sovranismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 21 Dec 2024 23:10:09 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dal situazionismo di Agaragar alla teoria della complessità. Intervista a Mario De Paoli https://www.carmillaonline.com/2023/05/30/dal-situazionismo-di-agaragar-alla-teoria-della-complessita-intervista-a-mario-de-paoli/ Tue, 30 May 2023 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77233 di Marc Tibaldi

Della rivista Agaragar, diretta dal filosofo Mario Perniola, dal 1970 al 1972, uscirono 5 numeri, 3 per Silva Editore e 2 per Arcana Editrice (nel 2020 sono stati ripubblicati da PGreco). Agaragar è stata una rivista nata dall’incontro, con il movimento situazionista, in particolare con Guy Debord, con cui Perniola aveva instaurato un rapporto di amicizia e un confronto. Negli anni ’60, Perniola era entrato in contatto in Francia con il movimento studentesco e con le ultime propaggini del surrealismo, diventando uno dei primi a far approdare in Italia [...]]]> di Marc Tibaldi

Della rivista Agaragar, diretta dal filosofo Mario Perniola, dal 1970 al 1972, uscirono 5 numeri, 3 per Silva Editore e 2 per Arcana Editrice (nel 2020 sono stati ripubblicati da PGreco). Agaragar è stata una rivista nata dall’incontro, con il movimento situazionista, in particolare con Guy Debord, con cui Perniola aveva instaurato un rapporto di amicizia e un confronto. Negli anni ’60, Perniola era entrato in contatto in Francia con il movimento studentesco e con le ultime propaggini del surrealismo, diventando uno dei primi a far approdare in Italia le tesi del movimento situazionista proprio su Agaragar. Il pensiero che Perniola elabora in quegli anni resterà nelle sue riflessioni con l’attenzione a rilevare le contraddizioni e la complessità della società dello spettacolo. Co-fondatore di Agaragar, assieme a Perniola, fu Mario De Paoli che, dopo la fine della rivista, ha continuato la sua ricerca sviluppando – in una serie di pubblicazioni – una originale teoria della complessità che tiene assieme l’analisi dell’evoluzione dei processi sociali e l’analisi della dinamica dei processi psichici. La sua ricerca merita di essere conosciuta, per questo siamo andati a intervistarlo. De Paoli, nato a Dolo, Venezia, nel 1940, vive a Padova, città dove si è laureato prima in chimica e poi in fisica e dove ha insegnato al liceo scientifico Eugenio Curiel.

Ci racconta innanzitutto come ha conosciuto Mario Perniola e come è nata la rivista Agaragar?
Ci conoscemmo durante il servizio militare, a Padova, fine anni ’60. Avevamo da poco terminato gli studi universitari, scientifici io e filosofici lui, nonostante le diverse formazioni c’era una sensibilità culturale in comune e dopo aver letto un mio studio (che sarà pubblicato sul terzo numero della rivista con il titolo: “Economia commerciale e linguaggio razionale: denaro e logos”), mi propose di partecipare all’elaborazione di Agaragar. Lui in quegli anni stava elaborando gli studi che confluiranno poi in L’alienazione artistica, che ritengo sia ancora uno dei suoi libri migliori. Nel primo anno eravamo solo noi due in redazione, lui si occupava anche dei rapporti con l’editore Silva. Con Perniola avevo punti in comune e alcune diversità. Lui partiva dalla questione dell’alienazione artistica, in cui considera la separazione di una realtà senza significato nell’economia politica e di un significato senza realtà nell’arte. Questa separazione si è accentuata nel Rinascimento con la separazione tra arte e artigianato. Separazione che è significativa per l’inizio della frattura tra produzione materiale e produzione immateriale. Separazione decisiva per capire che il capitalismo ha agito non solo a livello della produzione materiale, ma anche a livello linguistico/immateriale. Era importante considerare lo sviluppo del capitalismo a livello di controllo della produzione materiale ma anche nella produzione immateriale: nella letteratura, nei processi psichici, nella scienza. Bisogna ricordare che Perniola su Agaragar porta anche una critica al situazionismo. I situazionisti consideravano solo un lato della separazione tra realtà e significato, non riconducevano alla realtà il significato dei processi linguistici, bisognava invece ricomporre questi due aspetti.

Perniola, in Del terrorismo come una delle belle arti (Mimesis, 2014), uno dei suoi ultimi libri, dedica un capitolo all’avventura di Agaragar, e racconta anche di un vostro incontro con Debord. Aveva già letto i situazionisti prima di conoscere Perniola?
No. Conoscevo bene il pensiero della Scuola di Francoforte. Nelle mie riflessioni sul nesso fra capitalismo commerciale e linguaggio razionale avevo in mente Adorno e Horkheimer che, in Dialettica dell’illuminismo, descrivono Ulisse come il primo ‘Illuminista’ che usa il linguaggio per avere un vantaggio.
Andammo a Bruxelles a conoscere Guy Debord e Raoul Vaneigem. Debord non ci accolse in modo molto affabile. Ci portò a giocare a calcetto. Graziella, la simpaticissima moglie di Perniola, di nascosto continuava a fare degli sberleffi a Debord, sostenendo che era antipatico e borioso. Molto meglio andarono le cose con Vaneigem, molto simpatico. Ricordo in particolare una discussione in una birreria in cui gli feci notare che “l’immaginazione al potere” era quella del capitalismo che controllava la produzione di informazione.

Negli anni in cui progettavate la rivista, c’erano almeno altre due persone in Italia che seguivano da vicino il situazionismo, si tratta di Giorgio Agamben e Gianni-Emilio Simonetti. Avevate rapporti con loro?
Simonetti non l’ho mai conosciuto. Agamben era amico di Perniola, ricordo che andammo a fargli visita in una sua tenuta, vicino a Roma. Agamben insistette perché provassi a montare un cavallo che diceva mansueto e che invece mi coinvolse in un galoppo sfrenato. Durante il mio soggiorno nella casa romana dei Perniola, in occasione del mio scritto L’educazione come processo produttivo, appesi un poster che raffigurava la Lupa Capitolina con uno dei gemelli che sputava il latte, e vi apposi sotto la scritta “bambini di tutto il mondo unitevi”. Una mattina Graziella, la simpaticissima moglie di Mario, mi fece credere che il Perniola aveva sognato che lui era Marx e io ero Engels. Racconto questi aneddoti perché evidenziano i détournement giocosi del gruppo.
Nel primo anno eravamo solo noi due in redazione, Perniola si occupava anche dei rapporti con l’editore Silva. La collaborazione tra di noi non è continuata oltre i primi anni ’70 ma, ma nonostante i nostri percorsi culturali abbiano avuto una divergenza di interessi, filosofici lui, scientifici io, questo non ha intaccato la nostra amicizia e nel corso degli anni, abbiamo continuato a sentirci, scambiandoci alcuni dei libri che pubblicavamo.

Come venne accolta Agaragar nel dibattito ideologico di quegli anni? Suscitò discussioni?
Il dibattito culturale, il confronto e la critica erano molto serrati negli anni ’70 perché proprio in quelli anni si profilava un cambiamento di paradigma nel modo di produzione del capitale (la transizione dal fordismo al toyotismo iniziò nel 1976). Ma, mentre il capitale finanziario combinava in una nuova sintesi produzione materiale e produzione immateriale, i vari movimenti di sinistra rimanevano divisi fra loro, oscillando fra gli estremi dell’operaismo e del situazionismo. Agaragar proponeva una ‘sintesi sociale’ alternativa a quella proposta dal capitale. La rivista fu accolta con un certo entusiasmo, ma fu anche fraintesa. Per fare un esempio: Giuseppe Sertoli, redattore di Nuova Corrente (che in quegli anni era un’importante rivista di letteratura e filosofia. n.d.r.), mentre si dichiarava in perfetto accordo con gli scritti di Perniola, criticava aspramente i miei scritti sul primo numero della rivista. Perniola ed io gli rispondemmo con una lettera di quattro pagine in cui affermavamo l’importanza della nostra ricerca di una nuova sintesi sociale. Ritenevamo, inoltre, che fosse necessaria un’analisi storico-critica del rapporto fra scienza e capitale. Nel 1972 (all’epoca della guerra del Vietnam) partecipai ad un convegno internazionale di storia della scienza in cui diversi fisici, fra i quali Paul Dirac, prendevano atto di ‘una massiccia soggezione della scienza al capitale’, iniziata con il Progetto Manhattan per la costruzione della bomba nucleare.

In Agagar lei ha impostato la critica del materialismo dialettico di Marx, che non considera il carattere genetico-strutturale dei processi psico-linguistici e la sintesi sociale costituita dall’evoluzione parallela di strutture economiche e strutture linguistiche.
Si. In L’educazione come processo produttivo (Agaragar n.2, 1970) mi sono posto il problema della genesi sociale. Data la forte dipendenza dalle cure parentali e una rimarchevole capacità di apprendere tramite l’esperienza, l’evoluzione biologica della specie uomo si estende in un’evoluzione sociale mediata da un processo educativo. Un sistema di segni che media socialmente la relazione uomo – natura diviene così un ‘codice genetico’ di specifiche società umane intese come ‘specie semiotiche’. Un’ ipotesi simile, del prolungamento dell’evoluzione biologica nell’evoluzione sociale, veniva poi formulata dal biologo evoluzionista Stephen Jay Gould nel saggio Ontogeny and Phylogeny (Belknap Press of Harvard University Press, 1977). In Economia commerciale e linguaggio razionale: denaro e logos (Agaragar n.3, 1971) mi sono poi posto il problema della sintesi sociale considerando l’evoluzione parallela ‘isomorfa’ di determinazioni formali della politica economica e del linguaggio razionale nella società greca classica. Una correlazione simile fra linguaggio ed economia nella polis greca era stata evidenziata dal filosofo Sohn-Rethel In Lavoro intellettuale e lavoro manuale: per la teoria della sintesi sociale (Feltrinelli, 1977), ma allora non conoscevo le sue ricerche, non erano ancora state tradotte.

Dopo aver collaborato con Perniola, come è continuata la sua ricerca?
Dal 1973 al 2005 ho insegnato matematica e fisica al Liceo scientifico Eugenio Curiel di Padova, dove sono stato promotore dell’introduzione della storia della scienza nella didattica e fra gli organizzatori e i relatori del Progetto Ipazia per la promozione della cultura scientifica nei licei. In quel periodo ho scritto i saggi Rivoluzioni parallele isomorfe. Copernico, Ariosto e Josquin de Prez (pubblicato poi da Aracne nel 2015), in cui evidenzio la sintesi sociale fra gli ambiti economico, cosmologico, letterario e musicale all’ epoca della costituzione dello Stato politico moderno e Modelli dinamici dell’evoluzione della civiltà urbana (pubblicato poi da Aracne nel 2022), in cui considero la genesi sociale del capitalismo. Nel 2018 ho scritto poi un saggio conclusivo dal titolo Capitale finanziario e populismo. La scienza nell’ evoluzione del capitale (Aracne, 2020), in cui considero l’evoluzione parallela di economia politica e scienza nelle tre fasi fondamentali dell’evoluzione del capitale. 

Parallelamente, assieme allo psichiatra e psicoanalista Alessandro Pesavento, ha sviluppato una teoria dei modelli di processi psicolinguistici.
Sì, dal 1987 al 2001 ho collaborato con Pesavento allo studio delle successioni di ‘stati dell’Io’ nelle narrazioni oniriche di un paziente in analisi. Abbiamo pubblicato assieme Un modello probabilistico del processo onirico e la sua applicazione ai sogni prodotti in analisi (Bollati Boringhieri, 1992), poi La signora del piano di sopra. Struttura semantica di un percorso narrativo onirico (Aracne, 2013). Una prima formulazione del secondo saggio era stata proposta ad un convegno di psicoanalisi tenutosi a Trieste nel 1999. Dal 2001 al 2020 mi sono dedicato allo studio delle neuroscienze e all’ applicazione alle reti neurali della teoria della biforcazione dei punti critici di sistemi non-lineari aperti in non-equilibrio. Ho elaborato un modello delle reti neurali corticali coinvolte nella dinamica del Sé: Self’s Splitting and Self-Other Identification. A phase transition model, che ho esteso poi ad un modello pubblicato in un saggio dal titolo Brain Dynamics for Goal-Directed Social Navigation. A non-linear statistical model of consciousness (Aracne, 2021).

Mi piacerebbe che ci approfondisse la presentazione delle tesi articolate in Capitale finanziario e populismo. La scienza nell’ evoluzione del capitale.
Questo saggio si propone una riconsiderazione critica delle fasi dell’evoluzione del capitalismo, e della scienza ad esso associata, nell’ epoca in cui questo sembra ormai giunto ad una fase ‘terminale’ della sua evoluzione, con il predominio sull’intero ciclo dell’economia e con uno sfruttamento esaustivo delle risorse naturali, oltre che umane, difficilmente sostenibile a livello di ecosistema. Verso la fine del XX secolo, è avvenuta una transizione dal modo di produzione fordista del capitale monopolistico al modo di produzione toyotista del capitale finanziario delle multinazionali. Due classi di fenomeni sono associate a tale transizione.

Quali sono queste due classi?
Una prima classe, evidenziata da Marco Revelli nel saggio Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Appuntamenti di fine secolo (manifestolibri, 1995), comprende: una forte competizione fra capitalisti, dovuta all’ esaurimento delle risorse naturali e alla saturazione dei mercati, cui consegue una permanente imprevedibilità dei mercati; il predominio della speculazione del capitale finanziario (liquido) sull’ investimento del capitale industriale (fisso) e di un’economia multinazionale sulla politica nazionale, con conseguente crisi della politica; e infine l’asservimento della scienza al capitale e un uso di tecnologie sofisticate per il controllo globale dell’informazione cui corrisponde la parcellizzazione e precarizzazione delle capacità produttive umane (e un aumento delle diseguaglianze sociali). Una seconda classe, solo in parte evidenziata da Byung-Chul Han, in Psicopolitica (Nottetempo, 2014), comprende: la disgregazione dei vincoli sociali tradizionali e lo sfruttamento intensivo della libertà di scelta individuale allo scopo di aumentare la produzione e lo scambio di informazione a livello globale; un’estensione dalla produzione materiale alla produzione immateriale con conseguente alienazione nell’informazione del significato delle merci; e infine la costituzione di un nuovo asse delle opposizioni [populismo – neoliberalismo] che si combina con il vecchio asse [destra – sinistra] dei poli politici nel comporre il quadrato delle opposizioni di un nuova logica in cui, più che il valore di verità degli enunciati, è essenziale l’informazione comunicata da questi. Inoltre, nella prima parte del saggio, oltre ad analizzare il nesso fra queste due importanti classi di fenomeni psico-sociali, propongo: un modello matematico che evidenzia una transizione al caos nel caso della valorizzazione del capitale in ambiente con risorse limitate e un modello logico che evidenzia il carattere informazionale del quadrato delle opposizioni dei poli politici.

Nella seconda parte del saggio viene proposto un superamento della critica marxiana dell’economia politica.
Questa è adeguata all’analisi della produzione materiale del capitale industriale, ma non all’analisi della produzione immateriale del capitale finanziario, che sfrutta le capacità umane di comunicazione e di consumo oltre che di produzione. Marx non considera tale sintesi sociale e il fatto che l’alienazione nell’ informazione del significato connesso al valore d’ uso richiede una ridefinizione del valore di scambio. Per far ciò è necessario integrare il rovesciamento della dialettica hegeliana con una critica della teoria kantiana della conoscenza e risalire all’origine storica della politica e delle determinazioni formali dell’economia.

Lei formula l’ipotesi che la logica della politica e le determinazioni formali di valore d’ uso e di valore di scambio si siano formate all’ interno di una confederazione di città-stato greche, con lo sviluppo della proprietà privata della terra e con lo scambio commerciale, mediato dalla moneta di conio, dei prodotti in eccedenza ottenuti con la divisione del lavoro agricolo.
Sì, scopo della politica nella costituzione della polis era garantire per legge (logos), l’incorruttibilità della moneta di conio e l’inalienabilità della proprietà privata e stabilire con un’argomentazione logica la verità della proposizione “il soggetto gode / non gode di una certa proprietà” in base a un principio di non contraddizione. Ma compito della politica era anche, secondo Aristotele, fare in modo che il ciclo Merce-Denaro-Merce, i cui limiti sono fissati dal nesso fra produzione e consumo, prevalga sul rovesciamento nel ciclo Denaro-Merce-Denaro’ del capitale commerciale, in cui l’accumulazione di plusvalore consiste nel comperare merci nei luoghi in cui sono comuni per venderle a prezzo più alto nei luoghi in cui sono rare. Ciò dimostra che Aristotele aveva chiara la distinzione fra il valore d’uso di una merce per il consumatore e il valore di scambio di una merce per il mercante.

In questo libro sostiene anche che nell’ evoluzione del capitalismo si possono distinguere tre fasi.
Sì. Nella fase della proprietà privata fondiaria e del capitalismo commerciale, si ha il predominio della politica sull’economia, la separazione del consumatore dal produttore con la divisione del lavoro agricolo e il predominio del consumatore che definisce il valore d’ uso della merce (mentre il valore di scambio è dato dalla sua rarità). Con lo sviluppo del capitalismo industriale si ha un equilibrio fra potere politico e potere economico, la divisione del lavoro nella fabbrica e la determinazione del valore di scambio come lavoro accumulato. Invece nella fase del capitalismo finanziario si ha il predominio dell’economia sulla politica, una produzione insieme immateriale e materiale, la connessione fra significato e valore d’uso della merce e la determinazione del valore di scambio come informazione accumulata. Claude Shannon introdusse nel 1949 una misura probabilistica dell’informazione contenuta in un messaggio sulla base del numero di scelte fra alternative necessarie ad eliminarne l’incertezza: essendo la formula dell’incertezza eguale a quella dell’entropia, la determinazione soggettiva di incertezza e quella oggettiva di entropia vennero equiparate fra loro. Nel lavoro si ha, in particolare, un trasferimento di energia a bassa entropia con la produzione materiale di informazione. L’informazione è quindi un’estensione del lavoro alla produzione immateriale.

In un passaggio finale parla dell’entropia ambientale e dell’incertezza sociale che caratterizzano questo momento storico…
L’evoluzione della civiltà urbana consiste nell’auto-organizzazione di sistemi sociali sempre più complessi con lo sviluppo delle capacità umane di produzione e di comunicazione. Tale evoluzione è caratterizzata, da un lato, da un aumento progressivo dell’informazione incorporata da un ristretto gruppo sociale che domina l’intera società, dall’ altro da un aumento progressivo dell’entropia e dell’incertezza diffuse, rispettivamente, nell’ambiente e nel resto della società, dato lo sfruttamento sempre più intensivo sia delle risorse naturali che delle capacità umane. Nell’ evoluzione della civiltà urbana si possono distinguere tre grandi ere in cui si alternano, con un periodo di circa 900 anni, il predominio delle civiltà occidentali e quello delle civiltà orientali. Lo sviluppo del capitalismo e della scienza, che caratterizza l’evoluzione della civiltà occidentale, è alla base del suo predominio a partire dal XVI secolo. Nella seconda parte del saggio viene evidenziata la corrispondenza biunivoca di determinazioni formali dell’economia politica e della scienza, nelle tre fasi di evoluzione parallela del capitalismo e della scienza, evidenziando il progressivo asservimento della scienza al capitale.

