Speculazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Indipendenza energetica ed altre panzane https://www.carmillaonline.com/2022/08/09/indipendenza-energetica-ed-altre-panzane/ Tue, 09 Aug 2022 05:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73403 di Alexik

Le coste del Bel Paese stanno per circondarsi di nuovi rigassificatori, che si aggiungeranno a quelli già esistenti a Panigaglia, Livorno e Porto Viro. Nuovi progetti infrastrutturali per la ricezione del Gas Naturale Liquefatto (GNL) incombono sui territori terrestri e marini di Piombino, Ravenna, Porto Empedocle, Porto Vesme, Porto Torres, Oristano, Brindisi, Falconara e Gioia Tauro. Un coro di governanti o aspiranti tali, di industriali e pennivendoli esorta queste nuove “zone di sacrificio” dell’economia fossile ad immolarsi con gioia in nome della sicurezza nazionale e dell’indipendenza energetica della [...]]]> di Alexik

Le coste del Bel Paese stanno per circondarsi di nuovi rigassificatori, che si aggiungeranno a quelli già esistenti a Panigaglia, Livorno e Porto Viro.
Nuovi progetti infrastrutturali per la ricezione del Gas Naturale Liquefatto (GNL) incombono sui territori terrestri e marini di Piombino, Ravenna, Porto Empedocle, Porto Vesme, Porto Torres, Oristano, Brindisi, Falconara e Gioia Tauro.
Un coro di governanti o aspiranti tali, di industriali e pennivendoli esorta queste nuove “zone di sacrificio” dell’economia fossile ad immolarsi con gioia in nome della sicurezza nazionale e dell’indipendenza energetica della patria.

Oh, l’indipendenza energetica !!!
Al solo nominarla il cuore trepida di fiero orgoglio!
Del resto, mai nella storia della Repubblica le nostre politiche energetiche si sono dimostrate così indipendenti, così libere da ogni condizionamento, così immuni da ogni pressione come in questi ultimi mesi. Talmente libere che sembra di essere tornati ai tempi della “caduta accidentale” dell’aereo di Enrico Mattei (con la differenza che oggi di Mattei nessuno aspira ad emulare la statura, forse per evitare spiacevoli infortuni).

La proliferazione di nuovi impianti per la ricezione del GNL interessa non solo le coste italiane ma quelle dell’intera Unione Europea, ed è un processo in atto da alcuni anni sotto la spinta di due dinamiche simultanee, interconnesse e convergenti.
La prima – promossa dai vertici dell’Unione Europea – è la dinamica di costruzione di un “mercato europeo del gas” in chiave neoliberista.
La seconda è figlia delle strategie adottate dagli U.S.A. per frenare il declino della propria egemonia.
Ci soffermeremo su entrambi gli aspetti, prima di approfondire gli impatti climatici, ambientali, sulla salute e sulla sicurezza che il ciclo del GNL comporta.

Neoliberismo energetico

La creazione di un mercato europeo dell’energia e di un mercato europeo del gas nel segno della libera concorrenza affonda le sue radici negli anni ’90 del secolo scorso, nel contesto del processo di liberalizzazione dei mercati energetici che ha rappresentato il naturale proseguo della distruzione dei monopoli pubblici dell’energia, imposta dal Trattato di Maastricht1.
E’ con il nuovo millennio che si assiste però ad una accelerazione.
Nel 2007 la Commissione Europea delinea nel documento “An energy policy for Europe2 la strategia per la costruzione di un effettivo Mercato Interno dell’Energia. Negli anni successivi ne seguiranno altri3, tutti imperniati sugli stessi assiomi:

– L’assioma che identifica la competitività del mercato come strada maestra per garantire la sicurezza degli approvvigionamenti e la sostenibilità climatica.
– L’assioma secondo cui la sicurezza degli approvvigionamenti energetici verrebbe assicurata tramite la proliferazione di nuovi impianti, reti, hub, creati dagli operatori sotto la spinta del profitto. Profitto che gli Stati non devono permettersi di moderare tramite tariffe regolamentate dell’energia, perché tale intervento costituirebbe un freno agli investimenti in nuove infrastrutture (sarà in nome di questo assioma se ancor oggi i vertici europei evitano accuratamente di porre un tetto al prezzo del gas ?).
– L’assioma secondo cui un mercato del gas concorrenziale contribuirebbe a mantenere basso il prezzo delle importazioni.
– L’assioma che attribuisce la volatilità dei prezzi dell’energia e le tendenze al rialzo alla “progressiva concentrazione delle riserve di idrocarburi in poche mani”,  e che identifica la soluzione nella diversificazione delle forniture, da ottenere attraverso la creazione di nuovi hub del gas, nuovi gasdotti, nuovi stoccaggi e nuovi terminali di gas naturale liquefatto.

La proliferazione di nuovi terminal per il GNL viene definita strategica per la diversificazione delle fonti di approvvigionamento “fondamentale sia per la sicurezza energetica che per la competitività4.
E di conseguenza, le infrastrutture per il gas naturale liquefatto da allora proliferano: dal 2013 ad oggi l’Unione Europea ha finanziato, sostenuto, o inserito nei Progetti di Interesse Comune la costruzione di nuovi terminal  in Italia (FSRU OLT Oshore LNG Toscana), Lituania (FSRU Independence), Francia (Dunkerque LNG Terminal), Polonia (Swinoujscie LNG Terminal), Malta (Delimara LNG terminal), Grecia (Revithoussa LNG Terminal, Alexandroupolis LNG Terminal), Croazia (Krk LNG terminal), Spagna (LNG terminal a Tenerife e Gran Canaria), Cipro (Cyprus LNG terminal), Svezia (Gothenburg LNG terminal), Irlanda (Shannon LNG Terminal).
Oggi è sotto gli occhi di tutti come tutta questa proliferazione di impianti non abbia affatto “ridotto la volatilità dei prezzi e dell’aumento dei prezzi sui mercati internazionali dell’energia”, forse perché i prezzi del gas seguono tutt’altre dinamiche.

Come ci spiegava ReCommon nove anni fa, in Europa convivono due modelli diversi di mercato del gas :
“A un estremo vi è quello “finanziarizzato” inglese, dove per permettere nuovi meccanismi di mercato per la definizione del prezzo del gas e la creazione di una borsa del gas naturale si è adottato un principio che si basa sul suo transito attraverso diversi hub, o nodi della rete, e in ciascuno di questi il prezzo viene definito quasi istantaneamente dalle transazioni di vendita e acquisto.
Conseguentemente, si è potuto sviluppare un mercato dei prodotti finanziari collegati al gas, inclusi i prodotti derivati, così come succede a livello mondiale per il greggio. Tale approccio è seguito anche da Olanda e Belgio.
All’altro estremo troviamo l’Italia, dove il mercato del gas è fortemente pianificato e su cui operano ancora pochi operatori, solamente energetici. Il prezzo del gas è deciso principalmente tramite gli accordi di import siglati bilateralmente dalle società con i vari paesi esportatori (per esempio l’Eni con la Gazprom russa). Inoltre, gli impianti di stoccaggio sono utilizzati solamente per esigenze fisiche e strategiche della rete e non per altre finalità speculative.
In questo modo non è possibile creare una borsa del gas naturale che definisca in ogni istante il suo prezzo variabile e questo di conseguenza sottostà agli accordi internazionali e al ruolo giocato dall’Authority per l’energia elettrica e il gas (AEEG) per quel che riguarda il prezzo finale al consumatore
5.

L’eliminazione progressiva delle forniture dalla Russia – erogate prevalentemente via gasdotto e regolate tramite accordi bilaterali di lungo periodo – che rappresentavano quasi la metà (il 45% nel 2021) delle importazioni di gas dell’Unione Europea, lascia un enorme spazio per l’espansione del modello finanziarizzato del mercato del gas.
Un modello che da mesi sta producendo i suoi frutti avvelenati, descritti da Mario D’Acunto in una intervista del 14 marzo a Radio Onda d’Urto6:

In questo momento la speculazione evidente sul prezzo dei combustibili fossili nasce dal gioco che stanno facendo sia le grandi banche sia i grandi operatori – le grandi industrie che trattano gas e petrolio – e soprattutto gli hedge fund. Sono loro che stanno gonfiando il prezzo dei carburanti, dei combustibili fossili perché la finanza innesca un meccanismo che difficilmente può essere controllato.
Questo perché in questo momento il costo del gas e del petrolio è estremamente volatile.
Nel momento in cui c’è la volatilità di una commodity come i combustibili fossili i grandi fondi di investimento hanno gioco facile.
Se pensiamo che il costo del gas durante la pandemia, quando stavamo tutti a casa, era 6 o 7 euro per MWh, oggi c’è una oscillazione nell’arco di una sola giornata di 100 euro per MWh.

Questo perché fondamentalmente i soggetti commerciali che trattano gas, petrolio e carbone sono costretti a vendere molto spesso nell’arco della giornata sotto la forza delle oscillazioni di queste commodities.
I grandi fondi di investimento sono quelli che in qualche modo decidono poi il prezzo che possono applicare.
Per esempio una cosa incredibile, su cui Cingolani è intervenuto, è che il prezzo del gas aumenta sia per i soggetti che comprano mesi prima, in previsione dell’utilizzo, sia negli hub di compravendita giornaliera, come l’hub di Amsterdam, che è fatto da circa 200 soggetti, di cui una metà sono commerciali, che sono quelli che vivono comprando e vendendo gas e petrolio, e gli altri sono soggetti speculatori, che in questo modo definiscono il prezzo di queste commodities sul mercato.

Quindi è questa estrema volatilità dovuta alla guerra e dovuta alla post pandemia, che in qualche modo permette una speculazione finanziaria accesa, senza controllo, del prezzo del gas e del petrolio”.

Speculazione che determina il prezzo del gas al consumatore finale a prescindere da quello di acquisto da parte dei vari operatori, generando extraprofitti stratosferici per le compagnie dei combustibili fossili.

In pratica, tornando al tema dell’indipendenza energetica, per non dipendere da Putin siamo finiti in balìa dei mercati finanziari.

L’enfasi sullo sviluppo del mercato del GNL è funzionale a questo tipo di scenario.
Le navi metaniere viaggiano prevalentemente sulla base di contratti spot, a brevissimo termine, soprattutto da quando gli Stati Uniti sono diventati il maggior esportatore mondiale di gas naturale liquefatto.
Sono l’emblema del libero mercato. A differenza dei gasdotti che hanno la strada segnata, le metaniere seguono il denaro, cioè la rotta del prezzo più alto, a volte invertendola ignorando gli impegni contrattuali, se conviene. E’ il caso della British Listener, “partita dal terminale Freeport LNG, vicino a Houston, il 21 marzo e diretta in Asia attraverso il canale di Panama, prima di tornare indietro il 1° aprile attraversando le chiuse in direzione opposta per dirigersi verso l’Europa e i suoi prezzi più elevati7.
Checché ne dica la Commissione Europea, gli investimenti sul GNL sono l’antitesi dell’affidabilità e continuità  dell’approvvigionamento energetico, a meno che – come sta succedendo –  gli importatori non si rendano disponibili a garantire remunerazioni più alte, innescando una concorrenza al massacro fra i vari mercati e rafforzando la spirale al rialzo dei prezzi.

E’ in nome della speculazione, dunque, che si sta chiedendo alle città prescelte come sedi  dei nuovi rigassificatori di accettare impianti devastanti per il clima, per l’ambiente, la salute, la sicurezza e le attività umane. (Continua)

Immagini:
1) LNG Carrier Alto Acrux Departing Darwin February 2010, di kenhodge13. Licenza CC BY 2.0.
2) Another floating gas bottle (LNG tanker) leaves Darwin Harbour for Yokohama, Japan, di Geoff Whalan. Licenza CC BY-NC-ND 2.0.
3) Prezzi del gas. Fonte: Il Messaggero, 26 maggio 2022.


  1. Sulla vicenda delle privatizzazioni degli anni ’90 in Italia e sul ruolo del Trattato di Maastricht si rimanda alla sintetica ed utile ricostruzione di Simona Tarzia (Svenduta. Il lungo “Black Friday” delle privatizzazioni in Italia, su fivedabliu.it, 19/02/19), che ci rammenta il ruolo di vari personaggi ancora in giro: Mario Draghi, Giuliano Amato, Romano Prodi, Massimo D’Alema. Enrico Letta lo ritroviamo invece nella seconda fase della svendita all’incanto: Privatizzazioni, Letta annuncia piano da 12 miliardi. Sul mercato Eni e Fincantieri, Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2013. 

  2. Communication from the Commission to the European Council and the European Parliament, An energy policy for Europe, 2007, pp.28. 

  3. Fra questi: European Commission, Diversification of gas supply sources and routes. European Commission, Liquefied Natural Gas and gas storage will boost EU’s energy security, 16 febbraio 2016. Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni relativa a una strategia dell’UE in materia di gas naturale liquefatto e stoccaggio del gas, 16 febbraio 2016. European Commission, Commission staff working document, 16 febbraio 2016. 

  4. European Commission, Liquefied Natural Gas and gas storage will boost EU’s energy security, 16 febbraio 2016. 

  5. ReCommon, In gas we trust. Perché la finanza pubblica crede nei rigassificatori, 2013, p.4. 

  6. Di crisi energetica e speculazione economica, l’approfondimento con Mario D’Acunto, Radio Onda d’Urto, 14 marzo 2022 (testo tratto da Ecor.Network). Mario D’Acunto è autore di Capitalismo, finanza, riscaldamento globale. Transizione ecologica o transizione al socialismo?, marzo 2022. 

  7. Mathias Reymond, Pierre Rimbert, Chi sta vincendo la guerra dell’energia ?, in “Le Monde Diplomatique”, giugno 2022, p. 15. 

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Assedio all’Hotspot https://www.carmillaonline.com/2020/07/02/assedio-allhotspot/ Thu, 02 Jul 2020 20:30:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61074 La brutta vicenda di un bosco in città di Bologna, i Prati di Caprara

di Mauro Baldrati

Quando è iniziata la brutta vicenda dei Prati di Caprara, un bosco selvaggio di 27 ettari che sorge a Bologna, lungo la via Saffi dietro all’ospedale Maggiore? Potremmo dire nel settembre 2015, quando un imprenditore canadese di origini italiane, Joey Saputo, ha acquistato la squadra di calcio Bologna FC. A dire il vero l’inizio sarebbe da anticipare di un anno, con la trattativa che vedeva Saputo alla guida di una cordata di imprenditori, il cui [...]]]> La brutta vicenda di un bosco in città di Bologna, i Prati di Caprara

di Mauro Baldrati

Quando è iniziata la brutta vicenda dei Prati di Caprara, un bosco selvaggio di 27 ettari che sorge a Bologna, lungo la via Saffi dietro all’ospedale Maggiore? Potremmo dire nel settembre 2015, quando un imprenditore canadese di origini italiane, Joey Saputo, ha acquistato la squadra di calcio Bologna FC. A dire il vero l’inizio sarebbe da anticipare di un anno, con la trattativa che vedeva Saputo alla guida di una cordata di imprenditori, il cui procuratore tuttofare era il mitico avvocato italo-newyorkese Joe Tacopina (poi diventato proprietario del Venezia FC). Sappiamo che la trattativa andò in porto, ma la cordata si sciolse, Tacopina si dimise (o fu cacciato da Saputo), e il nostro si trovò unico proprietario.

