Speculazione edilizia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Leggeri e pungenti. Storie, luoghi e volti di periferia https://www.carmillaonline.com/2018/06/19/leggeri-e-pungenti-storie-luoghi-e-volti-di-periferia/ Tue, 19 Jun 2018 21:33:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46454 di Alexik

Enrico Campofreda, Leggeri e pungenti. Storie, luoghi e volti di periferia, Lorusso Editore, 2017, pp.132.

Siamo abituati a leggere la firma di Enrico Campofreda in calce alle cronache di guerra dal Medio Oriente o dall’Afghanistan, nei suoi brani di denuncia a fianco dei popoli aggrediti. Più inusuale ritrovarla sulla copertina di un libro di racconti, brevi frammenti di vita nelle periferie romane fra dopoguerra e boom economico.

Leggeri e pungenti raccoglie schegge di memoria di una generazione venuta al mondo sulla [...]]]> di Alexik

Enrico Campofreda, Leggeri e pungenti. Storie, luoghi e volti di periferia, Lorusso Editore, 2017, pp.132.

Siamo abituati a leggere la firma di Enrico Campofreda in calce alle cronache di guerra dal Medio Oriente o dall’Afghanistan, nei suoi brani di denuncia a fianco dei popoli aggrediti.
Più inusuale ritrovarla sulla copertina di un libro di racconti, brevi frammenti di vita nelle periferie romane fra dopoguerra e boom economico.

Leggeri e pungenti raccoglie schegge di memoria di una generazione venuta al mondo sulla linea di confine fra la campagna e la città.
È un mondo osservato con gli occhi dei bambini, separato e distinto da quello degli adulti, troppo impegnati a guadagnarsi il pane per trovare il tempo di esercitare un controllo ferreo sulla prole.
Tanto da lì a poco, ci avrebbe pensato il lavoro minorile a disciplinarla, dietro il bancone di un bar, nella penombra  dell’officina di un fabbro o sotto il sole di un cantiere.
C’è poco tempo, nelle periferie degli anni ’60, per l’età dell’innocenza, e bisogna viverlo intensamente prima che finisca.

1973. San Lorenzo, pericoli sul lavoro. Foto: Claudio Bassi.

Bisogna imparare in fretta, ma non nella scuola dello Stato, quella dei tripli turni e delle bacchettate sulle mani.
Molti non ci andavano neppure. Quando accadeva erano i primi a esserne cacciati o sbattuti all’interno delle classi differenziali. Vere e proprie discariche sociali, tenute in piedi a marcare, anche nel sistema dell’istruzione, la divisione in classi della società”. (p.123)

Bisogna imparare in fretta nella scuola della strada.
Imparare la zoologia negli acquitrini, imparare il tango seguendo i genitori alla balera, imparare l’anatomia femminile dalle ragazze di vita, imparare come farsi rispettare a cazzotti, imparare la libertà su una lambretta lanciata verso il mare.
Assaporare il gusto della trasgressione affondando le mani nel rosso di un’anguria rubata, attenti a non farsi beccare perché la ‘funzione rieducativa’ ha le mani pesanti.
Oltrepassare qualsiasi barriera, fosse anche un cancello dalle punte acuminate, pagandone il prezzo.

1970. Acquedotto Felice. Foto: Tano D’Amico.

Intorno, a fare da sfondo, nessuna Grande Bellezza, ma prati incolti fra i palazzi, marrane, strade ancora sterrate.
Il centro di Roma è lontano, non fa parte della realtà, ma nemmeno dell’immaginario, di Oreste, Spartaco, Franchino e degli altri ragazzini di periferia.
E non è un’assenza casuale.
Come ci spiegano nella postfazione gli architetti Rossella Marchini e Antonello Sotgia, “per assecondare la febbre edilizia, non debellare il cancro della rendita dell’immobiliarismo fondiario, è stato proprio in quel preciso periodo, agli inizi degli anni Sessanta, che si è scelto di costruire la periferia romana come forma autonoma, staccandola, frutto di una scelta prima politica che urbanistica, dal centro.” (p. 126)
Il Centro è monopolio di ricchi, nobili e preti, come del resto la proprietà dei suoli di gran parte della capitale.

Nel 1955 Manlio Cancogni, nella sua inchiesta “Capitale corrotta, nazione infetta”, così delineava la mappa della spartizione:

Anni ’50. Borgata Gordiani. Fonte: Roma sparita.

I terreni dell’Immobiliare [Società Generale Immobiliare, controllata dallo IOR, partecipata da Fiat e da Italcementi] sono disposti intorno a Roma in maniera strategica. Ne ha per 470.000 metri sulla via Tuscolana, per 530.000 a Tor Carbone, per 90.000 sulla Prenestina, per 215.000 sulla Trionfale, per 50.000 sulla Salaria, per 1.336.000 sulla Nomentana, per 1800.000 sulla Casilina, ecc. ecc.
In questo modo essa può decidere volta a volta in che direzione le conviene che la città avanzi….

Gli altri grossi proprietari non hanno altrettanto potere, ma sanno anche essi agire con sufficiente abilità.
I più ragguardevoli sono: il marchese Alessandro Gerini con sei milioni di metri quadrati, la sorella del marchese, Isabella, con due milioni e mezzo, i principi Lancellotti con sette milioni…
Non potevano mancare ovviamente i costruttori “come Antonio Scalera, Romolo Vaselli, Tudini e Talenti, Federici ecc. ecc., sono nello stesso tempo proprietari di aree (due milioni e mezzo di metri quadrati Vaselli, nove milioni Scalera lungo la via Cristoforo Colombo)”.1

Anni ’50. Borgata Gordiani. Fonte: Roma sparita.

