spazio vitale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale: chi semina vento raccoglie tempesta https://www.carmillaonline.com/2022/02/25/il-nuovo-disordine-mondiale-chi-semina-vento-raccoglie-tempesta/ Fri, 25 Feb 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70654 di Sandro Moiso

Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più (Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce [...]]]> di Sandro Moiso

Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più (Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce e davanti agli occhi di tutti quelle stesse contraddizioni, troppo spesso sommerse da un mare di menzogne e illusioni, cui si è prima accennato.

Contraddizioni di ordine economico, geo-politico, militare, sociale, produttivo e ambientale che di volta in volta vengono segnalate singolarmente, in nome di un’eccezionalità che invece, vista in una dimensione più ampia e completa, dovrebbe essere percepita come norma di un sistema che, dopo aver suscitato appetiti ed aspettative esagerate in ogni settore di una società in/civile basata sull’egoismo proprietario e l’individualismo atomizzante, non può soddisfare le aspirazioni materiali ed ideali che si manifestano globalmente, sia a livello macroscopico che molecolare.

Prima con la spartizione del mondo in due blocchi, definiti più dal punto di vista ideologico che da quello della effettiva struttura economica, poi con il preteso nuovo ordine mondiale a sola guida statunitense dopo il fallimento del blocco definito come orientale o sovietico, era sembrato agli analisti politici ed economici superficiali e agli ideologi da strapazzo come Francis Fukuyama (politologo e teorico statunitense della “fine della Storia”) che fosse possibile un lento e progressivo affermarsi dei valori democratici e liberali occidentali e del conseguente modello di sviluppo e progresso capitalistico, sotteso dagli stessi, a livello mondiale. Il tutto attraverso un costante appiattimento delle contraddizioni residue in funzione di un radioso e felice futuro di sfruttamento e accumulazione di ricchezze (private più che pubbliche e, possibilmente, più nella parte occidentale del mondo piuttosto che in quella orientale e meridionale).

Così, negli ultimi decenni, soprattutto nel paese di Sanremo e delle canzonette politically correct, il lavoro di chi non ha avuto timore di “sporcarsi le mani” con la questione della guerra e di un suo possibile allargamento a livello generale1 è stato visto come un’inutile e superata (forse ridicola per alcuni?) predizione da eterna Cassandra, in un sistema in cui non solo le contraddizioni interimperialistiche, ma anche sociali erano invece destinate a risolversi attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa e della trattativa qualunque essa fosse (diplomatica, sindacale o politico-parlamentare non importa), purché non violenta e rispettosa delle regole del buon vivere in/civile.

Purtroppo per gli illusionisti del capitale e dei loro, talvolta inconsapevoli, seguaci le cose non sono andate affatto così. Anzi, al contrario, gli eventi hanno preso una piega “imprevista” che, a partire dall’11 settembre 2001, ha subito un’accelerazione legata al sorgere del radicalismo islamico (anche e forse in maniera ancor più significativa nelle periferie delle metropoli occidentali), alle lunghe e irrisolte guerre nel quadrante mediorientale e afghano, al progressivo ritorno della Russia sulla scena internazionale sia dal punto di vista militare che diplomatico (proprio a partire dall’era Putin), all’irresistibile ascesa economica e politica della Repubblica Popolare cinese, alle conseguenze della prima gigantesca crisi finanziaria dovuta alle conseguenze della globalizzazione (2008 e anni successivi), ad uno ipertrofico sviluppo della digitalizzazione e dell’applicazione dell’elettronica in un contesto in cui sempre più spesso i metalli e le terre rare di cui si fa uso sono quasi totalmente sotto il controllo della Cina e della Russia e, in tempi ormai recentissimi, alle conseguenze sanitarie economiche e sociali della pandemia oltre che del sempre più drammatico manifestarsi della divisione politica (sociale razziale e di classe) negli Stati Uniti e al precipitoso e infruttuoso ritiro degli stessi e della NATO dall’Afghanistan.

Così, in un articolo del comitato di redazione apparso il 14 febbraio scorso sul «Wall Street Journal», alla fine, una delle voci più importanti del capitalismo statunitense ha dovuto prendere atto di tutto ciò, anticipando i fatti successivi:

Un’invasione russa dell’Ucraina sarebbe un evento fondamentale destinato ad accelerare il nuovo disordine mondiale. I segnali si stanno costruendo da anni, ma l’America e i suoi alleati sono impreparati […] L’amministrazione Biden ha fatto un discreto lavoro di retroguardia nel mobilitare l’Europa e la NATO in opposizione ai progetti della Russia sull’Ucraina […] Gli alleati sono per lo più a bordo della promessa degli Stati Uniti di “conseguenze massicce” se la Russia invade, anche se ci chiediamo per quanto tempo Germania, Francia e Italia manterrebbero la rotta. Le deboli sanzioni occidentali dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008 e della Crimea nel 2014, hanno incoraggiato Vladimir Putin a credere che l’Europa non abbia la volontà di resistere con qualcosa di serio.
Quello che Biden non ha fatto è spiegare agli americani i nuovi pericoli globali e cosa deve essere fatto per proteggere gli interessi degli Stati Uniti. Il problema va ben oltre l’Ucraina. La Cina vuole conquistare Taiwan e dominare il Pacifico occidentale. Il nuovo condominio Russia-Cina significa che lavoreranno insieme contro gli interessi degli Stati Uniti. L’Iran è vicino a ottenere un’arma nucleare e i jihadisti sono tutt’altro che sconfitti.
L’avanzamento della tecnologia e la sua proliferazione mettono anche a rischio gli americani, in patria e all’estero. L’attacco informatico al Colonial Pipeline dello scorso anno è stato un modesto spettacolo del danno che un attore straniero può infliggere alla patria degli Stati Uniti. Le armi ipersoniche e antisatellite potrebbero eliminare le difese statunitensi in tutto il mondo in pochi minuti e con poco o nessun preavviso. In una sorta di Pearl Harbor high-tech.
Niente di tutto questo è allarmista o inverosimile per chiunque presti attenzione. Eppure la maggior parte degli americani sembra indifferente o compiacente riguardo ai rischi. In parte questo è il risultato della stanchezza per le guerre in Iraq e Afghanistan. Gli ultimi tre presidenti hanno anche alimentato il desiderio, a sinistra e a destra, di tornare a casa, l’America.
Barack Obama ha risposto docilmente alle avances di Putin e a quelle di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Donald Trump ha assunto una posizione più forte e ha aumentato la spesa per la difesa, ma ha anche alimentato l’illusione che gli Stati Uniti potessero ritirarsi dal mondo e rimanere al sicuro. Biden ha per lo più ignorato il mondo nella campagna del 2020 e il suo fallito ritiro dall’Afghanistan ha convinto gli avversari, e persino molti alleati, che gli Stati Uniti sono in ritirata.
Ma la realtà alla fine morde, e ora lo sta facendo sotto gli occhi di Biden.
[…] La diffusione dell’aggressione e del disordine minaccia la libertà e la prosperità americane. Nessuno sta per invadere la patria, ma gli attacchi informatici potrebbero paralizzare pezzi dell’economia. Gli alleati che sono stati a lungo al nostro fianco potrebbero voltarsi dall’altra parte per compiacere i nuovi stati canaglia. Gli interessi economici degli Stati Uniti saranno a rischio.
Biden dovrà anche spostare l’attenzione della sua presidenza dall’espansione dello stato sociale interno al miglioramento della sicurezza nazionale. Le sue richieste di bilancio per la difesa dovranno aumentare in modo sostanziale.
Soprattutto, Biden dovrà costruire alleanze bipartisan sulla sicurezza nazionale, come hanno fatto Franklin Delano Roosvelt e Harry Truman in altri punti cardine della storia. Le forze isolazioniste emergono sempre quando il mondo diventa più pericoloso, nella speranza che gli Stati Uniti possano nascondersi dietro una Fortezza America. Biden dovrà trovare alleati in entrambe le parti per sconfiggere quel richiamo di sirena.
Nel 1940 Roosevelt nominò i repubblicani Henry Stimson Segretario alla Guerra e Frank Knox Segretario della Marina. Iniziarono a ricostruire le difese degli Stati Uniti in previsione che il paese potesse essere trascinato nei conflitti che infuriavano in Europa e in Asia. Truman lavorò con Arthur Vandenberg, un tempo senatore isolazionista del GOP2, per costruire la NATO e combattere la Guerra Fredda contro il comunismo. Biden dovrebbe portare i falchi del GOP nei ranghi più alti della sua amministrazione per ottenere consigli migliori e sottolineare i pericoli che ci attendono.
Niente di tutto questo sarà facile nella nostra politica divisa […]. Biden ha ancora tre anni di mandato e i nemici del mondo non aspetteranno fino al 2024 perché gli Stati Uniti si mettano d’accordo3.

Non vi può essere dubbio alcuno, scorrendo le righe appena proposte, che la richiesta sostanziale del capitale finanziario (e non) americano al proprio governo sia quella di prepararsi ad una guerra allargata, sostanzialmente mondiale.
Confermando così anche quanto scritto nell’editoriale dell’ultimo numero della rivista «Limes»4 a proposito della spinta che l’attuale politica estera americana ha dato al riavvicinamento politico ed economico, senza escludere al momento quello militare, tra Cina e Russia:

Sulle bandiere di ogni potenza è ricamato il motto romano divide et impera, Washington dissente e incolla i Numeri Due e Tre, forse per noia del suo esorbitante primato. Matrimonio di puro interesse, indissolubile fin quando cinesi e russi non stabiliranno chiusa per palese inutilità la stagione dell’asimmetrica manipolazione reciproca. Portiamo questo argomento a suggestione della tesi per cui non solo l’ordine mondiale inteso ordine americano del mondo è in crisi, ma che qualsiasi altro assetto contrattualizzato del pianeta è improbabile.
Non sappiamo quando il Numero Uno abdicherà. Ci illudiamo di poter stabilire che a succedergli non sarà altro egemone. Più probabile un’età di torbidi…

Per aggiungere poi ancora, poco dopo:

Il generale cinese Qiao Lang5 ha sviluppato nel suo L’arco dell’impero6 la tesi per cui l’errore ormai irrecuperabile di Washington è di considerare Pechino massimo sfidante: «In un futuro non troppo lontano, la vera causa del declino dell’America non verrà dalla Cina, ma dall’America stessa».