Subito, col doveroso piglio manageriale, Saputo ha elaborato un progetto di riqualificazione del vecchio stadio, un esempio di architettura razionalista fascista. Consisteva nella nuova edificazione di uno stadio più moderno, più grande e fuori città. Ma l’amministrazione si mise di traverso. Un lavoro enorme, che contraddiceva, tra l’altro, i dettami delle leggi regionali, ovvero non consumare altre aree agricole. Inoltre, come gestire la bega dello stadio dismesso? Il messaggio era: agire sull’esistente.

Esistente significava ristrutturare, con una copertura futuribile degli spalti, la creazione di unità commerciali e di terziario al suo interno, oltre a una piscina. Era anche necessario predisporre uno stadio temporaneo, mentre i lavori erano in corso. Costo stimato 70 milioni di euro, che sarebbero saliti rapidamente a 100. Un investimento troppo oneroso. Necessitava di una compensazione.

Ma torniamo per un attimo agli inizi. Non del progetto, ma della modalità “accordo pubblico-privato” per la gestione della cosa pubblica, che oggi sembra definitivamente acquisito e rappresenta la normalità.

Già negli anni ’80, coi vecchi PRG, erano previsti i “Piani Particolareggiati di Iniziativa Privata”, che affiancavano quelli pubblici. I comuni cedevano aree pubbliche ai costruttori, che le urbanizzavano in cambio della realizzazione di strade, aree verdi o scuole, asili, altri locali di servizio. Erano anni di boom, di bolle edilizie, si costruiva a rotta di collo. Gli effetti sono visibili a tutti: enormi palazzoni nelle periferie, trasformate in quartieri dormitorio.

Bisognerà aspettare una ventina d’anni, quando gli urbanisti della Regione Emilia Romagna, preoccupati dal “sacco delle città”, elaborarono la legge regionale n. 20 del 2000 che imponeva, perentoriamente, il blocco dei consumi dei suoli, soprattutto agricoli.

Ma, oltre al blocco – teorico, come vedremo – la legge 20 introduceva, nero su bianco, un concetto – il concetto: l’urbanistica concertata. Questo niente affatto teorico, ma perfettamente materialista e operativo. Di fatto era una presa d’atto che i comuni non dispongono delle risorse per investire nel patrimonio pubblico, per cui entrano in campo i privati con un dare e avere chiamato appunto concertazione.

A quel punto è partito il mantra che oggi viene ripetuto di continuo di fronte a qualunque proposta o critica: l’intervento dei privati è indispensabile perché non ci sono i soldi.

Curare la manutenzione di un parco? Non ci sono i soldi.
Intervenire sull’edilizia abitativa per l’emergenza abitativa? Non ci sono i soldi.
Potenziare la sanità? Non ci sono i soldi.
Riqualificare le periferie? Non ci sono i soldi.
Potenziare scuole e asili? Non ci sono i soldi.

Invece i privati hanno i soldi. Nel nostro paese dieci uomini possiedono un patrimonio personale che supera gli 80 miliardi di dollari. In centro a Bologna l’affitto di un locale commerciale di medie dimensioni si attesta sui 2.000 euro. Un bilocale a 800. Pertanto la questione non riguarda “se” ci sono i soldi, ma dove sono e come girano.

Ma per tornare alla nostra telenovela dello stadio: dal momento stesso in cui la cordata di Saputo ha incontrato l’assessore all’Urbanistica, che ne ha parlato col sindaco, il progetto non ancora presentato era già approvato. Perché s’aveva da fare. Perché la legge 20, ancora vigente al momento della trattativa (poi “migliorata” con la LR n. 24/2017 – si veda il Titolo II), con un articolato complesso e ben scritto, pieno di buoni propositi sulla tutela dei suoli e dell’ambiente, contiene un articolo non scritto, un articolo ghost: “Quello che s’ha da fare si farà”. E’ questo il codice segreto dell’Urbanistica Concertata.

E’ scattata quindi la fase due. La fase operativa. Viste le dimensioni e le implicazioni sulla città, il progetto doveva essere compreso nel piano principe della legge 20, il POC (Piano Operativo Comunale), lo strumento urbanistico che norma gli interventi, stabilisce i parametri e la capacità edificatoria.

Per cui, considerato che Bologna è una città democratica inserita in un sistema democratico, è partito il decentramento coinvolgendo i territori, cioè i quartieri. I quali ovviamente hanno approvato. D’altra parte si è mai visto un quartiere che abbia respinto un progetto strategico dell’amministrazione? Anche perché viene sempre prospettato come un regalo: riqualificazione, aumento di valore degli edifici esistenti, pulizia, decoro. Tra l’altro, nel bosco si è insediata una tendopoli di senza tetto. Per cui una parte della popolazione era favorevole all’edificazione, che avrebbe “mandato via i rom”. Ma dove? E’ ovvio che, essendo la scelta prioritaria dell’amministrazione quella di non occuparsi attivamente dell’emergenza abitativa ma degli affari, se smantelli un campo poi si riformerà da un’altra parte, oppure un numero sempre maggiore di persone dormirà sotto i portici (come sta avvenendo in questi tempi a Bologna).

Ed ora la domanda è: Prati di Caprara? Via Saffi? Cosa diavolo c’entra con lo stadio?

Appunto. Un bel nulla. E’ un altro quartiere, senza alcun collegamento con le dinamiche dello stadio, che dista mezza città.

Ma parlavamo di compensazione. Niente paura. Quel piccolo capolavoro del “neoliberismo etico” che è la legge 20 ha pensato a tutto. Si parla (e la cosa è ripresa nei vari piani urbanistici comunali), di “perequazione urbanistica” (art.7), ovvero la capacità di trasferire capacità edificatorie da un ambito all’altro. Per cui l’intervento dei Prati Caprara è stato inserito nel progetto complessivo dello stadio.

In effetti il business è di tutto rispetto. Già, perché intanto il progetto nel 2016 è entrato nel nuovo POC. Naturalmente dopo l’iter dovuto, lungo e complesso, che comprende la famosa VIA (Valutazione di Impatto Ambientale): uno studio composto da grafici colorati, tabelle, calcoli, impatto sul traffico (disastroso ovviamente, è prevista anche una nuova strada, nella zona più congestionata e inquinata della città), che ha lo scopo di dichiarare conforme all’ambiente il progetto già approvato all’origine.

E fa impressione: metà abbondante del bosco verrà raso al suolo (il blocco del consumo dei suoli, già) per l’edificazione di 1.164 alloggi, 50.000 mq di superficie commerciale e terziaria, un outlet (la cosiddetta “Città della moda”), una scuola (privata? Pubblica?) e una strada.

Nel frattempo è nato un comitato di cittadini, Rigenerazione no speculazione, che si oppone con tenacia al progetto e cerca di sensibilizzare la cittadinanza sulla follia di distruggere un bene prezioso per la città come un intero bosco. Chiede la tutela del FAI, organizza flash mob e passeggiate sociali per farlo conoscere, avanza proposte alternative e ha raccolto circa 10.000 firme.

Forse è anche per merito del comitato se il progetto, pare, è in via di ridimensionamento? Ma sono voci, annunci, forse gossip. Come le dichiarazioni del sindaco Merola, o un presunto abbassamento dei 182.000 metri quadrati di nuova edificazione a 170.000. La parte giuridica resta, non si conoscono varianti, e intanto è stata costituita la società, presieduta da Saputo, che seguirà l’iter dei lavori. Inoltre una parte dei lavori è già iniziata. 2 ettari di bosco sono stati rasi al suolo, nel comparto dove dovrebbe sorgere la scuola con la strada. Ora è una radura abbandonata, con le erbacce alte due metri. Un classico.

Ma… la follia, si diceva. Sì, c’è un retrobottega di follia nella furia affaristica che prevede la rovina di una parte di mondo dove gli stessi attori ci vivono, coi loro familiari. E la follia comprende anche la megalomania: avanti coi supercantieri, macchine operatrici, oneri di urbanizzazione che permetteranno l’avvio di altri cantieri che forniranno oneri di urbanizzazione, e così via. Ma intanto la crisi, la crisi senza fine, endemica, strutturale, del neoliberismo, lavora dentro e fuori. La sperequazione selvaggia riduce in povertà vaste fette di popolazione, per cui si venderanno tutti questi appartamenti?

Inoltre è subentrato pure il Coronavirus col lockdown, e si prevede una nuova crisi economica, più grave dello stesso virus. Per cui si vedrà?

Ma i soldi… quelli continuano a esistere. Non si ammalano. Non si beccano il Coronavirus. E prima a poi tornano a circolare.

Perché non ci risulta che nessun virologo abbia dichiarato, in televisione, che “100 milioni di euro sono morti per Coronvirus.

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Tutta mia la città: appunti dalla mobilitazione di Centocelle https://www.carmillaonline.com/2019/12/21/tutta-mia-la-citta-appunti-dalla-mobilitazione-di-centocelle/ Sat, 21 Dec 2019 22:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56513 a cura di Azione Antifascista Roma Est

[Si è deciso di ripubblicare qui un intervento relativo ai fatti ed alla mobilitazione di Centocelle a partire dai roghi dei locali, in particolare della libreria La pecora elettrica e del Baraka Bistrot, che hanno posto il quartiere romano sotto i riflettori della stampa nazionale. Pur essendo passata la prima ondata di attenzione per gli avvenimenti specifici, ci sembra interessante riportare un documento che costituisce più un’analisi politica che una narrazione degli eventi e che, proprio per tale motivo, può rappresentare un utile strumento di riflessione metodologica e tattica per gli odierni movimenti [...]]]> a cura di Azione Antifascista Roma Est

[Si è deciso di ripubblicare qui un intervento relativo ai fatti ed alla mobilitazione di Centocelle a partire dai roghi dei locali, in particolare della libreria La pecora elettrica e del Baraka Bistrot, che hanno posto il quartiere romano sotto i riflettori della stampa nazionale. Pur essendo passata la prima ondata di attenzione per gli avvenimenti specifici, ci sembra interessante riportare un documento che costituisce più un’analisi politica che una narrazione degli eventi e che, proprio per tale motivo, può rappresentare un utile strumento di riflessione metodologica e tattica per gli odierni movimenti di resistenza e organizzazione sui territori.]

Quello che sta accadendo a Centocelle da alcune settimane ha colto tutti di sorpresa, dai tg nazionali ai politici improvvisamente vicini alla popolazione, dagli abitanti fino a noi militanti di zona e non solo.
Certo l’idea di un quartiere sotto l’attacco del fuoco di un nemico dai contorni sfumati lascia ampio margine a scoop, fantasticherie, dichiarazioni stampa e sussurri da bar. Ma ancora di più si vede che è attrattiva la capacità di un territorio di fornire risposte forti e determinate, quando si trova a reagire ad una palese aggressione alla sua incolumità. Due cortei, convocai nell’arco di tempi strettissimi, con una partecipazione non solo estremamente numerosa (circa duemila persone al primo appuntamento, circa cinquemila al secondo) ma anche variegata, meritano evidentemente di essere analizzati.
Noi siamo stati tra i primi a lanciare la mobilitazione e tra i primi a restarne sorpresi, non lo diciamo qui per arrogarci un qualche merito, ma crediamo utile condividere quanto abbiamo visto, sperimentato e colto come indicazioni da questa serie di eventi, che travalicano di molto la questione strettamente contingente dei locali incendiati producendo di fatto un’eccedenza. Quello che segue non è allora la nostra agiografia di una mobilitazione di cui stiamo ancora capendo i contorni, ma dei piccoli spunti che, almeno per noi, sono grandi lezioni di politica.

Cerca gli amici
Il nostro quartiere è un grosso quadrilatero con una lunga storia operaia e resistenziale, borgata popolare, covo di rivoltosi e banditi d’ogni risma, che tutt’ora, nonostante le trasformazioni urbane, vanta una radicata presenza di collettivi, spazi sociali, comitati, associazioni e reti organizzative. Uno dei primi percorsi che abbiamo intrapreso tempo fa, da gruppo politico antifascista quale siamo, è stato tessere un legame tra tutte le realtà che ci erano più vicine. Con esse è nata una rete antifascista territoriale, che ci ha permesso di stare sulle piazze e sviluppare una serie di iniziative sociali, nonché di ridare vita allo storico corteo del 25 aprile; abbiamo sopperito alla mancanza di forze di ciascuno unendoci come e quando possibile, a partire da un’analisi comune ma soprattutto da una condivisione di un metodo e di alcune pratiche. Lo abbiamo fatto mettendo da parte quell’attitudine movimentista, a guardare gli altri con sospetto, come fossero la concorrenza sleale della propria bottega, facendo un passo indietro davanti a differenze ideologiche spesso stridenti e scrollandoci di dosso, non senza fatica, la pretesa di stare sempre nei nostri panni rigettando quelli altrui.
Si dirà che una rete così eterogenea e centrata sull’antifascismo è poca roba, che non ha la possibilità di andare granché lontano o darsi chissà quale progettualità e forse è anche vero. Ma possiamo dire, ora con assoluta certezza, che mettere a valore (e non da parte) le diversità, partire dai limiti e intavolare ambiti di discorso franchi e costruttivi è un metodo che paga, che aumenta le capacità e che sedimenta una forza comune spendibile secondo le diverse occasioni o necessità.
Senza questa tensione a fare rete, non ci sentiamo sicuri di dire che l’appello alla piazza, fatto dalla mattina alla sera sull’onda dell’emergenza, avrebbe avuto lo stesso effetto; né crediamo che sarebbe stato possibile mantenere una relazione dopo l’accaduto con tutte le persone che abbiamo incontrato. Un conto è fare rete tra piccoli gruppi antifascisti, o connettere le realtà militanti presenti nello stesso quadrante della città; altro conto è riuscire a interagire con realtà territoriali, che agiscono su vari temi, anche molto diverse da noi e tra loro, come il comitato dei cittadini per la cura del parco, l’associazione dei commercianti o i genitori che si organizzano per occuparsi a vicenda ed in comune dei loro figli. Si tratta di esperienze organizzative diverse che per noi, però, rappresentano in egual modo ambiti di sperimentazione di quello, che durante i vari festival antifascisti fatti in giro per l’Italia dall’ anno scorso, abbiamo chiamato “antifascismo sociale”.