Sono questi nomi a guidare l’espansione immobiliare della capitale degli anni ’50, cresciuta sotto l’ala protettiva del sindaco democristiano Salvatore Rebecchini secondo il vecchio motto “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”.
Sul Comune, infatti, gravano gli oneri di urbanizzazione, la costruzione di infrastrutture che valorizzano i terreni della nobiltà romana, del Vaticano e degli imprenditori del mattone.
Si svuotano le casse pubbliche a favore di chi costruisce residenze al di fuori della portata dei proletari:
Dai 26.673 vani costruiti nel ’50 si è passati ai 41.881 del ’52 e ai 75.127 del ’54. La media annua in questo periodo è stata di 46.762, la più alta in tutta Italia. Sono alloggi i cui fitti vanno da un minimo di 30-35.000 lire per appartamenti di tre vani dove la fabbricazione ha carattere intensivo, a massimi che toccano le 100.000 nelle palazzine o nei villini delle zone favorite”.2
Da notare che nel 1955 la paga base di un operaio generico è di 43.000 £ al mese.

1959. Borgata Gordiani. Foto: Italo Insolera.

Rebecchini conclude il mandato nel ’56, non senza lasciare alla rendita fondiaria una ghiotta eredità: l’accettazione da parte del CIO della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 1960, il volano per una nuova massiccia espansione immobiliare. Un’operazione che innesca “una incontrollata valorizzazione dei terreni che ospitano gli impianti sportivi e le infrastrutture necessarie per raggiungerli…
Il sindaco capisce che bisogna far presto perché dagli uffici del Piano arrivano segnali che l’espansione urbana a ovest avrebbe dovuto essere limitata, mentre la zona che lui deve ora rendere edificabile con le Olimpiadi è proprio l’ovest, il territorio di proprietà del Vaticano, terreno della caccia costruttrice della sua potente Società Generale Immobiliare…
Nel frattempo, cambiando punto cardinale “in assenza di un piano [regolatore] che entrerà in vigore solo nel 1965, lottizzatori abusivi costruiranno case per 400 mila persone soprattutto nella zona est della città”. (pp. 128/130.)

1971. Valle Aurelia. Foto: Italo Insolera.

Irrompe nelle periferie una “modernità” di asfalto e di cemento, seppellendo territori e rapporti sociali.
Si demoliscono le baracche, o semplicemente si spostano ancora più a i margini. Vengono interrate le ultime marrane, le uniche insalubri piscine a portata dei poveri.
Ne guadagna l’igiene, ma anche l’alienazione, perché la nuova conformazione urbana non è progettata certo a misura d’uomo, e tanto meno di ragazzino.

Ai bordi della città, Oreste, Spartaco, Franchino e i loro amici osservano la speculazione edilizia che avanza sventrando le borgate, chiudendo uno dopo l’altro i loro spazi.
Le recinzioni di lamiera circondano i campetti di calcio così faticosamente ricavati dagli incolti, dopo giorni e giorni di infantile fatica di vanga e carriola.
Poi arriveranno le ruspe.
E in una lotta impari, i ragazzini reagiscono.

I racconti di Campofreda ci lasciano una sensazione di incompiutezza.
Grazie alle bellissime foto di Claudio Bassi possiamo immaginare i volti dei giovani protagonisti, ma non ci è dato sapere quale sia stato il loro destino.
Non sappiamo se siano stati risucchiati dal lavoro e da paternità precoci, se abbiano trovato fortuna su un ring o in un campo di calcio, o se abbiano fatto “carriera”, passando dal minorile di Porta Portese a Regina Coeli.
Oppure siano corsi a riconquistare, con altri centomila, le strade del centro, per sferrare l’assalto al cielo, alla Grande Bellezza.

Conosciamo invece la storia dello smisurato saccheggio che detta ancora le sorti e rende faticosa la vita di questa splendida e disgraziata città. Un saccheggio che dai tempi di Rebecchini – come dimostrano le cronache di oggi – non si è mai fermato.

 


  1. Manlio Cancogni, “Capitale corrotta, nazione infetta”, L’Espresso, 11 dicembre 1955. 

  2. Idem. 

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Prosperare sul disastro. Cronache dall’emergenza sociale permanente/2 https://www.carmillaonline.com/2015/01/28/prosperare-sul-disastro-cronache-dallemergenza-sociale-permanente2/ Wed, 28 Jan 2015 02:00:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20313 di Alexik

Sfratti[A questo link il capitolo precedente.]

Prosperare sul disastro abitativo

Promuovere e organizzare il disastro abitativo su larga scala non è un’impresa per dilettanti. Nell’esperienza storica italiana ci sono voluti vari decenni di politiche mirate e una notevole determinazione per arrivare al risultato.

C’è voluto il saccheggio dei fondi Gescal, quelli detratti per decenni dalle buste paga dei dipendenti per costruire alloggi destinati ai lavoratori, e deviati dalle loro finalità per tamponare il buco del deficit pubblico o per altre voci varie [...]]]> di Alexik

Sfratti[A questo link il capitolo precedente.]

Prosperare sul disastro abitativo

Promuovere e organizzare il disastro abitativo su larga scala non è un’impresa per dilettanti. Nell’esperienza storica italiana ci sono voluti vari decenni di politiche mirate e una notevole determinazione per arrivare al risultato.