Sarà ripreso più avanti il discorso qui accennato sulla rovina proveniente da fattori interni all’America settentrionale7, mentre per adesso occorre sottolineare come il rischio effettivo di una guerra allargata sia entrato di colpo nel discorso mediatico mainstream, come non mai da molti decenni a questa parte. Come ad esempio dimostra il direttore di «La Stampa», Massimo Giannini, nel suo editoriale del 25 febbraio:

Con tutta evidenza, la via delle sanzioni è insufficiente. L’America e l’Europa ne parlano da giorni, ne hanno annunciate “diverse e dolorose” l’altro ieri. Si è visto com’è finita. Putin non se n’è neppure accorto, e 24 ore dopo ha attaccato come se nulla fosse. Ieri sera Biden ha rilanciato, parlando di restrizioni economiche che costerebbero 3 trilioni di dollari al ricco Vladimir e ai suoi “apparatciki”. Armi spuntate, purtroppo. Vuoi perché gli Stati che le dovrebbero applicare sono troppo divisi tra loro (come dimostra il veto italo-tedesco posto al Consiglio europeo sull’ipotesi di esclusione della Russia dal circuito finanziario Swift). Vuoi perché le sanzioni sono una spada senza impugnatura: colpiscono chi le subisce, ma feriscono anche chi le irroga (come dimostrano quelle sulle forniture di gas, infinitamente più pesanti per l’Europa, che grazie a quello russo soddisfa il 90 per cento del suo fabbisogno, di quanto non lo sarebbero per Putin, che può dirottare facilmente l’eventuale invenduto alla “sorella Cina”).
Ci restano solo le armi convenzionali, o magari addirittura nucleari? La prospettiva è agghiacciante in ogni senso, per gli effetti devastanti che avrebbe in termini di costi umani, economici, diplomatici. Ma questo parrebbe il dilemma, oggi. Lo “spirito di Monaco”, che lascia a un altro Fuhrer i suoi Sudeti e getta le basi di futuri stravolgimenti globali. O lo “spirito di Marte”, il dio furente e vendicativo che prepara la Terza Guerra Mondiale. L’alternativa del diavolo. Perché se la seconda è moralmente scandalosa, la prima è maledettamente pericolosa8.

Ciò che è interessante, nell’editoriale di Giannini è che il discorso su una possibile guerra mondiale è definitivamente sdoganato: in entrambi i casi, infatti, il gran finale è costituito da una guerra su larga scala. Al di là degli accostamenti tra Hitler e Putin, oggi così di moda e fuorvianti, non certo sulla base del fatto che il secondo possa essere più accettabile del primo, è però necessario annotare come in entrambi i casi la spinta alle annessioni territoriali e all’espansionismo militare fu ed è determinato da un problema di “spazio vitale” per la nazione ritenuta responsabile dell’aggressione.

Nel caso di Hitler determinato dall’annosa questione del corridoio di Danzica e dalle severe restrizioni territoriali e dalle riparazioni “di guerra” imposte alla Germania dopo il primo conflitto mondiale che, come annotò già ai tempi un osservatore come John Maynard Keynes9, non avrebbero potuto condurre ad altro che ad un nuovo conflitto. Nel caso di Putin da un’arroganza, tipica dell’Occidente americano e della sua cecità prospettica, nel voler imporre basi della Nato, dopo averle distribuite già in tutti i paesi dell’ex-Patto di Varsavia, praticamente alle porte di Mosca, posizionando i missili a poche centinaia di chilometri dalla capitale russa (4 minuti di volo per eventuali missili ipersonici). Dimenticando così la massima del generale inglese Montgomery secondo il quale su ogni manuale di strategia militare si sarebbe dovuto scrivere, fin dalla prima pagina: Mai marciare su Mosca. E autentico casus belli, come ha anche dichiarato il direttore di «Limes», Lucio Caracciolo, alla trasmissione serale condotta dalla Gruber la sera del 24 febbraio: «E’ stata la causa movente. Dal punto di vista russo, la Nato è il nemico che le sta entrando in casa e l’allargamento fatto a partire dagli anni ’90 in maniera sistematica dal punto di vista russo è percepito come una minaccia esistenziale».

