’opera di marketing imponente a base di brand e trend. E, soprattutto, di plusvalenze. Il lessico calcistico si avvale sempre più del gergo borsistico, e le quotazioni valgono almeno quanto le azioni sul campo. Crolli e successi in Borsa dipendono dallo score. La personalizzazione della casacca diventa più importante della casacca stessa. Per le gesta sportive, ma anche per l’esito delle sue vendite. Negli immancabili store dei club. Punti vendita reali così come virtuali. La dimensione on-line avvicina i propri beniamini ancor più che nella dimensione naturale dell’arena. Il tifo stesso è una dimensione social, precursore degli attuali social network. Responsabili, se non colpevoli, di aver accentuato la individualizzazione di uno sport di squadra per eccellenza. Instagram e twitter – FB lo diamo già per obsoleto suo malgrado – disintermediano il rapporto tifoso-team alla stregua di quanto avviene sul terreno politico. I mezzi d’informazione, sovrastati dalla comunicazione diretta e spietata fornita dal web. La rivoluzione digitale travolge dunque uno dei templi della socializzazione, interclassista ed egualitaria. Tale infatti è stato sempre considerato l’agone calcistico, fino alle conseguenze estreme dello scontro frontale anche fuori dal manto erboso.

Si è detto che il football è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. O, nella versione romantica, che l’avvicinamento alla porta siano i preliminari dell’atto sessuale “compiuto”, rappresentato dalla finalizzazione in rete. Il goal.

D’altronde, quante volte si è usata la metafora dell’orgasmo per descrivere un trionfo sul campo, con conseguente soggiogamento dell’avversario? Tutto ciò ha però dei valori di riferimento che riguardano la vita reale, con tutte le complicazioni le assurdità e le contraddizioni che inevitabilmente questo comporta. La voracità neoliberista ha cannibalizzato questo succulento pezzo di Umanità modificando l’agonismo in spettacolo e la passione in merce. E trascinandosi in modo spudorato le espressioni peggiori della società. Organizzazioni criminali e paramilitari di stampo mafiofascista dominano le gradinate specularmente alla raffinatezza con cui le conventicole di alto rango governano le sorti dello “sport più bello del mondo”. Il football 4.0 scende in campo sette giorni a settimana, trasmette ovunque e costringe il “povero tifoso” a trasferte impossibili o alla irreversibilità del divano. A causa di accordi commerciali-televisivi che includono orari e luoghi inaccessibili per assistere all’imperdibile spettacolo. In realtà, al di là del risultato, si è già perso, quando abbiamo consegnato le chiavi dei nostri sogni ai professionisti dell’illusionismo. Il football 4.0 è anche un formidabile strumento di controllo. Sociale e commerciale. Le tifoserie sono da coccolare se spendono e da reprimere se protestano per il caro-prezzi. Le curve un territorio da conquistare e vigilare, eccezion fatta se esibiscono simboli nazisti. Sia l’una che l’altra si trasformano sovente in zone franche dove non contano i più elementari diritti civili. Gli stadi sono sempre più fortezze camuffati da centri commerciali. In stile nordamericano. Non si può essere fruitori di qualcosa se non si consuma. Il match stesso è un target. E lo siamo anche noi, “che non siamo altro che mendicanti di buon calcio”, per utilizzare ancora le illuminanti parole di Eduardo Galeano.

In conclusione, o forse meglio, in maoistica confusione; nostalgia del passato? Integralisti della passione? Decoubertiniani incalliti? Pasdaran del tubo catodico? No.
Mille volte: no.

Rivendicare il diritto alla irrazionalità di amare alla follia una maglia, un bomber inesorabile o un funambolo del centrocampo, o finanche una singola giocata che indelebile vive nella nostra memoria, è una questione di coscienza. Un atto squisitamente politico. E che con tutta tranquillità si può tacciare di spontaneismo. Di sicuro, è Resistenza. Al totalitarismo del consumo. Senza cadere nella trappola, elaborata sperimentata e applicata con scientifico rigore, di confondere il nemico di classe, abile ad alterare le nostre emozioni in algoritmo, con il Demiurgo dell’avvenire.
Perché i colori possono dividerci, ma ci uniscono le bandiere.

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L’eroe sportivo diviso tra lo spettacolo e il suo popolo https://www.carmillaonline.com/2019/01/18/leroe-sportivo-diviso-tra-lo-spettacolo-e-il-suo-popolo/ Thu, 17 Jan 2019 23:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50633 di Fabio Ciabatti e Mazzino Montinari

La società moderna appare a tutta prima assai prosaica, eppure non può fare a meno delle sue nicchie dove poter coltivare figure eroiche. Ad esempio, le gesta dei campioni dello sport possono essere interpretate come una moderna epopea borghese, in forma atletica. Secondo Joseph Campbell la parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe ha una struttura ricorrente che si consuma in tre atti: “L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe [...]]]> di Fabio Ciabatti e Mazzino Montinari

La società moderna appare a tutta prima assai prosaica, eppure non può fare a meno delle sue nicchie dove poter coltivare figure eroiche. Ad esempio, le gesta dei campioni dello sport possono essere interpretate come una moderna epopea borghese, in forma atletica. Secondo Joseph Campbell la parabola convenzionale dell’avventura dell’eroe ha una struttura ricorrente che si consuma in tre atti: “L’eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale; qui incontra forze favolose e riporta una decisiva vittoria; l’eroe fa ritorno dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini”. Allo stesso modo, il campione sportivo è un individuo che dopo aver scoperto di possedere capacità fuori dal normale, si avventura nel mondo straordinario costituito dal campo di gioco dove vigono regole a sé stanti che non sono alla portata di tutti, compie azioni straordinarie sconfiggendo nemici temibili e spesso infingardi, e infine condivide la propria felicità con il popolo dei suoi tifosi e degli sportivi tutti. Inoltre, a rimarcare il tono epico dell’impresa, l’evento sportivo è spesso descritto come una battaglia e le metafore belliche abbondano nel vocabolario dei cronisti.