C’è voluto il saccheggio dei fondi Gescal, quelli detratti per decenni dalle buste paga dei dipendenti per costruire alloggi destinati ai lavoratori, e deviati dalle loro finalità per tamponare il buco del deficit pubblico o per altre voci varie ed eventuali (il disavanzo della RAI, il sostegno a San Patrignano, l’arredo urbano per il G7 di Napoli, ecc. ecc.). Una stima del ’96 valutava che su £ 200.000 miliardi di fondi Gescal, di 50.000 non si trovasse più traccia né si capisse dove fossero finiti. Un mare di soldi sottratti anno dopo anno alla costruzione di case popolari, e quelli che ancora non sono spariti risultano tuttora inutilizzati per un miliardo di euro1.

Tanta coerenza nella pratica dell’obiettivo a lungo andare ha pagato: l’Italia è riuscita a collocarsi agli ultimi posti in Europa per quantità di abitazioni sociali in % sul patrimonio abitativo,  una quantità decurtata ultimamente dalla messa a mercato di migliaia  di alloggi di proprietà degli enti previdenziali.

Edilizia socialeRispetto alla tendenza nazionale Roma non fa eccezione, dato che la percentuale di case a canone sociale o agevolato raggiunge nella capitale il 4,3 %, contro il 26 % di Londra, il 16,8 % di Parigi e il 12,7 % di Berlino2. Un ottimo risultato per i beneficiari di rendite immobiliari, visto che l’edilizia pubblica popolare ha il pessimo difetto di esercitare sugli affitti privati un effetto calmiere.

Il beneficio però non sarebbe stato colto appieno se negli anni ‘90 non fossero intervenuti prima il governo Amato (1992) e poi quello D’Alema (1998) per distruggere definitivamente la legge sull’equo canone. Nei cinque anni successivi alla sua abrogazione gli affitti romani salirono del 85,2 %, innescando oltretutto una reazione a catena. Visto che ormai la pigione eguagliava la rata del mutuo, chi se lo poteva permettere si orientò verso l’acquisto dei quattro muri, e l’aumento della domanda delle famiglie contribuì a spingere al rialzo anche il prezzo del metro quadro.

Ma non ne fu l’unica responsabile. La distruzione dell’equo canone aveva dato infatti la stura alle speculazioni, accellerando un processo di finanziarizzazione che poneva i patrimoni immobiliari in mano a società emettitrici di titoli, la cui redditività poteva essere ottenuta solo spingendo sempre più sulla crescita dei canoni e dei prezzi delle case. Il risultato su Roma fu di un aumento del 83,9 %3, dal 1999 al 2004, del costo del mq.

Roma sfratti eseguitiOvviamente chi non poteva più permettersi né l’affitto né il mutuo era fuori, con un ritmo medio degli sfratti eseguiti nella capitale di oltre 2500 famiglie l’anno4. Decine di migliaia di persone che sono andate – e vanno tuttora – ad aggiungersi ad altre migliaia che al mercato degli affitti non hanno mai avuto nemmeno accesso.

Non erano per loro, infatti, le decine di milioni di metri cubi di nuove edificazioni piovute sulla città sotto le giunte Rutelli, Veltroni e Alemanno, che trasformarono Roma in un’immensa fiera dell’edilizia ad uso e consumo di quelli che, in definitiva sono i suoi veri padroni: Caltagirone, Toti, Parnasi, Scarpellini, Bonifaci, Rebecchini, Mezzaroma, Pulcini e tutti gli altri allegri colleghi dell’Acer (Associazione dei costruttori edili di Roma e provincia).

Milioni di metri cubi (70 nel PRG di Veltroni del 2008, senza contare le deroghe) che hanno assaltato l’agro romano coprendolo con nuovi quartieri dormitorio grandi come città, o “densificato” zone di Roma rendendone la vivibilità un delirio. Una devastazione del tutto legale, ovviamente … ché ai palazzinari la legalità è stata ritagliata addosso come un abito di sartoria, tramite i condoni o attraverso una serie di artifici creativi (compensazioni, accordi di programma, ambiti di riserva) tali da consentire deroghe massive ai piani regolatori.

Tralasciando le numerose lottizzazioni minori, si è trattato, ai tempi di Rutelli di due milioni e settecentomila mc a Bufalotta a favore di Toti, Caltagirone e Parnasi; un milione e 900 mila mc a Tor Marancia (sul parco dell’Appia Antica) per la gioia di Mezzaroma; un milione e centomila mc a Ponte di Nona e un altro milione e duecentomila a Tor Pagnotta, entrambi a beneficio di Caltagirone. Con Veltroni  si sbloccarono per Scarpellini un milione e centotrentamila mc alla Romanina, mentre con Alemanno arrivarono centosettantamila mc per Rebecchini a Palmarola e duecentodiecimila mc di diritti edificatori per l’Amministrazione del patrimonio della sede Apostolica5.

muralesMilioni di metri cubi che rappresentano per gli abitanti della città un’immensa rapina di spazio, aria, verde, suolo, tempi di vita. Una nuova spinta centrifuga verso e oltre (molto oltre) il raccordo anulare, l’ultimo capitolo di un processo di espulsione ai margini della città non solo dei lavoratori e del sottoproletariato urbano ma anche di strati sempre più consistenti del ceto medio. Al centro, la Grande bellezza è un monopolio per ricchi, una cartolina per turisti, un teatro per speculazioni di lusso.

Le nuove cubature fruttano ai re del cemento centinaia di milioni di euro di guadagni netti, con volumi di affari tali da far sembrare i business di Carminati & C briciole per poveracci. Hanno una funzione “sociale” decisamente diversa rispetto alla soluzione dell’emergenza abitativa, visto che sono off limit per migliaia di persone che non se le possono permettere.