Esci dal guscio
Se ci siamo trovati spiazzati la sera del 6 novembre quando Piazza dei Mirti era strapiena di gente prima ancora dell’orario dato per il concentramento, figuratevi quando ci siamo trovati dopo il rogo del Baraka, a due giorni dalla prima Passeggiata, davanti ad una platea di abitanti che, non solo rifiutava compatta l’uso delle forze dell’ordine come soluzione del problema, ma si autoconvocava per il giorno successivo in un centro sociale, in cui molti non erano nemmeno mai stati (e questo a prescindere, di fatto, dalla stessa componente militante), per capire come portare avanti una mobilitazione a difesa della propria comunità.
Duecento persone di domenica pomeriggio hanno deciso di impiegare il loro giorno di riposo per stare oltre tre ore a parlare con degli sconosciuti di come fare fronte comune ad una minaccia concreta. Ne sono emerse posizioni differenti, idee contrastanti, visioni del mondo e del quartiere che difficilmente si sarebbero parlate altrove. Ma il vero dato comune uscito fuori, oltre le rivendicazioni particolari e l’ovvia attenzione verso quanto accaduto nei giorni precedenti, è stato il netto bisogno di confrontarsi: ciò che si coglieva in quell’assise era la volontà di ciascuno di uscire dal proprio guscio, di parlare con altri simili, di sentirsi parte di una comunità, di curare un aspetto della vita che è quello collettivo. Lo diciamo senza retorica: il bisogno esistenziale di sentirsi parte di qualcosa è molto più materiale e concreto di quanto possiamo credere. Ma come è possibile che da un giorno all’altro si siano spezzati il meccanismo della riserva indiana che vede i militanti rinchiusi nei propri spazi e nelle proprie certezze e l’indifferenza metropolitana che vede ognuno per sé e Dio per tutti? Come è accaduto che ci si sia trovati a discutere di negozi minacciati dalla malavita, di parchi sporchi e non illuminati, di centri sociali sotto sgombero e di riuscire a trovarsi d’accordo? Vero è che l’emergenza fa la famiglia ma, anche rispetto alle emergenze è bene assumere un comune atteggiamento ed una comune inclinazione: mettersi in ascolto, porsi in sintonia, ricercare un linguaggio comune senza imporre il proprio, mettersi in relazione con il territorio e con i bisogni condivisi di chi lo abita come noi. Insomma, scendere dal piedistallo prendendo parte e sentendosi parte, seppur da una chiara prospettiva di parte. Evidentemente, nello sforzo di fare rete e smussare gli spigoli di ciascuno, ci siamo educati (probabilmente anche in modo inconsapevole) ad avere un approccio laico alle cose della vita, a prendere ciò che il presente ci offre con minor ideologia e maggior pragmatismo. Avremmo potuto ignorare il bisogno di sicurezza classificandolo come istanza reazionaria, l’esigenza di parchi puliti e illuminazione catalogandola come velleità cittadinista, avremmo potuto misconoscere le indicazioni che il contesto presentava e tirare dritto per la nostra strada fatta di granitiche certezze e formule comode. Siamo riusciti invece a fare un passo indietro rispetto a noi stessi, mettendo da parte le nostre tipiche formule discorsive, le meccaniche di movimento, le posture da veterani del conflitto sociale e ci siamo posti all’ascolto, alla ricerca di un rapporto osmotico col territorio prendendo ogni spunto per quello che era: la legittima istanza di chi abita e vive il quartiere di Centocelle. Le persone che erano in piazza nelle due Passeggiate e che si sono sedute nelle assemblee di questi giorni hanno a cuore il loro quartiere e la loro comunità, è all’interno di questi elementi che esistono mondi interi: dagli spazi sociali sotto sgombero ai consultori chiusi, dalle vertenze lavorative ai parchetti puliti, dagli asili nido che mancano, ai migranti additati come capro espiatorio di tutti i mali del mondo, alla gentrificazione e giù fino ai commercianti in rosso. Abbiamo qui un inventario di lotte avviate o potenziali che aspettano di essere amplificate da un discorso comune ed ognuna di queste è in grado, in potenza, di innescare una reazione a catena una volta costruita una cornice di mutuo riconoscimento e una volta sviluppato un metodo di mutuo appoggio.
Come antifascisti, per essere un po’ più chiari, se avessimo parlato in assemblea di fascismo sistemico o di come il sovranismo stia prendendo piede nel mondo, avremmo trovato davanti una platea di sbadigli e occhi che roteano nervosamente cercando la via di fuga. Abbiamo capito infatti che non sempre il nostro punto di vista, se non declinato a partire dalle istanze sociali reali e dai bisogni materiali effettivi, riesce ad essere messo a fuoco. Parlando invece di un quartiere da difendere, di una comunità resistente da costruire, di un territorio da sottrarre alla militarizzazione, alla paranoia securitaria o alle passerelle elettorali piuttosto che alle ronde dei fascisti ci siamo messi in sintonia con molti altri.
Non siamo dei geni, non abbiamo avuto e non abbiamo tuttora la ricetta vincente, ma abbiamo dialogato con tante persone tutte diverse tra loro e da noi, quelle che spesso e volentieri ci sembrano così lontane, scoprendo che invece ci si intendeva perfettamente.

Drizza le orecchie
Possiamo dirlo, nell’epoca dell’indifferenza, l’ascolto è una virtù rivoluzionaria. E la frase ha più significati (escluso quello morale e cristiano che non ci interessa). Anzitutto combattere contro un nemico invisibile, come lo si chiama sui giornali adesso, impone una maggiore consapevolezza, non di meno, trovarsi di fronte ad una mobilitazione che giunge inaspettata rende imprescindibile sviluppare un’idea minimamente strategica. Usciti da una prima fase emergenziale non possiamo limitarci alle nostre ipotesi, quando diciamo che dobbiamo entrare in rapporto osmotico col territorio ed ascoltare le indicazioni che offre, questo intendiamo: dai nostri spazi e dalle nostre condizioni di vita non possiamo dare per scontato tutto ciò di cui ha bisogno un territorio, né le dinamiche peculiari che ne determinano le evoluzioni. Possiamo conoscerne il funzionamento generale e coglierne le necessità generali, ma non riusciremo mai ad operare un’azione capillare ed efficace se non mettiamo in moto l’intelligenza collettiva che raccoglie insieme i vissuti, le competenze e le conoscenze dirette di una molteplicità di attori che vivono e animano il contesto di riferimento. Tutti i frammenti che possiamo cogliere alla rinfusa sulla strada vanno messi a sistema in un caleidoscopio capace di offrire una visione stratificata e multiforme del campo d’azione.
Se questo si fa raccogliendo e ascoltando, un ulteriore passaggio si impone come necessario e conseguente: la centralità dell’inchiesta e del suo metodo diventano imprescindibili nel momento in cui si vogliano trasformare, secondo un ordine di priorità condiviso, i bisogni in un processo di lotte territoriali, in cui il piano dell’aggregazione viene spingendosi sul bordo della conflittualità sociale. L’utilità di un’inchiesta territoriale del resto, per noi, non è solo quella di sviluppare una capacità di cogliere la complessità del presente, quanto più quella di saper anticipare i processi, le tendenze e le trasformazioni in atto per uscire dalla dinamica emergenziale e resistenziale riuscendo invece a prevenire ed agire tempestivamente il reale.
Una comunità resistente deve sviluppare la capacità di individuare i suoi bisogni e di metterli a sistema, di comprendere qual’è lo spettro di indizi, quali sono i macroprocessi in atto che determinano una situazione specifica, quali le esigenze che emergono come prioritarie e come provare a soddisfarle, quali sono i suoi amici, quali i potenziali nemici, quali i metodi, i linguaggi, gli obbiettivi, ma soprattutto quali i mezzi e gli strumenti di cui si dota per raggiungerli.
È solo nella capacità di ascoltare e cogliere senza pregiudiziale ideologica ciò che il presente offre come campo di battaglia, che si possono operare fratture rispetto alla dilagante pacificazione sociale e aprire alle possibilità di trasformazione antagonista, senza paura di fallire o uscire dal nostro seminato. È necessario mettersi nelle condizioni di praticare l’impensabile, di essere dove nessuno si aspettava di trovarci e di farlo in maniera inedita ed anche spregiudicata se necessario.

Cogli l’occasione
Sapevamo benissimo, la mattina del rogo alla Pecora Elettrica, che si sarebbe scatenata una querelle di giornalisti, di politicanti, tuttologi, opinionisti e fascisti. E sapevamo che se non facevamo qualche cosa il discorso securitario avrebbe preso il sopravvento e ci avrebbe travolto con tutto il suo stuolo di cacce al “negro”, di ronde antispacciatori, di polizia e militari, di coprifuoco e telecamere. Del resto, un minimo di conoscenza del territorio, dei sentimenti e delle pulsioni latenti, della popolarità di cui godono alcune istanze reazionarie (si pensi al successo di Lega e Fratelli di Italia nel V Municipio alle ultime elezioni) anche nel quartiere di Centocelle, ci hanno permesso di giocare di anticipo. Si imponeva la necessità di difendere il nostro quartiere da quest’esondazione sempre più frequente di fascismo diffuso e sistemico. Si imponeva la necessità di riflettere e di agire quella temporalità che ci viene imposta dai ritmi frenetici della contemporaneità occidentale, in cui oltre a subire un quotidiano bombardamento mediatico sui fatti di cronaca, veniamo spesso sovrastati dagli eventi rispetto ai quali abbiamo difficoltà ad esprimerci e a prender parte. Agire in maniera efficace a partire da problemi sociali richiede, però, un certo tempismo e una certa puntualità dell’azione rispetto al sorgere di determinate questioni. Abbiamo allora chiamato a raccolta per una Passeggiata di Autodifesa, piuttosto che ad un corteo di solidarietà o altro, e lo abbiamo fatto in modo spontaneo e naturale di fronte alle telecamere, in giro per i bar e sulle chat di zona. Ci è venuto quasi automatico chiamare così la nostra modalità di stare in piazza, perché era di questo che sentivamo il bisogno come rete territoriale, ma questo sapevamo che era anche il bisogno delle persone intorno a noi.
Proprio per un approccio laico alle cose, abbiamo intuito (e non certo da soli né per primi) che quello della sicurezza è ormai un bisogno assodato, per quanto sia sicuramente un bisogno indotto o quantomeno amplificato dalla retorica politica e dalle campagne di isteria di massa dei media mainstrem. Inutile starci a dire quanto sia reazionario come discorso, di come sia il cavallo di battaglia della peggior destra e lo sdoganamento della guerra ai poveri. Tutto vero, ma è anche vero che il bisogno di sentirsi sicuri fa parte non solo della specie umana, ma di qualsiasi animale con un minimo di istinto di sopravvivenza e se il nemico ne ha fatta la sua bandiera ovunque, forse è bene levargliela di mano o quantomeno rendergli difficile usarla.
Nel camminare per strada dietro lo striscione Combatti la Paura, Difendi il Quartiere ci siamo attirati gli strali dei benpensanti che ci hanno dipinto come sceriffi allo sbaraglio, la critica di quella parte di movimento che vede l’autodifesa come una pratica contraddittoria e stridente rispetto ad una certa ideologia. In molti, tra cui anche gli amici, ci hanno guardato come si fa con un incorreggibile nipote che ripete l’ennesimo errore senza mai ascoltare i buoni consigli. Ma per noi, che ragionavamo su questo tema ormai da tempo insieme a molte realtà del territorio e ad altre diffuse in tante città italiane, si è trattato di agire per riempire uno di quei tanti vuoti politici a cui sono abbandonate le istanze sociali. Perché il vuoto quando non è organizzato, è sempre reazionario e viene colmato dal nemico. E dietro quello striscione c’era un intero quartiere, in tutte le sue più insospettabili componenti. Non abbiamo seguito nessun copione rodato ma evidentemente un’intuizione che, elaborata nel tempo ma agita tempestivamente, ha saputo incidere sulla percezione della realtà.
Siamo stati spregiudicati e abbiamo, volenti o nolenti, sparigliato le carte in tavola. Chi si aspettava di trovarsi una marcia per la pace e la solidarietà o, al contrario, una fiaccolata per la sicurezza e la segregazione, è rimasto deluso o allibito.
Tramite la difesa del quartiere abbiamo fatto capire molto chiaramente che non è accettabile, non solo che le vite di chi ci lavora o ci abita vengano messe a repentaglio da attività criminali di qualsiasi natura, ma anche che i processi di speculazione e messa a profitto incontrollata dei territori sul libero mercato e parimenti la militarizzazione delle strade, non siano soluzioni ma problemi enormi da cui difendersi. Centocelle è un quartiere con un suo tessuto popolare vivo e pulsante, è molto di più che una piazza di spaccio o una zona di struscio come dicono in tanti.
È quella dimensione comunitaria e resistente che vogliamo curare, proteggere e far crescere. Per questo diciamo che la sicurezza del territorio la fanno gli abitanti che lo vivono e si organizzano, che l’unica sicurezza possibile è la vivibilità di un territorio dove gli abitanti decidono del loro destino, dove non abita la paura e dove lo Stato piuttosto che proporre posti di blocco dovrebbe rispondere ai bisogni e alle necessità di chi lo abita. Ed avevamo ragione, perché se le istituzioni hanno risposto a questa chiara e diffusa presa di posizione blindando il quartiere e facendolo sembrare una zona di guerra con pattuglie e blocchi ovunque, gli abitanti hanno risposto puntualmente per strada e nei tavoli istituzionali che non è questo che ci interessa, che l’unica soluzione possibile è la costruzione di territori a dimensione umana. Non solo, di fronte alla sordità, all’incompetenza o ai tentennamenti dei rappresentanti delle istituzioni, si è reso evidente e lampante a tutti che l’unico modo per interagire ed ottenere risultati è la mobilitazione ad oltranza, la costruzione in autonomia di comunità resistenti in grado di determinare le scelte di campo.
Sempre in modo poco ortodosso abbiamo rotto un altro dei nostri grandi tabù da compagni, il rapporto con la stampa.
Ci siamo sovraesposti ai riflettori dei media mainstream in maniera forse spudorata ma consapevole. Di fronte all’imponenza della mobilitazione e all’attenzione mediatica, abbiamo colto la possibilità di inquinare il discorso mainstream ed imporre, per quanto possibile, la nostra narrazione al grande pubblico. Se in altri tempi avremmo cacciato i giornalisti dal corteo o ci saremmo limitati a guardarli male, questa volta ci siamo messi a favor di telecamera e l’abbiamo fatto in modo che sui giornali e nei tg si fosse costretti a guardare uno slogan di parte, a sentire le nostre voci e la nostra lettura della realtà. La televisione ha dovuto mostrare le bandiere rosso nere in testa ai cortei ammettendo, un po’ mestamente, che erano gli spazi sociali e gli antifascisti ad aver accolto la mobilitazione del territorio. Potevano parlare solo di pusher e polizia, sono stati costretti a parlare anche di comunità resistenti e tutta la penisola ha dovuto ascoltare e vedere quanto accaduto dalla prospettiva di chi lo ha veramente vissuto e non solo da quella distorta di chi vuole manipolare la realtà per imporgli il suo significato. La costruzione di immaginari vincenti passa anche e soprattutto attraverso la capacità di egemonizzare il discorso pubblico e che né Salvini né la Meloni, o chi per loro, abbiano speso una sola parola sulla situazione è indicativo dell’importanza della narrazione.
Del resto, viviamo un’epoca in cui l’immagine, la rappresentazione e la propaganda mediatica da strumenti del fare politica sono divenuti la politica stessa. E’ un dato di fatto con cui dobbiamo fare i conti. Tutto ciò che facciamo, perde forza ed efficacia se non siamo in grado di raccontarlo come vogliamo e crediamo noi. La propaganda tramite l’azione ci rende vulnerabili alla narrazione del nemico, l’assenza di propaganda ci rende invisibili. L’azione, la sua messa a sistema e la capacità di narrarla autonomamente, sono elementi basilari per la costruzione di una prassi efficace.
Dinnanzi alle precipitazioni del presente ci sono poche discussioni da fare, è necessario cogliere le occasioni appena si danno, occupare tutti gli spazi disponibili e imporre una narrazione di parte. Si è agito sempre nell’ottica di costruire una forma di resistenza a partire da un atteggiamento inclusivo, volto alla condivisione e all’ascolto. Non abbiamo seguito alcuna regola e forse ne abbiamo infrante alcune, ma…