L’analisi di queste forme di potere l’ha portata anche a individuare e/o proporre nuove possibilità di confronto, conflitto, cambiamento?
Penso che la concezione di una decrescita felice e l’opposizione del sovranismo della destra populista al globalismo neoliberale – come l’opposizione politica dei proprietari fondiari della polis greca al capitalismo commerciale – siano reazionarie in quanto pongono un limite allo sviluppo delle capacità umane di produzione e di comunicazione. Nel Rinascimento Pico della Mirandola affermava che l’uomo ha la straordinaria capacità di produrre le più grandi innovazioni e le peggiori efferatezze. Purtroppo l’evoluzione del capitalismo ha preso una brutta piega. Si tratta di cambiare indirizzo e, da un lato, ridurre al minimo l’aumento di incertezza distribuendo all’ intera comunità la ricchezza di informazione accumulata da un ristretto gruppo dominante, dall’ altro ridurre al minimo l’aumento di entropia dell’ambiente. I movimenti artistico-letterari della sinistra che, come il situazionismo, ‘narrano’ di mondi possibili alternativi, non considerano il fatto che un asservimento della scienza è alla base del potere del capitale. “L’immaginazione al potere” è possibile solo con il détournement della produzione scientifico-tecnologica per metterla al sevizio dell’intera comunità e con una nuova sintesi sociale fra narrazione e produzione che realizzi mondi possibili alternativi a quelli proposti dal capitale.

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La pace è finita, l’Unione Europea anche https://www.carmillaonline.com/2023/01/05/la-pace-e-finita-lunione-europea-come-la-si-e-immaginata-anche/ Thu, 05 Jan 2023 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75302 di Sandro Moiso

Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 144, euro 16,00.

E’ un agile libricino, ma c’è da augurarsi che la Befana in persona oppure qualche amico premuroso o caro parente l’abbia fatto pervenire nella tradizionale calza appesa al camino (o dove diavolo si voglia) dei lettori. Soprattutto di coloro che, ancora infatuati di filo-sovietismo e vetero-stalinismo d’antan, credono e affermano, senza mai averne letto una parola o un rigo, lo scarso interesse che rivestirebbero i saggi e gli [...]]]> di Sandro Moiso

Lucio Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 144, euro 16,00.

E’ un agile libricino, ma c’è da augurarsi che la Befana in persona oppure qualche amico premuroso o caro parente l’abbia fatto pervenire nella tradizionale calza appesa al camino (o dove diavolo si voglia) dei lettori. Soprattutto di coloro che, ancora infatuati di filo-sovietismo e vetero-stalinismo d’antan, credono e affermano, senza mai averne letto una parola o un rigo, lo scarso interesse che rivestirebbero i saggi e gli studi di Caracciolo per i “compagni”. Spesso accusandolo di un filo-atlantismo ad oltranza che stride in maniera evidente con tutto ciò che l’autore va dicendo e scrivendo da anni.

Anche quelli che si ostinano a ritenere che la geopolitica sia “roba di destra” farebbero meglio a leggere il libretto oppure richiedere la consegna dello stesso da parte del drone con la scopa caratteristico del 6 gennaio. Poiché se è vero che acquistare «Limes», la rivista di cui Caracciolo è direttore, tutti i mesi può rivelarsi impegnativo e costoso, la lettura e l’acquisto di questo ultimo suo lavoro potrebbe occupare poco tempo e pesare non molto sulle tasche dei singoli (parlando comunque di tempo e soldi ben spesi).
Ma allora cosa conterrà di così importante il testo di cui si sta qui parlando, chiederà qualche lettore storcendo già il naso. La risposta è già nella prima riga, e in quelle seguenti, senza ombra di dubbio.

Il 24 febbraio 2022 è definitivamente finita la fine della storia. Trent’anni dopo la pubblicazione del saggio di Francis Fukuyama sopra La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), l’invasione russa dell’Ucraina impone sigillo all’illusione di emanciparci dalla prigionia del tempo, stigma di ogni progressismo occidentale. Fukuyama scriveva all’indomani del miracoloso biennio avviato dal crollo del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e chiusa dal suicidio dell’Unione Sovietica (25 dicembre 1991), con i decisivi passaggi dell’unificazione tedesca (3 ottobre 1990) e dello scioglimento del Patto di Varsavia (1° luglio 1991) […] Il presidente George H. Bush preconizzava un Nuovo Ordine Mondiale (ancora!), fondato sull’incontestata, pacifica, benevolente egemonia a stelle e strisce. I cantori della vittoria americana nella Guerra fredda annunciavano il trionfo della Nuova Roma. Pax americana, dunque?
Non proprio. Prima il lungo decennio della Guerra del Golfo e dei conflitti di successione jugoslavi, poi il vetennio della “guerra al terrorismo” con le fallimentari invasioni di Afghanistan e Iraq, infine la contestazione russa dell’ordine americano […] parallela all’analoga sfida cinese al primato di Washington […] Finita era la pace, non la storia. A Bush padre come a quasi tutti i contemporanei sfuggiva che la fine dell’impero sovietico e la scomposizione dell’URSS in quindici repubbliche che dalla sera alla mattina vedevano i loro pseudoconfini amministrativi eretti a frontiere di improbabili Stati, segnavano il tramonto del vecchio ordine, non l’alba del nuovo. Le rovine dell’edificio crollato. Costruito dopo il 1945 sulla spartizione dell’Europa per mano dei suoi conquistatori – base della doppia egemoonia americano-sovietica sul pianeta – ostruivano qualsiasi velleità di impiantarvi il Sistema-Mondo definitivo, già battezzato “Washington Consensus”. Stiamo ancora spalando tra le macerie del vecchio ordine, mentre i residui muri portanti su cui americani e altri occidentali imperniavano l’ideale dell’umanità metastorica si rivelano perfettamente inadatti allo scopo. Viviamo il rovesciamento della fine della storia: le storie della fine1.

Dovrebbero bastare queste poche righe a contestare le convinzioni di coloro che ritengono l’autore un ferreo sostenitore degli Stati Uniti e dell’atlantismo a ogni costo, ma poiché non è intento di questa recensione difendere o salvare una personalità pubblica dalle critiche di carattere ideologico, è invece importante sottolineare che, in fin dei conti, ciò che anima il pensiero di fondo di Caracciolo è un europeismo costretto oggi a fare i conti con la Storia. Proprio questo aspetto sembra infatti costituire il cuore del saggio: analizzare le prospettive dell’Europa e della sua presunta unità di fronte alle sfide poste dalla crisi, indubitabile, dell’Occidente americano e dall’insorgenza, più che dal sorgere, di potenze economico-militari e dalle ancor ampie risorse energetiche tradizionali a loro disposizione.

I soliti critici ideologici, con le menti tradizionalmente avvolte nelle fette di salame tardo marxista-leninista e per questo motivo scarsamente attenti alla realtà dei fatti, spesso dipingono l’Occidente come un tutt’uno, in cui gli attori nazionali sono tutti fedelmente legati all’obbedienza al canone e al volere degli Stati Uniti d’America e mai in contrasto al loro interno se non per quisquilie di carattere etico e giuridico. Finendo col costituire soltanto l’altra faccia della medaglia del pensiero embedded di pennivendoli “inconsapevoli e felici” come Massimo Giannini2, mentre la realtà, fotografata anche nelle pagine del testo qui proposto, appare ben diversa.

Realtà che, al di là degli evidenti contrasti tra Europa del Nord ed Europa mediterranea, tra stati dei confini orientali e stati occidentali all’interno del continente oppure se vogliamo delle immarcescibili polemiche e rivalità mediterranee tra Italia e Francia, travestite amabilmente da “questione migratoria”, e della Francia con gli Stati Uniti sulla necessità di una Difesa comune europea (possibilmente a guida francese) che si distacchi in parte o del tutto dalla Nato (a cui, però, Macron intende vietare l’accesso all’Ucraina guerriera e filo-americana di Zelensky), risalente ancora ai tempi della grandeur sognata da Charles De Gaulle, vede il centro di ogni turbolenza economica, politica militare accentrarsi al suo vero cuore: la Germania, riunificata nel 1990 e ancora una volta a caccia del suo ruolo di comando sul continente.

Prima dell’Ottantanove le due Germanie avevano cautamente stabilito rapporti piuttosto intensi, spesso segreti. Molto più di quanto lo schematismo della Guerra Fredda prevedesse. E di quanto la grande maggioranza degli stessi tedeschi, su entrambe le sponde, immaginasse. All’ombra di ideologie e narrazioni storiche specularmente opposte – doppia negazione, dunque affermazione – l’una conferma e dimostrazione dell’altra, si dipanava un filo rosso percebile a chi non mettesse la testa nella sabbia o non fosse stordito dalle rispettive propagande. Filo che negli ultimi trent’anni, almeno fino alla svolta del 24 febbraio, ha riportato la Germania al rango di protagonista economico ma anche geopolitico su scala mondiale. Ma sempre a rischio di rompersi il collo, proprio quando il ritorno della Potenza del Centro – Zentralmacht Europas […] – sembra scolpito nella pietra3.

Nel delineare i “due blocchi” tedeschi riunificatisi nel 1990, l’autore ci ricorda che:

La più piccola delle due Germanie (quella ex-orientale – NdR) è stata e rimane la più tedesca. Così come, a suo modo, la Bundesrepublik preunitaria non può essere ridotta a base avanzata dell’impero americano in Europa occidentale, l’altra Germania non è mai stata un mero satellite dell’URSS. Il graduale ritorno della Germania unita nella storia avviene attingendo al patrimonio identitario custodito dalla DDR molto più che dalla Bubdesrepublik delle origini. Se l’Ovest annette l’Est, l’Est inietta nell’Ovest quelle dosi di codice nazionale, non necessariamente democratico, preservato nei quarant’anni di controllo sovietico. Trovando a occidente dell’Elba un terreno più fertile di quanto apparisse in superficie4.

La storia ha il respiro lungo. E ci ricorda come quel decisivo spazio nel cuore dell’Europa sia culturalmente autocentrato. L’identità tedesca, dal romanticismo in poi, verte su valori orgogliosamente specifici […] E’ l’architrave sul quale si è costruito il Secondo impero e la cui versione aggiornata sta riportando i tedeschi di oggi al senso di appartenere, malgrado tutto, a un soggetto storico dotato di un proprio codice culturale. Di una specifica missione […].
Nell’Europa eterodiretta dai due poli esterni (USA e URSS – NdR), la risultante politica di questo sentimento collettivo era latente neutralismo. Rifiuto di ridursi a meri strumento delle superpotenze. Ben sapendo come queste divergendo su quasi tutto convergessero nel considerare lo spazio tedesco intrinsecamente pericoloso, da mantenere sotto stretta sorveglianza. Tale neutralismo era fondato su un nazionalismo segreto, per certi versi passivo e persino inconsapevole. Nella Germania Federale prendeva la forma dell’Europa, maschera e insieme confortevole vestito dei propri interessi di Stato. Di fatto nazional-statali5.

L’europeismo tedesco-occidentale era il nazionalismo possibile nel mondo della Guerra fredda. Almeno quanto lo era il francese. Ma senza la gloria, il messianismo universalista della Grande Nation […] Allo stesso modo, sulla riva destra dell’Elba il tardo prussianesimo dai colori socialisti coltivato dalla DDR era il seminazionalismo possibile nel blocco imperiale sovietico. Dal 1990 in poi le due correnti carsiche sono emerse, mescolandosi. Il neonazionalismo tedesco risorto a partire dai “nuovi Länder”, anche ma non solo sotto specie del partito Alternative für Deutschland, conferma il diverso tono cultural-politico fra le due Germanie, socialmente e culturalmente distinte quanto istituzionalmente riunite. Soprattutto annuncia la rilegittimazione del discorso nazionale anche all’Ovest. L’europeismo germanico ha sempre meno remore a mostrare il suo scopo nazionale, anche se il mantello giallo-stellato resta irrinunciabile6.

Nel tanto parlare che si fa, a Sinistra come a Destra, in maniera negativa oppure positiva, di sovranismo sempre questo si dimentica ovvero il fatto che si tratta soltanto di un nazionalismo diversamente travestito, che ha potuto sopravvivere, come ben dimostra il caso tedesco, sia sotto il tallone democratico-liberale americano che sotto quello socialista-autoritario dell’URSS e del Patto di Varsavia. Sono riflessioni necessarie che proprio il testo di Caracciolo, anche indirettamente, invita e obbliga a fare.

Oggi la Germania, sempre meno vestita da Europa, vuole iniziare a riprendere in mano il proprio destino, stando all’ormai famosa formula di Angela Merkel7. I successori della cancelliera, a cominciare dal non spettacolare Olaf Scholz, inclineranno ad allargare lo spazio di autonomia della Bundesrepublik anche rispetto ai soci europei e alla superpotenza americana8. La traiettoria imboccata dopo il 1990 porta la Germania a trattare l’Europa sempre meno da foglia di fico e sempre più da area di influenza. Selezionando al suo interno, a partire dal classico spazio mitteleuropeo (Nord Italia incluso), i partner da associare più strettamente facendo leva sul vincolo monetario e sull’integrazione economica, da volgere per quanto utile in leva geopolitica9.

La guerra in Ucraina ha contemporaneamente sia rallentato che accelerato tale processo, che vedrà come centrale una ristrutturazione della presunta unità europea, destinata a finire sia per effetto delle pressioni americane che di quelle russe e tedesche. Un nuovo, importantissimo, elemento del nuovo disordine mondiale che il testo di Caracciolo, borghese intelligente e pacato non certo uno pseudo-comunista da operetta o da social assetato di fake, ci aiuta a prevedere.

Prima dell’invasione russa dell’Ucraina la Germania pareva avviata nel medio periodo verso la piena affermazione come potenza regionale dotata di una sfera d’influenza più o meno travestita da “Europa” […] La guerra in corso colpisce i pilasti della Bundesrepublik: il vincolo strategico con l’America, il vincolo energetico con la Russia, affossato dalle sanzioni; la speciale relazione economica con la Cina, mercato di primario interesse; e la stabilità economico-monetaria dell’Eurozona. Vedremo quanto questo influirà sulla traiettoria geopolitica della Germania, che non intende certo rinunciare a nessuno dei fondamenti del suo benessere e della sua potenza10.

La guerra ha coinvolto la Germania e i suoi interessi e deciderà della sorte dell’Europa che, ancora una volta come nel corso delle guerre napoleoniche, prima, e della Prima e della Seconda Guerra mondiale, poi, in assenza di significativi rivolgimenti classisti, sarà nuovamente spartita, suddivisa e riunificata soltanto per mezzo del rombo dei cannoni e il clangore delle armi. Lo sappiano gli amanti dei discorsi fintamente antimperialisti in bianco e nero. Noiosissimi, scontati e totalmente inutili.


  1. L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2022, pp. 7-8  

  2. Cfr. M. Giannini, Le democrazie “resilienti” e l’anno zero delle autocrazie, “La Stampa”, 31 dicembre 2022 

  3. L. Caracciolo, op. cit., pp. 93-94  

  4. Caracciolo, cit, p. 93  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ibid., p.95  

  7. Che, non va mai dimenticato, anche se nata ad Amburgo nel 1954, ha trascorso gran parte della sua gioventù nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR), fino a diventare, dopo le elezioni del 18 marzo 1990, portavoce dell’ultimo governo della stessa prima della riunificazione, avvenuta nell’ottobre di quello stesso anno – NdR  

  8. Come dimostrano gli investimenti militari programmati nei mesi scorsi, già sottolineati su «Carmillaonline», che hanno portato la Germania ad essere la terza potenza per investimenti nel settore militare a livello planetario – NdR  

  9. Caracciolo, cit., pp. 95-96  

  10. Ibidem, p. 96  

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Globale è bello? Su “Capitale Mondo” di Robert Kurz https://www.carmillaonline.com/2022/12/18/globale-e-bello-su-capitale-mondo-di-robert-kurz/ Sun, 18 Dec 2022 21:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75190 di Samuele Cerea

Robert Kurz, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merci, Meltemi, Milano, 2022, pp. 539, euro 30,00.

A quanto ci dicono i commentatori stiamo attraversando un’epoca di de-globalizzazione o di post-globalizzazione a base di tensioni internazionali, protezionismo, guerre commerciali, sanzioni economiche e spettri pandemici. Sugli schermi televisivi furoreggia un remake post-politico tanto desolante, quanto potenzialmente micidiale, del classico confronto tra le superpotenze nucleari, che avevamo liquidato un po’ troppo sbrigativamente come un relitto del passato, con le sue proxy-war e le sue figure emblematiche, oggi [...]]]> di Samuele Cerea

Robert Kurz, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merci, Meltemi, Milano, 2022, pp. 539, euro 30,00.

A quanto ci dicono i commentatori stiamo attraversando un’epoca di de-globalizzazione o di post-globalizzazione a base di tensioni internazionali, protezionismo, guerre commerciali, sanzioni economiche e spettri pandemici. Sugli schermi televisivi furoreggia un remake post-politico tanto desolante, quanto potenzialmente micidiale, del classico confronto tra le superpotenze nucleari, che avevamo liquidato un po’ troppo sbrigativamente come un relitto del passato, con le sue proxy-war e le sue figure emblematiche, oggi un tantino surreali. Nel frattempo le élite occidentali elogiano entusiasticamente la logica dei blocchi, auspicano con ansia la fine della dipendenza energetica, mettono in guardia sollecitamente contro il “pericolo giallo”, gli Stati-canaglia vecchi e nuovi e le torme dei falliti globali che si preparano ad assediare la “fortezza Occidente” (o il “giardino meraviglioso” nella poetica lezione di Josep Borrell).

Mentre Big Brother e Goldstein vivono ormai da tempo con noi e anche Oceania sembra a portata di mano vale ancora la pena leggere un libro pubblicato in Germania nei primi anni Duemila, quando le medesime élite politiche ed economiche urlavano dai tetti la buona novella della globalizzazione, trattando con un misto di sufficienza, di fastidio e di apprensione coloro che, ed allora erano davvero tanti, contestavano con ragioni più o meno condivisibili, l’utopia-distopia del mondo unificato?

Il saggio in questione ha per titolo “Il Capitale-mondo” (“Das Weltkapital”, 2004). L’autore, il tedesco Robert Kurz, ha finora goduto di scarsa fortuna e notorietà in Italia anche se taluni rivoli del suo pensiero affiorano talvolta nelle opere di qualche autore nostrano come fiumiciattoli carsici. Scomparso una decina di anni or sono, autore, a partire dagli anni Ottanta, di una decina di libri e di un numero assai maggiore di contributi, apparsi generalmente sulle riviste Krisis e Exit!, nonché di moltissimi articoli per quotidiani come il berlinese “Neue Zeit” e la “Folha” di San Paolo, Robert Kurz può contare da noi, negli ultimi anni, sulla traduzione de Il collasso della modernizzazione e del testo qui presentato oltre che di altri saggi più brevi.