“Eroici!” titolava a tutta pagina il «Corriere dello sport» il giorno dopo la conquista italiana del Mundial del 1982 in Spagna. E come Luke Skywalker, anche i protagonisti del Mundial non erano consapevoli della propria forza, se non dopo la vittoria con l’Argentina. Solo in quel momento iniziarono a comprendere di poter intraprendere un viaggio assolutamente diverso da quello previsto. E improvvisamente il mondo circostante che li detestava, li considerò “esseri superiori” intorno ai quali identificarsi. Invertendo l’ordine dei fattori, gli eroi avevano creato un popolo che apparve nelle piazze avvolto da bandiere.
Un atleta può essere d’esempio nella capacità di scoprire il proprio talento, nell’impegno costante a migliorare, nel condividere la propria ambizione con i compagni, nell’accettare la sconfitta e nel rendere merito all’avversario. Tutto ciò ha a che fare con il gesto, con le regole, con lo specifico di una disciplina. Esiste poi un altro tipo di identificazione, che prescinde dallo svolgimento della gara e che crea un senso di appartenenza.
Lo status di eroe, per motivi diversi e talvolta imponderabili, rende possibile il cameratismo dei tifosi. L’eroe sportivo incarna i sogni e i desideri di una comunità, spesso fittizia ma non sempre: gli afroamericani o gli abitanti di Kinshasa stretti intorno a Muhammad Ali forse erano animati da sentimenti più autentici degli italiani abbracciati per i trionfi calcistici.
Ad ogni modo, la distinzione tra l’eroe sportivo e il suo popolo funziona in certe narrazioni se si mantiene una distinzione netta tra il mondo straordinario della competizione e quello ordinario in cui i tifosi vivono tutti i giorni. Affinché lo stadio possa rappresentare il tempio in cui si riproducono ritualmente eventi meravigliosi, il mondo circostante deve rimanere profano, banale, borghese. Il fatto è che le cose non sempre vanno come previsto. Il mondo straordinario e quello ordinario sconfinano l’uno nell’altro, addirittura s’invertono, rompendo o comunque dando al giocattolo una forma diversa e inattesa.

L’ideale eroico dello sportivo rimanda ambiguamente alla concezione aristocratica promossa da De Coubertin: per l’atleta, rigorosamente dilettante e originariamente dell’upper class, la partecipazione e la disciplina sono da porsi sopra la vittoria. Se invece guardiamo allo sportivo contemporaneo, assistiamo a uno sdoppiamento: da una parte l’eroe senza macchia e senza paura, non più accostabile alla concezione decoubertiana, ma ancora legato a una visione disinteressata dell’attività sportiva, si potrebbe quasi dire “ideale”; dall’altra l’atleta che nella sua immagine spettacolarizzata riflette un’attività sempre più professionalizzata e, dunque, tutt’altro che priva di scopi. Per questa seconda figura, l’unica cosa che conta è vincere. L’eroe immacolato, perciò, è a rischio di trasformarsi nel fellone privo di ogni scrupolo alla ricerca di una gloria mediaticamente e chimicamente dopata.
Lo sport spettacolo e lo sport business procedono di pari passo, con tutte le contraddizioni che ne conseguono, se è vero che il primo può provare insofferenza per il secondo (non sempre le vittorie tanto amate da chi mette i soldi producono piacere e divertimento) e, al tempo stesso, può apprezzarne (fino a una dipendenza totale) la capacità di estendere qualsiasi evento a fenomeno planetario. Uno scontro/incontro che inizia significativamente dagli anni Settanta del secolo scorso. E quanto più avanza questa contaminazione, tanto più lo spettacolo sportivo invade la vita quotidiana. L’evento non è delimitato dall’inizio e dalla fine della gara, ma si espande indefinitamente attraverso i media, la gadgettistica, le chiacchere da bar e i più contemporanei forum, peraltro terreno di caccia prediletto dai cosiddetti hater.
Esiste poi un contro-movimento. Quanto più il fenomeno sportivo diventa invasivo rispetto alla vita quotidiana, tanto più gli spettatori tendono a invadere il campo di gioco, per esempio in Europa o in Sud America (l’ultima finale di Coppa Libertadores, giusto per citare il caso più recente), attraverso le iniziative anche estreme del tifo organizzato. Fenomeni complessi che in parte non sarebbero concepibili senza la centralità mediatica assunta dagli eventi e dalla loro caratteristica di business spettacolare.
La stigmatizzazione del tifo organizzato in parte deriva dal fatto che questo fenomeno è in contraddizione con la tendenza a identificare il tifoso con il mero spettatore/consumatore. Va ricordato che in Italia il fenomeno calcistico degli ultras nasce negli anni Settanta del secolo scorso e la sua denominazione deriva dal gergo politico: ultras, con chiaro intento denigratorio, erano definiti i gruppi di estrema sinistra. In effetti, all’epoca esisteva una sovrapposizione tra i gruppi della sinistra rivoluzionaria e quelli dei tifosi. È cosa nota che oggi il segno politico di queste aggregazioni si è spesso invertito. Rimane però visibile, sebbene solo in controluce, un legame ancora esistente tra il tifo organizzato e lo sport come festa popolare che contrasta con l’atomizzazione consustanziale allo spettare/consumatore.
In Inghilterra il fenomeno degli hooligan fu combattuto nell’epoca thatcheriana, non solo con le misure poliziesche, ma soprattutto con gli alti prezzi degli stadi. Impianti divenuti gradualmente di proprietà delle società calcistiche, trasformati in centri commerciali a tema che, per massimizzare i guadagni, attirano spettatori con potere d’acquisto (negli Stati Uniti dove i principali raduni sportivi durano almeno tre ore, il consumo di vivande e bevande diventa uno degli aspetti principali). È la fine del calcio come festa popolare cui il fenomeno del tifo organizzato ancora rimanda, sebbene debolmente. Un legame che però è suscettibile, nelle opportune condizioni, di rivitalizzarsi. Si può citare soltanto un esempio: le tifoserie delle due squadre del Cairo, dopo essersi scontrate per tanti anni, si riuniscono nella difesa di piazza Tahrir sostenendo, data la loro preparazione “bellica”, in modo efficace gli scontri con polizia e mazzieri del regime. Abbiamo qui un’inversione. Non c’è più bisogno di un eroe da ammirare per creare un legame: tutti diventano eroi e, al tempo stesso, nessuno lo è. Al contrario del Mundial 1982, il popolo prova a riprendersi il diritto di creare i propri eroi.