Chi vive in emergenza abitativa può tutt’al più aspirare a pochi metri quadri in un residence di un’estrema periferia, di proprietà di qualche palazzinaro, gestito da una cooperativa e pagato con cifre esorbitanti dal Comune.

campo farniaPer chi ha già vissuto la violenza dello sfratto o dello sgombero, il residence è l’ultimo approdo, l’ultimo insulto. Dovrebbe essere un semplice luogo di transito verso la casa popolare, ma visto che non ci sono nuove case popolari la sistemazione provvisoria diventa definitiva.

Eppure la politica dei residence avrebbe dovuto concludersi già con Rutelli, dopo che la città ne aveva sperimentato per anni gli esiti fallimentari. Con la delibera n. 163/98 sembrava avviata all’estinzione, e tale indirizzo pareva confermato dalla giunta Veltroni, che nel suo “Piano Regolatore Sociale” del 2004 affermava: “I residence avrebbero dovuto garantire una permanenza di emergenza, per un massimo di tre mesi. Date le gravi carenze alloggiative, invece, più generazioni si sono trovate a vivere in quelli che sono diventati veri e propri ghetti, a causa della composizione sociale omogenea e di un assistenzialismo passivo e deresponsabilizzante”.

La giunta Veltroni riuscì a smentire se stessa l’anno dopo, con la pubblicazione di un primo bando di gara per l’apertura di 10 nuovi centri di assistenza abitativa temporanea (CAAT) e 3 strutture per richiedenti asilo . In residence, ovviamente, o in strutture riaccatastate come tali in seguito a fantasiosi cambi di destinazione d’uso (dopo essere state classificate come negozi, opifici, magazzini, discoteca, casa di cura). Il tutto, compreso di portierato, pulizia e manutenzioni, al modico prezzo (complessivo) di circa 24 milioni di euro di affitto annui. Un affarone per le proprietà degli stabili, felici di piazzare monolocali a ridosso del raccordo anulare allo stesso prezzo di un appartamento ai Parioli.

CAAT 2006Fra gli aggiudicatari di tanta manna troviamo tutta gente degna.  Alcuni sono vecchi nomi dell’edilizia romana, come gli Armellini, memorabili per l’erezione di un palazzo di nove piani completamento abusivo a Tor Marancia, oltre che per la costruzione delle traballanti “case di ricotta” di Ostia, e per aver recentemente omesso al fisco la proprietà di 1243 appartamenti6.

Ci sono poi i Pulcini, imprenditori vicini a Carminati, artefici di 283.000 metri cubi di abitazioni di lusso abusive ad Acilia, poi sanate dall’interpretazione “estensiva” del concetto di condono da parte degli uffici tecnici della giunta Veltroni7. Due Pulcini sono finiti ultimamente agli arresti a causa di una maximazzetta al deputato Pd Marco Di Stefano per l’affitto di due palazzi alla Regione Lazio8.

E c’è l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, forte di una notevole esperienza in tema di appalti pubblici, dato che già alla fine degli anni ’90 il suo consorzio di cooperative La Cascina (attivo anche nella ristorazione) si era distinto per aver somministrato a scuole ed ospedali baresi “cibi scaduti, putrefatti o con alta carica batterica”, per essersi aggiudicato appalti con la frode9, e per l’infezione da salmonella di 182 bambini nelle mense scolastiche romane (scuole Besso e Bertolotti).10 Chissà, forse Veltroni sperava che gli risolvesse il problema dei profughi e dei senza casa sterminandoli col catering. O forse non gli era indifferente il fatto che l’Arciconfraternita fosse diretta emanazione di Ruini, all’epoca ancora presidente della CEI. (Continua)


  1. Giovanni Laccabò, Incostituzionali i fondi Gescal, L’Unità, 28 aprile 1994. Giulio Cesare Filippi, Fondi Gescal. Una variabile dipendente, La Repubblica, 19 febbraio 1996. Fondi Gescal: Cobas inquilini, non rintracciabili 50.000 mld, AdnKronos, 27 maggio 1998. Fondi ex-Gescal, tutte le risorse ancora in cassa, Regione per Regione, Il Sole 24 Ore, Edilizia e Territorio, 17 maggio 2013. 

  2. P. Bendini, D. Nalbone, Le mani sulla città, Alegre, 2011. 

  3. Elaborazione dati Istat: aumento degli affitti e dei prezzi delle case negli anni 1999-2004

  4. Fonti: Unione Inquilini e Ministero dell’Interno. Consultabili qui

  5. Per ulteriori dettagli: Paolo Mondani, I re di Roma, Report, 4 maggio 2008. Claudio Cerasa, La presa di Roma, Rizzoli, 2009. P. Bendini, D. Nalbone, Le mani sulla città, Alegre, 2011. Ylenia Sina, Chi comanda Roma? , Castelvecchi, 2013. 

  6. Dal palazzo abusivo all’Eur alle case di ricotta di Ostia. Storia dell’impero Armellini, Roma Today, 21 gennaio 2014. 

  7. Paolo Mondani, I re di Roma, Report, 4 maggio 2008. 

  8. Mauro Favale, Giuseppe Scarpa, Carminati: Affari e crac del mio amico Pulcini, La Repubblica, 5 dicembre 2014 

  9. Paolo Berizzi, Cibi scaduti a bimbi malati. Arrestati dirigenti di cooperativa, La Repubblica, 9 aprile 2003. 

  10. Associazione Lucchina e Ottavia, Intossicazione nelle scuole di Ottavia. 182 bambini aspettano giustizia, 19 marzo 2012. 