Ritornando invece all’editoriale della medesima rivista di geo-politica, può rivelarsi utile riprendere il discorso sulla “debolezza americana”, di cui le accresciute tensioni interne sono una riprova e allo stesso tempo, uno dei principali motivi dell’altalenante azione politica, diplomatica e militare della superpotenza atlantica.

Il fenomeno geopolitico più importante del nostro tempo è la scissione interna alla nazione americana. I tecnici della politica la marchiano “polarizzazione”. Termine anodino. Riduce la scissione a biforcazione, meccanica all’interno di un insieme nel quale si manifestano opinioni e tendenze diverse che si legittimano reciprocamente. Qui però è in questione l’identità collettiva. Postulato non negoziabile[…] Non dunque la classica bipartizione politica. Qualcosa di molto pi intimo e radicale […] Di qui la crescita della violenza in un paese che vi inclina per nascita, come testimoniano proliferare delle milizie e diffusione delle armi. Fra l’etnia repubblicana, certo, ma anche democratica, specie donne e neri che non contano sulla protezione dello Stato. Nelle stesse forze armate, in particolare fra i veterani, serpeggiano intenzioni sediziose. Un assaltatore del Campidoglio su cinque ha una storia militare.
[…] Dal destino manifesto al declino manifesto? […] Washington al bivio: rilanciare o ritirarsi? Istinto e record storico spingono all’offensiva […] I destinisti inconcussi puntano tutto sulla prima scelta, a costo di partire in guerra. Ma guerra vera contro Cina o/e Russia, senza esclusione di colpi. Non l’ennesima guerretta persa o pareggiata dal 1945 in poi. Rien ne va plus? I declinisti timorosi di perdere tutto, perplessi sulla tenuta del fronte interno, invitano a restringere l’angolo d’impegno esterno […] Se l’America scansa la scelta, saranno gli sfidanti a imporle le proprie. Convinti di potersi manifestare molto più aggressivi grazie allo sfasamento del leader. Cina e Russia paiono disposte a rischiare la guerra, quanto meno in retorica (ma in geopolitica la distanza tra parole e cose può svelarsi minore di quanto appaia). Da tre generazioni i pesi massimi non si affrontano più in battaglia, se non per via indiretta. Contingenza fortunosa o nuova legge storica? Preferiremmo non sciogliere la riserva. Ma se il lettore pretende, riluttando, indicheremmo busta numero uno10.

Un altro aspetto importante sottolineato invece da Giannini è quello di una coalizione di alleati, quelli europei, estremamente divisi, la cui dipendenza energetica da Mosca è anche dovuta alle sconclusionate politiche neo-coloniali condotte da nazioni come la Francia che, dopo aver definitivamente minato le basi dell’approvvigionamento energetico italiano in Libia, si è poi trovata a vedersele contese da due avversari dal ben diverso potenziale militare: Turchia e Russia.

Divisioni dovute ad interessi geo-politici, economici e finanziari che restano assopite, nel caso europeo, soltanto per l’ambiguo legame rappresentato dall’Unione Europea e dalla “comune” appartenenza alla NATO. Divisioni che dovrebbero far capire, anche ai più testardi e duri di comprendonio, come il cosiddetto secolo breve si stia invece rivelando come uno dei più lunghi della Storia, considerato che il ‘900 iniziato con il primo conflitto mondiale non è ancora mai finito e che anzi vede tornare ripetutamente alla ribalta gli stessi fattori geopolitici, sociali ed economici che finirono col determinare due guerre mondiali, un numero imprecisato di dittature, di rivoluzioni e controrivoluzioni e, soprattutto di stragi infinite. In ogni angolo del pianeta, ma anche qui in Europa dove le stesse contraddizioni attuali già segnarono il cammino del martirio dei paesi balcanici negli anni ’90. Come, forse, anche il presidente ucraino Zelensky ha iniziato a comprendere di fronte all’attuale disparità che intercorre tra le ridondanti promesse europee e americane ed effettiva volontà di intervento a favore del suo governo.

Per questo motivo le ultime righe di questo primo intervento non sono destinate ad individuare le linee di sviluppo militare, geo-politico e strategico inerenti all’attacco russo all’Ucraina, ma, principalmente, a sottolineare i ritardi e gli errori, troppo spesso clamorosi, di tutti coloro che pur sentendosi parte di un’opposizione all’esistente hanno preferito chiudere gli occhi, illudersi e rivolgersi ad obiettivi apparentemente già belli e pronti, con tanto di simulacri di movimenti nelle piazze, piuttosto che dedicare tempo e attenzione a ciò che da tempo bolliva nella pentola degli apprendisti stregoni del capitale e delle sue esigenze. Perdendo così l’occasione sia di farsi trovare pronti al momento dell’esplodere del conflitto, sia di meritare qualsiasi riconoscimento o merito politico “reale” per poter affrontare i difficili tempi che verranno. Accontentandosi magari e ancora una volta di accodarsi a movimenti pacifisti di stampo umanitario che non serviranno ad altro che a motivare ancor di più la partecipazione a guerre che, sia da un lato che dall’altro del fronte, non appartengono a chi vuole liberarsi da un modo di produzione immondo. Ad Ovest come ad Est, a Nord come a Sud.