In generale, quando il mondo ordinario entra in fermento tende a rompere la quiete olimpica degli eventi sportivi. Molti i casi entrati nella storia. Il più famoso è probabilmente quello delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968. La manifestazione è preceduta dalla strage degli studenti nella piazza delle Tre culture e dalla conseguente richiesta di bloccare i Giochi. Lo spettacolo però non si ferma. La contestazione prosegue assumendo forme impreviste. Quella più celebre riguarda i due corridori afroamericani Tommie Smith e John Carlos che durante la cerimonia di premiazione dei 200 metri, scalzi, alzano il pugno avvolto in un guanto nero e ascoltano l’inno con lo sguardo basso a rimarcare l’estraneità e il dissenso verso il simbolo di un potere che li opprime. Non vogliono più essere i cavalli da corsa dell’uomo bianco. Un nero se vince è accolto come un americano, se perde torna a essere un negro. Con questo gesto svelano al mondo intero, dentro lo spettacolo ordito dal potere, l’ipocrisia dell’ideologia dominante: quella che rappresenta lo sport come un’istituzione neutrale, superiore a tutti gli interessi perché fondata sulla uguaglianza delle possibilità e dei criteri di valutazione di ogni rendimento. Tutti possono diventare eroi. Per questo lo sport unisce. Per questo l’unico modo in cui la politica può essere riconosciuta all’interno dello sport è quello della glorificazione della nazione, con il suono ridondante degli inni, e della sua unità, con il continuo appello a tutti, atleti e tifosi, a intonare tenendosi per mano le note di quella musica.
Il gesto degli atleti afroamericani è dirompente. Introduce nel mondo dorato dello sport le spaccature reali della società, anche se poi lo spettacolo continua e nel corso del tempo il gesto dei dissidenti diventerà iconografico e oggetto del merchandising. Tuttavia, nel presente storico, gli eroi saranno cacciati dall’Olimpo sportivo, puniti come Prometeo dagli dei. I due atleti evidenziano un legame vero con i loro sostenitori, innervato nella comune condizione sociale, economica e culturale. L’eroe sportivo si scopre prima di tutto un essere umano. Ciò che lo rende simile ai suoi fratelli e alle sue sorelle non è la gloria, ma la comune condizione di miseria, di discriminazione.
In questo senso, forse, si può individuare una figura differente di eroe sportivo che non suscita ammirazione solo per le sue capacità straordinarie (pur avendone bisogno), ma anche per le sue debolezze, per la sua umanità claudicante che lo accomuna ai suoi ammiratori spezzando il mondo fatato della competizione atletica e facendoci entrare nel mondo reale. Si pensi, nel campo del calcio, a una figura come Cristiano Ronaldo, micidiale macchina da goal che nella sua perfezione non può suscitare forme di identificazione che non siano di tipo proiettivo e la si paragoni a una vera a propria icona come Diego Armando Maradona, capace con il suo genio e la sua sregolatezza, con le sue cadute rovinose e le sue resurrezioni, di rappresentare alla perfezione, anche a molti anni di distanza dal suo ritiro, il desiderio di riscatto dei quartieri popolari argentini e napoletani.

Di certo ogni qual volta si assiste a una “invasione di campo” della realtà circostante nel perimetro di gioco, la classe dirigente sportiva, politica e mediatica si chiude a riccio sostenendo che lo sport è un fenomeno compreso in se stesso, pacificato, neutro, puro, limpido, onesto. Insomma, è un’oasi felice, immune dall’ideologia, strumento di formazione dei giovani ai valori della ragione e della misura, sana valvola di sfogo. In estrema sintesi, lo sport deve unire, non dividere.
Ciò nonostante, gli spazi dello sport non sono immuni dalla realtà e dai suoi conflitti perché essi possono essere riconfigurati, simbolicamente o materialmente, come spazi aperti, fluidi e contesi. O almeno così è accaduto in passato, come documenta il libro di Gioacchino Toni e Alberto Molinari Storie di sport e di politica (Mimesis 2018), con riferimento al decennio 1968-1978. Può accadere nuovamente o il mondo dello sport si è definitivamente immunizzato dal contagio della realtà a lui esterna? Non c’è da essere ottimisti se si pensa alla scarsa risonanza che ha avuto il tentativo di contestare il Giro d’Italia del 2018 e le tre tappe iniziali in Israele, soprattutto se confrontiamo questo episodio con analoghe contestazioni del passato, per esempio quelle veementi alla finale di Coppa Davis del 1976 nel Cile di Pinochet o al Mondiale del 1978 nell’Argentina di Videla, anche se fallimentari, perché ancora oggi nella bacheca risalta l’ambito trofeo tennistico e nella nostra memoria sono ancora vivide le immagini dei giovani Rossi e Cabrini.