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Detroit è morta, viva Detroit! (seconda parte) https://www.carmillaonline.com/2013/08/14/detroit-e-morta-viva-detroit-seconda-parte/ Tue, 13 Aug 2013 23:00:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8286 di Sandro Moiso

drumDRUM along the Great Lakes

 Meno di trenta giorni dopo che la Guardia nazionale aveva terminato di occupare militarmente le strade di Detroit, H.Rap Brown prese la parola di fronte ad una folla enorme stipata dentro e fuori il teatro di Dexter Avenue, situato a meno di un miglio da quello che era stato l’epicentro della ribellione. “Sono qui presenti delle persone che possono rappresentare la lotta dei neri americani meglio di quanto io possa fare – iniziò col dire – Gente di Detroit, per esempio”. Con queste parole l’oratore era intenzionato a suscitare l’interesse [...]]]> di Sandro Moiso

drumDRUM along the Great Lakes

 Meno di trenta giorni dopo che la Guardia nazionale aveva terminato di occupare militarmente le strade di Detroit, H.Rap Brown prese la parola di fronte ad una folla enorme stipata dentro e fuori il teatro di Dexter Avenue, situato a meno di un miglio da quello che era stato l’epicentro della ribellione. “Sono qui presenti delle persone che possono rappresentare la lotta dei neri americani meglio di quanto io possa fare – iniziò col dire – Gente di Detroit, per esempio”. Con queste parole l’oratore era intenzionato a suscitare l’interesse dei presenti nei confronti di un nuovo organo di informazione della comunità nera: l’Inner City Voice.

Il giornale era nato nell’ottobre del 1967 e il suo primo titolo di testa era stato “MICHIGAN SLAVERY”, accompagnato da un editoriale di fuoco che avrebbe costituito da subito la cifra stilistica e politica della  redazione: Nella Rivolta di Luglio abbiamo dato un segnale significativo a chi amministra il potere bianco, ma apparentemente il nostro messaggio non è stato recepito…Noi stiamo ancora lavorando troppo duramente, venendo pagati troppo poco; stiamo ancora vivendo in pessime abitazioni e stiamo mandando i nostri figli in scuole di scarso valore educativo e stiamo ancora pagando troppo la merce dei negozi e siamo ancora trattati come cani dalla polizia. Ancora non possediamo nulla e non controlliamo nulla…In altre parole noi siamo ancora sfruttati dal sistema e abbiamo ancora la responsabilità di dover rompere la schiena a questo sistema. Soltanto delle persone che sono forti, unite, armate  e che conoscono il nemico possono affrontare la lotta che ci attende. Pensaci Fratello, difficilmente le cose andranno meglio, la Rivoluzione deve andare avanti*.

Il giornale si definiva come la voce della comunità rivoluzionaria nera e non era l’ennesima pubblicazione underground tipica di quegli anni. I suoi redattori avevano militato già in varie formazioni radicali. Alcuni di loro avevano già sfidato il Dipartimento di Stato nel 1964 recandosi a Cuba e avevano avuto modo di colloquiare con  lo stesso Ernesto “Che” Guevara. Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che il mensile, tirato in 10mila copie, si occupasse sia delle condizioni di vita e di lavoro a Detroit, che dei fatti internazionali e della lotta contro la guerra in Vietnam o delle  strutture militari e logistiche necessarie allo sviluppo della lotta armata.icv1

Si può dire che su queste basi si sviluppò una esperienza politica e sindacale che trascese ben presto i limiti della lotta per il riconoscimento dei diritti del popolo nero, fondendo questa richiesta con la necessità di un’azione autonoma del proletariato nero e bianco. C’era l’attenzione per il nascente movimento del Black Panther Party ad Oakland in California, ma anche per le condizioni di lavoro e le richieste sindacali all’interno delle numerose fabbriche dell’area di Detroit.

Tale esperienza politica nasceva in un contesto in cui, proprio a seguito della rivolta di luglio, anche  il capitale aveva intrapreso un’azione di rinnovamento della città. Tale progetto si andava strutturando intorno al New Detroit Committee (Comitato per la Nuova Detroit) che raccoglieva i maggiori rappresentanti dell’industria automobilistica, della grande distribuzione mercantile, delle principali banche ed assicurazioni. Oltre che tutti gli uomini politici e gli amministratori locali legati a doppio filo agli interessi economici dei primi.

Tale comitato si riprometteva di affrontare il problema del degrado urbano, ed in particolare dei quartieri della inner city (che erano stati i maggiori protagonisti della rivolta), attraverso un processo di ristrutturazione edilizia che prevedeva la costruzione di nuovi edifici dall’architettura ardita destinati ad ospitare banche, hotel, centri commerciali, lussuosi condomini, centri congressi e, naturalmente, i nuovi uffici amministrativi e di rappresentanza delle imprese coinvolte.

Sulle rovine della rivolta, degli incendi e degli autentici bombardamenti del luglio 1967, si intendeva quindi avviare un programma di speculazione edilizia e finanziaria travestito da nuova possibilità di migliorie economiche e di  sviluppo che avrebbero dovuto, sulla carta, coinvolgere anche gli insoddisfatti e i proletari protagonisti dei riot precedenti. Naturalmente il primo atto di tale “rinnovamento” sarebbe stato costituito dall’allontanamento forzato dei residenti neri, poveri bianchi e studenti dall’area centrale che si trovava  tra il fiume (lungo il quale si sarebbe sviluppata la nuova area commerciale) e la Wayne State University.