Guarda lontano
È d’obbligo, in ultima istanza, comprendere che, oltre l’emergenza imposta ed affrontata, diventa ora fondamentale cogliere gli aspetti generali e macroscopici del discorso e delineare le traiettorie future.
Quello che è accaduto in questi giorni non è che una precipitazione assai grave e visibile di un processo di trasformazione che sta investendo Centocelle, ma che ci parla di una tecnica di governo dei territori riproposta in Occidente ormai su scala globale, non di meno, ci indica ciò che potenzialmente si agita in seno ad una comunità in divenire orfana di prospettive ed orizzonti riconoscibili.
Da quartiere popolare periferico come tanti, con l’inaugurazione della metropolitana e la più generale riqualificazione del quadrante est della metropoli, Centocelle ha visto modificare la sua geografia e il suo tessuto sociale molto velocemente: le principali piazze sono state completamente ristrutturate; nuove e più attrattive attività sono nate sul territorio, dai franchising ai fast food più commerciali, alla proliferazione di locali e boutique per la movida o lo shopping “alternativi”; una popolazione giovanile fatta di studenti e lavoratori precari si è trasferita a convivere con la popolazione autoctona dopo che i quartieri di San Lorenzo e Pigneto hanno subito una gentrificazione tale da rendersi sempre più elitari ed inaccessibili. Centocelle è oggi un quartiere in piena crescita e questo, oltre offrire possibilità di sopravvivenza e socialità a molti, attrae le avide attenzioni di affaristi, imprenditori e speculatori di ogni risma.
Dal canto suo, l’amministrazione cittadina (non solo Cinque Stelle) ha assunto una certa idea di “riqualificazione” dei quartieri come politica di governo e gestione della città. Ha favorito un modello gestionale tutto volto ad incentivare l’iniziativa economica privata, trascurando quasi del tutto le istanze ed i bisogni sociali di chi i territori li abita, così sventrando interi quartieri, trasformati in centri commerciali a cielo aperto, ed alimentando macroscopiche periferie sempre più amorfe e deprimenti, prive di spazi e riferimenti per la vita collettiva.
Si aggiunga a ciò che tutte queste trasformazioni avvengono all’insegna dell’ideologia del decoro, della lotta al degrado, traducendosi in una continua e pervicace militarizzazione dei territori che inonda le strade di forze armate acuendo una spirale di bisogni inevasi, tensioni interrazziali portate alle stelle, intimidazioni, stigmatizzazioni, espulsione e repressione di quei soggetti spinti sempre più al margine della società. Così, si approfondiscono in ogni territorio quelle micro-fratture che si fanno sempre più violente, fino a diventare una sorta di guerra civile a bassa intensità.
Crediamo che la risposta popolare che si è prodotta in queste settimane, sia non solo una dimostrazione di solidarietà attiva a coloro che hanno subito personalmente degli attacchi materiali ed intimidatori, ma che abbia aperto un vaso di Pandora che ha sprigionato energie rimaste a lungo compresse. Energie che si concretizzano, ora, nella volontà di organizzarsi assieme per far fronte alle comuni necessità. È chiaro a chi è sceso in strada, che il problema non è solo la malavita, ma la speculazione su questa città, l’amministrazione che la veicola, lo Stato che non offre soluzioni ma pattuglie e passerelle pubblicitarie, la distruzione delle comunità locali a favore del profitto di grandi ed oscuri interessi. C’è ora il bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di costruire delle comunità che abbiano la possibilità di contare davvero e poter fare la differenza all’interno del proprio contesto. Si è vista la forza che è in grado di catalizzare su di sé una mobilitazione reale e sentita.
Non è un caso che dalla mobilitazione emergenziale ed emotiva, nata a partire dai roghi, è nata una Libera Assemblea dalla composizione ampia ed eterogenea. Un ambito di discussione e di organizzazione che vede uniti assieme abitanti, lavoratori, ristoratori, militanti, genitori e tanto altro. L’idea dell’autodifesa ha evidentemente coinciso con la possibilità di organizzarsi per poter decidere sul territorio e sulle proprie vite, quindi, con un’idea di autodeterminazione. La libera assemblea di Centocelle è pertanto un ambito che può crescere, radicarsi ed essere potente, solo finché ogni anima che lo compone avrà spazio per muoversi come più gli è congeniale. Se rimane, cioè, un luogo in cui sperimentare, condividere e contaminarsi a partire dalle specificità di ciascuno, mettendo in comune capacità organizzative e saperi militanti. Un contesto, per noi, da attraversare con lo stesso atteggiamento inclusivo, di condivisione e di ascolto proposto finora, che si ponga in un rapporto osmotico con i diversi bisogni e le diverse istanze di chi lo attraversa. Un ambito di relazioni che è necessario difendere da speculazioni varie, tutte volte a capitalizzare politicamente una comunità che viene, in senso elettorale e non.
Da parte nostra intendiamo attraversare questo spazio dalla nostra prospettiva di parte, muovendoci dentro ed attorno ad essa per costruire una comunità resistente che sappia essere determinante all’interno del processo di trasformazione che interessa il quartiere, a partire dai bisogni condivisi di chi lo abita. Una comunità resistente che sappia sviluppare un metodo, un linguaggio ed un immaginario comune per individuare con chiarezza i propri obiettivi e, ancora, rispetto a questi che sappia elaborare una “tattica di lotta multiforme”: ossia la capacità di esprimersi ed agire direttamente sui problemi che il presente impone, senza escludere aprioristicamente o ideologicamente alcun tipo di pratica, tenendo in considerazione invece le differenti sensibilità di cui si compone. Una comunità resistente che abbia la capacità di mettersi in relazione con altre comunità locali in lotta e che sappia concepire tutti i conflitti particolari come parte di una lotta complessiva entro cui riconoscersi e da cui trarre forza.

Combatti la paura, difendi il quartiere!

p.s. A tutti quei compagni che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e con cui abbiamo avuto la fortuna di ragionare e riflettere negli ultimi tempi. Consapevoli che senza di voi, senza i ragionamenti e le esperienze con voi condivise non avremmo avuto la stessa capacità, forza e determinazione per affrontare questo particolare momento e soprattutto di provare a resistere al buio e superare la notte. Nella speranza che arrivi il giorno in cui godersi l’aurora insieme…Grazie!

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Uno tsunami planetario https://www.carmillaonline.com/2017/08/10/uno-tsunami-planetario/ Wed, 09 Aug 2017 22:01:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39701 di Sandro Moiso

Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi 2017, pp. 206, € 18,00

Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società [...]]]> di Sandro Moiso

Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi 2017, pp. 206, € 18,00

Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società di navigazione e banche e che si appresta a travolgere l’intera economia mondiale se non sarà adeguatamente affrontata.

Un’onda gigantesca che non si accontenterà, come ai tempi dell’esplosione del vulcano dell’isola di Santorini tra il 1627 e il 1600 a.c., di spazzare l’Arcipelago Egeo e il mare Mediterraneo, ma autentici colossi della finanza quali la Deutsche Bank, in confronto alla quale il colosso di Rodi non poteva costituire altro che un misero e impotente nano.
Contro questo pericolo, apparentemente invisibile e sicuramente sottovalutato, ci mette in guardia l’ultima raccolta di testi di Sergio Bologna, pubblicata da DeriveApprodi.

Saggista, consulente nel settore dei trasporti e della logistica, ricercatore ed insegnante universitario, attualmente Presidente dell’Agenzia Imprenditoriale Operatori Marittimi (A.I.O.M.) di Trieste, Sergio Bologna non rifiuta nemmeno di essere definito come un “vecchio estremista di sinistra”.
In cotante vesti, per una volta, egli non si occupa però direttamente di quel milione e mezzo di uomini che a bordo della flotta mercantile mondiale costituiscono la forza lavoro invisibile dalla quale noi tutti dipendiamo.1

E non vuole essere lui, in prima persona, a ripetere per una sorta di vizio congenito le malefatte del capitalismo. No, ce lo dice l’autore stesso, saranno “loro, uomini della City, manager d’impresa, noti guru del settore, funzionari con responsabilità istituzionale” a rivelare, attraverso la miriade di pubblicazioni, blog, newsletter specialistiche e dichiarazioni ufficiali di soggetti istituzionali consultati dall’autore, l’autentico baratro economico-finanziario creato dal gigantismo speculativo e tecnologico nel settore dello shipping e della logistica marittima e portuale.

In otto articoli, scritti in differenti occasioni e mai pubblicati prima in forma cartacea, e con un’Appendice che raccoglie estratti sia dal documento sui porti della Corte dei Conti Europea che dal Rapporto ufficiale sull’incidente occorso alla nave CSCL Indian Ocean in arrivo al porto di Amburgo, insieme a tre interviste a Gian Enzo Duci (sul mercato mondiale dei marittimi), Mario Sommariva (dell’Agenzia del Lavoro del porto di Trieste) e Roberto Prever (sulla progettazione delle navi traghetto) oltre a una ricostruzione della storia della logistica curata da Pier Paolo Poggio, Sergio Bologna dimostra come gli investimenti finanziari in progetti caratterizzati dal gigantismo, sia nelle previsioni economiche che dei mezzi destinati a sostenerle, abbia portato ad una situazione di crisi in cui, nonostante gli enormi fatturati, i profitti siano ormai nettamente inferiori alle perdite di esercizio per gli investitori.

La prima cosa che colpisce, tra i dati riportati dal testo, è che il sorgente ed eclatante capitalismo orientale non va meglio di quello occidentale. Parafrasando e rovesciando di significato una vecchia canzone dei Jefferson Airplane: Things aren’t better in the East. Anzi…
E’ proprio dal fallimento dell’importantissima compagnia marittima sudcoreana Hanjin che prende infatti il via la ricerca e l’analisi delle prospettive, drammatiche del commercio marittimo mondiale. In particolare di quello basato sui container e sulle navi porta-container.

Il fallimento di Hanjin e le vicissitudini di tante altre compagnie del Far East, da Cosco a Nippon Yusei Kaisha, da K Line a Hyundai Merchant Marine, quelle dei cantieri sudcoreani Daewoo e Stx, dei cantieri cinesi e giapponesi, squarciano il velo su un capitalismo asiatico di cui avevamo una visione mitologica, lo ritenevamo aggressivo ma sagace, invece si rivela di una fragilità preoccupante, tamponata solo dagli aiuti di Stato, e piena di personaggi senza scrupoli, capaci di mandare all’aria imperi industriali costruiti da uomini venuti su dal niente. Hanjin, come Korean Air, è stat fondata dal signor Cho Choong Hoong, che ha cominciato da solo, con un camion, portando roba per l’esercito americano nella Corea del dopoguerra. Ha costruito una conglomerata, un caebol, da 20 miliardi di dollari, lasciandola ai quattro figli. A Cho Yang Ho è toccata Korean Air, a Cho Soo Ho è toccata Hanjin. Quando questi muore di cancro nel 2006 gli subentra la moglie, la bella Choi Eun-young ed è lei che si presenta, piagnucolante e contrita, davanti alla commissione di inchiesta sul fallimento della compagnia: «Quando mi sono trovata in mano questa società, alla morte di mio marito, sapevo solo di fornelli e di cucina!»2

Ma, alle spalle della narrazione “famigliare”, va anche intravista l’azione dell’uomo in cui sono state messe le redini della società dopo la dichiarazione di fallimento: “Tae-Soo Seok, 61 anni ben portati, Master in Business Administration al Mit di Boston. Uno di quelli ai quali insegnano che il primo dovere di un manager è fare gli interessi dagli azionisti, non dell’azienda.
E tanto meno dei dipendenti, dei lavoratori e di tutti coloro che, grandi e piccini, possono dipendere dalla stessa e dai suoi servizi.

Da questo punto di vista le vicende della Hanjiin diventano paradigmatiche per le conseguenze che una crisi globale del trasporto marittimo potrebbe causare sull’intera economia mondiale: enormi navi porta-container disperse sugli oceani in attesa di conoscere la loro eventuale (ultima?) destinazione; migliaia di uomini imbarcati senza sapere quando per loro sarà possibile sbarcare o ricevere lo stipendio; merci (spesso deperibili) in attesa di essere sbarcate ed inviate a destinazione oppure imbarcate su navi che non arriveranno mai; altre navi ormeggiate al largo di porti già intasati senza conoscere se e quando potranno essere scaricate o caricate; porti bloccati da migliaia di container di cui non si sa più se saranno imbarcati e da chi; fornitori e clienti che vedono la loro merce immobilizzata in scali giganteschi, su moli resi inagibili da code infinite di camion ed autotrasportatori in attesa di ritirarle o consegnarle. Da Anversa agli scali mediterranei, dagli Stati Uniti ai porti asiatici.

Il disastro è servito, a dimostrazione che “il capitalismo asiatico ha recepito e ingrandito tutti i difetti e le tare del capitalismo occidentale. E ci fa sorridere l’idea che tanti attori importanti del nostro mondo economico e politico ripongano nei rapporti commerciali e finanziari con il Far East, ma soprattutto con la Cina, una fiducia incrollabile per le sorti magnifiche e progressive dell’Italia e dell’Europa. Per la leggendaria Via della Seta oggi non arrivano spezie e broccati preziosi ma calz e reggiseni, a due euro il pacco da dieci pezzi”.