I semi della speranza possono ancora germogliare se, invece, guardiamo al movimento dello sport popolare: un fenomeno che in Italia, sebbene sotterraneamente, continua a consolidarsi sviluppando, sulle orme dei fenomeni nati negli anni Settanta, una concezione dell’attività atletica che ne vuole superare gli aspetti competitivi e mercificanti a favore di una dimensione dello sport come festa popolare, inclusiva, ricreativa, associativa, legata alle rivendicazioni sociali.
Se c’è un comune denominatore delle vicende sportive, si potrebbe individuare nella ricerca spasmodica della vittoria e nella retorica che ne deriva. Senza di essa non parleremmo del gesto di sfida di Smith e Carlos e non avremmo ceduto al desiderio di andare in Cile a prenderci la Coppa Davis, due esempi storici che citiamo non a caso, proprio per la loro esemplare differenza e per le complessità che scatenano. Oltre ogni discorso immediatamente socio-politico, il vero ostacolo da superare sembra essere costituito dal delirio della vittoria, sia nella vita sia nella sua versione eroicizzata rappresentata dallo sport. Se si vince si ha tutto e, a posteriori, ogni spiegazione e riflessione acquisisce legittimità. Certamente vincere è meglio che perdere e tutti sperano che prima dei titoli di coda vi sia un lieto fine. Ciò nonostante, senza inciampare in una retorica aristocratica alla De Coubertin, possiamo considerare il “viaggio dell’eroe” esemplare per il movimento che un individuo dotato di talento mette in atto, lasciando in secondo piano l’esito che ne consegue?

[Nell’ambito del ciclo di incontri sul “Viaggio rivoluzionario dell’eroe”, il Gruppo di Studio Antongiulio Penequo discuterà della figura dell’eroe sportivo con Gioacchino Toni il 28 gennaio alle ore 19.00 (Libreria Caffè Giufà, via degli Aurunci 38, Roma). Altri interventi sul tema dell’eroe e del suo viaggio sono disponibili qui]

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Sport e dintorni – Calcio e letteratura in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/12/14/sport-e-dintorni-calcio-e-letteratura-in-italia/ Thu, 13 Dec 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48612 di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, [...]]]> di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, Calcio e letteratura in Italia (1892-2015), Biblion edizioni, Milano, 2017, pp. 365, € 25,00

Con questo saggio lo storico dello sport Sergio Giuntini offre per la prima volta un quadro d’insieme sulla storia dei rapporti tra calcio e letteratura in Italia. L’autore si misura con una materia molto ricca ed eterogenea, assumendo la nozione di letteratura in un’accezione ampia. Attraverso un approccio metodologico che mira a superare la dicotomia tra cultura “alta” e “bassa”, nel volume vengono analizzati regolamenti e manuali tecnici, interventi giornalistici su quotidiani e periodici, romanzi, racconti e poesie, biografie e autobiografie, saggi di varia natura dedicati al calcio.
Grazie ad una minuziosa e rigorosa ricerca – a partire dalla raccolta di una vastissima gamma di documenti, padroneggiati con notevole competenza – Giuntini riesce pienamente nell’intento di fornire una mappatura ragionata delle relazioni tra dimensione letteraria e fenomeno calcistico che si inserisce nella storia socio-culturale del calcio italiano ovvero della disciplina sportiva che più di ogni altra cattura quotidianamente l’attenzione di milioni di persone.
Oltre a fornire molteplici spunti interpretativi, il saggio si segnala per la qualità della scrittura e per il solido impianto storico di un percorso che si snoda da fine Ottocento ai giorni nostri.

Il volume si apre con un capitolo sui primi manuali e regolamenti, mutuati principalmente dall’Inghilterra, che contribuiscono ad uniformare una pratica calcistica ancora disomogenea e con regole confuse. Nel contempo il football debutta sulle pagine della pubblicistica sportiva nella quale si distinguono testate come “La Gazzetta dello Sport” e il “Guerin Sportivo”. Inizialmente marginale rispetto ad altre discipline, il calcio conquista progressivamente uno spazio nei periodici, mentre nascono le prime riviste specializzate e fogli espressione di alcuni club calcistici.
Il panorama giornalistico si arricchisce anche grazie a due voci critiche: il “Corriere dello Sport Libero” – organo della Unione Libera Italiana del Calcio, sorta nel 1917 in alternativa alla FIGC con l’intento di diffondere il calcio tra le classi popolari – e “Sport e proletariato”, settimanale legato all’area socialista massimalista uscito nel 1923 e subito soppresso dal fascismo.
Giuntini segnala inoltre un episodio poco noto accaduto nel clima del “biennio rosso”. Nell’ottobre del 1920 le maestranze del “Guerin sportivo” occupano per alcuni giorni la sede torinese della rivista e danno alle stampe un’edizione autogestita nella quale denunciano l’autoritarismo del direttore e si propongono di dare al periodico un orientamento di classe. L’evento – unico nella storia della stampa sportiva italiana – si inscrive nel superamento dell’originario “antisportismo” socialista, in un contesto che vede la nascita di un associazionismo sportivo di classe promosso a Milano dai “terzinternazionalisti” vicini a Giacinto Menotti Serrati e a Torino dal gruppo de “L’Ordine Nuovo”. In questo quadro Giuntini dedica alcune pagine alle riflessioni di Antonio Gramsci sullo sport, letto in modo originale attraverso le categorie del marxismo.

Una parte rilevante della ricerca riguarda il periodo fascista, sul versante giornalistico e letterario.
Giuntini si sofferma inizialmente sul ruolo di Lando Ferretti e Leandro Arpinati – due personalità di primo piano del fascismo nonché dirigenti dello sport nazionale – nel dare impulso alla carta stampata sportiva e inquadrarla secondo le direttive del regime per la costruzione dell’”uomo nuovo” fascista.
Durante il fascismo il giornalismo sportivo cresce dal punto di vista quantitativo con una moltiplicazione delle testate, sempre più “calcistizzate”, e la copertura degli eventi sportivi da parte dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio e cinema). Tra i giornalisti che contribuiscono alla trasformazione della scrittura sportiva Giuntini indica in particolare due direttori de “La Gazzetta dello Sport”: Emilio Colombo, a cui si deve la nascita dello “sport epico”, e Bruno Roghi che fa scuola con il suo stile retorico ed enfatico e con il ricorso a metafore di matrice bellica funzionali all’esaltazione dei successi agonistici della nazione “guerriera e sportiva”.