Va detto che Kurz sconta il fatto di aver commesso numerosi peccati contro lo spirito (dei tempi). Anzitutto, contravvenendo agli anatemi postmoderni e alla tendenza attuale verso la “divisione del lavoro” filosofica, nemici giurati della “totalità” e alquanto inclini alle cineserie intellettuali, è l’orgoglioso aedo di una nuova “grande narrazione”. Animata per giunta non certo da una postura contemplativa ma decisamente rivolta verso il sovvertimento dell’ordine sociale esistente. In secondo luogo ha posato le fondamenta di questa impresa sulla base, a dir poco insidiosa, del paria ideologico Karl Marx. E nemmeno su quelle parti della teoria di Marx più o meno sopravvissute allo sconquasso successivo al 1989, come la “lotta di classe” o lo “sfruttamento”, bensì su frammenti, intuizioni, filoni, idee che si stagliano nel panorama del pensiero del filosofo di Treviri come massi erratici o come smarriti isolotti in un esteso arcipelago. Terzo, la teoria di Kurz ha un grave fastidio: analizza e interpreta la realtà sociale ma non contiene nulla che possa essere convertito in breve tempo in un programma politico, al servizio dei partiti della “sinistra” (oggi meno che mai), dei sindacati o dei movimenti di protesta.

Ma veniamo al saggio in questione. Il Capitale-mondo è un libro di grossa mole e non certo di facile lettura. E del resto, da buon seguace di Marx, anche Kurz scrive per lettori che vogliano imparare qualcosa con la propria testa. Aiuterebbe certo una conoscenza almeno elementare del quadro teorico in cui si muove l’autore ma ciò esula dai limiti di una semplice recensione. Si rimanda ad altre opere dal carattere propedeutico. Ci limitiamo a dire che la diagnosi operata da Kurz sui destini della modernità ha il suo fulcro nella critica dell’economia politica di Marx e sulle categorie, in crisi irreversibile, di valore e lavoro (astratto).

Come il riccio di Archiloco anche Robert Kurz conosce una sola cosa ma è grande. Il sistema sociale che indichiamo comunemente in una prospettiva storica con il nome di modernità o società moderna e in una prospettiva socio-economica come società capitalistica o capitalismo tout court è giunto a fine corsa e minaccia di schiantarsi. Buone notizie per gli oppositori del sistema? Non tanto. Il capitalismo ha già imboccato la strada che porta verso il cimitero dei pachidermi della storia. Il guaio è che a sotterrare il capitalismo non saranno audaci schiere di lavoratori organizzati, o qualunque surrogato sulla piazza, ma le sue stesse contraddizioni, che Kurz condensa nel concetto del “limite interno”. Il corollario di questa concezione è però che non è affatto detto che il capitalismo venga seguito da una nuova società più stabile e giusta, da un nuovo ordine coerente; al momento l’alternativa più probabile è che il capitalismo entri in una nuova “era delle tenebre”, caratterizzata dall’implosione delle istituzioni sociali e delle strutture economiche. Come ha detto altrove il nostro autore, “la prigione è in fiamme ma qualcuno ha serrato le finestre e i prigionieri sono bloccati al suo interno”.

La storia del capitalismo è quella di una dinamica irreversibile con le sue fasi. Quella analizzata da Kurz in questo saggio è l’apogeo della fase neo-liberale, iniziata alla fine dei Settanta, poi traumatizzata dalla crisi del 2008. La narrazione assembla l’analisi storica con la critica dell’ideologia, alterna capitoli in cui la natura della globalizzazione viene sviscerata sulla base di una grande quantità di dati economici (il cui filo non è sempre agevole da seguire) ad altri in cui si esaminano le conseguenze della frammentazione sociale, la crisi del denaro e della politica. Da sottolineare, in particolare, la disamina del capitale finanziario e del suo ruolo nel meccanismo dell’economia moderna. La ricchezza di temi è amplissima e Kurz ama dialogare, generalmente in termini polemici, con una moltitudine di voci presenti e passate, da Ulrich Beck a Joseph Stiglitz, da David Ricardo a Rudolf Hilferding, da Michel Aglietta a Peter Sloterdijk. Sarà possibile solo un breve excursus sul carattere generale dell’opera cui uniremo alcuni spunti critici circa numerose convinzioni diffuse oggi tra i contestatori del sistema.

Cosa turba l’apparente imbattibilità del sistema? La sua stessa logica. Nella prospettiva di Kurz la globalizzazione non è il sintomo dello stato di salute del capitale, che abbandona le mura nazionali per propagarsi con le sue catene produttive in tutto il globo ma una chiara conseguenza del fatto che il ristagno della produzione di valore, dovuto all’intervento della tecnologia informatica, della robotica – cioè della Terza Rivoluzione industriale –, costringe le imprese a una concorrenza disperata e cannibalesca, disperdendo le loro fasi produttive per il globo per approfittare del divario dei costi e delle condizioni sociali e giuridiche messe a disposizione degli Stati. Gli investimenti oggi non sono più investimenti per l’espansione ma per la razionalizzazione. Ma se le imprese se la passano male, per gli Stati va anche peggio, costretti dalla crisi delle finanze pubbliche a indebitarsi sempre più sui mercati finanziari, a privatizzare e a tagliare le infrastrutture sociali.

In quest’ottica un effetto salutare del libro potrebbe essere quello di fare piazza pulita di tutta una serie di false idee sulla crisi del sistema e sulla possibilità di venirne a capo. Il primo punto lo si potrebbe intitolare “Com’era verde la mia nazione!” E qui entra naturalmente in gioco la categoria del “sovranismo”, la testa di turco preferita dell’establishment politico-finanziario-mediatico neoliberale. Il problema del sovranismo è che i suoi apostoli più riflessivi, per la maggior parte, non sono né ottusi campanilisti, né irriducibili fustigatori della contaminazione multiculturalista, né fanatici nazionalisti, adusi ad esterofobe campagne aggressive. Il loro errore consiste invece nel credere in ciò che un tempo si chiamava il “primato della politica”, cioè nella convinzione che uno Stato-nazione, ben radicato nelle sue istituzioni, guidato da una classe dirigente volenterosa, sia in grado di controllare, governare, correggere la propria economia di mercato, dirigendola verso obiettivi consoni agli interessi nazionali e della popolazione. Questa idea, che predica l’autonomia dello Stato nei confronti dell’economia o addirittura uno status gerarchico superiore, viene però sconfessata da Kurz. Lungi da essere il nocchiero del mercato, lo Stato e con esso, in generale, la sfera politica, dipende dall’accumulazione di capitale al suo interno, da cui esso preleva ciò di cui abbisogna per le sue “politiche” (sostanzialmente allocazioni di denaro in favore di obiettivi più o meno “democraticamente” prefissati). Ma una volta che il modello dell’accumulazione fordista entra in crisi, anche lo Stato manifesta la sua natura “secondaria” rispetto alla base economica. Di fronte alla transnazionalizzazione e alla razionalizzazione dell’economia, lo Stato, come osserva argutamente Kurz, non può “transnazionalizzarsi” a sua volta, né tantomeno “licenziare” i propri cittadini ma solo operare una “razionalizzazione” distruttiva, rinunciando gradualmente a finanziare le proprie infrastrutture sociali, indebitandosi fino al collo sui mercati finanziari e arrangiandosi così da attirare la quantità maggiore possibile di investimenti.

La critica “sovranista” non vuole comprendere questa relazione causale e interpreta, ad esempio, l’adesione dell’Italia alla moneta unica europea, non come una strategia opportunistica, per quanto miope, al fine della sopravvivenza del paese nel mercato mondiale ma come l’esito del “tradimento” di una casta politica di infedeli (Prodi, Ciampi, Amato etc.), cui sarebbe necessario rispondere con una rinazionalizzazione per la quale non sussiste il benché minimo fondamento.

Del resto tra i medesimi apologeti del sovranismo vale anche il grido “Que viva Keynes!” Da tempo, nel campo della “sinistra” più o meno radicale, l’icona di Keynes gode almeno di altrettanto favore di quella di Marx. Il motivo è presto detto. Il nome dell’economista di Cambridge è associato nella memoria di ogni buon socialdemocratico con i “trenta gloriosi” del XX secolo, con la realizzazione dello Stato del benessere, con il ruolo dello Stato nell’economia. Ciò ha perfino condotto a ritenere qualcuno che la teoria di Keynes sia fondamentalmente anti-capitalista. Ma la “nostalgia keynesiana” della sinistra e per il mondo di cui è stato l’augure è necessariamente legata alle fortune dello Stato-nazione e non è più adeguata al mondo attuale.

Dunque chi ha vinto la lotta di classe? Secondo una battuta attribuita a Warren Buffett, la sua, almeno per il momento. L’idea che la globalizzazione o, più in generale, l’epoca dei movimenti di capitale senza controllo coincida con una “rivincita” dell’élite globale capitalistica, dopo il micidiale affondo delle classi subalterne del secondo dopoguerra è stata sostenuta in tempi relativamente recenti, ad esempio, da David Harvey, secondo il quale il neoliberismo nel suo complesso sarebbe una colossale strategia di intervento del potere privato, delle grandi società industriali e finanziarie, le quali stanche di veder erosi i loro tassi di profitto a vantaggio della classe lavoratrice avrebbero plasmato le classi dirigenti al fine di rilanciare il dominio del potere economico sulla società.
Ma per Kurz l’avanzata della dottrina neoliberale alla fine degli anni Settanta non è stata altro che la risposta “passatista”, perché basata su di un recupero di alcuni aspetti della teoria dell’economia neoclassica, già falliti nell’epoca delle due guerre, alla crisi economica intervenuta in quel periodo. Era stata proprio la difficoltà nell’accumulazione del capitale, dovuta ai primordi della Terza Rivoluzione industriale, e la conseguente crisi del modello keynesiano, a suggerire la necessità di flessibilizzare il lavoro, ridurre la spesa pubblica, privatizzare tutto ciò che era possibile, fino allo sviluppo estremistico del settore finanziario. Dunque alla radice di questa vittoria della “classe sbagliata” c’era il fallimento del vecchio modello, quello della “classe giusta”, non una forma di revanscismo sociologico.

La principale illusione è quella di credere che l’economia di mercato e la democrazia politica non siano in sé cose troppo negative e che il problema consista solo nel combattere tutti quei soggetti che deformano il sistema per il proprio tornaconto. E allora per invertire la tendenza verso la crisi basterebbe che la politica smettesse di concentrarsi solo sul debito pubblico e sul prodotto interno lordo, come chiedono gli eurocrati, ma pensasse invece a promuovere posti di lavoro e aumenti salariali, che si chiudesse una volta per tutte con le privatizzazioni e con la socializzazione delle perdite del settore bancario e finanziario, che si ponessero paletti alla delocalizzazione delle imprese. In poche parole, occorrerebbe ripristinare un “mercato corretto”, immune dall’influenza dell’establishment e dei suoi lobbysti. Il progressivo degrado delle condizioni di vita non sarebbe quindi figlio della dinamica del capitalismo ma solo il frutto di strategie politiche manipolative.

La conclusione più reale è invece che le spaventose disuguaglianze che caratterizzano l’era del capitalismo neoliberale non sono il risultato di una strategia consapevole di élite ben decise a riaffermare il proprio punto di vista di classe ma la conseguenza logica e coerente del fatto che il capitalismo fallisce in ciò che esso ha di più essenziale, vale a dire l’accumulazione di valore effettivamente valido. La società dei “trenta gloriosi” del secondo dopoguerra, l’apoteosi del capitalismo “socialdemocratico”, nei limiti del mondo dell’Occidente sviluppato, con il suo solido capitalismo industriale in espansione, accompagnato da un settore creditizio e finanziario ancillare, si è estinta proprio perché tale modello fatto di sostanziale piena occupazione, di Stato sociale, di crescita dei redditi etc., si era ormai infilato in vicolo cieco fatto di stagnazione e inflazione.

L’abnorme crescita del capitale finanziario, favorita con ogni mezzo sul piano giuridico e normativo dalle classi dirigenti di ogni paese (anche se naturalmente non dappertutto con la stessa prontezza e la stessa rapidità) era dunque necessaria per simulare una crescita economica in totale assenza di una valorizzazione reale del capitale. La soppressione di tutte le catene che ostacolavano la libera circolazione del capitale finanziario era indispensabile, non solo perché lo esigevano gli interessi soggettivi degli attori interessati, ma soprattutto per una imperativa esigenza sistemica: il salvataggio, in ultima analisi illusorio, del sistema di mercato.

Si aggiunga inoltre che questa eclatante asimmetria di ricchezza e di reddito che caratterizza la nuova era neoliberale non è affatto eccezionale nella storia del capitalismo. Come illustra lo stesso Kurz in un altro saggio (“Schwarzbuch Kapitalismus”, 1999) la tendenza del capitalismo è sempre stata quella di ridurre al minimo il consumo delle masse, di deteriorare fino all’estremo la vita sociale. Questo fa sì che la relativa “cuccagna” dell’Età dell’oro fu un evento eccezionale, una sorta di effimero periodo di tepore in un’epoca di glaciazione.

Ne risulta che l’idea del “primato della politica”, della possibilità da parte di una classe dirigente benintenzionata e “popolare” possa ripristinare l’Eden fordista mediante misure redistributive e una nuova strategia di sviluppo economico è una mera illusione. L’“estate di san Martino” del capitalismo non tornerà mai più, tantomeno per mano di un sovranismo progressista.

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Economia di guerra / 3 – Fase due: incubo sulla città contaminata https://www.carmillaonline.com/2020/04/29/economia-di-guerra-3-fase-due-incubo-sulla-citta-contaminata/ Wed, 29 Apr 2020 21:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59702 di Jack Orlando

Una nuova conferenza del presidente del consiglio, l’appello alla nazione affinché porti pazienza, affinché non gli venga in mente di arrabbiarsi con qualcuno perché, in fondo, la responsabilità è dei cittadini. Retorica sanitaria figlia della miglior tradizione neoliberale in cui a pagare il conto della baracca è la plebe. È così che si inaugura la famosa Fase 2, quella della “convivenza” col virus, o meglio, dell’abitudine alle limitazioni e della stabilizzazione dell’emergenza che diventa nuova forma di economia e di governo. Come era prevedibile, questo nuovo capitolo della gestione [...]]]> di Jack Orlando

Una nuova conferenza del presidente del consiglio, l’appello alla nazione affinché porti pazienza, affinché non gli venga in mente di arrabbiarsi con qualcuno perché, in fondo, la responsabilità è dei cittadini. Retorica sanitaria figlia della miglior tradizione neoliberale in cui a pagare il conto della baracca è la plebe. È così che si inaugura la famosa Fase 2, quella della “convivenza” col virus, o meglio, dell’abitudine alle limitazioni e della stabilizzazione dell’emergenza che diventa nuova forma di economia e di governo.
Come era prevedibile, questo nuovo capitolo della gestione della pandemia ha generato un nuovo decreto presidenziale, pasticciato e, a molti tratti, incomprensibile. Che però conferma almeno una cosa: l’effettiva data di nascita della classe dirigente italiana.

Classe dirigente, politica ed economica, che nei decenni intercorsi dalla nascita della Repubblica ha cercato di darsi sempre nobili origini, sia che si trattasse di farle coincidere con il Risorgimento, con la Resistenza oppure con con il dibattito costituzionale intercorso nel biennio 1946-47. Mentre in realtà di tutt’altro si tratta, perché le mosse di questa classe dirigente concordano esattamente con quelle messe in atto l’8 settembre 1943. Una classe dirigente divisa allora e divisa oggi che concorda su un solo punto: colpire e schiacciare i lavoratori, i proletari e i cittadini. Destinati ad essere sempre, oggi come allora, abbandonati davanti al pericolo, da governanti in fuga e vili, capaci soltanto di cercare rifugio dietro alleati più potenti (ieri gli anglo americani o i nazisti tedeschi, oggi l’Unione Europea, i regimi autoritari caratterizzati dal nazionalismo oppure gli Stati Uniti di Trump), in grado di giustificare e appoggiare la repressione di ogni iniziativa di classe.

Nel caos di ordinanze, divieti, concessioni e regolamenti vari è chiara solo una cosa, che d’altronde era chiara anche prima: la priorità resta sempre il profitto e quindi l’unico motivo valido per uscire di casa è lavorare. Come se il Covid, al tavolo tra governo e parti sociali, avesse dichiarato di astenersi dal contagiare i lavoratori durante l’orario di attività1.

Per il resto, il distanziamento sociale permane pressoché invariato per tempi medio-lunghi. Oltre alle scontate ripercussioni sulla vita sociale e relazionale di tutta la popolazione e dei suoi “congiunti”, questa situazione apre scenari di profonda trasformazione delle nostre città e delle forme di vita e accumulazione che le attraversano.

Emerge adesso, come una delle contraddizioni centrali, la questione dello spazio pubblico e della sua agibilità: l’attraversamento delle città e l’accesso alle sue infrastrutture viene ora ridotto all’osso, come fossero un corridoio di connessione tra la casa e i luoghi di lavoro e approvvigionamento. Uno spazio svuotato quindi di ogni connotazione sociale e che, pertanto, mette in crisi tutte quelle articolazioni del mercato che ne permeano lo svolgimento quotidiano.
Per essere più chiari: quanti esercizi commerciali tra bar, ristoranti, pub, botteghe e piccoli negozi che vivono proprio di quel flusso, e che costituiscono una fetta enorme dell’occupazione italiana, possono vivere o anche solo sopravvivere di asporto e giravolte tra un’ordinanza e l’altra (con le loro immancabili multe, ammende e chiusure)? Quante di loro, già nell’immediato, dovranno liberarsi dei loro dipendenti per ridurre i costi di gestione?

Ecco servito un primo terremoto sociale: presumibilmente una fetta molto importante della sempreverde classe media italiana è ora sull’orlo di un precipizio chiamato proletarizzazione. Negozi chiusi con gestori e dipendenti costretti a trovarsi un nuovo sgobbo in un mercato del lavoro asfittico e reso ancora più stretto da una compressione dei consumi provocata dall’abbassamento dell’occupazione e delle retribuzioni. O, ancora, negozi indipendenti che per sopravvivere entrano nella filiera di quelle catene di franchising che possono ora fare la parte degli squali in un mare di pesciolini smarriti. In un caso o nell’altro, a lavoro perso o lavoro sotto nuovo padrone, un grosso pezzo di Italia domani si riscoprirà proletaria, forza lavoro che vende tempo e fatica al migliore offerente. Le serrande chiuse non si conteranno, quelle che porteranno nuove insegne, identiche tra loro, saranno sempre più comuni.