A fronte  di questo  progetto, che sarebbe stato negli anni successivi alla base della deindustrializzazione e della delocalizzazione delle fabbriche negli stati del Sud, i rappresentanti della comunità nera e dei lavoratori afro-americani si trovarono nella posizione di dovere e potere proporre soluzioni alternative. Politiche, economiche e sociali. E da qui nacque un’esperienza di proposta politica, basata sull’esperienza e le necessità reali del territorio e dei suoi abitanti, che avrebbe marcato la differenza tra i gruppi radicali di Detroit e quelli della maggioranza delle altre città americane. Da San Francisco a Chicago fino a quelle della Costa Orientale.

Nei primi sei anni di attuazione del progetto la qualità media della vita in città scese a nuovi minimi e naturalmente quelli ad essere più duramente colpiti furono i lavoratori dell’industria che costituivano più del 35% della popolazione urbana complessiva. I quali si resero ben presto conto che la Nuova Detroit significava, per loro, lavorare più a lungo e più velocemente, pagare più tasse ed ottenere, in cambio,  meno servizi sociali e salari fortemente ridotti dall’inflazione conseguente alla speculazione. Mentre la delocalizzazione industriale, le nuove esigenze  manageriali e il declino dell’industria automobilistica facevano sì che  il mantenimento o la ricerca di un posto di lavoro si facesse sempre più difficile.

Così, a fronte dei cambiamenti indotti dall’azione del New Detroit Committee, i rivoluzionari, raccolti in nuove formazioni politiche e sindacali come il DRUM (Dodge  Revolutionary Union Movement), l’ELRUM (Eldon Avenue Revolutionary Union Movement), il Wildcat Group o la League of Revolutionary Black Workers si trovarono a dover confrontarsi non soltanto con la classe dirigente delle fabbriche, ma anche con le direzioni sindacali del vecchio sindacato dei lavoratori dell’auto (UAW, United Auto Workers) e con gli stessi operai bianchi, spesso di origine italiana  o polacca, che costituivano ancora l’aristocrazia operaia di quel settore di industria. Mentre i lavoratori  neri continuavano ad occupare i posti di lavoro più ardui, pericolosi ed insalubri.

L’altro fronte continuava ad essere rappresentato dal dipartimento di polizia cittadino che aveva resistito a qualsiasi ristrutturazione. Così la violenza organizzata dello stato e la violenza non organizzata che aveva preso vita nelle strade con la rivolta di luglio divennero via via sempre più “istituzionali”, trasformando Motor City in quella che fu poi chiamata Murder City. Mentre il numero  deglii omicidi e  delle armi in circolazione andava crescendo esponenzialmente.

Così il ristretto gruppo di militanti rivoluzionari che si era raccolto inizialmente intorno al mensile Inner City Voice, vide allargarsi le proprie schiere insieme ai propri compiti, finendo col dar vita a una serie di azioni, fuori e dentro le fabbriche, che avrebbero favorito l’insorgere di altre formazioni e richieste radicali dentro la città e i suoi dintorni; non solo tra i neri afro-americani, ma anche tra gli americani bianchi poveri provenienti dai monti Appalachi.dodge

Più che in qualsiasi altro luogo negli Stati Uniti, il movimento guidato dai lavoratori neri finì col definire i propri obiettivi in termini di potere reale. Il potere di controllare l’economia e, concretamente, il ciclo della produzione attraverso i suoi tempi e modi. I rivoluzionari di Detroit non si lasciarono rinchiudere in uno scontro con le forze dell’ordine fine a se stesso o in un confronto puramente “scolastico”. Il movimento nel suo insieme cercò di integrare al proprio interno tutte le richieste e le forme di lotta nate negli anni precedenti per dar vita d un vero network  di poteri insorgenti da contrapporre alla rete del potere politico ed economico istituzionale.

In contrapposizione agli interessi politici, economici e finanziari rappresentati dal fasullo Rinascimento di Detroit proposto dal Committee, il movimento nato tra gli operai neri della città diede vita ad una straordinaria sequenza di azioni, apparentemente separate ma, in realtà, fortemente interconnese, nelle fabbriche, nelle strade, presso le Corti di Giustizia, i media, le scuole e durante le riunioni sindacali. Finendo col conquistare anche una parte significativa del proletariato industriale bianco e con l’interagire positivamente con tutte le istanze collegate alle necessità della vita quotidiana della classe lavoratrice.

Una vicenda esemplare

Il 15 luglio 1970, James Johnson, un operaio afro-americano, entrò nello stabilimento Chrysler di Eldon Avenue, in cui lavorava, con un fucile M-1 infilato nella gamba della sua tuta da lavoro. La fabbrica era stato luogo di numerosi scioperi a gatto selvaggio durante l’anno, mentre, nello stesso impianto, un operaio ed un’operaia erano morti in incidenti sul lavoro nelle due settimane precedenti. Il rumore assordante,le chiazze d’olio e le macchine difettose che caratterizzavano l’impianto circondavano Johnson quando si imbattè in uno dei capisquadra coinvolti nella sua sospensione dal lavoro, avvenuta il giorno precedente. James estrasse la carabina e prima che avesse finito di sparare un caposquadra bianco, un altro nero e un addetto alla manutenzione degli impianti giacevano uccisi sul pavimento della fabbrica.

Pochi lavoratori di Eldon conoscevano Johnson. Non era identificabile come militante dell’ELRUM o del Wildcat Group. Non partecipava mai alle riunioni ed assemblee sindacali, era soltanto uno delle migliaia di lavoratori che parlavano poco e ridevano meno. Non andava a bere nei bar vicini alla fabbrica, era un lettore della Bibbia e l’unica sua fonte di orgoglio era costituita dalla casetta che egli stava costruendo per sé e per sua sorella.