Così mentre il capitale riuscirà probabilmente ancora a volgere a proprio favore un’altra situazione difficile, come ha già saputo fare con l’emergenza pandemica, avanzando fin da subito le richieste di riapertura di centrali a carbone o nucleari per far fronte alla nuova emergenza energetica, gli antagonisti da riporto continueranno a discettare, sulle orme di un incartapecorito Agamben, su libertà individuale, democrazia formale ed altre quisquilie, dimenticando che qualsiasi discorso di opposizione all’esistente deve per forza di cose ruotare, senza se e senza ma, intorno ai due assi del conflitto tra capitale e lavoro (guerra di classe) e dell’opposizione alle insanabili contraddizioni interimperialistiche (guerra imperialista) intersecantisi sul piano cartesiano delle possibilità di rovesciamento reale del modo di produzione attuale. Unica bussola possibile per orientarsi nel caos della disinformazione, della propaganda, della paranoia, della drammatizzazione mediatica e della muffa ideologica che vengono propinate come verità assolute da entrambe le parti in conflitto.

(1 – continua)


  1. Si veda in proposito: Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019  

  2. Grand Ole Party, come viene definito il Partito repubblicano  

  3. The New World Disorder, «Wall Street Journal», 14 febbraio 2022  

  4. Cose dell’altro mondo in L’altro virus, «Limes» n° 1/2022, pp. 7-30  

  5. Già autore insieme a Wang Xiangsui di Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione (a cura del generale Fabio Mini), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001  

  6. Qiao Lang, L’arco dell’impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle due estremità (a cura del generale Fabio Mini), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2021  

  7. Già anticipato da chi scrive qui  

  8. Massimo Giannini, L’ora più buia dell’Occidente, «La Stampa», 25 febbraio 2022  

  9. Si veda: John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano 2007  

  10. Cose dell’altro mondo, «Limes» n° 1/2022, pp. 16-25  

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Vae Victis Germania / 1: Sulla loro pelle https://www.carmillaonline.com/2015/09/16/vae-victis-germania-1-sulla-loro-pelle/ Wed, 16 Sep 2015 20:00:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25242 di Sandro Moiso

fotografo-foto-migrante-bambino-morto-turchia-043-body-image-1441382933Per diversi giorni i mass media, completamente disumanizzati e privi di qualsiasi autonomia di giudizio o di un’identità che non sia quella fornita loro dalle veline dei governi o dagli uffici stampa delle zaibatsu industriali e finanziarie internazionali, hanno cercato di convincerci che le recenti prese di posizione di Angela Merkel in tema di immigrazione fossero principalmente dovute alle foto del bimbo siriano affogato nel braccio di mare tra Turchia e Grecia mentre, con la sua famiglia cercava di raggiungere la salvezza da una guerra spietata e [...]]]> di Sandro Moiso

fotografo-foto-migrante-bambino-morto-turchia-043-body-image-1441382933Per diversi giorni i mass media, completamente disumanizzati e privi di qualsiasi autonomia di giudizio o di un’identità che non sia quella fornita loro dalle veline dei governi o dagli uffici stampa delle zaibatsu industriali e finanziarie internazionali, hanno cercato di convincerci che le recenti prese di posizione di Angela Merkel in tema di immigrazione fossero principalmente dovute alle foto del bimbo siriano affogato nel braccio di mare tra Turchia e Grecia mentre, con la sua famiglia cercava di raggiungere la salvezza da una guerra spietata e devastante che sta radendo al suolo ogni possibilità di convivenza civile in vaste regioni del Vicino Oriente.

Naturalmente nulla è più falso di questa “benevola” rappresentazione della cancelliera tedesca e degli altri capi di Stato europei che hanno versato lacrime di coccodrillo su una situazione politica, militare ed umanitaria che hanno ampiamente contribuito a creare, anche solo tacendo per viltà e/o convenienza sulle ragioni reali del conflitto in atto. Infatti quello a cui stiamo assistendo, con buona pace delle anime pie, non è un risveglio della “coscienza” europea ed europeista, ma soltanto un altro passo verso quel III conflitto mondiale di cui da tempo vado scrivendo.

La gestione del problema migratorio di centinaia di migliaia di profughi, esattamente come quello del possibile default o meno della Grecia, non risponde infatti a categorie di ordine morale o umanitario e, tanto meno, a quelle di carattere sociale o del pubblico bene. Risponde però, nel precipitare di una crisi economica, geopolitica e militare sempre più vasta a livello mondiale, alla domanda su chi debba comandare in Europa ovvero in una delle aree del globo con la più alta concentrazione di ricchezza accumulata e su come tale ricchezza accumulata debba essere investita e ricollocata all’interno della competizione inter-imperialista mondiale.