Ora, senza continuare a citare e riassumere un testo di per sé interessantissimo e stimolante, ciò che colpisce ancora di più è la mania di gigantismo che sembra avere colpito un capitalismo, a questo punto potremmo dire mondiale, che cerca di sostituire la mancata accumulazione di profitti sul medio e lungo periodo con speculazioni destinate a impianti, opere e costruzioni faraoniche il cui fine ultimo sembra essere, spesso, a dare l’idea della crescita economica più che a realizzarla.

Vale per l’utilizzo dei container e delle autentiche città galleggianti destinate a trasportarli, vale per gli Expo e le Olimpiadi di vario genere (invernali e no) e, anche, per i progetti riguardanti l’Alta Velocità ferroviaria.3 Fallimenti assicurati e introiti giganteschi per pochi, frutto dell’autentico ladrocinio operato sulle risorse della società. Risorse destinate ad essere progressivamente prosciugate in nome del profitto immediato di pochissimi manager ed azionisti, le cui azioni sono destinate a ricadere negativamente non solo sulla generazione presente ma anche su quelle future.

Un impoverimento generalizzato, accelerato e progressivo che se non vedrà le grandi aziende e gli Stati, come suggeriscono Bologna ed altri esperti del settore, cambiare rotte e direzione non potrà far altro che precipitare sempre più milioni, o forse miliardi, di uomini e donne nella povertà o peggio ancora in una guerra di spartizione di ciò che rimane dell’economia mondiale.
Una riflessione, quest’ultima, non direttamente contenuta nel testo, ma verso la quale la visione olistica di Bologna, come viene definita nell’introduzione da Zeno D’Agostino (Presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico Orientale), conduce inevitabilmente.


  1. Per chi volesse approfondire questo discorso, oltre ai blog indicati nel testo di Bologna, sarebbe utile consultare Devi Sacchetto, FABBRICHE GALLEGGIANTI. Solitudine e sfruttamento dei nuovi marinai, Jaca Book 2009  

  2. pp. 17-18  

  3. Su questo argomento e proprio sulla linea Torino –Lione e le scuse addotte per giustificarne la realizzazione Sergio Bologna aveva già espresso un duro e documentato giudizio critico in un’intervista rilasciata per il testo di Andrea De Benedetti e Luca Rastello, Lisbona – Kiev BINARIO MORTO. Alla scoperta del corridoio 5 dell’alta velocità che non c’è, Chiarelettere 2013  

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Fine anno, fine della corsa? https://www.carmillaonline.com/2014/12/20/anno-corsa/ Fri, 19 Dec 2014 23:01:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=19547 di Sandro Moiso

walter white Quello che infastidisce maggiormente nello spettacolo di Mafia capitale è l’accento posto sull’eccezionalità del caso romano, la sorpresa che tutti i media sembrano mostrare nei confronti di quello che non è altro che un caso (tutt’altro che anomalo) di corruzione amministrativa e politica quotidiana nell’Italia degli scandali legati all’Expo, al Mose e a molti altri ancora. Ma, ormai, il termine Mafia ha preso il posto dell’Uomo Nero, di Freddie Krueger, di Walter White e di qualsiasi altra figura dell’immaginario più diabolico e viene sbandierato ad ogni piè sospinto per dimostrare che ciò che c’è di [...]]]> di Sandro Moiso

walter white Quello che infastidisce maggiormente nello spettacolo di Mafia capitale è l’accento posto sull’eccezionalità del caso romano, la sorpresa che tutti i media sembrano mostrare nei confronti di quello che non è altro che un caso (tutt’altro che anomalo) di corruzione amministrativa e politica quotidiana nell’Italia degli scandali legati all’Expo, al Mose e a molti altri ancora. Ma, ormai, il termine Mafia ha preso il posto dell’Uomo Nero, di Freddie Krueger, di Walter White e di qualsiasi altra figura dell’immaginario più diabolico e viene sbandierato ad ogni piè sospinto per dimostrare che ciò che c’è di marcio nella società attuale non dipende dai rapporti di classe e dall’appropriazione privata della ricchezza sociale prodotta, ma da poche figure negative che guastano i sani rapporti sociali basati sui principi del capitalismo e che possono anche arrivare a minacciare gli equilibri politici faticosamente raggiunti.

Da una parte dunque i buoni servitori dello Stato (e del Capitale) e dall’altra i corrotti, le anime perse che non hanno saputo resistere alle seduzioni del Grande Tentatore (di solito un singolo uomo, ex-terrorista di destra oppure capo-bastone di un clan, il solito “grande vecchio” che la sinistra istituzionale ci ha insegnato a vedere dappertutto). Anche se sappiamo tutti che questa narrazione è falsa, come la promessa di Renzi di resistere fino al 2018.

Tutti i commentatori, partendo anche da presupposti diversi, convergono infatti su un unico proposito: salvare l’immagine del capitalismo italiano, cercando di dimostrare che le cose vanno male a causa della corruzione diffusa o, ancor peggio come ha affermato qualche giornalista del solito TgNews RAI 24, che basti un unico individuo, in questo caso Buzzi o Carminati, ad infettare un sistema. Che naturalmente si presume sano.

buzzi poletti E che sano non è. Basta rivolgere lo sguardo alle inchieste più recenti, da quelle riguardanti l’Expo o il Mose arrivando fino all’intrico di interessi che si celano ancora dietro al TAV in Val di Susa (dove la presenza di interessi legati alla ‘ndrangheta sono stati individuati e parzialmente perseguiti così come è evidente il coinvolgimento delle coop nella sua realizzazione),1 per comprendere che la scelta del capitalismo italiano e della sua imprenditoria grande e media è stata proprio quella di “migliorare” le proprie prestazioni finanziarie (certo non quelle produttive) affidandosi spesso alle ruberie nelle tasche del solito Stato Pantalone o, ancor meglio, direttamente nelle tasche dei cittadini.

La stessa candidatura entusiasticamente avanzata in questi giorni affinché Roma sia sede dei giochi olimpici del 2024 conferma ancor di più tale ipotesi, perché mentre da un lato il governo presenta una proposta di disegno di legge che serve soltanto a gettare polvere negli occhi di chi spera in un giro di vite contro la corruzione, dall’altro prepara il terreno per un’altra grande opera che potrebbe diventare davvero, se messa in atto, la madre di tutte le speculazioni e di tutti i possibili intrecci politico-amministrativi con mafie e ‘ndrine.2

Da anni scrivo di questo su Carmilla e non mi pare che qualcosa sia significativamente cambiato oppure che ci siano state solide smentite di questa ipotesi. Il capitale italiano, soprattutto quello finanziario, è in fuga dal settore produttivo e, come tutti dovrebbero aver già capito da tempo, anche le leggi e le iniziative attuali sul lavoro (inique e retrograde più che mai) sono soltanto rivolte ad attirare sulle imprese italiane in svendita nuovi acquirenti stranieri, attratti dai bassi costi che possono facilitare qualsiasi tipo di speculazione e dalla facilità con cui si potrà licenziare a partire dall’approvazione del Job Act.

Bastino a confermare ciò le recenti rivelazioni sull’uso fatto dalle banche del prestito Tltro promosso dalla BCE: “Dei 26 miliardi di euro che le banche italiane hanno preso in prestito dalla Banca Centrale Europea a settembre, due terzi sono stati investiti per l’acquisto di Buoni poliennali del Tesoro. Quindi solo 8 miliardi sono stati effettivamente utilizzati per i prestiti alle imprese, e quindi introdotti nell’economia reale del Paese. Secondo quanto riferisce la Banca d’Italia, gli istituti di credito italiani hanno investito ad ottobre 18,4 miliardi di euro in BTp, portando gli asset governativi al livello mai raggiunto prima di 414,3 miliardi di euro. I nuovi acquisti in Btp, in sostanza, consistono nei due terzi di quei 26 miliardi di euro che le banche hanno preso dalla Banca centrale europea nell’asta Tltro del settembre scorso. I prestiti Tltro si differenziano dai prestiti Ltro proprio per quella T, che sta per “targeted” ovvero vincolati a un uso specifico: il sostegno alle imprese non finanziarie, senza troppi margini di discrezionalità3

In effetti vi è una liquidità estremamente volatile che circola vorticosamente a caccia di investimenti redditizi a breve o brevissimo termine, cosa che non può far altro che favorire, da un lato, la crescita esponenziale della spesa pubblica destinata a coprire gli interessi pagati sui titoli di stato e, dall’altro, speculazioni e appropriazioni indebite di attività lasciate spesso morire di inedia a causa di investimenti e prestiti che non arriveranno mai a destinazione. E’ il destino di tanta piccola e media industria, destinata a seguire, anche involontariamente, le orme delle grandi famiglie del capitalismo italiano e delle loro imprese e società per azioni. Destinate a loro volta ad essere acquisite e smembrate per fornire ai nuovi acquirenti la proprietà di un marchio di prestigio (e non vale assolutamente le pena di ritornare qui ad elencarli tutti poiché sono ormai centinaia) oppure una base “produttiva” per aggirare i divieti posti dall’Europa alle merci provenienti da altri continenti.

Possiamo quindi tranquillamente ipotizzare che non sono state soltanto la corruzione e le infiltrazioni mafiose o della malavita ad inficiare la vita politica e le attività economiche, ma che, al contrario, proprio le nuove regole del gioco hanno permesso l’allargamento del tavolo a gruppi ed attività un tempo sì significative, ma ancora relativamente marginali rispetto al peso esercitato sul PIL. Mentre oggi, non a caso, proprio i proventi di tutta una serie di attività illegali connesse alla grande criminalità organizzata (prostituzione, contrabbando, spaccio) sono ormai conteggiati anche nel PIL nazionale.4 In attesa soltanto di rientrare in circolo attraverso le banche e attività speculative più o meno legali.

Stupirsi della corruttela presente nelle cooperative bianche o rosse, come ha fatto recentemente il presidente dell’Autorità Nazionale Anti-corruzione Raffaele Cantone nella trasmissione serale di Lilli Gruber,5 significa quindi non aver colto la grande trasformazione che è avvenuta negli ultimi trent’anni all’interno dell’economia italiana, della sua classe imprenditoriale e della sua classe politica. Sempre di più tesa a realizzare profitti individuali nel minor tempo possibile, anche a costo di abbandonare qualsiasi norma di carattere economico, civile e morale. Come continua a dimostrare in primo luogo l’azienda torinese produttrice di auto, e capofila dell’imprenditoria italiana, che ha spostato la sua gestione patrimoniale e aziendale all’estero per non pagare le tasse in Italia, così come ha denunciato anche in questi giorni il numero uno dell’Agenzia delle entrate Orlandini.

Il lento declino di Silvio Berlusconi e del suo partito sta infatti contribuendo a rivelare che il “berlusconismo” non era il solo elemento a produrre la corruzione e il deragliamento istituzionale, che in altri paesi (vedi Germania) non è avvenuto oppure non ha avuto le stesse preoccupanti caratteristiche; in realtà non era altro che il prodotto di una trasformazione già in atto e in gran parte già avvenuta e di cui uno dei principali interpreti politici era proprio l’ex-PCI , poi PDS e poi PD. l'ultima cena E il cui nodo degli interessi “materiali” comuni sta proprio negli interessi economici incrociati di gran parte delle coop, di ogni colore e sigla, nel business degli appalti e nelle amministrazioni locali. Ad ogni livello. Con un partito caduto oggi talmente in basso da far sì che Matteo Orfini si è visto costretto a lanciare l’idea, apparentemente ridicola, di un corso di formazione anti-corruzione per i militanti romani.

Cooperative che si rivelano, intanto e sempre di più, tutt’altro che impermeabili alle infiltrazioni speculative, mafiose, criminali o più semplicemente “politiche”. Tanto quelle che non ci stanno sembrano destinate a morire. Come ben dimostra il caso della Cooperativa Un sorriso, al centro delle proteste, evidentemente manovrate, degli abitanti di Tor Sapienza, vero obiettivo di chi voleva togliere di torno un concorrente scomodo nell’affare dell’accoglienza degli immigrati.

Chi insufflò le prove di pogrom di Tor Sapienza? Chi doveva incassare i dividendi delle notti di fuoco, sassi e cocci di bottiglia di una borgata “rossa” che improvvisamente, a metà novembre, si era accesa al comando di saluti romani e ronde assetate di “negri” e “arabi”? Sono stati scomodati i sociologi per provare a dare un senso alla furia della banlieue di Roma.
E invece, per raccontare quella storia bisogna cominciare da un’altra parte. Dagli appetiti mafiosi del Mondo di Mezzo. Dai Signori degli appalti del “terzo settore” Salvatore Buzzi e Sandro Coltellacci, oggi a Regina Coeli per mafia, dal loro interfaccia “nero” Massimo Carminati e dalla sua manovalanza del Mondo di Sotto . E da una coraggiosa donna salentina, Gabriella Errico, presidente della cooperativa sociale Un sorriso, che in quelle notti ha perso tutto. I 45 minori non accompagnati di cui aveva la custodia e la struttura che li ospitava, resa inagibile da un assedio violento
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A confermare la contiguità tra finanziarizzazione delle attività economiche, comportamenti speculativi e coop è giunta una recentissima indagine di Mediobanca in cui si afferma che: “Nel 2013 le Coop hanno guadagnato più dalla finanza che dai supermercati […] I proventi finanziari hanno rappresentato l’1,9% dei ricavi aggregati del 2013 (pari a 11,2 miliardi di euro) e si sommano a un margine operativo netto (cioè al reddito della gestione industriale) che si ferma solo allo 0,4%. Nel periodo 2009-2013 la gestione industriale delle Coop ha prodotto utili lordi per 249 milioni a fronte di 889 milioni di proventi della gestione finanziaria.[…] I 12,2 miliardi di investimenti delle Coop includono 3,1 miliardi di titoli di stato e 2,4 miliardi di obbligazioni, 2,1 miliardi di partecipazioni (in gran parte concentrate sul gruppo Unipol, che le Coop controllano attraverso Finsoe, a cui si aggiungono l’1,85% di Mps e l’1,5% di Carige)[…] Sei delle undici cooperative esaminate hanno chiuso con una gestione industriale in perdita, con risultati particolarmente negativi per Ipercoop Sicilia (-9,4% dei ricavi) e Unicoop Tirreno (-3,2% dei ricavi). Grazie al contributo della finanza le Coop in ‘rosso’ nel 2013 sono scesa a quattro: Unicoop Tirreno (-24,2 milioni), Coop Lombardia (-15,3 milioni), Ipercoop Sicilia (-13,5 milioni) e Distribuzione Roma (-8,8 milioni)“.7

Non a caso, poi, proprio a livello di cooperative sono state sperimentate tutte quelle forme di lavoro che oggi, con il Job Act, sembrano essere diventate legge. Con la difesa strenua e vergognosa fatta dal ministro Poletti in Parlamento del diritto degli imprenditori di poter fare ciò che vogliono per garantire i propri interessi e investimenti.coop expo
Sì, perché se il Re è oggi più nudo che mai lo è anche “grazie” al fatto che tale ideologia, così strenuamente difesa dal Presidente del Consiglio e dal suo ministro, non può fare altro che arrivare anche a giustificare indirettamente forme di coinvolgimento tra istituzioni e malaffare. Con tanto di cene e contributi, da cui si sta cercando di distogliere l’attenzione del pubblico.
Ma tutto ciò non può più costituire soltanto un problema morale e giudiziario. Qui è un sistema intero che va raso al suolo.