Probabilmente è finito il sogno dell’autoimprenditorialità per quella massa di persone che avevano deciso di vivere dei frutti del piccolo commercio. Rimane, ben più misera, la realtà dell’autosfruttamento implicito nello strato basso del popolo delle partite Iva, come manodopera senza sindacato e senza tutela pronta per un mercato del lavoro più feroce di prima.
Tra loro si troveranno anche le migliaia di nuove leve di corrieri, riders, facchini e fattorini, nuovi operai massa delle piattaforme di e-commerce e delivery, che correranno per le strade delle città a rifornire i consumatori di quei beni che non saranno più sugli scaffali del negozio, ma a portata di click e stretti nei loro imballaggi. Una figura finora relegata al rango di “lavoretto” da studente, che diventa ora una prospettiva di occupazione stabile.
Di una stabilità fatta di cottimo, rischi non assicurati, corsa alle briciole e arroganza padronale, di invisibilità nei tavoli di trattativa dei sindacati, una forma di sfruttamento d’avanguardia che si riverserà presto nello spazio di quei “garantiti” che credono ancora in una qualche forma di equità e tutela sociale.

Come il lavoro, lo spazio pubblico delle città è privato ulteriormente della sua linfa vitale e reso ancor di più terreno di caccia per i grandi capitali. Nulla di sconvolgente in realtà. La crisi non inventa quasi nulla, i processi erano in nuce o già in moto, più semplicemente si è schiacciato forte sul pedale dell’acceleratore.
Stanno prendendo forma nuove fratture, nuove condizioni di vita, nuove forme di sfruttamento e nuovi soggetti prodotti dal movimento del capitale che si rinnova e prende le forme del suo attuale contenitore pandemico.
Nuove forme di lotta e nuovi nemici ci sentiamo di aggiungere.

Ci si pongono davanti lavoratori insindacalizzabili che hanno come controparte diretta piattaforme informatiche che se ne fottono di qualsiasi mediazione, lavoratori che dagli uffici sono stati relegati in casa, atomizzati e ultraprecarizzati e con il costo di manutenzione del proprio lavoro sulle spalle, una classe media sventrata e al collasso, un corpo sanitario che dopo essere stato incensato vedrà una scure di tagli alla spesa abbattersi sulle loro condizioni lavorative, una torma difficilmente quantificabile di disoccupati e sottoccupati con un accesso scarso o nullo alle risorse e al lavoro.
Quali forme di lotta e parole d’ordine emergeranno in seno a questi soggetti è ancora tutto da scoprire, quel che è certo è che si rende necessaria una nuova composizione di classe in grado di muovere un conflitto a 360 gradi a quest’ennesima ristrutturazione emergenziale del capitale e che un terreno di lotta comune si darà già nell’attraversamento dello spazio pubblico e dell’accesso alle risorse che esso conserva. L’eterno conflitto tra capitale e lavoro che i padroni hanno buttato fuori dalla porta, bisogna ricacciarglielo dentro dalla finestra.

È necessario cioè dare battaglia nei nodi dell’accumulazione frammentati nelle città e nei loro bordi: nei luoghi di lavoro dove ancora si concentrano i corpi e le merci, fabbriche uffici o magazzini che siano, è da trovare il primo terreno di lotta e organizzazione; fuori, agli angoli delle strade dove sostano i rider o nelle case dove si lavora al pc, è necessario riorganizzarsi e trovare altrettante forme di blocco del flusso di merce.
Ma soprattutto, un piano di ricomposizione che si dà oggi per queste figure e che incide proprio sull’accumulo di capitale, è quello del reddito indiretto, della distribuzione della ricchezza; nessuna campagna su fantasmatici redditi universali, ma battaglia per l’appropriazione dei beni: dal cibo alla casa, dai vestiti alla salute, dal consumo di socialità all’istruzione, se tutto è stato messo a valore e ci viene imposto di pagarlo, tocca riprenderlo con la forza. Questa decennale opera di messa a valore della vita ha trasformato la città in merce, allora è venuto il momento di espropriarla. Questo significa riprendersi lo spazio pubblico: agirlo per impossessarsi della ricchezza prodotta, torcerlo da luogo di mercato a base d’organizzazione politica. Costruire sulle necessità di vita la linea di rottura.

L’autorganizzazione per fare fronte ai bisogni reali deve quindi uscire definitivamente, una volta per tutte, dall’alveo della solidarietà umana e iniziare a darsi una sua forma politica e antagonista, e per farlo non può prescindere dalla verità del vecchio slogan “riprendersi la merce”: solo mettendoci in condizione di prendere i beni lì dove sono, di imporre le priorità della vita su quelle del profitto, possiamo costruire una forza reale che non è solo mutualità, ma guerra di classe e crescita delle opportunità, nonché una prospettiva e un’attitudine adatta a tutti quei soggetti che fino a ieri la spesa potevano farla e che oggi non si vogliono certo rassegnare al pacco alimentare.
E se le manifestazioni e gli assembramenti sono vietati per limitare il contagio, se gli scioperi ledono l’irrinunciabile interesse nazionale, praticare rotture del dispositivo e recuperare una tendenza all’azione autonoma e anche illegale diventa più un’ovvia necessità che una enunciazione. E qui la radicalità trova il suo terreno di coltura e la creatività popolare il suo campo di sperimentazione.
È necessario allora sgomberare il campo dalle ambiguità in via preliminare e sganciarsi fin d’ora dalla retorica dell’unità nazionale che tutela solo i grandi affari: non possiamo negare la realtà della pandemia in virtù dei diritti individuali, ma di certo dobbiamo rompere con l’immobilità imposta da divieti la cui indecifrabilità fa il paio con l’abuso di potere.

L’aumento vertiginoso dei casi di arbitrio poliziesco e di violenze gratuite delle forze dell’ordine sarà certo figlio diretto di un caos giuridico, ma configura la nuova forma di rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini. In barba tanto ai garantisti democratici quanto ai fan della divisa, quello che la popolazione civile sperimenta oggi, è il volto della democrazia riservato finora agli antagonisti, agli ultras, ai migranti e ai marginali. Il nemico interno non è più un’esigua minoranza. Il nemico si annida in chiunque si muova in strada (o anche tra le mura domestiche, perché no?), in chiunque incappi negli spazi in cui l’arbitrio dello Stato può agire il suo pugno di ferro. Questa è la nuova configurazione dell’ordine pubblico democratico. È anche qui che la radicalità deve e può crescere. Poche lagne, non si pianga sulle botte della polizia, si riconosca una volta per tutte allo Stato il diritto a esercitare la violenza (che poi, tanto, non chiede mica il vostro permesso) per riconoscere finalmente il nostro diritto all’autodifesa e all’autonomia d’azione.

È finalmente arrivato il momento di finirla con i politicismi, con le figure sociali astratte, con le battaglie di principio; il nemico sta superando l’impasse ed è già passato all’offensiva e sotto attacco ci siamo tutti. Non c’è più spazio per moltitudini cognitarie, fratellanze e favolosità varie; è di fame e freddo, di sangue e merda che si parla adesso. E chi pensa ancora di poter stare a fare le sue disamine di lana caprina, mentre c’è la tempesta fuori dalla sua porta, o è un ottuso o è in malafede, in ogni caso non è qualcuno a cui prestare l’orecchio.

La normalità di ieri è bella che morta e un abisso si apre davanti a noi, è ora che lo si capisca bene, e non si creda nemmeno di essere arrivati alla fine della Storia, alla resa dei conti. Niente è finito e niente finirà mai da solo: una nuova normalità, peggiore di quella di ieri, può mettersi comoda tra i nostri giorni e assuefarci di nuovo al suo triste spettacolo. L’unica possibilità che abbiamo adesso è tuffarci dentro l’abisso e liberare un maelstrom che inghiotta questo presente, con le sue normalità ed emergenze, una volta per tutte.


  1. Come ha affermato Paolo Giordano nell’editoriale del Corriere della sera del 27 aprile, La fase 2 e noi:

    “Alla vigilia dell’8 aprile, quando è stato revocato il lockdown di Wuhan – un lockdown molto più rigido del nostro –, la Cina intera dichiarava 62 nuovi casi, la maggior parte dei quali importati. Il giorno precedente 32. Ieri, in Piemonte […] i nuovi infetti confermati erano 394. Nella Lombardia limitrofa 920.
    Però apriamo. O meglio, iniziamo ad aprire, perché lo fanno anche gli altri, perché si avvicina l’estate e sotto sotto speriamo che il caldo ci dia una mano; perché ci auguriamo di aver imparato una serie di norme e di mantenerle a lungo, perché il virus forse, chissà, si dice, è diventato meno aggressivo. In realtà, abbiamo chiuso in ritardo per salvaguardare il comparto produttivo e apriamo adesso, raffazzonati, per salvaguardare il comparto produttivo.

     

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Classe, nazione e crisi https://www.carmillaonline.com/2020/04/23/classe-nazione-e-crisi/ Thu, 23 Apr 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59540 di Giovanni Iozzoli

Mimmo Porcaro, I senza patria, Meltemi, Milano, 2020, p. 217, € 18,00

Le parole “sovranità/sovranismo”, sono tra le più utilizzate nel dibattito politico contemporaneo. Pur godendo di solidi agganci dentro l’impianto costituzionale del 1948, questi termini sono diventate bandiere – peraltro fasulle – nelle mani delle ignobili destre italiane. Sul terreno delle parole, delle categorie, del linguaggio, si combattono da sempre battaglie cruciali per l’egemonia o la vittoria ideologica. Fino ad arrivare a perversi rovesciamenti di senso – basti pensare al termine “riformismo”, diventato negli anni ’90 bandiera neo-liberista, e [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Mimmo Porcaro, I senza patria, Meltemi, Milano, 2020, p. 217, € 18,00

Le parole “sovranità/sovranismo”, sono tra le più utilizzate nel dibattito politico contemporaneo. Pur godendo di solidi agganci dentro l’impianto costituzionale del 1948, questi termini sono diventate bandiere – peraltro fasulle – nelle mani delle ignobili destre italiane. Sul terreno delle parole, delle categorie, del linguaggio, si combattono da sempre battaglie cruciali per l’egemonia o la vittoria ideologica. Fino ad arrivare a perversi rovesciamenti di senso – basti pensare al termine “riformismo”, diventato negli anni ’90 bandiera neo-liberista, e definitivamente acquisito a quel campo.

Esiste in Italia una rete di soggettività ascrivibili al cosidetto “sovranismo costituzionale”: un’area composita che sostiene la tesi secondo cui la crisi sistemica della globalizzazione e degli assetti post-’89, apre larghi spazi ad un recupero delle categorie di Nazione e Sovranità, nella prospettiva di un’inveramento radicale della Costituzione o addirittura di una ripresa della lotta anticapitalistica. Senza entrare nel labirintico dibattito sulla “questione nazionale” dentro la moderna storia d’Italia – che ci condurrebbe in una giungla storiografica e filosofica che da Machiavelli porta a Mazzini, Gramsci, Togliatti, Bobbio, passando per gli snodi cruciali dell’Unità d’Italia, del fascismo, dell’8 settembre, della Resistenza -, queste tesi vanno comunque vagliate con attenzione, specie in uno scenario mondiale fortemente destabilizzato. A cominciare dalla crisi di egemonia degli USA e dalla caduta di legittimità degli organismi globali e delle nuove statualità sovranazionali, Unione Europea in testa. Persino la pandemia in atto acuisce le criticità del globalismo e rimette in discussione tutte le tessere del complicato mosaico internazionale. Mimmo Porcaro, nel suo libro, affronta senza timidezze questi aggrovigliati nodi, provando a definire l’agenda e le ragioni di un discorso sovranista e costituzionale.

Purtuttavia la sovranità non è un fine in sé, ma un mezzo ineludibile per chi voglia trasformare positivamente il paese, e in particolare per chi voglia farlo in una direzione socialista, ossia inaugurando un modello di economia mista a dominanza pubblica teso alla piena occupazione e quindi ad ulteriore avanzamenti per i lavoratori (pag. 13)

Nel libro, il tema della “patria perduta” e della sovranità svenduta, viene spesso messo in connessione con il posizionamento anticapitalista nel tentativo di ripercorrere il nesso sovranità nazionale-sovranità popolare-sovranità di classe.

Naturalmente il nuovo super-stato Europeo è l’obiettivo principale della polemica di questi “sovranisti di sinistra”: i suoi trattati, i suoi mastodontici aborti costituzionali, la sua moneta e i suoi dispositivi di governance economica che hanno riprodotto le gerarchie di potere interne al continente. Il Governo Monti, nel fatidico 2011/2012, dentro al gorgo che stava trasformando la crisi economica generale in crisi dei debiti pubblici, ha rappresentato un ulteriore passaggio di questo processo di gerarchizzazione, da cui l’Italia è uscita perdente e impoverita.

Il 2011 annus horribilis dell’Italia, è testimone, con la cosiddetta crisi del debito sovrano, con il ricatto dello spread e con l’insediamento del governo Monti, della più cruda e netta dimostrazione di quale sia, per l’Italia stessa, il prezzo della perdita della sovranità monetaria. Parallelamente, la guerra di Libia, proditoriamente accettata da un pur riluttante Berlusconi e gestita anche da alcuni dei “sovranisti” di oggi, aggiungeva al conto delle numerose guerre combattute per gli interessi altrui anche una guerra che andava direttamente contro i nostri interessi a vantaggio di quelli di altre nazioni, formalmente a noi affratellate nel comune “sogno europeo” (pag. 19)

Da qui il ritorno del tema della sovranità – in tutte le sue declinazioni.

Alla sovranità, insomma […] chiunque faccia politica non può sfuggire, come mostra il paradosso di chi critica duramente la sovranità nazionale in nome dell’Europa, per poi proporre di fatto una sorta di ipersovranità continentale (pag. 21)

La lettura che fa Porcaro del processo storico del trasferimento di sovranità dai vecchi perimetri nazionali, alle nuove forme della governance europea, rimanda alla lotta di classe che ha segnato profondamente la storia della prima repubblica e il suo tramonto.

La nostra tesi […] è che la denazionalizzazione del paese sia la risposta delle élite italiane a quel ciclo di lotta di classe e ai costi degli stratagemmi messi in atto per reprimerlo e sviarlo. Quelle lotte e più in generale quelle vaste esperienze di partecipazione politica, riproposero in due sensi la questione della nazione. In primo luogo estendendo l’attivismo politico ben oltre i confini dei partiti e formulando con nettezza l’esigenza di un deciso progresso in termini di salari e di welfare, resero immaginabile una piena identificazione delle masse con lo stato, e per questa via con una nazione unificata non già da un’etnia, da un carattere, da una storia, ma dalla comune capacità di creare giustizia sociale. Unificazione che, omologando molto più di prima le condizione genera il dei lavoratori, avvicinava, anche in maniera assai significativa, il Nord e il Sud del paese. (pag. 33)

Quindi: le classi dirigenti italiane, nel corso dei primi 50 anni di vita repubblicana, verificano che la nuova idea di Nazione che è nata dalla Resistenza, ha lasciato troppi spazi di partecipazione e troppi potenziali rischi di rovesciamento dei rapporti di classe: da qui la liquidazione, da parte della borghesia, di quelle forme storiche – lo Stato dei partiti, la centralità della Costituzione, il ruolo redistributivo dei poteri pubblici – e lo slancio verso le nuove istituzioni globali, all’insegna della “modernizzazione” (altra parola-trappola nefastamente usata contro le riottose classi popolari)

il nanismo delle imprese e il correlato espandersi dell’economia informale e della propensione all’evasione fiscale, gli oneri derivanti dalla necessità di sovvenire, con l’incremento di un welfare residuale, alle difficoltà generate dalla ristrutturazione, si intrecciarono a poco a poco in un nuovo nodo che richiedeva di essere sciolto, imponendo rigore non solo a un proletariato non ancora cancellato, ma anche alle classi ed ai ceti “amici”: tutto troppo difficile per le nostre élite. Non restava quindi che “contrattare una nuova dipendenza”. Da qui la scelta di affidare ad altri, attraverso una radicalizzazione del “vincolo esterno” quell’opera di disciplinamento sociale che non si era in grado di attuare in proprio. Da qui il bisogno , avvertito da un intero ceto politico, di trovare altrove la legittimazione perduta all’interno dell’Italia, a costo di svendere completamente gli interessi nazionali (pag. 35)

Si ridefinisce così il ruolo di una borghesia italiana compradora, che incapace di esprimere sintesi ed egemonia nella società italiana matura, svende la sua funzione dirigente e le ricchezze del paese, alla ricerca di una legittimazione sovranazionale che ne perpetui la dominanza sociale in un nuovo quadro.

Se la nazione è il luogo dove meglio si esprimono la lotta di classe e il conflitto distributivo, se nella nazione i cittadini possono chiedere conto dell’operato dei loro rappresentanti, usciamo da questo luogo pericoloso, entrando nello spazio sovranazionale e postdemocratico. Se gli strumenti nazionali non sono in grado di assicurarci pienamente l’obbedienza delle classi subalterne […], affidiamoci al ricatto dei mercati e alle imposizioni altrui, ben più autorevoli delle nostre. (pag. 36)

La “presa di rifugio” nello spazio elitario sovranazionale, funziona però solo fino al 2008: i meccanismi della crisi capitalistica, erodono e, per così dire, mettono a nudo la reale funzione dell’euro e dell’Unione Europea. A quel punto, il tema della riconquista della sovranità viene impugnato dalle destre, in particolare dalla Lega. Ed è un rovesciamento, anche questo paradossale: il neofascismo italiano è sempre stato “europeista” (come suggestione antiamericana e antisovietica); mentre la Lega è addirittura nata per “entrare” in Europa, inserendo le macroregioni “padane” economicamente più dinamiche, nei flussi produttivi continentali e mitteleuropei. E sarà proprio l’ostilità verso l’Unione Europea e una vaga (mai concludente) suggestione sovranista, che determinerà parte delle recenti fortune elettorali della Lega: soprattutto mediante la conquista del voto popolare, delle classi lavoratrici, dei perdenti della globalizzazione, degli spremuti da vent’anni di euroausterity. Da qui, l’invenzione posticcia di un nuovo “nazionalismo”, effimero, becero, razzistoide e piagnone.

Ma l’Unione Europea di oggi, così segnata da ingiustizie e gerarchie immutabili, è il prodotto di una disfunzione, di una inadeguatezza, di un limite, come spesso si dice? Porcaro non lo pensa:

l’Unione Europea è necessariamente una macchina antipopolare perché realizza volutamente e con quasi matematica precisione i voleri del grande nemico di Keynes, e prima ancora di ogni idea di democrazia sociale e di redistribuzione del reddito: Friedrich Von Hayek. […] l’adesione di Hayek all’idea di un’ipotetica federazione fra stati, dotata di moneta unica e votata anche per questo alla libera circolazione del capitale, è motivata dal fatto che una simile struttura produce automaticamente un ordine liberista (pag. 45)

Va da sé che per queste tesi, anche la moneta unica non è un nobile esperimento andato male ma:

l’Euro è per la Germania – a causa dei rapporti di cambio iniziali e delle permanenti divergenze fra economie dell’Unione – una forma di svalutazione strutturale e permanente e, per l’Italia e gli altri Piigs, una forma di altrettanto strutturale rivalutazione (pag. 47).