Pochi giorni dopo il fatto, Kenneth Cockrel assunse la difesa di James Johnson. Cockrel era uno dei sette membri del Comitato Esecutivo della Lega dei lavoratori neri rivoluzionari, mentre tra i lavoratori dello stabilimento andava crescendo la simpatia nei suoi confronti dopo che si era saputo  che la sua sospensione dal lavoro era  dovuta al suo rifiuto di accettare una accelerazione dei tempi di lavoro. Oltre che per una storia, di ritardi nel pagamento del salario e di perdita di ferie già acquisite, in cui lo stesso lavoratore era stato ingiustamente trattato dalla direzione.

Pochi giorni dopo i fatti, l’ELRUM distribuì un volantino il cui titolo recitava: “Onore a  James Johnson” in cui,  dopo una sintetica biografia dell’operaio nero, si contestavano le tremende condizioni di lavoro interne allo stabilimento di Elmond, il razzismo che ne contraddistingueva i rapporti di classe e le difficoltà, che talvolta rasentavano la passività, con cui l’UAW finiva quasi con l’avvallare tutto questo. Simili volantini apparvero anche in fabbriche molto lontane da Detroit, come la General Motors di Fremont (California) e la Ford di Mahwah (New Jersey).

Per lo svolgimento del processo, Cockrel ottenne che la giuria fosse adeguata al caso, razzialmente e sessualmente integrata, e non esclusivamente formata da bianchi. Così dieci dei dodici giurati avevano esperienza diretta di lavoro nella città di Detroit, due erano operai del settore automobilistico e tre donne erano sposate con operai dello stesso settore.

La difesa, dopo aver ricordato la travagliata esperienza di vita di Johnson (che già a 5 anni aveva assistito allo smembramento del corpo di un cugino a seguito di un linciaggio), segnata dall’ignoranza, dalla povertà e dall’emarginazione legata alla sua condizione “razziale”, passò a descrivere le condizioni di lavoro di Eldon, ritenuto con buona ragione uno dei più pericolosi impianti industriali degli Stati Uniti, e l’incapacità, o impossibilità, dell’UAW a difendere le condizioni dei lavoratori nello stesso impianto.

All’apice di questa linea difensiva Cockrel ottenne che l’intera giuria si trasferisse presso l’impianto per poter giudicare con i propri occhi ciò che era stato affermato nell’aula del tribunale. Dopo di che la giuria assolse Johnson in quanto non responsabile dei propri atti. Dal giorno successivo e nelle settimane seguenti molti operai di Elmond si presentarono al lavoro portando in bella vista nella tasca posteriore della tuta un giornale che rilanciava a caratteri cubitali l’assoluzione di James. Ancora nel novembre del 1973 Johnson, rappresentato da un legale che faceva parte della Motor City Labour League, ottenne dalla Chrysler un risarcimento dei danni causatigli dalla stessa industria per un totale di 75 dollari per ogni settimana, a partire dalla data della sparatoria in fabbrica.

Detroit, Torino, Zombielandzombieland 

Oggi, nonostante il buco 20 miliardi dollari che ha portato la città sull’orlo della bancarotta , qualcuno parla ancora di Rinascimento di Detroit e di rilancio della sua industria dell’auto. Soprattutto la più che asservita informazione italiana  che tesse ancora le lodi di Sergio Marchionne e delle scelte FIAT. Così viene sottolineato come il dimezzamento degli stipendi degli operai della Chrysler abbia permesso a questa industria di rilanciare la produzione di veicoli di lusso come la Jeep Grand Cherokee. Lo stabilimento della Chrysler è rimasto l’unico in città, le altre industrie si sono trasferite fuori o altrove, e occupa 4663 dipendenti dei 20mila che ancora trovano impiego negli stabilimenti automobilistici cittadini, a fronte dei duecentomila che un tempo erano occupati negli stessi.

Un’area urbana grande come quelle di San Francisco, Boston e l’isola di Manhattan messe insieme è abitata da 700mila persone di cui l’ottanta per cento è costituito da afro-americani, mentre almeno ottantamila edifici risultano essere completamente vuoti ed inutilizzati. Questo è il risultato non della crisi e della globalizzazione oppure del Welfare State, ma delle scelte che il capitale ha operato, e continua ad operare, là dove la classe ha acquisito livelli di coscienza e di auto-organizzazione tali da metterne in gioco la catena di comando e la sua stessa esistenza.

E’ la dimostrazione pratica di come il capitale sia “condannato” a rivolgersi alla speculazione finanziaria e alla rendita fondiaria nel tentativo di continuare a mantenere elevati tassi di profitto quando la lotta operaia ne riduce i margini e di come tale scelta sia destinata ad aggravare non solo le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche quelle dell’accumulazione capitalistica che in questo modo si priva della massa di lavoro vivo e di plusvalore necessari alla sua esistenza e riproduzione.

E’ la storia di Torino dagli anni ottanta ad oggi; è la storia della fuga del capitale FIAT e della famiglia Agnelli dall’investimento produttivo e dallo scontro con una classe organizzata per chiudersi nell’investimento speculativo in acque minerali ed alloggi di lusso a Parigi. E’ la storia dell’asservimento dei sindacati ufficiali alle esigenze dei padroni e della produzione e dell’avvallo dato da Luciano Lama e Enrico Berlinguer ai licenziamenti e alla cassa integrazione degli anni ottanta. E’ la storia  di chi, come Sergio Chiamparino, passa dal ruolo di Sindaco della città a quello di Presidente della fondazione della banca con cui ha contribuito ad indebitare irrimediabilmente la città (San Paolo) e che ha fatto sì che Torino diventasse la seconda città più indebitata d’Italia dopo Roma.