Pur essendo l’Italia già di fatto parzialmente commissariata dall’Unione Europea, nonostante il tanto celebrato semestre di presidenza italiana, Padoan, rispondendo a Juncker, può però affermare che le riforme fatte sono quelle che “ci servono e non perché ce l’hanno detto”. E ha ragione perché effettivamente tutte le riforme varate da Monti in avanti hanno semplicemente fatto comodo al capitale finanziario e speculativo italiano (togliere risorse al lavoro e alla società per favorire la rendita). Anche se la girandola di poteri e di governi alternatisi in Italia dal 2011 in avanti sta giungendo alla fine della corsa. Magnificamente e simbolicamente rappresentata dal baratro apertosi intorno alla giunta capitolina e dall’imminente uscita di scena di Giorgio Napolitano. Cosa di cui lo stesso Presidente è ben conscio e preoccupato.

Sul quale ultimo iniziano già ad abbattersi gli strali anche di un politologo moderato come Gianfranco Pasquino che, commentando il recente discorso del Capo dello Stato all’Accademia dei Lincei, ne ha sottolineato il fallimentare progetto politico affermando che: ”non ha ottenuto quello che voleva. Se per fallimento si intende essersi affidati a persone mediocri, a un manipolo di ipocriti, sì, ha fallito […] Non va mai oltre l’approccio che storicizza e non lo sfiora mai l’autocritica, quella politica.“. E augurandosi infine che lo stesso Napolitano “rinunci a nominare altri senatori a vita e che lui stesso rinunci alla carica, come invece gli spetterebbe. Questo spero che lo faccia, sarebbe un atto fondamentale. Ma non sarà così“.8

Così, mentre inizia la corsa per la nomina del nuovo Capo dello Stato, lo stesso Napolitano è costretto a difendere ancora a spada tratta, e vanamente, l’operato dell’ultima sua creatura con un endorsement privo di precedenti che sembra avere tutte le caratteristiche di un ultimo e disperato colpo di coda. Job Act, riforme istituzionali autoritarie, vaneggiamenti e febbre da annuncite del giovane premier sono tutti presentati, dal Presidente uscente, come passi essenziali per garantire ancora la stabilità del paese.

Nel fare questo Giorgio Napolitano è però costretto a rovesciare la realtà dei fatti, imputando l’instabilità politica, sociale ed economica del paese a chi si oppone con le lotte, nel tentativo di criminalizzare ancora una volta qualsiasi forma di opposizione, mentre in verità tale instabilità è insita proprio nelle scelte politiche portate avanti da una compagine governativa e da una classe dirigente estremamente divisa al proprio interno, che, come un branco di iene, è capace di riunirsi intorno ad un progetto soltanto quando si tratta di spogliare le carcasse delle proprie vittime designate o di quelle già abbandonate da altri, e superiori, predatori. Con un governo capace soltanto di proseguire a colpi di voti di fiducia, ma incapace di qualsiasi formulazione coerente, come il rinvio fino all’ultimo istante del maxi-emendamento sulla legge di stabilità ha dimostrato ancora una volta.

Mentre qualsiasi candidatura per l’elezione del futuro Presidente della Repubblica non farà che confermare lo stato di debolezza, incertezza e paralisi in cui si trovano le forze di governo, prive di qualsiasi possibilità di ricambio o cambiamento di rotta, se non quella di affidare ancora ad un esecutore testamentario vicino a Bruxelles un mandato settennale. Consegnando così, come al tempo delle Signorie, il governo delle proprie contraddizioni ad una forza mercenaria esterna.

All’inizio del mandato di Renzi avevo affermato che avremo visto i due personaggi uscire di scena insieme. 9 La cosa si sta, nemmeno troppo lentamente delineando all’orizzonte, in un contesto in cui l’ultimo argomento rimasto in mano al Governo e ai suoi rappresentanti, messi sempre più a nudo dall’ultimo scandalo, sembra essere infatti soltanto quello della minaccia dell’arrivo della Troika europea. Mentre la capitale scivola lentamente verso il baratro e Piazza Affari corre sulle montagne russe, la nave affonda e i topi scappano, lanciando dietro di sé dei fumogeni nell’inutile tentativo di coprirsi la ritirata.eataly

Gli stessi giochi all’interno del teatrino politico del PD sembrano cercare soltanto di allontanare o ritardare tale ipotesi con altre elezioni, pur sapendo, viste le recenti percentuali dell’astensionismo di massa, di essere giunti alla frutta.
Non c’è un’altra alternativa e il tentativo di gonfiare mediaticamente l’immagine di Salvini (così come era stato fatto nel 2013 con Grillo, oggi consapevolmente auto-sgonfiatosi) non ha altro scopo che quello di far andare ai seggi qualche elettore in più, sia da una parte che dall’altra.
Anche se difficilmente il gioco potrà riuscire anche questa volta.


  1. Proprio oggi il presidente dell’Autorità Anti-corruzione, Cantone, ha definito clamoroso il fatto che “nella realizzazione della Torino-Lione non ricorreranno interdittive antimafia perché i lavori avvengono sulla base del diritto francese dove l’interdittiva antimafia non c’è” (Paolo Griseri, La denuncia di Cantone: “Per la Tav valgono le leggi francesi, inutili i controlli antimafia”, La Repubblica 19 dicembre 2014  

  2. Vale forse la pena di ricordare, a questo proposito, che mentre i governi precedenti avevano almeno respinto a priori l’eventualità che Roma fosse candidata ad un’opera di questo genere, Renzi l’ha abbracciata e sostenuta in pieno, rivelando così ancora una volta quali siano le reali forze che lo sostengono insieme al suo governo. Basti qui citare, come esempio, la forte presenza tra gli sponsor e appaltatori dell’Expo milanese del 2015 della Lega Coop e di Eataly (del grande elettore renziano Natale “Oscar” Farinetti), che vedono a loro volta i loro interessi intrecciarsi con quel business agro-alimentare che fornirà il pretesto di facciata per tutto l'”affaire”. Di cui, paradossalmente, il tema del “cibo”, scelto per rappresentare l’evento, sembra costituire un’efficace metafora.  

  3. Bce, due terzi del prestito Tltro per aiutare le imprese sono stati investiti in Btp. Ecco dove sono finiti i soldi di Mario Draghi, Huffington Post 10 dicembre 2014  

  4. Ciò è reso possibile dall’entrata in vigore a breve del Sec ( Sistema europeo dei conti nazionali) 2010 che va a sostituire il precedente Sec 1995  

  5. Otto e mezzo, 12 dicembre 2014  

  6. Carlo Bonini, Minacce, aggressioni e avvertimenti mafiosi: l’ombra di Buzzi sui tumulti di Tor Sapienza, La Repubblica 11 dicembre 2014  

  7. http://www.repubblica.it/economia/finanza/2014/12/18/news/per_le_coop_pi_utili_dalla_finanza_che_dai_supermercati-103222321/?ref=HREC1-18  

  8. Giorgio Napolitano, per il politologo Gianfranco Pasquino “ha fallito” perché si è affidato a “un manipolo di ipocriti”, Huffington Post 11 dicembre 2014  

  9. https://www.carmillaonline.com/?s=sierra+charriba”>  

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Disastro colposo https://www.carmillaonline.com/2014/11/12/disastro-colposo/ Tue, 11 Nov 2014 23:01:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18631 di Sandro Moiso

debito 1Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi 2014, pp.156, € 12,00

E’ un libro concreto quello di Paolo Ferrero. Un libro di fatti, dati, cifre. Almeno per l’80% del suo contenuto. Un testo dove, sinteticamente ed efficacemente, si ripercorrono le tappe del disastro del debito pubblico italiano dai primi anni ottanta ad oggi. Un testo in cui il punto fermo è dato dalla manovra di trasferimento di una quota importante di ricchezza sociale prodotta dai servizi sociali, e quindi dalle tasche dei lavoratori e della maggioranza dei cittadini, alle banche ed alla finanza. Italiana e straniera.

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di Sandro Moiso

debito 1Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, DeriveApprodi 2014, pp.156, € 12,00

E’ un libro concreto quello di Paolo Ferrero. Un libro di fatti, dati, cifre. Almeno per l’80% del suo contenuto.
Un testo dove, sinteticamente ed efficacemente, si ripercorrono le tappe del disastro del debito pubblico italiano dai primi anni ottanta ad oggi.
Un testo in cui il punto fermo è dato dalla manovra di trasferimento di una quota importante di ricchezza sociale prodotta dai servizi sociali, e quindi dalle tasche dei lavoratori e della maggioranza dei cittadini, alle banche ed alla finanza. Italiana e straniera.

Un percorso segnato da una serie di rapine e truffe ai danni dei lavoratori che sono sempre state segnate dalla scusa della necessità e che hanno abituato, nell’arco di trent’anni, le vecchie e le nuove generazioni a ragionare in termini di debito, spread, necessità. In termini di colpa e di spreco.
Favorendo l’abbandono di qualsiasi capacità critica generale al modo di produzione capitalistico, di qualsiasi visione olistica della società moderna. Dove il particulare di Guicciardini trionfa ancora sul generale di Machiavelli. O, se preferite, di Marx.

Un percorso che inizia nel 1981 con il divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, voluto dall’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e controfirmato dall’allora Governatore dell’Istituto Carlo Azeglio Ciampi. Manovra che liberava l’Istituto dal precedente obbligo di acquistare i titoli del tesoro, emessi con un tasso di interesse stabilito dallo Stato ed inferiore al tasso di inflazione, rimasti eventualmente invenduti e lasciava quindi i titoli “liberi” di fluttuare nel mercato finanziario. Liberi perciò di vedere crescere il tasso di interesse pagato dallo stato sugli stessi per favorire gli appetiti della speculazione finanziaria.

Questa è, forse, la prima chiave di lettura per comprendere la travolgente crescita del debito pubblico italiano che, pur vedendo sempre in attivo il bilancio tra PIL e spesa ordinaria per i servizi forniti dallo Stato, ha visto questo crescere dal 58,9% nel suo rapporto col PIL nel 1982 al 110,2% del 1994 e poi ancora al 133,8% previsto per il 2014-2015 (forse fin troppo ottimisticamente avendo già raggiunto il 132,7% nel 2013).

Dal 1981 dunque lo Stato italiano si “costringe” ad andare dagli usurai per finanziare il proprio debito che, detto soltanto di passaggio, avrebbe successivamente mediamente rappresentato un costo molto inferiore ed una percentuale molto inferiore del PIl se non fosse stato costantemente e mostruosamente accresciuto dall’aumento degli interessi pagati sui titoli.

Su una scala temporale più ampia, riportata con una tabella a pagina 17 del testo, si può anche notare come il rapporto tra debito pubblico e PIL italiano passi dal 38% circa del 1960 al 120% del 1992. Con un passaggio al 60% circa alla fine degli anni settanta (dovuto evidentemente alle conquiste sociali ottenute dal ciclo di lotta degli anni sessanta e settanta) per poi raddoppiare a partire proprio dal 1981 a seguito della “libera” fluttuazione dei titoli sul mercato dei capitali.

Anche se tra il 1994 e il 2008 il debito è tornato a decrescere fino al 100%, dal 2008, anno della crisi, è tornato a crescere fino ai dati attuali nonostante l’opera costante di tagli della spesa (scuola, sanità, pensioni) messa in atto almeno fin dalla riforma Dini del 1995. E proprio su questo ritorno della crescita del debito si è giunti in Parlamento, nel 2011, all’approvazione dell’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione con il parere favorevole di tutti, ripeto tutti, i partiti dell’arco costituzionale con 464 parlamentari favorevoli e 11 astenuti su 475 (nessun contrario naturalmente).

Ma tornando alla prima chiave di lettura, si può vedere, come afferma lo stesso Ferrero, che: “il debito pubblico ha cominciato a crescere su se stesso, a gonfiarsi per il solo fatto di pagare tassi di interesse da usura” (pag. 22). Proprio perché, non determinandone più il prezzo, lo Stato si obbligava a pagare un interesse alto determinato dall’avidità dei calcoli dei partecipanti all’asta. Così quell’aumento dello spread, quel differenziale di interesse tra i titoli italiani e tedeschi con cui si aprono e chiudono tutti i notiziari televisivi, che ha abituato i cittadini e i lavoratori a vedere nelle spese a loro favore una colpa, una sorta di vero e proprio peccato originale è, in realtà, frutto di una strategia ben pianificata di rapina ai danni degli stessi e di progressivo abbassamento del costo del lavoro (anche differito).

Truffa che, come dice ancora Ferrero: “cominciata con la lira, è continuata con l’euro e la Bce” (pag. 33). Ma che non ha costituito l’unico fattore di impoverimento dei lavoratori a vantaggio del capitale finanziario e degli imprenditori. Infatti il 10 luglio 1992 il governo Amato diede vita ad una manovra correttiva da 30.000 miliardi di vecchie lire (poco meno di 15 miliardi di euro attuali). In un clima tesissimo, in cui alla fortissima speculazione finanziaria in atto si era aggiunto, il 19 luglio, l’attentato di via D’Amelio a Palermo (per caso vi ricorda qualcosa?), il governo abolì la scala mobile, che fino a quel punto aveva garantito ai lavoratori l’adeguamento automatico dei salari al costo della vita. Con un’intesa firmata con i tre sindacati confederali, Cgil , Cisl e Uil La sera del 31 luglio.

Non bastava: “il 13 settembre Amato svalutò la lira del 20-25%. Non essendoci più la scala mobile la svalutazione si scaricò interamente sugli stipendi dei lavoratori, riducendo progressivamente il potere d’acquisto dei salari. Nell’autunno poi […] Amato inaugurò la serie delle finanziarie (così si chiamava allora la legge di stabilità) «lacrime e sangue». Venne così varata la manovra da 93.000 miliardi di lire, pari al 5,8% del PIL, la più importante correzione dei conti mai realizzata fino ad allora (43.500 miliardi di tagli, 42.500 di nuove entrate , 7000 di dismissioni) […] Il costo della svalutazione venne quindi pagato dai lavoratori in termini di riduzione del salario reale, mentre i vantaggi dati dalla svalutazione alle esportazioni finirono totalmente in tasca ai padroni, che aumentarono significativamente i margini di profitto” (pag.39)

Non a caso Ferrero, come il sottoscritto, non è affatto convinto che l’uscita dall’euro, così come indicato da 5 Stelle, Lega e anche qualche area dell’antagonismo sociale, potrebbe contribuire a risollevare le condizioni dei lavoratori e dei cittadini italiani. Anzi, proprio questa proposta dimostra come ormai anche l’opposizione sia di fatto “programmata” ovvero coerente con la mentalità imperante basata sull’accettazione dello spread e della riduzione della spesa sociale come punto di non ritorno (in cui voci come capitale, saggio di profitto, lotta di classe, crisi capitalistica, plusvalore e sfruttamento sono ormai messe all’indice). Infatti chi oggi si sforza di dimostrare che per gli Italiani l’Euro è una moneta straniera, dovrebbe avere l’onestà di ricordare, come fa lo stesso Ferrero, che a partire dal 1981 “già la lira era una moneta straniera” per i lavoratori.