Quindi, la moneta come dispositivo di gerarchizzazione dei capitali europei, di funzionalizzazione delle rispettive economie, nello sforzo di costruire un polo imperialista europeo in cui convivano, in forme “combinate e diseguali” aree altamente produttive, votate all’export e a surplus di bilanci strutturali, ed aree altrettanto strutturalmente deboli, destinate permanentemente al ruolo di mercati di assorbimento del prodotto altrui, terzisti marginali in alcuni stadi delle filiere produttive, fornitori di mano d’opera, indebitati e costantemente ricattati.

Davanti all’ubriacatura globalista degli anni ’90, alle sue promesse abortite, allo sventolio effimero dei diritti individuali e di nicchia – mentre le sinistre abbandonavano la strenua difesa dei diritti sociali delle grandi masse -, il “popolo” sceglie la destra sovranista; che in Italia, come in tutto il mondo, abbraccia le tesi liberiste sulla flat tax o la centralità d’impresa, realizzando un capolavoro paradossale: nutrirsi del voto e del consenso proletario per stabilizzare rapporti di forza antiproletari.

E’ per questo che la nazione è il solo vero antidoto al nazionalismo, e la definizione degli interessi nazionali e del modo per mediarli con quelli altrui è la sola vera prevenzione della guerra: il globalismo pacifista e libertario che esorcizza ogni frase che riguardi la nazione e l’interesse nazionale, è il più forte alleato del nazionalismo aggressivo e autoritario (pag. 37)

Qual è lo sbocco politico di questi ragionamenti – conclude l’autore? La costruzione di un programma che rompa con le storiche subordinazioni italiane a potenze straniere sotto il cui “ombrello protettivo” andare a porsi; realizzare l'”Italexit” da un’Unione comunque boccheggiante; la definizione di nuove alleanze internazionali che includano la “piccola” Italia (piccola ma non irrisoria) in nuove geometrie politico-economiche. Ma elemento più importante: lo sviluppo di una coalizione popolare e di classe, che si riappropri “da sinistra” delle parole d’ordine sovraniste e rielabori una moderna idea di Nazione adatta all’epoca della rinnovata “centralità delle patrie” e orientata al socialismo.

Per questo non ha molto senso parlare oggi di “ritorno” degli stati nazionali, giacché questi non sono mai scomparsi: si tratta solo del passaggio da un’azione politica indiretta, veicolata soprattutto da provvedimenti di politica economica, ad un azione diretta, che fa sempre ricorso all’economia ma si affida ancora di più al comando centrale e alla dissuasione militare. Ancor meno senso ha il ritenere che questa ondata, detta impropriamente “nazionalista”, sia solo un malaugurato inciampo, un incidente di percorso che interrompe per puro caso l’altrimenti inarrestabile, benefica, pacifica marcia del globalismo. In realtà il ritorno dello Stato e del conflitto fra stati è l’esito dialettico necessario della globalizzazione, l’inevitabile effetto di ritorno degli squilibri e delle diseguaglianze che la fase iperliberista ha volutamente accresciuto (pag. 129)

Che dire? Al di là della congruità storica, tutta da verificare, di questa previsione di fondo – la globalizzazione è finita, politica ed economia si “ristatalizzeranno”, per così dire – queste tesi vengono di solito ripudiate dalla maggior parte della cosiddetta “sinistra radicale” (quel che ne resta). Le si giudica primitive, arretrate o velleitarie (dove va l’Italietta da sola?). Ma è necessario misurarsi con esse, senza spocchia e senza ridicole accuse di “rossobrunismo”. Dire che “lo spazio europeo è lo spazio minimo del conflitto”, come si scrive spesso con nonchalance, non può apparire altrettanto velleitario – presupponendo che “i movimenti europei” (altro oggetto misterioso), contemporaneamente condividano parole d’ordine, programmi e stadi di maturazione, magari grazie ai cyberspazi generosamente messi a disposizione dai padroni globali dei social?

Piuttosto, quello che colpisce in quest’area “neo-sovranista” – di cui Porcaro è ascoltato esponente – è un certo snobistico disinteresse per lo scontro di classe reale, quello quotidiano, che si consuma ai cancelli delle fabbriche, nei quartieri, nelle occupazioni, nei territori devastati. Questa tipologia di “sovranismo” – nonostante sia quantitativamente microscopico – immagina di muoversi in un empireo iperpoliticista che contempla i grandi posizionamenti geostrategici ma ignora quello che succede nei processi reali, gli uomini e le donne che resistono alla bestia liberista e globalista, la fatica quotidiana di organizzare il lavoro sfruttato, le lotte per il reddito, lo sporcarsi le mani, insomma, per costruire le coalizioni sociali in carne e ossa e non evocare romanticamente una nozione di “popolo” che – senza innervatura di classe, senza individuazione del blocco sociale, senza processo organizzativo e processo autoeducativo – resta suggestione ottocentesca.

Smaltita la lunga ubriacatura globalista (che tanti danni ha prodotto a sinistra) l’attualità di certi nodi tematici è però oggettiva e chiama tutti ad un dibattito franco e aperto.

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L’Italia nera https://www.carmillaonline.com/2019/08/08/litalia-nera/ Thu, 08 Aug 2019 21:02:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54021 di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra [...]]]> di Armando Lancellotti

Claudio Vercelli, Neofascismi, Edizioni del Capricorno, Torino, 2018, pp. 188, € 16.00

Claudio Vercelli, docente di storia dell’ebraismo all’Università cattolica di Milano e collaboratore dell’Istituto Salvemini di Torino, ha recentemente svolto un approfondito lavoro di ricerca sulla storia del neofascismo italiano, poi confluito in questo interessante volume. In poco meno di 200 pagine, organizzate in 6 capitoli che si snodano secondo un criterio cronologico, Vercelli affronta una materia molto complessa ed un arco temporale che copre settant’anni di storia italiana, nella convinzione che leggere e studiare le vicende della destra estrema italiana, oltre che a far comprendere quella particolare area politica, le sue idee, i suoi progetti ed il suo operato nel corso degli anni, possa contribuire anche ad approfondire in controluce momenti importanti della storia repubblicana. L’autore sceglie di limitare il più possibile il ricorso alle note e alle citazioni, in tal modo rendendo molto scorrevole ed agile la lettura del libro ed inserisce, distribuendolo in modo omogeneo nel corpo del testo, una sorta di glossario dei termini e dei concetti chiave necessari per la comprensione del fenomeno del neofascismo italiano.

La tesi che Vercelli espone fin da subito nell’Introduzione è che la storia della destra radicale e neofascista italiana sia il “reciproco inverso” della storia della Repubblica, cioè della democrazia nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Paradossalmente il neofascismo italiano, dopo la sconfitta del 1945, trova la sua ragion d’essere nel proprio opposto, ovverosia nella natura parlamentare, democratica, pluralista ed antifascista delle nuove istituzioni repubblicane, che prendono in mano la guida di quel paese che era stato la culla del fascismo. Pertanto, riflette Vercelli, nonostante le diverse forme assunte dal neofascismo italiano, dal 1945 – quando prevalgono ancora nostalgia per il passato prossimo e rancore contro i nemici – fino ad oggi – quando le formazioni dell’estrema destra più seguite, come Casa Pound, parlano di “fascismo del terzo millennio” – la «radice comune è la posizione antisistemica, ossia l’intenzione di mutare […] il “sistema” istituzionale, politico e finanche culturale della democrazia contemporanea. Negandone la radice egualitaria, che il neofascismo denuncia come una perversione dell’ordine naturale delle cose» (p. 9).

Nonostante la sconfitta nella guerra ed il crollo subiti tra il 1943 e il 1945, il fascismo ha continuato ad essere un soggetto politico presente nel nostro paese per tre ragioni fondamentali: in primo luogo, un’esperienza politica e poi un regime così duraturi come quelli mussoliniani non potevano scomparire improvvisamente, poiché troppo profondo era stato il loro radicamento nel paese. In secondo luogo, dopo il ’45 ciò che rimaneva del fascismo attira le attenzioni di quelle componenti conservatrici della società italiana che fasciste non sono, ma che coi reduci del fascismo intendono formare un “blocco d’ordine” capace di arginare i cambiamenti in atto nel paese. Infine, la contrapposizione tra i due blocchi della guerra fredda e la volontà, interna ed esterna al paese, di evitare lo spostamento italiano su posizioni apertamente filocomuniste, produce l’effetto della mancata epurazione e – come insegna Pavone – della netta prevalenza della “continuità” politico-istituzionale dello Stato rispetto al “cambiamento” auspicato dalle forze resistenziali partigiane. A questo si aggiunga che, come cent’anni fa, ancora oggi il neofascismo pretende di essere riconosciuto come forza politica rivoluzionaria: una rivoluzione che assume la forma della “reazione”, o meglio, si potrebbe dire, quella del “ritorno”, del “recupero” di un passato puro (in realtà mitico ed astorico) e di un presunto stato “naturale” sconvolto dalla corruzione della modernità, che avrebbe prodotto la democrazia, l’egualitarismo, il cosmopolitismo, considerati disvalori e perversioni della società. Al materialismo, al pragmatismo utilitaristico, all’economicismo, alla quantità equivalente della democrazia devono contrapporsi la qualità elitaria dell’aristocraticismo, lo spiritualismo, l’eroismo disinteressato del guerriero, la tradizione, il radicamento. Insomma una politica fatta più di evocazione suggestiva del mito e di estetica del gesto e dello stile esistenziale che di analisi razionale della realtà materiale, storica e sociale.

Nella prima parte del libro vengono considerati i primi anni dopo il crollo della Repubblica sociale e l’avvento della Repubblica e della democrazia. Per i fascisti italiani è il tempo del disorientamento, della difficoltà – per i più coinvolti con il regime di Salò – di nascondersi, di scappare, di cambiare identità o anche solo di passare inosservati, aspettando l’evoluzione della situazione interna al paese. Ma è anche il tempo della rivendicazione delle proprie convinzioni e dei primi tentativi di riorganizzazione, così come della accusa di codardia verso i “traditori” del 25 luglio e della elaborazione della figura del “proscritto”, cioè di colui che viene, ma soprattutto vuole, essere messo al margine della nuova società democratica ed antifascista che disprezza. La condizione del proscritto, rivendicata come segno distintivo ed elettivo, è quella che maggiormente accomuna i reduci di Salò e che ne rinserra le file. Figure di riferimento di quel primo periodo sono innanzi tutto Pino Romualdi, collaboratore di Pavolini e vicesegretario del Partito repubblicano fascista, che fin da subito cerca di stabilire contatti con i servizi segreti americani in funzione anticomunista e il “principe nero”, Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas. Il luogo dove il neofascismo inizia ad organizzarsi è Roma, in cui la presenza di un clero disposto ad aiutarli e a nasconderli, permette ai reduci di Salò di sfuggire alla cattura. Le prime azioni sono soprattutto atti velleitari e dimostrativi, che intendono recuperare lo spirito dell’arditismo e delle provocazioni squadriste in stile futurista del fascismo delle origini. Ma poco dopo comincia ad emergere anche un altro atteggiamento, quello che non disdegna l’idea dell’avvicinamento ai partiti conservatori del nuovo arco costituzionale e alla Democrazia cristiana in particolare; indirizzo che poi sfocerà nella fondazione del partito neofascista legalitario, il Movimento sociale italiano (MSI).

Il neofascismo italiano nasce in ogni caso dal trauma della sconfitta, che impone un processo di metabolizzazione e di ripensamento complessivo dell’esperienza del regime, che conduce i neofascisti a giudicare il fascismo regime come una “rivoluzione mancata”, soprattutto a causa delle componenti conservatrici della società italiana, che avrebbero usato solo strumentalmente il fascismo; oppure come “terza via” tra collettivismo comunista e liberismo capitalista; oppure, infine, come “rivolta” contro la modernità. Nel secondo e nel terzo caso c’è evidentemente la volontà di smarcare il fascismo dal suo passato per dargli la possibilità di rappresentare un’opzione politica per il futuro.  Tra il 1945 e il ’46 i neofascisti più disposti ad imboccare la via legalitaria individuano nell’anticomunismo la merce di scambio da offrire alle forze conservatrici in cambio di un allentamento dei provvedimenti penali e punitivi contro gli ex repubblichini. Spiega di seguito Vercelli come gli eventi del giugno 1946, il referendum istituzionale e il varo dell’amnistia Togliatti, mettano i neofascisti nella condizione di tornare ad agire più scopertamente rispetto ai mesi precedenti, separandosi definitivamente dai monarchici (che fondano un loro partito) e avvalendosi della scarcerazione di molti militanti che tornano a fare attivismo politico e si impegnano nella fondazione dell’MSI del dicembre del 1946.

Ma accanto alle iniziative politicamente legali, Vercelli richiama l’attenzione su una miriade di opuscoli, giornali, riviste, semplici fogli, pubblicazioni di ogni genere e tipo, inizialmente clandestini, a cui si aggiungono gruppi, altrettanto illegali, come l’Esercito Clandestino Anticomunista (ECA) o i FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria), fondati da Romualdi stesso.  La prolificità editoriale dell’estrema destra neofascista, che si affianca a quella dei gruppi dell’attivismo politico militante, è un tratto costante del neofascismo italiano, dalle sue origini fino ad oggi, anche nei momenti di oggettivo e netto svantaggio, quantitativo e qualitativo, politico, culturale e sociale rispetto alla sinistra parlamentare ed extraparlamentare e attesta la presenza e la permanenza nel nostro paese di un’area politica, di un pezzo di società e di una parte dell’opinione pubblica inequivocabilmente fascisti, che, pur assumendo forme parzialmente diverse a seconda del mutare dei tempi e del contesto sociale, tengono fermo il riferimento al fascismo storico e ai suoi principi fondamentali.

Fin da subito, la prima distinzione interna alla destra estrema si sviluppa sull’alternativa tra l’accettazione «almeno formale e di circostanza, del parlamentarismo e delle istituzioni repubblicane» (p. 43), salvo prefiggersi lo scopo ultimo di sovvertirle se e quando possibile e la scelta eversiva della lotta senza quartiere ed esclusione di colpi contro l’assetto democratico della Repubblica italiana. La distinzione tra “eversione” e “legalità” va poi ulteriormente dettagliandosi, anche all’interno dello stesso partito ammesso alla legalità parlamentare, per esempio nelle posizioni dei reduci veri e propri, dei nostalgici del regime e della repubblica di Salò, i quali andranno via via perdendo posizioni, sia per evidenti ragioni generazionali sia per la passività e l’inconcludenza della posizione sul piano politico. Segue poi la posizione dei sostenitori della sola via legale, che si concretizza nel partito il quale però è chiamato ad affrontare fin da subito evidenti contraddizioni: i suoi dirigenti sono prevalentemente settentrionali e reduci di Salò, mentre l’elettorato è di gran lunga più consistente al Sud e legato al ricordo del «fascismo di regime, quello dai connotati notabiliari, fortemente conservatori» (p. 57). Sul piano ideologico poi, la “sinistra”, che recupera il programma di “socializzazione” di Salò, la suggestione della “terza via” e che si colloca su posizioni “antiamericane”, si scontra con le posizioni moderate aperte all’”atlantismo”, che sfoceranno più tardi nel collateralismo alla DC. Infine si configura anche la posizione, sostanzialmente eversiva, degli “spiritualisti”, ovverosia di coloro per i quali il fascismo come “idea” trascende le sue manifestazioni storiche particolari e si presenta come una “visione del mondo” che valorizza l’aspetto “spirituale” dell’uomo di contro a quello “economico-materiale” e pertanto individua i propri principi fondamentali nella “tradizione”, nella “comunità” e nella “identità” – vale a dire nella “razza” – nel “nazionalismo”, nella “gerarchia” come ”ordine naturale” che si regge sulla “disciplina”, nel rifiuto della modernità e dell’intero suo portato politico e culturale. Si tratta di quella parte dell’estrema destra neofascista che ha gravitato per molto tempo attorno a Julius Evola e che ancora oggi continua a richiamarsi a quel bagaglio di idee e che individua l’essenza e l’eccentricità del fascismo nella figura estetico-esistenziale del “legionario”, cioè del militante disciplinato, virile e combattivo che è «pronto a trasformare la propria esistenza in una continua impresa indirizzata al combattimento» (p. 47). È il “soldato politico”, parte di una élite aristocratica che si distingue dalla massa per destino, prima ancora che per volontà.

Ai suoi esordi il programma dell’MSI si concentra sull’anticomunismo, sul nazionalismo, sul richiamo ai progetti sociali della RSI, sull’idea di Stato forte e sul rifiuto della democrazia. Dopo pochi mesi di segreteria di Giacinto Trevisonno, durante la fase di gestione collegiale del partito e non potendo Romualdi assumere incarichi per ragioni giudiziarie, è Giorgio Almirante che dal giugno del ‘47 ricopre la carica di segretario della giunta esecutiva e di seguito quella di segretario del partito. Almirante intende mantenere un forte legame con l’esperienza della RSI e ripropone i temi dell’anticapitalismo e dell’antiamericanismo. Gli ultimi anni ’40 sono quelli dell’assestamento per l’MSI e nel frattempo i governi democristiani chiudono definitivamente la fase delle comunque blandissime epurazioni. Con la fine della segreteria Almirante (gennaio 1950), che viene sostituito da De Marsanich, è la parte moderata del partito a prevalere, per poi stabilizzarsi definitivamente con la scelta della linea del collateralismo nei confronti della DC, operata tanto dallo stesso De Marsanich, fino al 1954, quanto da Michelini, che guida il partito per ben quindici anni, fino al 1969. Neppure l’ingresso e l’assunzione di incarichi nel partito da parte di Rodolfo Graziani e di Junio Valerio Borghese, salutati con speranze sia dalla sinistra sociale dell’MSI sia dalla destra tradizionalista e spiritualista evoliana, producono un cambiamento della rotta politica moderata, ed è in questo contesto che nel 1956, Pino Rauti, su posizioni di tradizionalismo evoliano, esce dal partito e fonda l’associazione politico-culturale Centro Studi Ordine Nuovo (CSON).