E’ la storia, dunque, degli stabilimenti FIAT torinesi dove sono rimasti al lavoro più o meno ottomila dipendenti a fronte dei 120-150 mila che li caratterizzavano negli anni settanta (senza contare le decine di migliaia di operai che lavoravano nelle medie, piccole e piccolissime fabbriche dell’indotto dell’auto, ormai quasi del tutto scomparse, nell’area torinese). Dei milioni di metri quadri che si libereranno per la speculazione edilizia una volta chiusa Mirafiori, così come in altre forme accadde con la chiusura degli stabilimenti del Lingotto (lautamente pagati, alla FIAT, dal comune di Torino, per farne centri commerciali, spazi espositivi e centri congressi). E’ la storia futura di Milano e del suo già fallimentare e truffaldino Expo…ma è anche la storia della lotta di classe, destinata sempre a risorgere e a coinvolgere lavoratori, donne, studenti, giovani disoccupati ed artisti squattrinati nel tentativo di dar vita ad un mondo migliore, totalmente diverso dalla Zombieland che il capitale è soltanto capace di realizzare.stooges

Ed è per questo che, metaforicamente, possiamo tranquillamente continuare a scandire: Detroit è morta, viva Detroit!

 * Dan Georgakas, Marvin Surkin, op. cit. pp.15 – 16

(Seconda ed ultima parte – fine)

Postilla

L’Autore, nel dichiarare tutto il suo debito di riconoscenza nei confronti di Dan Geogakas e Marvin Surkin e del loro testo Detroit, I Do Mind Dying. A Study in Urban Revolutio, citato in nota, auspica che, a 38 anni dalla sua prima edizione e a 15 dalla ristampa, il libro trovi finalmente un editore italiano disposto a pubblicarne la traduzione considerata la sua importanza per la comprensione della storia, dello sviluppo e delle dinamiche delle  lotte operaie e urbane, non soltanto statunitensi.

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Macerie https://www.carmillaonline.com/2009/04/07/macerie/ Tue, 07 Apr 2009 04:19:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=3002 di Alessandra Daniele

macerie.jpgIn Abruzzo più di un centinaio di morti, e decine di migliaia di senzatetto. In parlamento il solito accordo bipartisan: ”Questo non è il momento delle polemiche”. Certo, sarebbe assurdo parlare di norme antisismiche dopo un sisma. Parliamo di norme antiforfora. Poi magari diamo fuoco anche alle baraccopoli degli abruzzesi sfollati come facciamo con quelle dei Rom. Questo non è il momento di parlare di speculazione edilizia, incuria, ecomafia, corruzione, per riflettere su quanto sia appropriata la definizione “Condono Tombale”. È il momento di dare al governo la possibilità di sfruttare la tragedia come ennesimo spot “sociale” per [...]]]> di Alessandra Daniele

macerie.jpgIn Abruzzo più di un centinaio di morti, e decine di migliaia di senzatetto.
In parlamento il solito accordo bipartisan: ”Questo non è il momento delle polemiche”.
Certo, sarebbe assurdo parlare di norme antisismiche dopo un sisma.
Parliamo di norme antiforfora.
Poi magari diamo fuoco anche alle baraccopoli degli abruzzesi sfollati come facciamo con quelle dei Rom.
Questo non è il momento di parlare di speculazione edilizia, incuria, ecomafia, corruzione, per riflettere su quanto sia appropriata la definizione “Condono Tombale”.
È il momento di dare al governo la possibilità di sfruttare la tragedia come ennesimo spot “sociale” per le elezioni europee.
Qualcosa tipo la strappona sdraiata sulla monnezza che ringrazia il governo di avere “ripulito Napoli”, ma più in grande, e a reti unificate.
I pezzi grossi da Vespa, il gran sacerdote del Cordoglio Controllato, l’imbalsamatore capo d’ogni tragedia da mummificare nella retorica istituzionale.
Gli sfigati al tavolo tondo da seduta spiritica di Lerner e Gruber, accanto all’inquietante materializzazione dell’ectoplasma di Zamberletti.
Questo non è il momento di dare la colpa ai colpevoli, di attribuire le responsabilità ai responsabili.
È il momento di intervistare gli esperti, e domandargli basiti e increduli come sia possibile aspettarsi un terremoto in un paese che da sempre trema come un parkinsoniano all’ultimo stadio.
Ci faranno una puntata di Voyager. Lo chiederanno a Titor, alla setta dei Cugini di Satana, al sagrestano di Rennes-le-Château: com’è possibile aspettarsi un sisma in zona sismica?..
Questo non è il momento di chiedere conto a chi costruisce palazzi con lo zucchero a velo al posto del cemento, sarebbe indelicato verso chi sotto le macerie di quei palazzi c’è morto.
Il loro ultimo desiderio è stato di certo un accordo bipartisan in parlamento che evitasse le polemiche.
Questo è il momento di ravanare tra le macerie delle vite altrui, a caccia di reperti strappalacrime da esibire alle telecamere, e poi accusare di sciacallaggio chi quelle vite le avrebbe volute salvare.
Questo è il momento di pregustare il business per la ricostruzione, condito dalla deregulation del nuovo Piano Casa.
È il momento di preparare il prossimo Condono Tombale.

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