Ma la marcia non si arresta qui.
Nell’anno successivo, il 1993, il 23 luglio, il sindacato firmò l’accordo sulla concertazione che inchiodava le richieste salariali all’inflazione programmata, che era sempre più bassa di quella reale. In questo si stabilì che l’abbassamento salariale ottenuto nel 1992 non sarebbe più stato recuperato e sarebbe proseguito negli anni. Nel ’94, infine, il ministro del primo governo Berlusconi, Lamberto Dini formulò una controriforma delle pensioni che scatenò un’ondata di contestazioni e contribuì alla caduta del governo. L’anno successivo però, con il pieno appoggio dell’allora Partito Democratico, Dini divenne premier e scodellò la sua zuppa: introdusse il sistema contributivo nel calcolo delle pensioni e pose le condizioni per costruire un sistema basato su pensioni da fame per tutti coloro che nel 1995 avevano meno di 18 anni di contributi pensionistici” (pag. 41). Agganciandolo, lo ricordo qui per gli effetti che potrebbe avere nei prossimi anni in un trend di PIL negativo, alla crescita del prodotto nazionale lordo per l’eventuale rivalutazione dell’importo percepito.

Tra stangata di Amato e «riforma delle pensioni» di Dini, avvenne una pesantissima riduzione della spesa sociale e quindi della spesa pubblica: il bilancio dello Stato consolidò l’avanzo primario e il deficit continuò a prodursi ogni anno, unicamente a causa degli interssi usurai pagati dallo Stato agli speculatori […] La morale della fiaba è quindi la seguente: nel 1981 il governo italiano decide di far esplodere il Debito pubblico trasferendo risorse alla speculazione nazionale e internazionale. Questo produce due effetti: uno economico e uno politico.
Quello economico è che gli alti tassi di interesse arricchiscono i ricchi, gli speculatori e le grandi aziende che, in quegli anni, guadagnavano di più dagli investimenti in Bot che dalle attività industriali propriamente dette […] Quello politico è che il gonfiarsi del debito pubblico diventa il principale strumento utilizzato dai governi per giustificare la necessità del taglio della spesa pubblica
” (pp. 41-44).

E’ chiaro che tutto ciò che è avvenuto poi dall’esplodere della crisi nel 2008 non è altro che la conseguenza, economica (riduzione dei consumi) e politica (accelerazione dei processi autoritari di controllo della spesa e delle leggi fondamentali) di ciò che fin da allora era stato impostato. Compresa la crescita illusoria di quell’italietta del popolo dei Bot che ha visto in Berlusconi la sua vera rappresentazione politica, ma che non teneva conto che la maggior parte dei profitti della speculazione sui titoli non finiva nelle tasche dei piccoli e piccolissimi risparmiatori ma in quelle delle mafie finanziarie, politiche, imprenditoriali e criminali. Non a caso furono quelli gli anni in cui ogni tanto qualche imprenditore del Nord veniva arrestato mentre cercava di abbreviare i tempi del ciclo di rotazione del capitale attraverso il finanziamento del traffico di droga.

Ferrero sottolinea bene tutto ciò e si spinge anche oltre, fino ai pericoli per le democrazie e le condizioni dei lavoratori rappresentato dalla possibile e ormai prossima firma del TTIP (Transatlantic Trade Investment Partnership), un accordo destinato alla costruzione di un mercato unico per merci, investimenti e servizi tra Europa e Nord America. Con aspetti molto simili al NAFTA (North American Free Trade Agreement) e le cui conseguenze sul piano internazionale sono ormai ben anticipate dall’attuale scontro politico, economico e militare per e sull’Ucraina.

Un libro concreto come si diceva all’inizio, lontano dalle fumisterie ideologiche nella lettura della crisi e delle sue origini ed è proprio per questo che lascia perplessi, molto, quel 20% che prima ho lasciato in disparte e che tratta delle possibili ricette per affrontarla.

Cita Seneca in apertura, e non solo, l’autore: “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. E’ vero e dovrebbe essere un assunto fondamentale per chiunque oggi voglia ancora cimentarsi con i problemi posti dalla crisi del capitalismo, dalla lotta di classe e dagli strumenti per uscire verso una società finalmente affrancata dalla schiavitù salariale.
Ma qui entra anche in gioco il fatto che Paolo Ferrero si trovi ad essere l’attuale segretario di Rifondazione Comunista e che, pertanto, non sappia rinunciare agli schemi parlamentari e riformistici in cui si è formato ed è cresciuto.

Tornare a suggerire la possibilità di cambiare i trattati europei o la ripresa di una spesa statale di tipo keynesiano dimentica, infatti, due fattori di non poco conto.
Il primo, e meno importante, è che la spesa keynesiana ha continuato ad esserci, solo che si è indirizzata verso una specie di keynesismo alla rovescia indirizzato alle attività bancarie, come ben dimostra Vincenzo Ruggiero in un suo recente testo,1 poiché compito del keynesismo non è mai stato quello di migliorare le condizioni dei lavoratori ma solamente quello di mantenere in vita il capitale nei momenti di sua maggiore difficoltà.

Il secondo fattore è di ordine storico e politico e dimostra, come il pensiero rivoluzionario ha sempre sostenuto, la fallacità delle ipotesi riformistiche e sindacaliste nella conduzione della lotta di classe sul lungo periodo. Basta guardare alle date riportate fedelmente da Ferrero: l’offensiva sferrata dal capitale contro il lavoro, sotto forma di politiche neo-liberiste (reganiane, tatceriane o semplicemente italiane che si vogliano) inizia proprio all’apice di quel ciclo rivendicativo di lotte che avevano caratterizzato gli anni sessanta e settanta. Ma anche nel momento in cui gli effetti della caduta tendenziale del saggio di profitto, della crisi petrolifera e del ciclo vittorioso delle lotte anti-coloniali (dal Vietnam all’Africa) cominciavano a far sentire pesantemente i loro effetti sulle tasche degli imprenditori e dei finanzieri.

Se fino a qualche anno prima gli operai avevano potuto inneggiare alla lotta di classe e all’internazionalismo pur riportando a casa vittorie salariali e di garanzia di spesa in servizi da parte dello Stato che avevano la loro origine anche nei sovra-profitti realizzati nello sfruttamento del Terzo Mondo, dopo il 1975 non sarebbe più stato così.
Non si può spingere indietro l’orologio della storia, non si può tornare a quell’epoca e la cronaca di ogni giorno ce lo ricorda con dovizia di mezzi.

La grande imprenditoria italiana, come ben dimostrano i casi della FIAT o della Indesit, ha di fatto scelto di mollare gli ormeggi ovvero di non investire più in Italia (né altrove) nel settore industriale. Si è scoperta “finanziaria”, sperando così di aumentare i propri profitti attraverso i giochi spericolati sul mercato azionario e finanziario suggeriti dalla maggiori banche. Con i risultati disastrosi che possiamo ben vedere nelle cronache economiche di ogni giorno.

Un’imprenditoria che ha dimenticato anche la lezione liberale di Adam Smith che sosteneva che è soltanto il lavoro a creare la ricchezza (idea da cui Marx trasse il suo rovesciamento teorico e politico dei meccanismi dell’accumulazione e dello sfruttamento capitalistico) e che si è convinta che sia la speculazione selvaggia sui titoli a creare ciò di cui avrebbe più bisogno: plusvalore, ricchezza reale.
Poiché il film “Prendi i soldi e scappa” era già stato realizzato da Woody Allen, a partire dagli anni ottanta la “grande” borghesia italiana ha messo in scena la commedia “Disinvesti, svendi e scappa” ed è facile credere che non abbia alcuna intenzione di tornare sui propri passi, così come sembrano implorare i sindacati confederali e tutta la sinistra istituzionalista.

Il capitale occidentale ruba ai suoi cittadini per due motivi precisi: mantenere i propri profitti e ridurre i costi del lavoro a livelli cinesi, indiani, turchi o peggio. Si potrebbe dire, parafrasando lo stesso Ferrero: ”E’ la concorrenza bellezza!”. Ma la risposta non può essere costituita dal rimpianto di ciò che è stato e non sarà più. Piuttosto il movimento di classe, riprendendo la sua autonomia dovrà approfittare delle nuove condizioni venutesi a creare.

Sì, perché, alla faccia delle sparate dell’attuale presidente del consiglio e del suo ministro del lavoro, la vera contraddizione del modo di produzione capitalistico è stata, è e sarà sempre quella tra capitale e lavoro. E quella contraddizione è diventata oggi, in Europa, insanabile.
Quindi, se da un lato occorrerà ritornare all’analisi della crisi e delle ristrutturazioni sociali ed economiche come risultato della caduta tendenziale del saggio di profitto, insita come un baco divoratore nel modo di produzione capitalistico, dall’altro occorrerà aver ben chiaro che nel momento stesso in cui il capitale oltre a trovar dei limiti nelle sue stesse leggi li trova anche nei suoi confini e nei parlamenti nazionali o, ancora negli stessi partiti istituzionali, non dovrà essere il movimento antagonista o la lotta di classe a rivendicare, come alla fine sembra fare lo stesso Ferrero, un ennesimo ritorno al passato.

La sola azione parlamentare, non accompagnata dalla lotta di classe, ha dimostrato la sua inutilità per i lavoratori; le nazioni li hanno oppressi e traditi mettendoli gli uni contro gli altri e l’Europa unita non si è rivelata quella un tempo auspicata da Altiero Spinelli o dallo stesso Lev Trotskij.2 Rivendicarli ancora come strumenti potrebbe rivelarsi anti-storico, riducendo il ciclo delle lotte di classe ad una sorta di gioco dell’oca in cui i movimenti continuano andare avanti e indietro tra le stesse caselle.

Partiti riformisti e sindacati confederali (tutti!) hanno contribuito a rafforzare più che a combattere il capitalismo. Consociativismo e concertazione hanno ingabbiato i lavoratori per decenni, riportandoli alle attuali condizioni ottocentesche di lavoro e sfruttamento. Ancora una volta viene alla mente Leopardi. “Qui mira e qui ti specchia / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami”.3

Ma qui occorre che mi fermi per non trascendere i limiti della recensione, limitandomi a ribadire che il testo risulta essere, comunque, una lettura stimolante e utile per la riflessione politica attuale, anche in contraddizione con le tesi finali esposte dall’autore.


  1. Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia, Feltrinelli 2013, pp. 252, euro 20,00  

  2. vedasi “Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa” in L.D. Trockij, Europa e America, Celuc Libri, Milano 1980  

  3. Giacomo Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, vv. 52-58  

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Detroit è morta, viva Detroit! (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2013/08/14/detroit-e-morta-viva-detroit-seconda-parte/ Tue, 13 Aug 2013 23:00:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8286 di Sandro Moiso

drumDRUM along the Great Lakes

 Meno di trenta giorni dopo che la Guardia nazionale aveva terminato di occupare militarmente le strade di Detroit, H.Rap Brown prese la parola di fronte ad una folla enorme stipata dentro e fuori il teatro di Dexter Avenue, situato a meno di un miglio da quello che era stato l’epicentro della ribellione. “Sono qui presenti delle persone che possono rappresentare la lotta dei neri americani meglio di quanto io possa fare – iniziò col dire – Gente di Detroit, per esempio”. Con queste parole l’oratore era intenzionato a suscitare l’interesse [...]]]> di Sandro Moiso

drumDRUM along the Great Lakes

 Meno di trenta giorni dopo che la Guardia nazionale aveva terminato di occupare militarmente le strade di Detroit, H.Rap Brown prese la parola di fronte ad una folla enorme stipata dentro e fuori il teatro di Dexter Avenue, situato a meno di un miglio da quello che era stato l’epicentro della ribellione. “Sono qui presenti delle persone che possono rappresentare la lotta dei neri americani meglio di quanto io possa fare – iniziò col dire – Gente di Detroit, per esempio”. Con queste parole l’oratore era intenzionato a suscitare l’interesse dei presenti nei confronti di un nuovo organo di informazione della comunità nera: l’Inner City Voice.

Il giornale era nato nell’ottobre del 1967 e il suo primo titolo di testa era stato “MICHIGAN SLAVERY”, accompagnato da un editoriale di fuoco che avrebbe costituito da subito la cifra stilistica e politica della  redazione: Nella Rivolta di Luglio abbiamo dato un segnale significativo a chi amministra il potere bianco, ma apparentemente il nostro messaggio non è stato recepito…Noi stiamo ancora lavorando troppo duramente, venendo pagati troppo poco; stiamo ancora vivendo in pessime abitazioni e stiamo mandando i nostri figli in scuole di scarso valore educativo e stiamo ancora pagando troppo la merce dei negozi e siamo ancora trattati come cani dalla polizia. Ancora non possediamo nulla e non controlliamo nulla…In altre parole noi siamo ancora sfruttati dal sistema e abbiamo ancora la responsabilità di dover rompere la schiena a questo sistema. Soltanto delle persone che sono forti, unite, armate  e che conoscono il nemico possono affrontare la lotta che ci attende. Pensaci Fratello, difficilmente le cose andranno meglio, la Rivoluzione deve andare avanti*.

Il giornale si definiva come la voce della comunità rivoluzionaria nera e non era l’ennesima pubblicazione underground tipica di quegli anni. I suoi redattori avevano militato già in varie formazioni radicali. Alcuni di loro avevano già sfidato il Dipartimento di Stato nel 1964 recandosi a Cuba e avevano avuto modo di colloquiare con  lo stesso Ernesto “Che” Guevara. Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che il mensile, tirato in 10mila copie, si occupasse sia delle condizioni di vita e di lavoro a Detroit, che dei fatti internazionali e della lotta contro la guerra in Vietnam o delle  strutture militari e logistiche necessarie allo sviluppo della lotta armata.icv1

Si può dire che su queste basi si sviluppò una esperienza politica e sindacale che trascese ben presto i limiti della lotta per il riconoscimento dei diritti del popolo nero, fondendo questa richiesta con la necessità di un’azione autonoma del proletariato nero e bianco. C’era l’attenzione per il nascente movimento del Black Panther Party ad Oakland in California, ma anche per le condizioni di lavoro e le richieste sindacali all’interno delle numerose fabbriche dell’area di Detroit.