Per Rauti – spiega Vercelli – «si trattava di trovare nuovi riferimenti alla tradizione culturale, ai simbolismi e alla mitografia neofascista. Ne derivarono alcuni risultati, destinati a lasciare un lungo segno. Il primo fu la piena e definitiva nobilitazione dell’impostazione evoliana, quella sospesa tra aristocraticismo, tradizionalismo, ed esoterismo» (p. 75). Il materialismo, l’edonismo, il consumismo, che trovano il loro equivalente giuridico-politico nel parlamentarismo democratico, devono essere combattuti attraverso forme di militanza politica che si richiamano ai movimenti legionari di estrema destra, come quello della Guardia di Ferro di Codreanu, nella Romania degli anni Trenta e Quaranta. Per superare la logica dell’alternativa tra Oriente e Occidente, viene elaborata la teoria dell’”Europa Nazione”, che – fa notare Vercelli – riprendendo l’idea nazista della “Fortezza Europa”, sfocia in una sorta di “europeismo suprematista”, che declina l’idea nazionalistica sul piano continentale europeo. Quando nel 1969, con il ritorno di Almirante alla segreteria del Movimento sociale, Rauti decide di rientrare nel partito, la componente più intransigente di Ordine Nuovo non sposa questa scelta rautiana e fonda il Movimento Politico Ordine Nuovo (MPON). Complessivamente l’esperienza di Ordine Nuovo, riflette Vercelli, costituisce «una pietra miliare nella storia della destra estrema italiana» (p. 75), sia perché molte delle sue idee sopravvivono all’organizzazione stessa e ricompaiono in altre formazioni e gruppi del neofascismo italiano fino ad oggi, sia perché «la sua traiettoria operativa s’incrociò più volte con lo strutturarsi di quel livello parallelo e non ufficiale di attività militare, lo Stay-behind, che in Italia già dal 1956 implicò la nascita dell’organizzazione Gladio» (pp. 78-79). Pertanto Ordine Nuovo è stato parte essenziale ed attore tra i principali di quella “strategia della tensione” che si è poi concretizzata nello “stragismo”, in stretta collaborazione con servizi segreti deviati ed appartati occulti dello Stato, tra gli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, da piazza Fontana alla Stazione di Bologna.

Gli anni Sessanta della destra eversiva italiana si aprono con la fondazione di una nuova organizzazione – Avanguardia nazionale – ad opera, tra gli altri, di un rautiano già coinvolto nelle attività di CSON: Stefano Delle Chiaie. Osserva Vercelli che «Avanguardia nazionale si rifaceva alla RSI come a diversi aspetti del nazionalsocialismo, giudicando fattibile una battaglia contro la democrazia solo attraverso la formazione di militanti tanto disciplinati quanto animati da un fideismo totale, nello “stile legionario” che doveva contraddistinguere le avanguardie della “rivoluzione nazionale”» (pp. 82-83). L’organizzazione di Delle Chiaie e poi di Adriano Tilgher è apertamente favorevole a soluzioni golpiste ed intrattiene rapporti coi regimi militari dell’America latina, di Spagna, Portogallo e soprattutto Grecia. Si impegna negli scontri di piazza e all’interno del mondo studentesco e universitario; il suo coinvolgimento nelle trame eversive e terroristiche di quegli anni è tale che nel 1976 viene dichiarata fuori legge. Altri eventi rilevanti di quel decennio sono il cosiddetto “piano Solo”, ovvero il tentato colpo di Stato ordito dal comandante dell’Arma dei Carabinieri, il generale Giovani de Lorenzo; l’uscita dall’MSI di Junio Valerio Borghese (1968), che dà vita al Fronte Nazionale, che due anni dopo sarà in prima fila nell’organizzazione del cosiddetto “golpe Borghese”. Una formazione politica dai progetti velleitari – tanto quanto il tentativo fallito di sovvertimento dell’ordine costituito – che, osserva Vercelli, ripropone vecchi cliché politici, che non vanno al di là della nostalgia del fascismo storico, proprio in un momento in cui, anche nell’area dell’estremismo di destra, sorgono nuovi fermenti e soprattutto l’esigenza di ripensare la militanza politica neofascista in modo indipendente dal passato.

Proprio per queste ragioni, in quegli anni hanno successo anche in Italia le idee di Jean-Francǫis Thiriart, fondatore nel 1962 di Jeune Europe, teorizzatore del “comunitarismo”, vale a dire di una confusa visione politica che intende proporsi come sintesi e quindi superamento dell’opposizione fascismo-comunismo, che riprende e corrobora l’idea di Europa Nazione, come “terza via” possibile nel mondo della contrapposizione tra blocchi, che, assumendo posizioni di antiamericanismo ed antisionismo, intende tanto opporsi al neoimperialismo, appoggiando i paesi non allineati o simpatizzando per il “guevarismo”, quanto rifiutare il materialismo edonistico ed il meticciato privo di radici, rappresentati dal modello statunitense. Idee che attraggono i giovani italiani cresciuti nell’area della destra radicale, in cerca di idee alternative tanto a quelle del conservatorismo legalitario dell’MSI, quanto a quelle del golpismo vecchio stampo. È da qui che iniziano a dipanarsi i fili di un percorso politico di lungo periodo, che ancora oggi è chiaramente presente nelle posizioni “rosso-brune” variamente espresse di volta in volta da Forza Nuova o da Casa Pound.

Il decennio 1969-1979, che Vercelli definisce “La stagione delle bombe”, è contraddistinto dai tentativi sempre più evidenti della destra estrema italiana di tagliare il cordone ombelicale col fascismo storico vissuto in modo nostalgico, perché «paralizzante rispetto a qualsiasi concreta azione politica» (p. 103). Da queste premesse prendono il via diverse linee di sviluppo politico: una è quella che si rifà al nazionalsocialismo e ad altre forme di fascismo di movimento e di militanza legionaria come le già ricordate Guardie di Ferro rumene o le Croci Frecciate ungheresi, perché ritenuto più capace di fornire una visione globale ed organica del mondo, il primo, e un modello valido di militanza, di fatto molto simile a quello evoliano del “soldato politico”, le seconde. Si tratta di idee che sostanziano le posizioni radicalmente eversive di Franco Freda, che con il suo “La disintegrazione del sistema”, ricorda Vercelli, diviene una figura carismatica di primissimo piano per il mondo dell’ultra destra italiana. Il passaggio successivo è quello della costituzione di nuove formazioni eversive, che prendano il posto delle ormai tramontate formazioni storiche (Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale), che rompano definitivamente – almeno nelle dichiarazioni – con l’MSI, considerato ormai come un partito di delatori, rinnegati, traditori compromessi col sistema che dovrebbero combattere e infine che, anche nel tentativo di competere con la forza superiore delle organizzazioni della lotta armata comunista, intraprendano la via dell’eversione terroristica, da interpretare nel modo più violento e duro possibile. Da queste premesse nascono sia Terza Posizione, di Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Giuseppe Dimitri, sia i Nuclei Armati Rivoluzionari, gruppo eversivo esclusivamente terroristico che in Giuseppe Valerio (Giusva) Fioravanti trova l’esponente più rappresentativo della sua essenza criminale.

Sul piano ideologico Terza posizione ripropone la prospettiva “nazionalrivoluzionaria” e mescola idee vecchie e nuove del fascismo e del neofascismo italiani: allo “Stato organico” come superamento dei conflitti di classe, al fascismo come “terza via” e al “socialismo nazionale”, alla difesa della “tradizione”, al ruolo politico delle “avanguardie consapevoli”, si aggiungono la teoria dell’Europa Nazione, il rifiuto dell’atlantismo missino, il coinvolgimento popolare nella lotta rivoluzionaria, l’attenzione per le marginalità sociali e per il mondo giovanile e di conseguenza il radicamento nel territorio e nei quartieri con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione e protesta, il sostegno alle lotte di liberazione nazionale, ma in quanto interpretate come movimenti di salvaguardia delle tradizioni dei popoli. Delle due anime dell’organizzazione, una – precisa Vercelli – più spontaneista e una invece (quella di Fiore e Adinolfi) che ritiene «indispensabile dotarsi di una filiera gerarchica e paramilitare per garantire la continuità organizzativa» (p. 131), è la seconda a prevalere nettamente, mentre lo spontaneismo armato e violento trova nei NAR le condizioni ideologiche e pratiche per la sua realizzazione compiuta. «I NAR, quindi, si svilupparono da subito, di contro all’esperienza di Terza Posizione, come una struttura aperta e acefala, una sorta di sigla-brand sotto la quale potevano riconoscersi soggetti anche molto diversi, ma accomunati dall’identità fascista e dalla disposizione al ricorso alle armi» (p. 134). Fioravanti, la Mambro e tutti gli altri si rifanno, aggiornandola ed adattandola al contesto degli anni in cui i NAR sono operativi (1977-1982), alla tradizionale idea fascista del primato della prassi sulla riflessione, dell’azione che fonda e giustifica se stessa, della violenza come mezzo di lotta politica non solo lecito, ma assolutamente necessario, in quanto atto che permette l’affermazione della forza guerriera degli individui superiori e che pertanto ristabilisce il naturale ordine della disuguaglianza. L’esaltazione della violenza, del ricorso necessario alle armi, della spontaneità autogiustificante dell’atto di forza, da un lato e la debolezza e la labilità ideologiche, dall’altro, conducono i NAR ad intrattenere relazioni sempre più strette con organizzazioni della malavita comune, come la banda della Magliana o la mala del Brenta. Insomma, spiega Vercelli, l’esperienza politico-terroristica dei NAR si sviluppa in direzione di un nichilismo individualistico destinato a concretizzarsi in un bagno di sangue privo di alcun senso, cioè del tutto fine a se stesso. E ancora una volta sono suggestioni evoliane, quelle dell’ultima fase della riflessione del filosofo fascista, che impregnano e supportano l’agire della più violenta tra le formazioni dell’estrema destra eversiva italiana.

In quegli stessi anni, nell’area dell’estrema destra legale e in collegamento con il partito, si sviluppano però anche altre iniziative, che, di fronte alle difficoltà di conseguire concreti risultati politici, spostano l’asse della loro azione sul piano sociale e soprattutto culturale, cioè “metapolitico”, secondo l’espressione usata a destra e in questo contesto rientrano le esperienze dei tre Campi Hobbit (1977, 1978, 1980), che per la prima volta promuovono il fenomeno della musica e dei gruppi musicali di destra, oppure di esperienze e sperimentazioni artistiche, grafiche e comunicative che possano rappresentare forme nuove di aggregazione e mobilitazione per i giovani dell’estrema destra, stanchi delle modalità tradizionali missine e che in qualche modo possano emulare le forme aggregative dell’estrema sinistra, per competere con esse.

Con il passaggio al decennio successivo, in un quadro complessivo di riflusso e declino generalizzato della partecipazione e della militanza politiche, è proprio il piano “metapolitico” quello su cui a destra si lavora con più convinzione, attraverso un consistente numero di iniziative editoriali, spesso di bassissima tiratura e di effimera durata, ma che dimostrano in ogni caso una certa vivacità dell’area politica del neofascismo italiano, che si avvale anche delle idee della cosiddetta Nuova Destra di Alain de Benoist, che dalla Francia approdano in Italia. Il bagaglio ideologico rimane sostanzialmente sempre lo stesso degli anni e dei decenni precedenti, ma si lavora soprattutto sul piano “metapolitico” e “culturale”, anche attraverso il filtro della letteratura e dell’immaginario del genere fantasy e con il fine ultimo di conquistare una posizione di “egemonia culturale”, «intesa come capacità di influenzare in maniera decisiva l’opinione pubblica, orientandone gli atteggiamenti, le preferenze e, in immediato riflesso, le scelte» (p. 156).

L’ultima parte dell’interessante saggio di Vercelli è dedicata al periodo 1992-2019, dalla fine della prima Repubblica ad oggi, in cui va profilandosi lo scenario di un nuovo neofascismo, con la diffusione innanzi tutto del fenomeno dei gruppi skinhead (Azione Skinhead, Circolo Ideogramma, Veneto Fronte Skinhead, ecc) e con la loro capacità di infiltrazione delle tifoserie calcistiche ultras e poi con l’attivismo via via crescente delle due formazioni politiche più dinamiche in questi anni: Forza Nuova e Casa Pound Italia. La prima, nota Vercelli, è più evidentemente legata all’ex militanza e all’esperienza politica di Terza Posizione di Fiore ed Adinolfi e mantiene un’impostazione ideologica decisamente più dogmatica ed ortodossa che si incentra su tradizionalismo, vetero cattolicesimo, antisemitismo, omofobia, identitarismo, sovranismo, avversione per lo straniero e rifiuto del meticciato, antimondialismo, anticapitalismo, ma da intendersi non tanto come messa in discussione delle strutture del modo di produzione capitalistico, quanto piuttosto come avversione nei confronti del sistema bancario e finanziario internazionale (associato al sionismo). La seconda, seppur il suo armamentario ideologico non si discosti poi più di tanto e in modo sostanziale da quello di Forza Nuova, si propone come una formazione politica meno rigida e dogmatica, più capace di muoversi sul piano “metapolitico” e su quello del radicamento nel territorio e nei quartieri, con la promozione di iniziative dal basso di mobilitazione sociale. Nonostante che sul piano elettorale nazionale, entrambe le formazioni politiche abbiano raccolto esiti del tutto irrilevanti (diverso è il discorso riguardante le aree tradizionalmente di maggior radicamento), anche grazie alle recenti e sempre più frequenti relazioni di Casa Pound con la Lega di Salvini, gli obiettivi dei neofascisti di ottenere una posizione di maggiore visibilità e rilevanza e di “occupare” un’area dell’opinione pubblica e dell’immaginario diffuso con alcune delle idee fondamentali dell’estrema destra, sembrano purtroppo essere stati conseguiti. Ma questo è un discorso che merita maggiori approfondimenti e più accurate analisi, essendo una pagina ancora aperta e in fieri della storia “nera” italiana che dura esattamente da un secolo.

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Contro la macchina seriale del “percepito” il futuro è il socialismo https://www.carmillaonline.com/2019/04/29/contro-la-macchina-seriale-del-percepito-il-futuro-e-il-socialismo/ Mon, 29 Apr 2019 21:30:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52315 di Giorgio Cremaschi

“Chi se magna pane e vino ha da esse giacobino”

Così gridava il popolo dei lazzari napoletani, guidato dall’ultra reazionario cardinale Ruffo, nell’insurrezione contro la repubblica nel 1799.

Oggi Bolsonaro, presidente del Brasile con dichiarate simpatie per Pinochet e le dittature fasciste, ha annunciato al suo insediamento che intende sradicare ogni forma di socialismo, nel nome del popolo.

Dalla Rivoluzione Francese in poi le forze reazionarie hanno sempre indossato la maschera del popolo, accusando i rivoluzionari, i progressisti, le sinistre diremmo oggi, di essere [...]]]> di Giorgio Cremaschi

“Chi se magna pane e vino ha da esse giacobino”

Così gridava il popolo dei lazzari napoletani, guidato dall’ultra reazionario cardinale Ruffo, nell’insurrezione contro la repubblica nel 1799.

Oggi Bolsonaro, presidente del Brasile con dichiarate simpatie per Pinochet e le dittature fasciste, ha annunciato al suo insediamento che intende sradicare ogni forma di socialismo, nel nome del popolo.

Dalla Rivoluzione Francese in poi le forze reazionarie hanno sempre indossato la maschera del popolo, accusando i rivoluzionari, i progressisti, le sinistre diremmo oggi, di essere delle élites che possono permettersi di predicare l’eguaglianza dall’alto del loro intangibile privilegio.

Attenzione, il punto non è quanto sia vera questa accusa di ipocrisia ed elitarismo verso il progressismo rivoluzionario, a volte lo è stata, lo è. Il punto è che le forze reazionarie usano le contraddizioni e le delusioni della lotta per l’eguaglianza per rivendicarne la fine. I reazionari degli ultimi duecento anni hanno sempre avuto una comune idea del popolo: quello che si accontenta e rispetta le gerarchie, che non vuol cambiare la società, che ubbidisce alla trinità reazionaria Dio Patria Famiglia.

La sconfitta della rivoluzione francese e la restaurazione comportarono che ciò che prima era diritto tornasse ad essere elargizione dovuta al buon cuore. Così esplodeva il contrasto dei sentimenti, il conflitto tra diritto e servitù diventava quello tra bontà (oggi diciamo buonismo) e egoismo (oggi è realismo). E i poveri, si sa, sono materialmente costretti al realismo. Nella letteratura di Charles Dickens, che descrive il capitalismo inglese trionfante dell’ottocento, i poveri e gli operai sono in generale feroci tra loro ed insensibili, mentre i ricchi ed i potenti alla fine sono conquistati dalla bontà.

Il socialismo in tutte le sue versioni ha impiegato un secolo, tutto il diciannovesimo, per strappare il popolo ai vari cardinali Ruffo e per portarlo sul fronte giacobino. Per fare questo però il socialismo ha dovuto praticare la rottura con ciò che era allora la sinistra ufficiale, ha dovuto affermare contro di essa la centralità della questione sociale. Nella sostanza ha dovuto spiegare ai poveri e agli sfruttati come in fondo avessero ragione i reazionari, quando denunciavano l’ipocrisia di una uguaglianza e di una libertà solo formali, cui corrispondevano ingiustizia sociale e privilegio. Ma che non era l’eguaglianza ad essere sbagliata, bensì il fatto che essa non riguardasse le condizioni di lavoro e di vita delle persone. Così il socialismo si è affermato nella rottura sia con il pensiero liberale, che predicava le libertà civili, ma nel nome del capitalismo e del mercato negava l’eguaglianza sociale, sia contro il pensiero reazionario, che denunciava la diseguaglianza sociale solo con lo scopo di mettere in discussione le libertà civili.

Nel ventesimo secolo, dopo la rivoluzione russa e il gigantesco moto di emancipazione e rivolta sociale promosso dal comunismo, le risposte delle classi dominanti europee furono il fascismo ed il nazismo. Che apparentemente recuperavano il protagonismo sociale delle masse, ma per collocarlo rigidamente nel rispetto della gerarchia e dell’ordine costituito, per costruire un regime reazionario di massa. La sconfitta del fascismo in Europa ebbe due effetti fondamentali. Impose l’eguaglianza sociale come metro fondamentale della politica, con lo stato socialista pianificato ad est e quello sociale di mercato ad ovest. In secondo luogo la rovina del fascismo trascinò con essa anche i valori reazionari di fondo che il fascismo aveva recuperato e utilizzato: Dio Patria e Famiglia divennero impresentabili ed impronunciabili.

La reazione del capitalismo iniziò negli anni settanta, con la brutale riaffermazione del potere del mercato, del profitto, del privato e della ricchezza. Ciò che oggi chiamiamo neo liberismo, che ebbe come primo paese cavia il Cile, sottoposto alla sanguinaria dittatura fascista di Pinochet.

La reazione capitalista ebbe successo, sconfisse le lotte dei lavoratori ed i movimenti sociali in Occidente, provocò il crollo del socialismo reale nell’Europa dell’Est ed in Unione Sovietica. Iniziava l’epoca della globalizzazione, cioè della sottomissione al mercato, soprattutto al mercato finanziario, della economia e della società, ovunque. Apparentemente senza ostacoli.

La globalizzazione è semplicemente il sistema americano esteso a tutto il mondo, sentenziò lapidariamente Kissinger.

La sinistra occidentale, di fronte a questo processo reazionario mondiale, cercò di salvare se stessa percorrendo a rovescio il cammino del secolo diciannovesimo. Cioè, almeno nei suoi partiti maggiori e anche in tanti gruppi dirigenti sindacali, la sinistra abbandonò la questione sociale, proprio quando essa esplodeva di nuovo per le politiche liberiste, e si rifugiò nelle libertà civili.