La ricostruzione di Giuntini spazia poi da Massimo Bontempelli, lo scrittore che esalta il «vitalismo tipicamente fascista insito nella modernità dello sport», alle prove di scrittura sportiva di Alessandro Pavolini, uno dei principali «gerarchi-letterati del “calcio e moschetto”», da La prima antologia degli scrittori sportivi (1934) che comprende tra l’altro le Cinque poesie sul gioco del calcio di Umberto Saba, alla narrativa sul calcio nella quale si distingue Novantesimo minuto (1932) di Francesco Ciampitti, «il primo autentico romanzo calcistico italiano», capace di uscire dai canoni dominanti del romanzo sportivo fascista. Nel corso del Ventennio questo genere conosce una notevole fortuna – esemplificata ad esempio da La squadra di stoppa (1941) di Emilio De Martino, un best-seller della letteratura italiana per l’infanzia – anche grazie alle vittorie internazionali conseguite dagli “azzurri” di Vittorio Pozzo e all’attenzione del fascismo per il calcio.

Negli anni della dittatura non mancano posizioni critiche nei confronti dello sport di regime. Antonino Pino Ballotta in Tifo sportivo e i suoi effetti sottolinea «l’esasperata sportivizzazione promossa dal fascismo»; Cesare Zavattini smitizza «la tronfia retorica staraciana dello sport in “camicia nera”» attraverso alcune pagine del suo I poveri sono matti; su “Giustizia e Libertà” Carlo Rosselli denuncia il fanatismo sportivo alimentato dalla dittatura e Carlo Levi interviene con una serie di articoli che rappresentano «un autentico J’accuse nei confronti della politica sportiva fascista».

Venendo al dopoguerra, il saggio analizza il ritrovato interesse per il calcio da parte di scrittori e poeti che se ne erano allontanati, disgustati dalla strumentalizzazione fascista dello sport.
Mentre Italo Calvino scrive di sport su “l’Unità” e Alfonso Gatto e Vasco Pratolini celebrano con i loro scritti «il rito domenicale della partita», «la unica vera “religione laica” degli italiani del secondo dopoguerra», negli anni Cinquanta Gianni Brera – il “Gadda spiegato al popolo” secondo Umberto Eco – si afferma come protagonista di una lunga stagione del giornalismo e della letteratura sportiva. Giuntini analizza puntualmente i passaggi che portano Brera verso la costruzione di un linguaggio straordinariamente originale. La sua scrittura «affabulatoria, gigionesca e straripante» è frutto di «un esercizio di inventività “parolibera” infinito, in un codice linguistico “onomaturgico” impregnato di metafore e neologismi entrati nel parlato comune»: da “centrocampista” a “goleador”, da “incornare” a “libero”, da “melina” a “palla-gol”, da “pretattica” a “rifinitura”, da “Bonimba” (Roberto Bonisegna) al “Barone” (Franco Causio).

In pieno “miracolo economico” esce un importante romanzo di Salvatore Bruno (L’allenatore, 1963), mentre lo juventino Mario Soldati e l’interista Vittorio Sereni fanno filtrare in alcune opere la loro passione per il calcio. Un amore che traspare anche nella narrativa di Luciano Bianciardi chiamato nei primi anni Settanta, alle soglie della morte, da Gianni Brera a collaborare al “Guerin Sportivo” e di Oreste Del Buono, incarnazione dello “scrittore-tifoso” che trova nel tifo una fonte di ispirazione per un capitolo del suo romanzo I peggiori anni della nostra vita (1971).
Tra i grandi intellettuali italiani è poi Pier Paolo Pasolini – tifoso del Bologna, appassionato praticante e attento osservatore del calcio – a scrivere pagine preziose sullo sport e in particolare sul pallone spingendosi fino a tentare una lettura semiologica del fenomeno calcistico con i suoi “elzeviristi”» (Gianni Rivera e Sandro Mazzola) e i suoi poeti e prosatori “realisti” (Giacomo Bulgarelli e Gigi Riva).

Di sport scrive anche Giovanni Arpino cimentandosi in un’attività giornalistica che lo porta tra l’altro a seguire per “La Stampa” diverse edizioni delle Olimpiadi e dei Mondiali di calcio. Sarà l’ingloriosa eliminazione della nazionale italiana ai Mondiali tedeschi del 1974 ad ispirare il suo Azzurro tenebra (1977) – secondo Giuntini «il più importante romanzo, tra il reportage e il pamphlet, di questo scorcio di anni» – nel quale si esprime «una forte requisitoria contro la decadenza materiale e umana del football italiano».
Una denuncia che è al centro di Calci e sputi e colpi di testa (1978) di Paolo Sollier, militante dell’organizzazione della sinistra extraparlamentare Avanguardia operaia, uno dei calciatori più “politicamente scorretti” nella ridotta schiera degli “irregolari” del calcio, tra i quali si possono annoverare il calciatore-poeta Enzo Vendrame e Carlo Petrini con i suoi libri, pubblicati vent’anni dopo, su un football sempre più ossessionato da una ricerca esasperata del risultato e condizionato dal doping, dalle scommesse clandestine e dalle partite truccate.