Tale esperienza politica nasceva in un contesto in cui, proprio a seguito della rivolta di luglio, anche  il capitale aveva intrapreso un’azione di rinnovamento della città. Tale progetto si andava strutturando intorno al New Detroit Committee (Comitato per la Nuova Detroit) che raccoglieva i maggiori rappresentanti dell’industria automobilistica, della grande distribuzione mercantile, delle principali banche ed assicurazioni. Oltre che tutti gli uomini politici e gli amministratori locali legati a doppio filo agli interessi economici dei primi.

Tale comitato si riprometteva di affrontare il problema del degrado urbano, ed in particolare dei quartieri della inner city (che erano stati i maggiori protagonisti della rivolta), attraverso un processo di ristrutturazione edilizia che prevedeva la costruzione di nuovi edifici dall’architettura ardita destinati ad ospitare banche, hotel, centri commerciali, lussuosi condomini, centri congressi e, naturalmente, i nuovi uffici amministrativi e di rappresentanza delle imprese coinvolte.

Sulle rovine della rivolta, degli incendi e degli autentici bombardamenti del luglio 1967, si intendeva quindi avviare un programma di speculazione edilizia e finanziaria travestito da nuova possibilità di migliorie economiche e di  sviluppo che avrebbero dovuto, sulla carta, coinvolgere anche gli insoddisfatti e i proletari protagonisti dei riot precedenti. Naturalmente il primo atto di tale “rinnovamento” sarebbe stato costituito dall’allontanamento forzato dei residenti neri, poveri bianchi e studenti dall’area centrale che si trovava  tra il fiume (lungo il quale si sarebbe sviluppata la nuova area commerciale) e la Wayne State University.

A fronte  di questo  progetto, che sarebbe stato negli anni successivi alla base della deindustrializzazione e della delocalizzazione delle fabbriche negli stati del Sud, i rappresentanti della comunità nera e dei lavoratori afro-americani si trovarono nella posizione di dovere e potere proporre soluzioni alternative. Politiche, economiche e sociali. E da qui nacque un’esperienza di proposta politica, basata sull’esperienza e le necessità reali del territorio e dei suoi abitanti, che avrebbe marcato la differenza tra i gruppi radicali di Detroit e quelli della maggioranza delle altre città americane. Da San Francisco a Chicago fino a quelle della Costa Orientale.

Nei primi sei anni di attuazione del progetto la qualità media della vita in città scese a nuovi minimi e naturalmente quelli ad essere più duramente colpiti furono i lavoratori dell’industria che costituivano più del 35% della popolazione urbana complessiva. I quali si resero ben presto conto che la Nuova Detroit significava, per loro, lavorare più a lungo e più velocemente, pagare più tasse ed ottenere, in cambio,  meno servizi sociali e salari fortemente ridotti dall’inflazione conseguente alla speculazione. Mentre la delocalizzazione industriale, le nuove esigenze  manageriali e il declino dell’industria automobilistica facevano sì che  il mantenimento o la ricerca di un posto di lavoro si facesse sempre più difficile.

Così, a fronte dei cambiamenti indotti dall’azione del New Detroit Committee, i rivoluzionari, raccolti in nuove formazioni politiche e sindacali come il DRUM (Dodge  Revolutionary Union Movement), l’ELRUM (Eldon Avenue Revolutionary Union Movement), il Wildcat Group o la League of Revolutionary Black Workers si trovarono a dover confrontarsi non soltanto con la classe dirigente delle fabbriche, ma anche con le direzioni sindacali del vecchio sindacato dei lavoratori dell’auto (UAW, United Auto Workers) e con gli stessi operai bianchi, spesso di origine italiana  o polacca, che costituivano ancora l’aristocrazia operaia di quel settore di industria. Mentre i lavoratori  neri continuavano ad occupare i posti di lavoro più ardui, pericolosi ed insalubri.

L’altro fronte continuava ad essere rappresentato dal dipartimento di polizia cittadino che aveva resistito a qualsiasi ristrutturazione. Così la violenza organizzata dello stato e la violenza non organizzata che aveva preso vita nelle strade con la rivolta di luglio divennero via via sempre più “istituzionali”, trasformando Motor City in quella che fu poi chiamata Murder City. Mentre il numero  deglii omicidi e  delle armi in circolazione andava crescendo esponenzialmente.

Così il ristretto gruppo di militanti rivoluzionari che si era raccolto inizialmente intorno al mensile Inner City Voice, vide allargarsi le proprie schiere insieme ai propri compiti, finendo col dar vita a una serie di azioni, fuori e dentro le fabbriche, che avrebbero favorito l’insorgere di altre formazioni e richieste radicali dentro la città e i suoi dintorni; non solo tra i neri afro-americani, ma anche tra gli americani bianchi poveri provenienti dai monti Appalachi.dodge

Più che in qualsiasi altro luogo negli Stati Uniti, il movimento guidato dai lavoratori neri finì col definire i propri obiettivi in termini di potere reale. Il potere di controllare l’economia e, concretamente, il ciclo della produzione attraverso i suoi tempi e modi. I rivoluzionari di Detroit non si lasciarono rinchiudere in uno scontro con le forze dell’ordine fine a se stesso o in un confronto puramente “scolastico”. Il movimento nel suo insieme cercò di integrare al proprio interno tutte le richieste e le forme di lotta nate negli anni precedenti per dar vita d un vero network  di poteri insorgenti da contrapporre alla rete del potere politico ed economico istituzionale.

In contrapposizione agli interessi politici, economici e finanziari rappresentati dal fasullo Rinascimento di Detroit proposto dal Committee, il movimento nato tra gli operai neri della città diede vita ad una straordinaria sequenza di azioni, apparentemente separate ma, in realtà, fortemente interconnese, nelle fabbriche, nelle strade, presso le Corti di Giustizia, i media, le scuole e durante le riunioni sindacali. Finendo col conquistare anche una parte significativa del proletariato industriale bianco e con l’interagire positivamente con tutte le istanze collegate alle necessità della vita quotidiana della classe lavoratrice.

Una vicenda esemplare

Il 15 luglio 1970, James Johnson, un operaio afro-americano, entrò nello stabilimento Chrysler di Eldon Avenue, in cui lavorava, con un fucile M-1 infilato nella gamba della sua tuta da lavoro. La fabbrica era stato luogo di numerosi scioperi a gatto selvaggio durante l’anno, mentre, nello stesso impianto, un operaio ed un’operaia erano morti in incidenti sul lavoro nelle due settimane precedenti. Il rumore assordante,le chiazze d’olio e le macchine difettose che caratterizzavano l’impianto circondavano Johnson quando si imbattè in uno dei capisquadra coinvolti nella sua sospensione dal lavoro, avvenuta il giorno precedente. James estrasse la carabina e prima che avesse finito di sparare un caposquadra bianco, un altro nero e un addetto alla manutenzione degli impianti giacevano uccisi sul pavimento della fabbrica.

Pochi lavoratori di Eldon conoscevano Johnson. Non era identificabile come militante dell’ELRUM o del Wildcat Group. Non partecipava mai alle riunioni ed assemblee sindacali, era soltanto uno delle migliaia di lavoratori che parlavano poco e ridevano meno. Non andava a bere nei bar vicini alla fabbrica, era un lettore della Bibbia e l’unica sua fonte di orgoglio era costituita dalla casetta che egli stava costruendo per sé e per sua sorella.

Pochi giorni dopo il fatto, Kenneth Cockrel assunse la difesa di James Johnson. Cockrel era uno dei sette membri del Comitato Esecutivo della Lega dei lavoratori neri rivoluzionari, mentre tra i lavoratori dello stabilimento andava crescendo la simpatia nei suoi confronti dopo che si era saputo  che la sua sospensione dal lavoro era  dovuta al suo rifiuto di accettare una accelerazione dei tempi di lavoro. Oltre che per una storia, di ritardi nel pagamento del salario e di perdita di ferie già acquisite, in cui lo stesso lavoratore era stato ingiustamente trattato dalla direzione.

Pochi giorni dopo i fatti, l’ELRUM distribuì un volantino il cui titolo recitava: “Onore a  James Johnson” in cui,  dopo una sintetica biografia dell’operaio nero, si contestavano le tremende condizioni di lavoro interne allo stabilimento di Elmond, il razzismo che ne contraddistingueva i rapporti di classe e le difficoltà, che talvolta rasentavano la passività, con cui l’UAW finiva quasi con l’avvallare tutto questo. Simili volantini apparvero anche in fabbriche molto lontane da Detroit, come la General Motors di Fremont (California) e la Ford di Mahwah (New Jersey).

Per lo svolgimento del processo, Cockrel ottenne che la giuria fosse adeguata al caso, razzialmente e sessualmente integrata, e non esclusivamente formata da bianchi. Così dieci dei dodici giurati avevano esperienza diretta di lavoro nella città di Detroit, due erano operai del settore automobilistico e tre donne erano sposate con operai dello stesso settore.

La difesa, dopo aver ricordato la travagliata esperienza di vita di Johnson (che già a 5 anni aveva assistito allo smembramento del corpo di un cugino a seguito di un linciaggio), segnata dall’ignoranza, dalla povertà e dall’emarginazione legata alla sua condizione “razziale”, passò a descrivere le condizioni di lavoro di Eldon, ritenuto con buona ragione uno dei più pericolosi impianti industriali degli Stati Uniti, e l’incapacità, o impossibilità, dell’UAW a difendere le condizioni dei lavoratori nello stesso impianto.

All’apice di questa linea difensiva Cockrel ottenne che l’intera giuria si trasferisse presso l’impianto per poter giudicare con i propri occhi ciò che era stato affermato nell’aula del tribunale. Dopo di che la giuria assolse Johnson in quanto non responsabile dei propri atti. Dal giorno successivo e nelle settimane seguenti molti operai di Elmond si presentarono al lavoro portando in bella vista nella tasca posteriore della tuta un giornale che rilanciava a caratteri cubitali l’assoluzione di James. Ancora nel novembre del 1973 Johnson, rappresentato da un legale che faceva parte della Motor City Labour League, ottenne dalla Chrysler un risarcimento dei danni causatigli dalla stessa industria per un totale di 75 dollari per ogni settimana, a partire dalla data della sparatoria in fabbrica.

Detroit, Torino, Zombielandzombieland 

Oggi, nonostante il buco 20 miliardi dollari che ha portato la città sull’orlo della bancarotta , qualcuno parla ancora di Rinascimento di Detroit e di rilancio della sua industria dell’auto. Soprattutto la più che asservita informazione italiana  che tesse ancora le lodi di Sergio Marchionne e delle scelte FIAT. Così viene sottolineato come il dimezzamento degli stipendi degli operai della Chrysler abbia permesso a questa industria di rilanciare la produzione di veicoli di lusso come la Jeep Grand Cherokee. Lo stabilimento della Chrysler è rimasto l’unico in città, le altre industrie si sono trasferite fuori o altrove, e occupa 4663 dipendenti dei 20mila che ancora trovano impiego negli stabilimenti automobilistici cittadini, a fronte dei duecentomila che un tempo erano occupati negli stessi.

Un’area urbana grande come quelle di San Francisco, Boston e l’isola di Manhattan messe insieme è abitata da 700mila persone di cui l’ottanta per cento è costituito da afro-americani, mentre almeno ottantamila edifici risultano essere completamente vuoti ed inutilizzati. Questo è il risultato non della crisi e della globalizzazione oppure del Welfare State, ma delle scelte che il capitale ha operato, e continua ad operare, là dove la classe ha acquisito livelli di coscienza e di auto-organizzazione tali da metterne in gioco la catena di comando e la sua stessa esistenza.

E’ la dimostrazione pratica di come il capitale sia “condannato” a rivolgersi alla speculazione finanziaria e alla rendita fondiaria nel tentativo di continuare a mantenere elevati tassi di profitto quando la lotta operaia ne riduce i margini e di come tale scelta sia destinata ad aggravare non solo le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche quelle dell’accumulazione capitalistica che in questo modo si priva della massa di lavoro vivo e di plusvalore necessari alla sua esistenza e riproduzione.

E’ la storia di Torino dagli anni ottanta ad oggi; è la storia della fuga del capitale FIAT e della famiglia Agnelli dall’investimento produttivo e dallo scontro con una classe organizzata per chiudersi nell’investimento speculativo in acque minerali ed alloggi di lusso a Parigi. E’ la storia dell’asservimento dei sindacati ufficiali alle esigenze dei padroni e della produzione e dell’avvallo dato da Luciano Lama e Enrico Berlinguer ai licenziamenti e alla cassa integrazione degli anni ottanta. E’ la storia  di chi, come Sergio Chiamparino, passa dal ruolo di Sindaco della città a quello di Presidente della fondazione della banca con cui ha contribuito ad indebitare irrimediabilmente la città (San Paolo) e che ha fatto sì che Torino diventasse la seconda città più indebitata d’Italia dopo Roma.

E’ la storia, dunque, degli stabilimenti FIAT torinesi dove sono rimasti al lavoro più o meno ottomila dipendenti a fronte dei 120-150 mila che li caratterizzavano negli anni settanta (senza contare le decine di migliaia di operai che lavoravano nelle medie, piccole e piccolissime fabbriche dell’indotto dell’auto, ormai quasi del tutto scomparse, nell’area torinese). Dei milioni di metri quadri che si libereranno per la speculazione edilizia una volta chiusa Mirafiori, così come in altre forme accadde con la chiusura degli stabilimenti del Lingotto (lautamente pagati, alla FIAT, dal comune di Torino, per farne centri commerciali, spazi espositivi e centri congressi). E’ la storia futura di Milano e del suo già fallimentare e truffaldino Expo…ma è anche la storia della lotta di classe, destinata sempre a risorgere e a coinvolgere lavoratori, donne, studenti, giovani disoccupati ed artisti squattrinati nel tentativo di dar vita ad un mondo migliore, totalmente diverso dalla Zombieland che il capitale è soltanto capace di realizzare.stooges

Ed è per questo che, metaforicamente, possiamo tranquillamente continuare a scandire: Detroit è morta, viva Detroit!

 * Dan Georgakas, Marvin Surkin, op. cit. pp.15 – 16

(Seconda ed ultima parte – fine)

Postilla

L’Autore, nel dichiarare tutto il suo debito di riconoscenza nei confronti di Dan Geogakas e Marvin Surkin e del loro testo Detroit, I Do Mind Dying. A Study in Urban Revolutio, citato in nota, auspica che, a 38 anni dalla sua prima edizione e a 15 dalla ristampa, il libro trovi finalmente un editore italiano disposto a pubblicarne la traduzione considerata la sua importanza per la comprensione della storia, dello sviluppo e delle dinamiche delle  lotte operaie e urbane, non soltanto statunitensi.

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