Su queste basi l’Unione Europea fu costituita con il trattato di Maastricht nel 1992. Che esprimeva una sorta di compromesso politico ed ideologico. La sinistra abbandonava ogni forma di socialismo e si sottometteva al dominio del libero mercato, libera volpe in libero pollaio lo aveva definito Joyce. La grande borghesia ed il potere economico facevano propri i valori civili e liberali, sostenevano la massima estensione dell’eguaglianza formale in cambio del proprio pieno dominio su quella reale.

Così la UE nasceva rompendo con il nucleo centrale delle costituzioni antifasciste varate dopo il 1945. Quel nucleo che la Banca Morgan, in un suo documento del 2013, avrebbe poi definito come l’ostacolo ancora da abbattere per un pieno dispiegamento del mercato. Le costituzioni antifasciste sono democratiche e sociali, non credono affatto nella capacità di autoregolazione del mercato. Anzi esse affermano l’esatto contrario, cioè che il mercato va controllato dal potere pubblico, che ha il dovere di garantire l’eguaglianza sociale.

Il ritorno, attraverso la UE, ai principi delle costituzioni liberali contro quelli delle costituzioni antifasciste ha gettato le fondamenta ideologiche per il riemergere in Europa della destra reazionaria e del fascismo. Fino alla crisi del 2007 in Europa il connubio tra liberalismo politico e liberismo economico ha funzionato, con il governo di una coalizione politica di fatto tra partiti democristiani e conservatori e partiti socialdemocratici. Con l’esplodere della grande crisi, con l’impoverimento dei ceti medi e della maggioranza della popolazione, l’equilibrio sociale e politico europeo è saltato e le forze reazionarie hanno potuto innalzare di nuovo i vessilli del passato, nel nome del popolo e contro i radical chic, versione moderna dei giacobini sazi di pane e vino.

A loro volta le forze liberali e di centro sinistra hanno riscoperto i principi etici del liberalismo ottocentesco, quella sovrabbondanza parolaia dei buoni comportamenti e dei valori verso la quale Marx rivolgeva il più feroce sarcasmo.

Lo scontro tra liberali e reazionari ha alimentato la separazione tra diritti civili e diritti sociali. Con i reazionari in veste popolare che accusavano le sinistre liberali di difendere la licenza di costumi dei ricchi, e le sinistre che accusavano le destre di volere il ritorno al Medio Evo. Ha trionfato così la dimensione ideologica del conflitto, in una società che, dopo aver proclamato la fine delle ideologie, si è vista proiettata in conflitti politici fondati sulla negazione dei fatti. Decisivo più che mai è diventato il ruolo dei mass media vecchi e nuovi e di chi ha i soldi ed il potere per indirizzarli.

Una nuova definizione ha giustificato lo sganciamento del conflitto politico dalla realtà, quella di “realtà percepita”. La percezione superficiale determinata dalla ripetizione ossessiva di un tema o di un evento sui mass media, ne definisce l’importanza politica. Così i temi della insicurezza di fronte alla criminalità e della invasione dei migranti, spesso uniti tra loro, hanno alimentato la percezione del bisogno di legge ed ordine, che ha fatto risorgere la destra reazionaria. D’altra parte la criminalizzazione della spesa pubblica e dei diritti dei lavoratori, trasformati in privilegi, ha fatto percepire la disoccupazione e la crisi economica come risultato della politica di giustizia sociale del passato. Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, siamo stati cicale ed ora paghiamo: questo il senso comune con il quale viene affermata la funzione regolatrice della Unione Europea.

Lo scontro tra liberali e reazionari che domina l’Europa oggi è tutto fondato sul “percepito “, cioè su una realtà dalla quale sono state espulse le questioni sociali ed il potere economico. Liberali e reazionari hanno entrambi accettato la separazione tra diritti civili e diritti sociali, confliggono sui primi, ma hanno lasciato al mercato i secondi. Liberali e reazionari hanno due modi diversi di valutare la globalizzazione, per i primi una specie di ballo Excelsior del progresso, per i secondi un male per la fede e la razza. Ma entrambi in fondo l’accettano e la considerano inevitabile, con tutta la sua ferocia: essi divergono solo sul modo di adattarsi ad essa.

E la sinistra? All’inizio del nuovo millennio un grande movimento radicale e di sinistra aveva proprio individuato nella globalizzazione capitalista l’avversario con il quale misurarsi. No Global vennero chiamati i giovani che da tutta Europa vennero a Genova nel 2001, per subire una violentissima repressione di stato culminata con l’uccisione di Carlo Giuliani.

Allora la sinistra stava ricostruendosi proprio contro la globalizzazione, ma poi tutto naufragò e la sinistra divenne tifosa della globalizzazione capitalista scambiandola con quella dei diritti. Si esaltavano i giovani che potevano permettersi gli Erasmus e si dimenticavano quelli, molti di più, ai quali il liberismo negava una istruzione pubblica decente.

Così la sinistra ha regalato alla destra reazionaria la critica della globalizzazione. La quale destra ha ringraziato del dono, che ha utilizzato non certo per mettere in discussione il dominio del mercato, ma per rispolverare il patriottismo ipocrita di Dio Patria e Famiglia. Parole che han potuto essere pronunciate di nuovo in Europa senza essere coperte dalla vergogna che meritano. La sinistra ha varato la parola sovranismo per definire la destra neofascista, volutamente per confondere la sovranità popolare con il fascismo. La destra ha incassato ed accusato la sinistra di essere elitaria, inglobando in questa definizione ogni distacco dal senso comune reazionario che la destra stessa diffonde. Entrambe, destra reazionaria e sinistra liberale, hanno usato la definizione dell’avversario per chiudere il proprio campo alla questione sociale riaperta dalla globalizzazione.

Ma oggi noi non subiamo più solo gli effetti sociali negativi della globalizzazione, ma quelli ancor più gravi della sua crisi. Lo sviluppo globale si è fermato e frantumato. Il sistema americano è andato in crisi. La Cina e nuove potenze economiche accrescono il loro peso nel mondo, mentre gli USA si ritirano con minacce e guerre. Tornano i dazi.

Tutto il mondo neoliberale sul quale è stata edificata l’Unione Europea si va esaurendo. Confusamente e contraddittoriamente il vecchio mondo muore, ma quello nuovo fatica a sorgere ed è in questo chiaroscuro, come scriveva Gramsci, che nascono i mostri.

Il conflitto politico tra liberali e reazionari, al quale è stata ridotta l’Europa dalle sue classi dirigenti, diventa un elemento di paralisi politica del continente. L’eccesso di liberismo della sinistra liberale crea le paure sulle quali avanza la destra reazionaria e neofascista. Poi la paura ed il richiamo degli orrori della destra europea, fanno di nuovo avanzare i liberali. È l’alternanza delle paure, vince quella percepita al momento come più grave. Ma tutto resto compresso nell’assenza di reali alternative.

Fino a che il conflitto europeo fondamentale sarà tra un fronte liberale – nel quale viene assorbita la sinistra ufficiale e che sostiene liberismo e mercato come basi della democrazia – ed un fronte reazionario – che unisce destre conservatrici e fasciste e che coniuga liberismo e autoritarismo- l’Europa sarà un continente bloccato nel passato. Dove due diversi ipocriti patriottismi, quello europeista e quello nazionalista, concorreranno allo stesso dominio sociale.

Tocca a una nuova sinistra il compito di sbloccare il sistema. Una sinistra capace di rompere con le esperienze della sinistra europea degli ultimi trent’anni e di riportare nel continente dove è nata quella parola che la politica dominante ha espulso: il socialismo. Ovvero l’eguaglianza sociale, la lotta contro lo sfruttamento capitalista della persona e della natura, il controllo pubblico democratico sull’economia. Questo è ciò che oggi è necessario per affrontare la questione sociale in Europa, superando l’alternanza, che ci viene continuamente proposta, tra capitalismo ottocentesco e Medio Evo. Questo è il socialismo, parola che si ha più paura di pronunciare oggi in Europa che negli Stati Uniti. Oggi in Europa stanno rinascendo movimenti civili ed ambientali che pongono questioni radicali. Se questi movimenti non avranno la capacità e la forza di giungere al nodo della questione sociale, se resteranno alla superficie dei rapporti economici e di potere. saranno assorbiti e sconfitti dalla macchina del percepito.

Compagni parliamo dei rapporti di proprietà, incitò Bertold Brecht. E oggi in Europa non si può parlare di rapporti di proprietà senza fare i conti con la istituzione che si è assunta di tutelarli: l’Unione Europea. Chi vuole uscire dal loop infinito liberalismo reazione, ha oggi il compito di affermare che il socialismo è necessario e che la UE ed il socialismo sono incompatibili tra loro. Senza paura di sembrare difensore del passato. Il passato è ciò che ci governa, il futuro è il socialismo.

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Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi https://www.carmillaonline.com/2019/04/11/crisi-globale-e-geopolitica-dei-neopopulismi/ Wed, 10 Apr 2019 22:01:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51888 Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, [...]]]> Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 312, 25,00 euro

Il testo di Raffaele Sciortino appena pubblicato dall’editore Asterios, dedicato alle conseguenze politiche, economiche, sociali e geopolitiche che negli ultimi dieci anni sono derivate dal riesplodere della crisi economica generalizzata seguita alla cosiddetta crisi dei mutui subprime sviluppatasi a partire dagli Stati Uniti nel 2008, è veramente denso di informazioni e ricco di spunti di riflessione.

L’autore, dottore di ricerca in studi politici e relazioni internazionali, è un ricercatore indipendente che oltre ad aver pubblicato numerosi saggi e articoli, sia cartacei che on line, ha pubblicato precedentemente due testi per lo stesso editore oltre ad aver curato per le edizioni Colibrì, insieme ad Emiliana Armano, un testo di Loren Goldner sul lungo ’68, Revolution in our lifetime, recensito poco tempo fa proprio su Carmilla (qui)1.

Nel corso delle 300 e più pagine che compongono il testo l’autore non si accontenta di esaminare le cause della nuova Grande crisi e le sue conseguenze sull’ordine geopolitico, economico e finanziario internazionale ma anche, e forse soprattutto, gli smottamenti che essa ha suscitato all’interno del sistema socio-politico e di classe che, soprattutto in Occidente, si era andato apparentemente stabilizzando nel corso della seconda metà del ‘900. Oltre a ciò il testo si rivela estremamente stimolante nelle sue riflessioni sull’ascesa della Cina come potenza egemone e delle conseguenze che ciò ha comportato per le politiche commerciali e militari per gli Stati Uniti da Obama a Trump.

Anche in questo caso, però, l’autore non si accontenta di uno sguardo macroeconomico e geopolitico sui fatti trattati, ma collega questi allo sviluppo della lotta di classe sia nel paese asiatico che nel declinante occidente. Occidente in cui la rinascita dei populismi può portare con sé sia un semplice ritorno al nazionalismo di stampo fascista (sovranismo), sia ad imprevedibili ed inaspettati sviluppi per una futura affermazione di una società basata sulla comunità umana e sulla negazione dello sfruttamento generalizzato della specie, dell’ambiente e delle sue risorse a vantaggio di pochi singoli o di una singola classe.

Proprio per questo motivo abbiamo scelto di riportare qui alcuni estratti particolarmente interessanti tratti dalle conclusioni dell’autore (pp. 302-305). [S.M.]

Interviene qui il secondo grande fattore, la spinta dei neopopulismi come forma attuale della lotta di classe in Occidente. Se per il proletariato cinese e, a seguire, per quella parte delle masse espropriate del Sud del mondo costrette a migrare, la prospettiva pare ancora potersi porre nei termini di un miglioramento sociale pur in cambio di duri sacrifici – nell’Occidente in profonda crisi la questione va già oltre. Qui il declassamento e il depauperamento, seppur ancora relativi più che assoluti, alludono a un domani precarissimo in cui l’ascesa sociale è finita né è in vista un nuovo compromesso sociale. E’ la confusa percezione di ciò che sta oggi diventando esperienza di massa. E’ anche il segno della crisi definitiva – per molti difficile da accettare – del movimento operaio e della sinistra, dell’ipotesi di un compromesso riformista via via trasformatosi nella cetomedizzazione dell’operaio. […] Ciò spazza via ogni prospettiva di progresso, linfa vitale di ogni sinistra possibile. Rientrano in questo quadro lo scollamento vertiginoso delle masse ripetto alle cosiddette élite, la sfiducia montante veso ogni ceto politico, la diffidenza crescente verso il tradimento delle classi ricche che, sempre più isolate in mondi dorati, lasciano andare alla deriva il resto. Per ragioni evidenti, e discusse in questo lavoro, tutto ciò non può darsi all’immediato con la ripresa di una qualche prospettiva anticapitalista, ma deve attingere a confuse, contraddittorie, spurie idee e pratiche democratiche – solo, di un democraticismo plebeo tendente al sanculottismo, terrore di ogni liberale degno di questo nome – con le quali cercare di porre rimedio, con una rabbia sorda e spesso disperata, a quella che è oramai una vera e propria disconnessione tra la riproduzione sistemica capitalistica basata sul capitale fittizio e la riproduzione sociale e di una natura sempre più devastate. La mobilitazione dei gilets jaunes – per richiamare quella che si è rivelata finora in Occidente la più combattiva e significativa mobilitazione dalle caratteristiche neopopuliste – è eloquente al riguardo.

La complicazione è che non siamo alla ricomposizione di un nuovo soggetto sociale unitario e trainante, o ai primi confusi segnali di una ricomposizione a venire. Siano alla s/composizione definitiva del soggetto proletario già frantumato dai processi di ristrutturazione capitalistica seguiti al lungo Sessantotto, e atomizzato dalla successiva globalizzazione finanziaria. L’ambivalenza caratteristica dei neopopulismi dal basso sta così nel loro essere espressione d’istanze di classe, ma di una classe iperproletaria liquida, sciolta nella completa subordinazione al rapporto di capitale, di cui pure sente il peso sempre maggiore. L’umanità che rimane – comunque la si voglia definire – deve in qualche modo reagire, non può più vivere come prima, e in alcuni, ancora isolati, casi di mobilitazione che vanno oltre l’urna elettorale, inizia a non voler più vivere come prima. La direzione che assumono queste spinte è per un verso molto al di sotto di quanto abbiamo conosciuto in passato come antagonismo di classe. Potremmo anche tranquillamente dire: infinitamente al di sotto. Ma proprio perché, con un passaggio al limite, è il terreno stesso del confronto che si è dislocato in avanti: non più classe contro classe, già espressione del rapporto contraddittorio e però inscindibile tra capitale e lavoro per soluzioni di compromesso sul terreno comune dello sviluppo, ma in nuce ricerca a tentoni di soluzioni comuni per una comunità senza classi da costituire di fronte al disastro che avanza. Il terreno della contrapposizione è dunque potenzialmente molto più avanzato, più vicino ai nodi profondi della riproduzione di una società sottratta ai meccanismi della competizione e dell’isolamento atomizzante. […]

La dialettica reazione-progresso in Occidente si è definitivamente rotta, come quella ad essa sottesa lotte proletarie-sviluppo capitalistico.
Non siamo di fronte a spinte e tendenze contingenti. Di qui bisogna passare, piaccia o non piaccia. Cittadinismo e sovranismo sono le due matrici, per lo più intrecciate tra di loro, confluite finora nelle variegate spinte neopopuliste. Oggi si può avanzare l’ipotesi che un primo tempo di questa dinamica sta volgendo alla conclusione: da un alto la mobilitazione prevalentemente elettorale ha dato quello che poteva dare e formare nuovi, stabili blocchi sociali si rivela oltremodo difficile; dall’altro, la reazione dei poteri forti globalisti porta los contro sul terreno più duro, mentre la crisi va avanti e con essa le tensioni geopolitiche dentro l’Occidente e tra esso e il resto del mondo. Ci aspetta allora con ogni probabilità un secondo tempo, più declinato verso un nazionalismo più crudo con basi sociali anche proletarie, indice di un inasprimento sia dello scontro sociale interno ai paesi occidentali sia di quello esterno tra gli interessi divergenti dei diversi Stati. I segnali ci sono tutti. Del resto, si dimentica spesso e volentieri che la deriva nazionalista è sempre stata un rischio, e più che solo un rischio, interno allo stesso movimento operaio. Financo nelle forme democratiche del compromesso sociale salariale e welfaristico che, fino a prova contraria, hanno nazionalizzato le masse lavoratrici in un modo più stabile di quanto non avessero conseguito i fascismi. Oggi, siamo però in una fase diversissima: non è in gioco l’integrazione delle masse ma, causa la crisi della globalizzazione, la disintegrazione del tessuto sociale che le ha fin qui tenute avvinte al mercato relativamente regolato dei paesi imperialisti. Il punto è che questa deriva si pone, attenzione, sulla medesima direttrice della ripresa possibile di una più forte mobilitazione sociale, di una massificazione del disagio e della ricerca di vie d’uscita, dagli esiti apertissimi, con varchi che si apriranno anche per soluzioni oggi impensabili.

Siamo, cioè, in una situazione che, a voler scomodare paragoni storici, ricorda un po’ più la Prima Guerra Mondiale -tra conflitti inter-imperialistici, nazionalizzazione del proletariato e però anche possibilità rivoluzionarie – che non la Seconda, chiusa fin dall’inizio a ogni possibile ribaltamento dell’ordine capitalistico nonostante fosse il prodotto di una sua profondissima crisi.
Le forme concrete, politiche e geopolitiche, che questo processo assumerà sono tutte da vedere.