Tra gli anni Ottanta e Novanta un profluvio di titoli e un impoverimento linguistico segnano «la mediatizzazione selvaggia vissuta dal calcio sempre più malato di “biscardismo” e di quel gigantismo sfrenato inaugurato con gli sprechi di “Italia ‘90” e proseguito con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e l’invasione delle pay-tv di Rupert Murdoch». L’antidoto al “biscardismo” è affidato alla penna di autori che tentano l’impresa «quasi folle e utopica di frenarne, con una buona letteratura, la grave decadenza umana e morale».
Ecco allora Dov’è la vittoria? Cronaca e cronache dei Mondiali di Spagna (1982) del dantista Vittorio Sermonti che avverte precocemente gli effetti nefasti della deriva biscardiana e qualche anno dopo, ai tempi del mondiale italiano degli affari e delle speculazioni e della craxiana “Milano da bere”, Il calciatore di Marco Weiss, un romanzo di formazione a sfondo calcistico, e Finale di partita, raccolta di scritti alla quale partecipano autori del calibro di Dario Bellezza, Gianni Celati, Franco Fortini, Cesare Garboli, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Antonio Tabucchi e molti altri.

Tra i tanti autori e titoli citati e commentati da Giuntini nel capitolo sulla scrittura come risposta culturale al “biscardismo” e sulle tendenze più recenti della letteratura a tema calcistico, spiccano per valore letterario e impegno civile La solitudine dell’ala destra di Fernando Acitelli, una storia del calcio in versi; alcune poesie di Loi, Giudici, Sanguineti e Roversi; Manlio Cancogni sulle tracce dell’”eretico” Zeman con il suo Il Mister, che Giuntini valuta come uno dei tre romanzi da ricordare nella storia della letteratura italiana sul calcio insieme a Novantesimo Minuto di Ciampitti e Azzurro tenebra di Arpino; Il portiere e lo straniero di Daniele Santi, un’opera tra storia e romanzo intorno alla figura dell’intellettuale-portiere Albert Camus; La farfalla granata, il libro di Nando Dalla Chiesa su Gigi Meroni. E ancora Edmondo Berselli che in Il più mancino dei tiri propone attraverso il calcio una rivisitazione politica, sociale e di costume dell’Italia e delle sue contraddizioni irrisolte, i romanzi sul calcio e i sentimenti di Roberto Perrone, Rembò di Davide Enia, Addio al calcio di Magrelli, Il mio nome è Nedo Ludi di Pippo Russo, la produzione sportivo-letteraria di Darwin Pastorin e le esperienze di scrittura sul calcio al femminile.

Oltre ad offrire una panoramica sulla ripresa degli studi storici sul calcio e sulle opere sociologiche e letterarie dedicate al tifo ultrà, in chiusura del volume Giuntini dedica due capitoli ad una sintetica rassegna sul calcio nel cinema e nel teatro, suggerendo altri spunti di riflessione e indicazioni per ulteriori approfondimenti.
Utile è anche la bibliografia posta in appendice al volume, mentre è discutibile la scelta editoriale di non avvalersi di un apparato di note, uno strumento che sarebbe stato prezioso per i lettori interessati a risalire puntualmente dalle numerose citazioni alle loro fonti. Un limite che comunque non inficia il notevole valore di una ricerca che rappresenta uno dei più importanti contributi recenti agli studi storici sullo sport.

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Sport e dintorni – L’oppio dei popoli. Sport e sinistre in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/11/07/sport-e-dintorni-loppio-dei-popoli-sport-e-sinistre-in-italia/ Tue, 06 Nov 2018 23:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49442 di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, “L’oppio dei popoli”. Sport e sinistre in Italia (1892-1992), Aracne editore, Canterano (RM), 2018, pp. 316,  € 20,00

Secondo un luogo comune consolidato, la storia della sinistra italiana sarebbe segnata da una sostanziale sottovalutazione del fenomeno sportivo: nei partiti come in altre organizzazioni del movimento operaio, tra i dirigenti, i militanti e gli intellettuali, l’approccio allo sport risulterebbe esclusivamente viziato da pregiudizi e chiusure, incomprensioni e giudizi sommari (lo sport come espressione di valori e interessi “borghesi”, mero fenomeno di evasione, “oppio dei popoli”). La ricerca di Sergio [...]]]> di Alberto Molinari

Sergio Giuntini, “L’oppio dei popoli”. Sport e sinistre in Italia (1892-1992), Aracne editore, Canterano (RM), 2018, pp. 316,  € 20,00

Secondo un luogo comune consolidato, la storia della sinistra italiana sarebbe segnata da una sostanziale sottovalutazione del fenomeno sportivo: nei partiti come in altre organizzazioni del movimento operaio, tra i dirigenti, i militanti e gli intellettuali, l’approccio allo sport risulterebbe esclusivamente viziato da pregiudizi e chiusure, incomprensioni e giudizi sommari (lo sport come espressione di valori e interessi “borghesi”, mero fenomeno di evasione, “oppio dei popoli”).
La ricerca di Sergio Giuntini, uno dei più importanti storici italiani dello sport, mostra invece come le diverse anime della sinistra abbiano espresso valutazioni articolate, in un arco di posizioni che oscillano con diverse sfumature tra la diffidenza o l’aperta ostilità nei confronti del fenomeno sportivo e la piena consapevolezza della sua rilevanza politica e sociale. Avvalendosi di una ricca documentazione e suggerendo molteplici spunti interpretativi, l’autore ricostruisce una vicenda complessa che rappresenta una pagina cruciale della storia dello sport nel suo intreccio con le dinamiche della società italiana tra fine Ottocento e l’ultimo scorcio del Novecento.

Dopo alcune considerazioni sull’interesse per lo sport dei “padri” del movimento comunista (Marx, Engels e Lenin), la prima parte del volume si concentra sul rapporto tra sinistra e sport in Italia fino al primo quarto del Novecento, in un quadro internazionale che vede la nascita dell’Internazionale Sportiva Socialista (1913) e dell’Internazionale Sportiva Rossa (1920).
Giuntini dà conto puntualmente tanto del dibattito teorico quanto delle pratiche politico-organizzative della sinistra in ambito sportivo, analizza il pensiero sullo sport di figure di primo piano del movimento operaio (da Alfredo Bertesi a Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati), si sofferma sulle capitali dello sport di classe (Milano e Torino) e su alcuni casi locali particolarmente significativi.