Al centro di questa domanda, e delle risposte che ne conseguiranno, non vi è l’interesse dei “popoli”, ma lo scontro tra due modelli diversi di sviluppo capitalistico: da un lato quello anglo-americano e dall’altro quello germanico. Modello quest’ultimo che già ha guidato due volte la Germania, nel coso del XX secolo a cercare di istituire un vasto territorio “vitale” per i propri interessi economici ed industriali che si estendeva e si estende, idealmente, dall’Atlantico al Volga e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Un autentico lebensraum che, se nel corso del secolo passato ha assunto la forma dell’occupazione militare vera e propria, oggi cerca di manifestarsi principalmente attraverso il disciplinamento di ogni attività economica, finanziaria ed amministrativa, così come della forza lavoro, europea.

Il disciplinamento della forza lavoro europea era già stato al centro dell’azione germanica sul continente, soprattutto negli anni del secondo conflitto mondiale; così come ben dimostrarono i campi di concentramento tedeschi sparsi sul suolo del III Reich e della Europa Orientale occupata militarmente. E lo dimostrò altrettanto bene anche l’uso dei lavoratori “volontari” giunti dall’Italia alleata, così come ha testimoniato il lavoro storiografico di Brunello Mantelli e di Cesare Bermani,1 così come le illuminanti riflessioni, mai portate a compimento, di Karl Heinz Roth “sulla politica nazista nell’area sud-orientale europea, nel tentativo di leggere l’espansione nei Balcani anche come la costruzione di un mercato del lavoro europeo, e di interpretare la resistenza in paesi come l’ex-Jugoslavia o la Grecia come risposta anche a questa strategia”.2

Non a caso, nella fase attuale, dopo la riorganizzazzione e la ristrutturazione del lavoro e delle leggi che lo regolamentano, che ha visto sostanzialmente abolite le certezze e i diritti conquistati dal lavoratori nel corso delle lotte della seconda metà del secolo appena trascorso, si sta assistendo ad una sorta di ricollocazione internazionale della forza lavoro migrante sia dal Vicino Oriente che dal Nord Africa e dall’Africa Subsahariana.

Anche se negli ultimi giorni l’”accogliente” terra dei Lander sembra aver già ridotto gli accessi alle proprie città e ai propri territori, non vi è dubbio che l’accoglienza dei profughi siriani inaugurata dalla Merkel rivesta, ancor prima che quello di una risposta umanitaria ad una catastrofe di portata storica, un ruolo di riorganizzazione dei flussi di forza lavoro a basso costo verso il continente e il capitalismo europeo.

Così, come aveva già profetizzato sulle pagine dell'”Aspen Review” l’ex-ministro Giulio Tremonti a metà degli anni ’90, se “la povertà dell’Est dovrà entrare nelle buste paga dell’Ovest“, oggi è la povertà del mondo a dover contribuire a rendere “competitivi” i salari della classe operaia occidentale. La guerra produce miseria per una parte della società e fa accumulare profitti ad un’altra. Come sempre nel corso degli ultimi cento anni.

Si è parlato disordinatamente del fatto che i profughi provenienti dal Vicino Oriente insanguinato e, in particolare, dalla Siria appartengano alla piccola e media borghesia locale poiché, anche solo per affrontare i costi del trasporto clandestino, le spese affrontate per il viaggio non sono assolutamente sostenibili dalla manovalanza industriale e agricola di quei paesi. Una manodopera migrante, quindi, a diffuso tasso di scolarizzazione, ma che nel corso del viaggio, e a seguito dello spostamento, si lascia alle spalle uno stato di relativo benessere per essere sempre più sottoposta ad un processo di proletarizzazione. Non solo intellettuale.

Per una buona parte di loro la Germania non è la destinazione finale. Forse molti non intendono nemmeno fermarsi nell’Europa continentale, ma è indubbio che il controllo dei flussi costituisce una sorta di prova generale non di sopravvivenza o meno dell’unità europea, ormai messa seriamente in discussione dalla possibile sospensione del trattato di Schenghen e dagli effetti della crisi, bensì del ruolo predominante che la Germania ha avuto in questa, soprattutto a partire dall’istituzione della moneta unica.

Il controllo di questi flussi migratori diventa per la politica e l’economia tedesca determinante ai fini del comando sul lavoro e sull’economia su scala europea poiché, è inutile tentare di interpretare ciò che sta avvenendo sotto un’altra luce, per il capitalismo germanico la scala su cui muoversi non è mai stata quella meramente nazionale. Si potrebbe dire che è un capitalismo sì racchiuso entro confini territoriali molto più definiti di quelli inaugurati dalle super-potenze marittime (Gran Bretagna per il XIX secolo e Stati Uniti per il XX), ma che non hanno mai coinciso con quelli della pura e semplice “nazione”.