  1. R. Sciortino, Obama nella crisi globale (Asterios 2010) e Eurocrisi, Eurobond e lotta sul debito (Asterios 2011)  

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La regola che conferma la regola https://www.carmillaonline.com/2019/04/07/la-regola-che-conferma-la-regola/ Sun, 07 Apr 2019 21:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51958 di Alessandra Daniele

C’è una regola aurea che vale sia in amore che in politica: chi ti dà sempre ragione vuole fotterti. Sia che venga da destra, dal centro, dalla sinistra (o presunta tale) da una Chiesa, dalla Rete, dai movimenti reali o virtuali, chi ti dà sempre ragione, anche (e soprattutto) quando palesemente hai torto, vuole fotterti. Chi ti dice che il tuo è il paese più bello del mondo, che hai tutto il diritto di odiare i profughi (africani) perché il tuo padroncino (brianzolo) sfrutta te (e loro), chi ti applaude sia quando fai la raccolta differenziata che quando bruci [...]]]> di Alessandra Daniele

C’è una regola aurea che vale sia in amore che in politica: chi ti dà sempre ragione vuole fotterti.
Sia che venga da destra, dal centro, dalla sinistra (o presunta tale) da una Chiesa, dalla Rete, dai movimenti reali o virtuali, chi ti dà sempre ragione, anche (e soprattutto) quando palesemente hai torto, vuole fotterti.
Chi ti dice che il tuo è il paese più bello del mondo, che hai tutto il diritto di odiare i profughi (africani) perché il tuo padroncino (brianzolo) sfrutta te (e loro), chi ti applaude sia quando fai la raccolta differenziata che quando bruci i cassonetti, chi dà sempre a qualcun altro – gli stranieri, i banchieri, i tappezzieri – la colpa delle cazzate che combini, vuole fotterti.
Salirti sulla testa, e usarti come gradino per arrivare al successo, al denaro, al potere.
Chi ti blandisce, ti adula, ti istiga, ti giustifica, alimenta i tuoi istinti più bassi e le tue speranze più assurde, chi ti dice sempre quello che vuoi sentire, scrive sempre quello che vuoi leggere, e sostiene sempre tutte le stronzate che preferisci credere, sta cercando di fotterti.
Si dice che i sovranisti siano invisi al capitale.
È una stronzata.
Il capitale adora i sovranisti, perché dirottano la rabbia popolare su capri espiatori e bersagli simbolici, e mantengono comunque le masse all’interno del recinto dell’economia di mercato che è la vera causa della loro miseria.
Inoltre uno spezzatino di nazioni isolate e litigiose è la preda ideale per l’imperialismo politico-economico delle grandi potenze.
Come s’è visto, il talento dei grillini negli affari coll’estero è credibile quanto il loro antifascismo.
Di Maio che s’accorge improvvisamente delle inclinazioni fasciste di Salvini è credibile quanto quelle mogli che sostengono di non essersi mai accorte di nulla mentre il marito abusava sistematicamente dei loro figli. Di solito il magistrato non se la beve.
Si dice che la famiglia tradizionale sia invisa al capitale.
È una stronzata.
Il capitale adora la famiglia – di qualsiasi tipo – perché consuma più dei single. Chi ha famiglia compra pannolini, vestitini, libri scolastici, giocattoli, compra più elettrodomestici, più mobili, più cellulari, chi ha famiglia compra appartamenti e automobili familiari.
Chi ha figli da mantenere è più disponibile a farsi sfruttare.
Tutti gli spot pubblicitari ritraggono famiglie felici e numerose. Il familismo non è solo un veicolo per vendere prodotti, è il primo prodotto che viene venduto.
Se non hai ancora i soldi per mettere su famiglia non è perché il capitale ti voglia single, ma perché sa che pur di guadagnarli lavorerai ancora di più, e rinuncerai anche a quei pochi diritti che ti sono rimasti.
Chi ti dice che hai ragione a credere alle stronzate altrui, sta cercando di farti credere anche alle sue.
Che sia un filosofo (o presunto tale), un trapper, un influencer, o un ministro (o presunto tale) la regola non ha eccezioni. Chi ti dà sempre ragione vuole fotterti.

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Una guerra civile ancora invisibile https://www.carmillaonline.com/2019/04/04/una-guerra-civile-apparentemente-invisibile/ Wed, 03 Apr 2019 22:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51498 di Sandro Moiso

Marco Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino 2019, pp. 224, 14,00 euro

Nell’attuale buriana di riflessioni, più ideologiche che seriamente politiche, foriere più di confusione che di chiarezza, la riunificazione e la rielaborazione in un unico volume di tre saggi di Marco Revelli già precedentemente apparsi in libreria appare davvero come cosa utile e necessaria. Si tratta infatti di Populismo 2.0 (Einaudi 2017), Finale di partito (Einaudi 2016) e Poveri noi (Einaudi 2010) e fin dai titoli si comprende come siano tutti indirizzati a comprendere [...]]]> di Sandro Moiso

Marco Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino 2019, pp. 224, 14,00 euro

Nell’attuale buriana di riflessioni, più ideologiche che seriamente politiche, foriere più di confusione che di chiarezza, la riunificazione e la rielaborazione in un unico volume di tre saggi di Marco Revelli già precedentemente apparsi in libreria appare davvero come cosa utile e necessaria. Si tratta infatti di Populismo 2.0 (Einaudi 2017), Finale di partito (Einaudi 2016) e Poveri noi (Einaudi 2010) e fin dai titoli si comprende come siano tutti indirizzati a comprendere la rinascita del fenomeno populista e la crisi dei partiti politici così come si sono caratterizzati nel corso del ‘900 (in particolare di quelli di ‘”sinistra”) nel corso dell’ultimo decennio. Guarda caso quello determinato, socialmente e politicamente, dalla più grave crisi economica successiva a quella del 1929 e sicuramente non inferiore alla prima sia in termini qualitativi che quantitativi (miliardi di dollari e di euro perduti, disoccupazione, riduzione degli apparati produttivi e fallimenti bancari e aziendali).

Revelli, docente di Scienze della Politica presso l’Università del Piemonte orientale, costituisce una delle poche voci superstiti e menti ancora lucide dell’esperienza torinese di Lotta Continua e la parte migliore di quell’ormai lontana stagione politica si riflette nell’attenzione con cui l’attuale insorgenza di movimenti anomali e potenzialmente fascisti viene esaminata non a partire da principi assoluti e universali, ma dalle reali cause economiche e sociali che li hanno determinati. Così come, ad esempio, quel gruppo politico, scomparso a Rimini nel 1976, aveva cercato già di fare nei confronti del malessere del Meridione d’Italia a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, da quello indirettamente manifestato dal sottoproletariato napoletano fino ai fatti di Reggio Calabria e ai boia chi molla che ne avevano preso in mano le redini.

Oggi come allora, infatti, non si tratta soltanto di storcere il naso davanti alle espressioni politiche e ai comportamenti delle plebi in rivolta, nascondendosi sostanzialmente dietro ad uno sventolio di bandiere rosso-pallide e a dichiarazioni e parole d’ordine di carattere generale come quelle espresse da Nicola Zingaretti subito dopo la sua elezione a nuovo segretario del PD, secondo il quale le tre parole chiave per l’azione della sinistra, oltre a quella della realizzazione del TAV Torino-Lione, dovranno essere “scienza, società e giustizia”, lasciando invece cadere qualsiasi proposta riguardante l’istituzione di un salario minimo, ritenuta una trappola (forse per gli imprenditori) dal fratello, caratterizzato soltanto da un indice di gradimento decisamente inferiore, del commissario Montalbano.

Si tratta piuttosto, ed è proprio quello che Revelli fa nei suoi saggi, di comprendere come l’attuale rinascita del populismo derivi dall’affanno e dalle difficoltà economiche in cui è venuta a trovarsi una significativa parte dell’ex-classe media (comprensiva di larghi settori di classe operaia garantita) e dalle mancate risposte che i partiti della tradizione novecentesca non hanno saputo dare alle domande di sicurezza (soprattutto economica e lavorativa) e di prospettive che da tale settore sociale sono pervenute in maniera sempre più urgente e ultimativa.

Risposte che nemmeno una parte consistente della “sinistra” sedicente antagonista ha saputo dare, trovando forse più facile affiancare le parole d’ordine e i principi generali espressi da quella istituzionale. Facendo magari anche finta che un problema come quello dell’accoglienza dei migranti possa essere affrontato seriamente insieme a chi non solo ha collaborato alla realizzazione dei campi di concentramento in Libia, ma ha anche ampiamente utilizzato la manovalanza a bassissimo costo venutasi a determinare a seguito delle migrazioni ai fini dei profitti delle proprie aziende e cooperative. Magari nel settore della distribuzione della pubblicità in buca o altri settori a bassissimo o nullo investimento.

Una sinistra che accontentandosi di sottolineare l’evidente funzione di propaganda elettorale svolta sia da “quota 100” che dal reddito di cittadinanza, non si chiede mai, ma proprio mai, perché siano questi due provvedimenti a suscitare maggiormente le ire e le contrarietà della Commissione europea, dell’Ocse e di Confindustria. Evitando così di parlare di come questi provvedimenti possano raggiungere il loro obiettivo politico proprio in grazia del bassissimo livello dei salari e delle scarse garanzie sociali e lavorative che caratterizzano ormai la seconda economia manifatturiera d’Europa.1

Bassi salari e scarse garanzie a favore dei lavoratori che costituiscono la vera attrattiva per l’investimento estero in Italia, altro che infrastrutture e legalità, costantemente sventolate come necessità (si pensi al Tav) soltanto per permettere alla classe imprenditoriale più scalcagnata d’Europa di accedere in maniera quasi gratuita ai finanziamenti europei. Basti come esempio la fretta espressa da Confindustria e gran parte dell’arco parlamentare di giungere ad una prima decisione sui bandi di Telt, non tanto per realizzare davvero l’opera inutile e costosa, ma soltanto per iniziare ad accedere senza riduzioni di sorta agli 813 milioni di finanziamenti europei in scadenza.

Esempio che fa il paio con la richiesta di aumento della turnazione che la Fiat-FCA ha avanzato nei confronti degli operai dello stabilimento di Pomigliano, pur continuando a lasciare a casa, naturalmente a spese dello Stato, dell’INPS e degli operai stessi, quelli precedentemente messi in cassa integrazione. Stato, INPS, buste paga ridotte e finanziamenti europei usati davvero come bancomat per le imprese italiane, ancora una volta senza che alcun demagogo di sinistra abbia qualcosa da ridire o argomenti su cui ironizzare.

Ora il testo di Revelli si libra un po’ più in alto rispetto a tali scontate riflessioni e allo stesso tempo si addentra più in profondità nel malessere, spesso agitato da una rabbia sorda, che sta alla base di un cambiamento di segno politico, quello avvenuto con il diffondersi delle simpatie nei confronti dei partiti populisti e sovranisti, che non appartiene al solito ricambio elettorale, ma che sarà destinato a segnare una non breve stagione politica, sia in Italia che in Europa.

Proprio su questo aspetto, e non sui singoli personaggi o partiti, punta il dito e dirige l’attenzione del lettore il testo di Revelli. Sia quando affronta l’analisi sociologica e territoriale del voto pro o contro la Brexit, sia quando nella prima parte della terza sezione, quella tratta da Poveri Noi, ed intitolata significativamente La terza chiave. La guerra non vista, prende spunto proprio dalla crisi dei mutui subprime del 2008 per giungere alla situazione italiana attuale e al successo di Donald Trump o, almeno, alle ragioni del suo elettorato nelle ultime presidenziali americane.
Un elettorato che si è sentito definire con disprezzo deplorable, plebeo, dalla candidata democratica Hillary Clinton e che già si era sentito respinto tra i white trash dalla crisi economica e finanziaria.

“Noi tutti ci siamo misurati con la crisi, con quella che meccanicamente chiamavamo la crisi economica. Ma ho l’impressione che non si abbia bene l’idea della dimensione del terremoto sociale prodotto dalla recessione in Occidente dal 2007 al 2014-15, a cominciare dall’epicentro dal quale è partita, dagli Stati Uniti, con l’esplosione dei mutui subprime. Quella tempesta quasi perfetta ha prodotto uno spostamento sociale paragonabile a una guerra.”2

Prosegue poi Revelli:

“Si calcola che negli anni di picco della crisi, dal 2007 al 2012, quasi un adulto americano su venti abbia perso la casa a causa dell’incapacità di pagare i mutui. Ciò equivale a più di dieci milioni di persone. In prevalenza capifamiglia, o monogenitori con figli. Dieci milioni di famiglie vuol dire una trentina di milioni di persone che hanno perso il loro bene comune più prezioso a causa di una dissennata ( e nella sostanza criminale) politica sui mutui e le compravendite messa in campo da istituzioni finanziarie, banche e agenti immobiliari senza scrupoli. A questi numeri, già drammatici, vanno aggiunti poi tutti quelli che – non proprietari, ma affittuari – sono stati buttati fuori per morosità, perché il salario non era sufficiente a pagare l’affitto o perché la perdita del lavoro li aveva privati del reddito. […] Ancora nel 2016 si sono registrate negli Stati Uniti 2.300.000 intimazioni di sfratto. Una tragedia sociale che ha generato una mutazione demografica senza precedenti; dovuta a una migrazione di proporzioni bibliche […] Un esodo più massiccio di quello avvenuto durante il Dust Bowl: la catastrofica crisi agraria che colpì gli Stati Uniti e il Canada tra il 1931 e il 1939 a causa di violente tempeste di sabbia,3 e che provocò lo spostamento dalle Grandi Pianure di 2 milioni e mezzo di contadini.”4

Questo esodo massiccio, simile a quello causato da una guerra ufficialmente mai dichiarata, ha avuto aspetti militari e sociali le cui vittime non erano assolutamente preparate ad affrontare. Né a livello pratico né a livello di possibile immaginario.
Il primo aspetto ha visto infatti nascere intorno al “fenomeno degli sfratti un vero e proprio sistema con squadre di sceriffi il cui lavoro a tempo pieno è quello di eseguire gli ordini di sfratto e di pignoramento, con aziende di traslochi specializzati i cui equipaggi lavorano tutto il giorno, ogni giorno della settimana, con centinaia di società di data mining che vendono rapporti sugli inquilini.”5

Il secondo prende avvio dagli istanti immediatamente seguenti l’esecuzione dello sfratto quando tutti gli averi degli sfrattati “sono abbandonati sul marciapiede dai facchini o caricati su un camion e portati in un deposito a pagamento, fino alla ricerca di una nuova abitazione in un quartiere più lontano, più degradato, più insicuro.”6

L’esodo degli sfrattati genera quindi:

“Un movimento non lineare (a raggiera), frattale (a macchie di leopardo), centrifugo (dai centri alle periferie). Ma soprattutto selettivo, al punto da invertire la tendenza verso l’integrazione registrata nel corso dei precedenti decenni. Gli espropri delle case per mancato pagamento delle rate dei mutui hanno infatti riguardato soprattutto la classe media bianca e le frazioni di altre etnie desiderose di ascesa, spingendo le famiglie colpite verso quartieri più periferici e degradati, aggravandone il senso di abbandono e accentuandone la conflittualità orizzontale con gli altri poveri”7

Una proletarizzazione violenta e rapidissima che, come è facile immaginare, ha portato sfiducia e timore anche tra coloro che pur appartenendo allo stesso strato sociale non sono ancora stati toccati dal problema ma che lo hanno visto delinearsi improvvisamente come possibilità sul limitare del proprio orizzonte. Un mutamento profondo della faccia triste dell’America che si va a sommare all’evaporazione della centralità del settore manifatturiero nei paesi a capitalismo maturo.

“Non si tratta solo dei disoccupati. Si tratta anche di uomini e donne che, pur avendo un lavoro – pur essendo tra i «fortunati» -, tuttavia sono e restano in condizioni di povertà. Sono poveri che lavorano.”8 Così negli Stati Uniti “gli americani censiti come poverissimi, in quanto titolari di un reddito di oltre la metà inferiore alla soglia di povertà federale, sono 21 milioni, mentre quelli semplicemente poveri perché fanno fatica a far fronte ai bisogni più elementari raggiungono adirittura i 105 milioni, circa un terzo della popolazione.”9

Si tratta di coloro che spendono più del 70% (la categoria di poveri oggi in maggiore espansione) del loro salario per pagare una affitto che, prima o poi, non riusciranno più a pagare; di mamme sole, soprattutto nere, con bambini che hanno maggiori difficoltà a trovare un lavoro compatibile con i loro impegno di madri; in altri casi di operai bianchi dequalificati, ex-manovalanza delle aree siderurgiche e minerarie della rust belt e che sono quelli che peggio sopportano il proprio impoverimento perché abituati a considerarsi come la spina dorsale del paese.
Settori sociali ai quali i miti dei diritti universali, dal femminismo alla Me Too al generico antirazzismo, non possono dare risposta e che, troppo spesso, servono soltanto ad aumentare il loro senso di distanza ed isolamento, con tutta la rabbia, la frustrazione e le paure che tutto ciò comporta.

A conferma e aggiornamento dei dati fin qui riportati basti ricordare come proprio in queste ultime settimane la Fed abbia riscontrato, con “stupore”, che almeno 7 milioni di americani, in gran parte under 30, hanno smesso di pagare anche le rate contratte per l’acquisto dell’auto, nuova o usata che questa sia.(qui)

Ma se è sempre giusto parlare della crisi politica, sociale ed economica a partire dal centro dell’economia Occidentale perché come avrebbe detto Marx “il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato il suo avvenire”, occorre adesso, in chiusura, confrontare i dati fin qui esposti con quelli italiani.
E anche in questo caso il libro di Revelli si rivela utile e ricco di informazioni. Anche in grazia del fatto che l’autore si è occupato del problema della povertà come presidente della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale (Cies).

Nel 2006 era già possibile rilevare che

“a fronte di un tasso di povertà relativa di per sé preoccupante (7.537.000 persone, il 12,9% dell’intera popolazione), la percentuale di famiglie povere con capofamiglia occupato (breadwinner) era in modo anomalo elevato (quasi un quarto dell’insieme). La situazione non era migliore se a lavorare erano due membri […] Nei due anni successivi s’incominciò a utilizzare anche l’indicatore di «povertà assoluta» da cui risultò che nel 2008 le persone in tale condizione erano 2.893.000 (pari al 4,9% della popolazione) […] dati che non sono ancora nulla, rispetto a quanto registra l’Istat per il periodo più recente: nel 2017 le persone in condizione di povertà assoluta sono arrivate alla cifra record di 5.058.000. l’8,4% della popolazione, quasi il doppio rispetto a dieci anni prima e giungono a sfiorare il 12% tra le famiglie operaie (dove il tasso di povertà relativa è addirittura del 19,5%) […] Anche in Italia questo processo non è stato solo una forma di erosione del reddito, è stato anche un processo di lacerazione dell’autostima, di cancellazione dell’identità collettiva e dell’identità individuale, è stato un processo di rottura dei sistemi di relazione e dei legami sociali. La folla che ha lasciato dietro di sé questa crisi è una folla solitaria: un’enorme massa di individui che si sentono abbandonati. […] E potremmo aggiungere, traditi. Ingannati. Defraudati. Da tutti.” 10

Un’autentica folla di profughi interni, in Italia come negli Stati Uniti, composta dalle vittime di una guerra civile dichiarata dalla finanza e dall’imprenditoria contro i lavoratori e i poveri. Una guerra civile il cui scopo era, e rimane, quello di accumulare sempre più ricchezza ad un polo soltanto della società, sempre più ristretto. Un problema di ricerca di identità, collettiva e personale, di pratiche di lotta e rivendicazione, di opposizione ai governi dell’esistente e di organizzazione sul territorio cui non basterà, e non basta già più, rispondere con frasi fatte o, peggio ancora di scherno e superiorità, pena il contribuire a trasformare questa massa di diseredati autentici nell’autentica massa di manovra di un sovranismo sempre più autoritario, fascista, razzista e guerrafondaio.


  1. Soltanto per fare un esempio: in Francia, subito dopo le prime manifestazioni dei gilets jaunes il governo ha portato il salario minimo a più di 1200 euro netti, mentre qui da noi gli aventi diritto al reddito di cittadinanza potranno rifiutare ogni impiego con una paga proposta inferiore agli 858 euro mensili.  

  2. M. Revelli, La politica senza politica, Einaudi 2019, p. 177  

  3. Un autentico disastro ambientale causato dall’impoverimento del terreno agricolo a seguito del suo ipersfruttamento, soprattutto in Oklahoma – NdR  

  4. M. Revelli, op.cit., pp. 177-179  

  5. Ibidem, p.178  

  6. Ibid., p. 178 

  7. Ibid., p. 179  

  8. ibid., p. 180  

  9. ibid., . 181  

  10. ibid., pp. 182-183  

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