Il racconto si snoda dall’associazionismo di matrice risorgimentale allo sviluppo della ginnastica promosso dalle Società di mutuo soccorso a fine Ottocento e si concentra poi sul movimento dei “ciclisti rossi” che si diffonde in alcuni centri del Nord Italia. Nel primo Novecento, quando la bicicletta inizia ad affermarsi come strumento di libertà e di emancipazione sociale, i “ciclisti rossi” utilizzano questo mezzo a fini propagandistici e agiscono come reparti di “staffetta” e di autodifesa in occasione degli scioperi dando vita ad un fenomeno che verrà ripreso dalle “Guardie rosse volanti”, a fianco degli Arditi del popolo nel tentativo di contrastare la violenza fascista. Questa tradizione si rinnoverà dopo l’8 settembre del 1943 diventando parte integrante della Resistenza che utilizzerà la bicicletta come mezzo per trasportare documenti e stampa clandestina, mantenere i collegamenti tra i gruppi partigiani e coordinare scioperi e agitazioni.

Gli approcci allo sport della sinistra prima della Grande Guerra sono però segnati anche da una tendenza “antisportista”. In una parte del movimento socialista è diffusa la convinzione che lo sport rappresenti una pratica borghese, un diversivo rispetto alla lotta di classe, un’attività caratterizzata da aspetti alienanti e competitivi propri del capitalismo. Emblematica in questo senso è la posizione della Federazione Giovanile Socialista. Giuntini ricostruisce il dibattito tra i giovani del PSI che, influenzati dalle correnti massimaliste, manifestano un atteggiamento di rigido rifiuto dello sport, riconducibile alla «mancanza d’una accettabile elaborazione specifica»: «Il socialismo italiano del primo Novecento si fermava agli aspetti più eclatanti e degenerativi dello sport di matrice borghese senza enuclearne gli elementi che ne garantivano il successo. Allo stesso modo, non si curava di razionalizzare i motivi che spingevano le masse a riconoscersi in un tale sistema. Da qui l’apparente incompatibilità tra l’essere buoni socialisti e contemporaneamente praticanti o appassionati sportivi».
All’“antisportismo” fanno da contraltare le posizioni di autorevoli dirigenti socialisti della corrente riformista come Ivanoe Bonomi. Sulle pagine dell’“Avanti!” Bonomi richiama severamente i giovani della FGS invitandoli a riconoscere la passione sportiva che coinvolge anche ampie fasce del proletariato e a farsi carico quindi di un discorso politico sullo sport.

Nel saggio vengono poi tratteggiate alcune significative esperienze che maturano dopo la guerra, come l’attività dell’Associazione Proletaria di Educazione Fisica, la più importante società sportiva espressa dalla sinistra italiana nella prima parte del Novecento. Giuntini si sofferma sul “biennio rosso” dello sport, che coinvolge anche l’area “terzinternazionalista” del movimento socialista e il Partito comunista d’Italia, affrontando diverse questioni: dalle considerazioni di Giacinto Menotti Serrati sul valore della dimensione sportiva come strumento di educazione collettiva e di emancipazione umana alle indicazioni della stampa comunista sul lavoro politico da svolgere tra gli sportivi, dai tentativi di creare una Federazione sportiva autonoma del movimento operaio alla nascita della rivista “Sport e proletariato”, subito soffocata dal fascismo.

In questo scenario alcune pagine sono dedicate alle riflessioni di Antonio Gramsci sullo sport, letto in modo originale attraverso le categorie del marxismo; ormai divenuto un fenomeno di massa, per l’intellettuale sardo lo sport «andava pertanto studiato come una parte peculiare del processo di “riforma morale intellettuale” necessario alla rinascita italiana». Gli scritti di Gramsci sullo sport iniziano su “l’Avanti!” e proseguono attraverso le note elaborate in carcere negli anni Trenta quando a sinistra si levano altre voci critiche come quelle di Aldo Garosci, Carlo Roselli e Carlo Levi che su “Giustizia e Libertà” denunciano la strumentalizzazione fascista dello sport.

Dopo la Liberazione la sinistra dà vita a varie forme di promozione sportiva grazie all’iniziativa dell’ANPI, della CGIL e soprattutto del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile che aveva dato un significativo contributo alla Resistenza. Nei primi anni del dopoguerra il Fronte aggrega giovani di diversa estrazione politica, prevalentemente di sinistra, promuove un’intensa attività in ambito culturale e sociale e si impegna anche sul terreno dello sport, costituendo società sportive e partecipando a numerose competizioni. Con lo scioglimento del Fronte, a partire dal 1948 è l’Unione Italiana Sport Popolare a rappresentare i valori della sinistra nello spazio dello sport italiano. Tra questi, anzitutto il diritto allo sport e una concezione del fenomeno sportivo come pratica popolare di massa volta a realizzare momenti di partecipazione democratica e a fornire strumenti di emancipazione e di crescita sul piano individuale e sociale.