Si scontrano infatti, oggi come ieri, due concezioni economiche e geo-politiche, estremamente diverse tra di loro e conflittuali fin dalla loro ideazione tra il XIX e il XX secolo.
Da un lato il liberismo finanziario ed economico di Adam Smith, nato in una nazione che del mare aveva fatto la sua via di controllo dei commerci, della produzione e delle attività politico-militari su scala planetaria. Un capitale libero di agire in ogni angolo del globo e in grado di approfittare di qualsiasi occasione gli si parasse davanti e per il quale lo stato non deve essere che una complessa macchina diplomatico-militare in grado di garantirne interessi, proprietà e contratti senza mai, però, determinarne flussi, scelte e strategie di diffusione. Nato con i self-made men della guerra di corsa e della pirateria ai danni dei regni di Spagna e Portogallo e del prodotto dei loro imperi. Un capitalismo più interessato a scompigliare e destabilizzare gli assetti statuali e imperiali (altrui), più che a mantenerne le forme e le funzioni.

Per i capitali formatisi al di fuori della società inglese e che cercavano di opporsi alla superiorità economica della Gran Bretagna, il libero commercio di Smith risultava meno attraente. Fu, già nel 1789,, a onor del vero, un americano, Alexander Hamilton, a istituire uno stretto legame tra nazione, Stato ed economia, prevedendo la fondazione di una banca nazionale, la protezione delle manifatture nazionali mediante alte tariffe e notevoli imposte indirette.

Fu però un economista tedesco, Friedrich List, a riprenderne e svilupparne le idee nella prima metà dell’Ottocento. “Secondo List il compito della scienza economica, che già allora i tedeschi tendevano a chiamare «economia nazionale» (Nationaloekonomie) o «economia popolare» (Volkswirtschaft), invece di «economia politica», era di «realizzare compiutamente lo sviluppo economico della nazione» […] Non c’è bisogno di aggiungere che tale sviluppo doveva assumere la forma dell’industrializzazione capitalistica realizzata da una borghesia forte […] – e che – in sostanza , la nazione doveva possedere sufficiente estensione territoriale da formare un’unità in grado di svilupparsi. Nel caso in cui non raggiungesse questa estensione non avrebbe giustificazione storica3

Un’idea economica in cui Stato, territorio e controllo dei confini svolgevano una funzione centrale ai fini dello sviluppo. Una teoria della stabilità e della progressiva espansione geopolitica a partire da una ferma difesa degli interessi nazionali (si noti la vicinanza, precedentemente sottolineata, tra nazionale e popolare nella suddetta concezione). Lo “spazio vitale” di cui si parlava all’inizio insomma.

Anche se, a onor del vero, i due modelli economici non sono riscontrabili in forma pura in nessun dei processi di formazione delle potenze capitalistiche. La proposta di Hamilton, ad esempio, pose le basi per l’espansionismo statunitense sul continente nordamericano permettondogli di giungere al controllo di quei due oceani da cui sarebbe poi partito per un autentico “assalto al mondo”, mentre il cosiddetto “ordoliberismo” teutonico non può fare a meno di predicare una certa dose di “liberalizzazione”. Ma è chiaro che due così diverse concezioni del ruolo economico dello Stato nazionale e dello sviluppo capitalistico non avrebbero potuto far altro che produrre due concezioni geopolitiche estremamente diverse e in conflitto tra di loro. Che sembrano entrambe avere, però, proprio l’Eurasia al centro del loro interesse. Possiamo definirle come teorie dell’ Heartland (letteralmente: il Cuore della Terra) e del Rimland (la fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia e che si divide in 3 zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica).

rimlan heartL’ideatore del concetto di Heartland fu un generale e geopolitologo britannico, Sir Halford Mackinder, che la sottopose alla Royal Geographical Society nel 1904. Il termine derivava dal fatto che tale vastissimo territorio era delimitato ad ovest dal Volga, ad est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime più occidentali dell’Himalaya.
Per Mackinder, che basava la sua teoria sulla contrapposizione tra mare e terra, l’Heartland costituiva il “cuore” di tutte le civiltà di terra, in quanto logisticamente inavvicinabile da qualunque talassocrazia. Teoria che egli condensava in una singola frase: «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland; chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo; chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo».

A “coglierne” il significato politico per la Germania e l’Europa fu il generale, geografo e politologo tedesco Karl Haushofer che sottolineò, a partire dagli anni ’20 nella rivista “Zeitschrift für Geopolitik”, come le potenze marittime (la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti) avessero costruito una sorta di “anello” per soffocare le potenze continentali. A suo avviso le potenze marittime si ergevano come custodi dello status quo non solo attraverso il colonialismo inglese e francese, ma anche tramite l’ideologia wilsoniana che, attraverso il diritto all’autodeterminazione dei popoli, aveva contribuito allo smantellamento dell’impero austro-ungarico e del reich guglielmino e alla creazione di una serie di stati cuscinetto destinati a contenere il risorgere della potenza tedesca e l’espansione bolscevica in Europa, compromettendo seriamente “il diritto classico dei popoli”. Entrambi i temi, quello dell’inevitabile scontro tra potenze marittime e terrestri e quello del soffocamento dello jus publicum europeo, saranno poi ripresi da Carl Schmitt, giurista e filosofo tedesco vicino al regime hitleriano, negli anni precedenti e successivi al secondo conflitto mondiale.4

Il concetto di Rimland invece è frutto delle teorie elaborate da Alfred Thayer Mahan (1840 – 1914), che nel 1890, con il suo studio “The Influence of Sea Power in History”, definì la dottrina marittima degli Stati Uniti andando oltre la Dottrina di Monroe che, nel 1823, aveva già delineato una prima area di interesse statunitense su tutto il continente americano dal Canada alla Terra del Fuoco. Tale teoria sarà poi ripresa ed impugnata con forza da Nicholas Spykman che, pur essendo di origini olandesi, sarà di fatto il padre della geopolitica statunitense.

Spykman negli anni trenta rivisitò la geopolitica così come era stata concepita da Mackinder.
Contrariamente al geografo britannico, Spykman non credeva che il “cuore”, il perno geografica del mondo, come un focus economico e territoriale, dovesse essere situato nell’Europa Centrale o in Russia, ma sulle coste. Secondo lui, il centro del mondo è composto di terra costiera, che egli chiama “terra di confine” o “terre anello”, il Rimland per l’appunto. Spykman pensa che gli USA, in un modo o nell’altro, debbano controllare questo Rimland, al fine di imporsi come una superpotenza, e quindi dominare il mondo.

La teoria di Spykman fu adottata dagli strateghi americani sia nel corso del secondo conflitto mondiale che durante la Guerra Fredda e fu alla base della politica di contenimento messa in atto nei confronti dell’Unione Sovietica. Nulla ci impedisce di cogliere come tale teoria sia tutt’ora attiva per gli Stati Uniti , dal mar della Cina e dal Pacifico orientale fino al Medio Oriente attuale. Sia in chiave anti-russa e anti-cinese che anti- europea o, meglio, anti-germanica.

Un’ultima osservazione: il termine “geopolitica” fu creato dal geografo svedese Rudolf Kjellen nel 1904, che era stato preceduto in questo campo di studi dal tedesco Friedrich Ratzel, morto proprio in quell’anno. La geopolitica, che come scienza si occupa dello studio degli incessanti mutamenti territoriali per effetto del soggiorno dell’uomo, della sua azione e delle rivalità di potere che ne derivano, nasce quindi con il moderno imperialismo, quello che il britannico John Atkinson Hobson giunse a definire nel 1902 e sul lavoro del quale si basò poi il successivo “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” scritto da Vladimir Ulianov detto Lenin nel 1916. Si potrebbe anzi dire che ne costituisce la vera scienza politica ed è per questo motivo che, apparentemente, ho condotto il lettore così lontano dall’argomento iniziale.

Eppure per affrontare i problemi che si pongono all’ordine del giorno, dalla crisi greca a quella ucraina e dalle guerre del Medio Oriente e del Nord Africa fino alle bibliche migrazioni che ne conseguono, occorre andar oltre le banali affermazioni di carattere umanitario, alle letture e agli interventi ispirati dalla carità cristiana o, ancor peggio, di stampo nazionalistico e/o populista, per quanto ammantate di sinistrismo spicciolo.
Quello che avviene ormai quotidianamente sotto i nostri occhi, sicuramente, non è stato pianificato in precedenza, ma le scelte anche contraddittorie e talvolta disordinate che vengono fatte dai governanti europei e non, sono il frutto di contraddizioni e tensioni che non derivano solo dal momento. Per affrontarle con lucidità, non affidandosi soltanto all’emozione del momento, occorre indagarle in profondità.

muroAnche perché l’attuale costruzione di muri e la susseguente chiusura delle frontiere, così come il braccio di ferro sulle quote, non possono preludere che ad altre guerre per ridefinire il comando capitalistico su economie, territori ed esseri umani, migranti e non. Anche qui, nel cuore dell’Europa. E il gran rifiuto opposto a Bruxelles dallo schieramento dei paesi dell’Europa dell’Est alle proposte di Jean Claude Juncker non costituisce soltanto un episodio di calcolo politico elettoralistico ispirato dal populismo e dal razzismo, ma un ulteriore passo in quella direzione.

(1 – continua)


  1. Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938 – 1943, La Nuova Italia 1992 e Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937 – 1945, Bollati Boringhieri 1998  

  2. Cesare Bermani, op. cit. pag. XI  

  3. Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi 1991 e 2002, pag. 35  

  4. Carl Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi 2002 e Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «Jus publicum europaeum», Adelphi 1991  

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