Nel frattempo la sinistra si muove con scarsa lungimiranza in due importanti occasioni sottolineate da Giuntini. Nel 1946 il Fronte della Gioventù rifiuta la proposta avanzata dal CLN di acquistare ad un prezzo conveniente “La Gazzetta dello sport”, rinunciando alla possibilità di controllare il più importante organo di informazione sportiva italiano. Nello stesso anno Pietro Nenni sostiene la candidatura di Giulio Onesti alla presidenza del CONI. Accreditato di vaghe simpatie socialiste, con una rapida giravolta Onesti si libera dai vincoli di partito legandosi a Giulio Andreotti, riporta la più importante istituzione sportiva nell’alveo governativo e mette in pratica un programma riassunto così da Giuntini: «Da un lato Onesti sanciva il principio e il diritto alla continuità tra sport fascista e sport post-fascista e, con un frettoloso colpo di spugna, assolveva i gerarchi sportivi fascisti e gli riapriva le porte del CONI e delle federazioni. […] Dall’altro lanciava il suo slogan più classico e sempre ribadito: “lo sport agli sportivi”. Rivendicava l’autonomia che aveva strappato ai partiti, fondando così il suo modello di sport che si proponeva di riprendere e rivitalizzare l’antico “neutralismo” decoubertiniano. Cioè lo sport come un mondo a parte, puro e incontaminato, lontano dalle brutture e dalle strumentalizzazioni della politica».

Giuntini ricostruisce inoltre le tensioni politico-ideologiche che attraversano i primi Giri d’Italia del dopoguerra e le simpatie del popolo di sinistra per il “laico” Coppi contrapposto al “democristiano” Bartali; la vittoria del campione toscano nel Tour de France del 1948, rimasta impressa nell’immaginario collettivo come un’impresa capace di pacificare l’Italia dopo l’attentato a Togliatti; la funzione della programmazione sportiva nelle Feste dell’Unità e il rinnovato interesse per lo sport della stampa comunista, nella quale spiccano i contributi di intellettuali come Italo Calvino e Alfonso Gatto e l’esaltazione dello sport dei paesi socialisti inteso come «modello sportivo sovietico collettivista e di massa contrapposto a quello individualistico e professionistico tipico degli stati capitalisti».
L’atteggiamento del Pci nei confronti dello sport si richiama alla lezione di Togliatti che negli anni Trenta aveva invitato il Partito a superare il ritardo del movimento socialista sul piano delle attività culturali, educative e ricreative di massa, compreso lo sport. Nel dopoguerra lo sport si incardina quindi nel modello del “Partito nuovo” togliattiano e nella sua filosofia volta ad aderire a tutti gli aspetti della società civile e a considerare anche la dimensione sportiva come parte integrante della nuova cultura di massa, terreno di contesa rispetto alle ipoteche reazionarie e alle strutture dell’associazionismo cattolico.

Nei decenni successivi la sinistra sportiva si identifica principalmente con l’UISP. Al percorso dell’associazione collaterale alla sinistra, e in particolare al Partito comunista, il saggio dedica ampio spazio seguendone la traiettoria a partire dagli anni Cinquanta, quando l’UISP è costretta sulla difensiva in un quadro segnato del clima della “guerra fredda” e dall’egemonia democristiana sullo sport. L’“opposizione sportiva” dell’organizzazione si attenua in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960. Rinunciando ad un atteggiamento critico, l’UISP si spende per la buona riuscita dei Giochi e per garantire un clima di pace sociale, in nome dell’interesse dello sport nazionale e in funzione di una propria legittimazione come forza “responsabile”. Gli anni Sessanta vedono poi un riposizionamento dell’organizzazione, l’elaborazione di nuove proposte politico-sportive e la maturazione di un profilo relativamente autonomo rispetto ai partiti di riferimento.
All’interno dell’associazione si rafforza e radicalizza una visione dello sport come servizio sociale, sottratto alle degenerazioni del professionismo, alla ricerca esasperata della prestazione e alla riduzione del fenomeno sportivo a spettacolo. Su questa lunghezza d’onda avviene l’intreccio tra l’UISP e i movimenti e le teorie critiche che nel ’68 e lungo gli anni Settanta animano anche il mondo dello sport.

Negli anni ’80 del craxismo e della DC di De Mita il Partito socialista e la Democrazia cristiana si lanciano «in una forsennata corsa a tutte le poltrone di governo e sottogoverno disponibili», comprese quelle sportive: «Di fatto la logica dello “scambio politico” applicata a quest’ultimo ambito viaggiava su un doppio binario: la notorietà maturata attraverso gli stadi da campioni, dirigenti, presidenti di club, veniva utilizzata per improbabili candidature regionali, senatoriali, ministeriali ecc. e, per converso, il potere derivante da un’alta responsabilità politica, favoriva l’ascesa di uomini di “Palazzo” verso le strutture direttive del sistema sportivo nazionale».
I mondiali di calcio di Italia ’90, segnati dall’affarismo e dallo sperpero di denaro pubblico, rappresentano poi un punto di svolta che accelera il declino e la fine della prima Repubblica. Come nota Giuntini, «da lì in poi la politica delle “grandi opere” e dei “grandi eventi” passò di scandalo in scandalo, di tangente in tangente, da un appalto truccato all’altro. S’ingigantì un affarismo senza fondo e scrupoli».
A sinistra questa deriva di Italia ’90 vede l’opposizione dell’UISP ed è al centro di un dossier su “Rinascita” dedicato ad una discussione critica sui mondiali. Nel contempo con la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra la principale formazione della sinistra italiana vive una fase drammatica della sua storia che si riverbera sulla dimensione sportiva. Dopo la “svolta” della Bolognina anche l’UISP decide di mutare la propria denominazione abbandonando la storica formula dello “sport popolare” a favore di un più generico e politicamente asettico “sport per tutti”.

Tra disincanto e speranza, “pessimismo della ragione” e “ottimismo della volontà”, nelle conclusioni del suo saggio Giuntini accenna alle più recenti vicende della sinistra – segnate da abiure e perdita di identità, frammentazioni e assunzioni di paradigmi politici estranei ai valori storici del movimento operaio – e ai suoi riflessi in ambito sportivo. Mantenere viva la memoria storica della sinistra anche nel campo dello sport, conclude giustamente l’autore, «non rilancerà la malandata sinistra italiana ma almeno impedirà che si disperda un ulteriore pezzo del suo patrimonio ideale e politico».


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