soprannaturale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il soprannaturale come strumento di libertà https://www.carmillaonline.com/2022/04/06/il-soprannaturale-come-strumento-di-liberta/ Wed, 06 Apr 2022 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71296 di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti [...]]]> di Paolo Lago

Paolo Zanotti, Trovate Ortensia!, Ponte alle Grazie, Milano, 2021, pp. 486, euro 22,00.

Trovate Ortensia! è un romanzo polifonico nel senso che possiede una pluralità di voci nel testo, secondo la definizione offerta da Michail Bachtin soprattutto in relazione ai romanzi di Dostoevskij. Si tratta di un’opera animata da più punti di vista, da più voci che si intrecciano e entrano in conflitto tra loro. Ma è anche un’opera aperta a una pluralità di stili e di registri nonché a una pluralità di ispirazioni. Non sono pochi, cioè, i riferimenti letterari sui quali è imbastita la sua tessitura narrativa. Il romanzo giunge solo ora alle stampe ma è stato scritto circa vent’anni fa, sul finire degli anni Novanta, da uno dei più originali scrittori e saggisti contemporanei, Paolo Zanotti, scomparso prematuramente nel 2012.

La vicenda si svolge a Pisa, nell’ambiente universitario della seconda metà degli anni Novanta (lo stesso vissuto dall’autore e, fra parentesi, anche dal sottoscritto). A creare scompiglio fra i personaggi principali del racconto (Florian, regista del teatro “Sant’Andrea”, la sua fidanzata Emilia, l’ingegnoso Luca, il poeta Giacomo, il “seduttore punito” Simone, Oreste e Lodovico, padri rispettivamente di Florian e di Emilia), a un certo punto, sopraggiunge una bellissima ragazza sconosciuta, Ortensia, la cui identità è sfuggente e non definibile dal momento che assume anche nomi diversi a seconda della situazione, Viola, Lisa, Arabella. Ortensia è un personaggio fluido, nomadico, caratterizzato da una propensione naturale all’erranza, soprattutto notturna, aperto a una pluralità di ruoli e di identità ed è caratterizzato da tratti soprannaturali tanto da essere connotato, in diversi momenti, come una vampira. Anche un altro personaggio, Emilia, possiede in sé una fluidità di genere che si oppone al rigido schematismo maschile-femminile. A un certo punto, infatti, per mezzo di una vera e propria metamorfosi transgender, la ragazza si tramuterà – fasciandosi i seni e indossando abiti maschili, quasi come la protagonista del film Titane (2021) di Julia Ducournau – nel fantomatico fratello Edoardo, che ha abbandonato da anni la casa paterna per vivere all’estero.

E sul palcoscenico pisano (importanti, come vedremo, sono i riferimenti al teatro) agisce una sarabanda di personaggi che sembrano muoversi ininterrottamente da una parte all’altra della città, in un impianto narrativo tenuto saldamente insieme da una struttura di tipo picaresco. Il soprannaturale, però, non si insinua nella narrazione solo tramite il personaggio di Ortensia: ci sono altri personaggi evanescenti, eterei, onirici, connotati anche da una venatura a metà fra il diabolico e il buffonesco, come Tancredi, il gatto parlante di Florian, con tanto di stivali, che si esprime con una elegante cadenza francese da moschettiere, o come Titti e Osvaldo, i “fratellini infernali”, o il personaggio ambiguo e sfuggente di Francesco Paolo o, ancora, il misterioso Hermann Salice Contessa.

Chissà se, tra le fonti di ispirazione di Zanotti, figura anche Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, uno dei più grandi scrittori russi contemporanei, nato a Kiev nel 1891. L’atmosfera fiabesca e onirica che si respira in Trovate Ortensia!, venata di soprannaturale, ricorda molto quella che ci avvolge se sfogliamo le pagine del capolavoro dell’autore russo. Secondo Francesco Orlando, “il soprannaturale è qui prima di tutto scatenamento dei precedenti leggendari dentro il quotidiano”1. Nella quotidianità della Mosca degli anni Trenta fanno irruzione una serie di personaggi dai tratti soprannaturali: Woland, un misterioso professore straniero esperto di magia nera (che altri non è se non il Diavolo in persona) e i suoi accoliti, tra cui incontriamo l’enorme gatto Behemoth che, insieme a Korov’ev (Fagotto) crea scompiglio in tutta Mosca con i suoi poteri magici; poi Azazello, che porta sempre un pince-nez con un vetro rotto, Hella, un vampiro femmina il cui nome è un chiaro riferimento a “Hell”, “inferno” e, infine, Abadonna, signore della guerra e servo di Woland. Secondo Orlando, questo romanzo “propugna anche di fatto una solidarietà tra soprannaturale e letteratura, dimensione privilegiata del diritto alla fantasia e alla libertà”2.

Anche il soprannaturale che pervade le pagine di Trovate Ortensia! dischiude una dimensione di fantasia e libertà: apre al lettore un immaginario liberato e trasforma i momenti quotidiani di una città in una sospensione magica e incantata, attraversata in alcuni momenti da connotazioni veramente orrorifiche e infernali. Come già accennato, i personaggi sono persi in un vortice nomadico e picaresco, impegnati in scorribande cittadine che diventano viaggi onirici e fiabeschi in spazi senza confini. Come sempre osserva Orlando, rifacendosi alle teorie freudiane, “come i giochi del bambino, la letteratura apre uno spazio immaginario fondato sulla sospensione o neutralizzazione della differenza tra vero e falso, uno spazio in cui vige il diritto di rispondere al piacere dell’immaginario”3. In uno spazio aperto ad un immaginario liberato si muovono anche i piccoli protagonisti di Bambini bonsai (2010), in cui Zanotti racconta con grazia e maestria il viaggio di Pepe e altri bambini in un futuro post-apocalittico e eco-distopico, verso la “casa-nave” di Petronella. In Trovate Ortensia! non sono solo i tratti soprannaturali a dischiudere una dimensione di fantasia e di libertà ma anche la stessa struttura “polifonica” della narrazione. Sono anche le svariate voci che agiscono nel racconto a offrire spazi di libertà, sono anche i diversi registri stilistici e lessicali, aperti verso un pastiche quasi gaddiano che bene ingloba nella narrazione parole ed espressioni del vernacolo pisano (i cui termini sono spiegati in un glossario alla fine del libro), a plasmare nuove aperture verso il piacere dell’immaginario. E, non da ultimo, a permettere le vie di accesso a una fantasia liberata è anche la natura enciclopedica dell’opera, cui si è già accennato, quella pluralità di generi e di autori che si nascondono dietro la tessitura narrativa.

Una natura enciclopedica che è riscontrabile fin dal titolo, il quale è una vera e propria citazione da Rimbaud, da H, un componimento delle Illuminazioni – nel quale l’enigmatica figura femminile è caratterizzata da “mostruosità” e “gesti atroci” – che si conclude proprio con le parole “trovate Ortensia” (“trouvez Hortense”). Del resto, un preciso rimando a Rimbaud lo possiede anche il personaggio di Florian, caratterizzato, durante uno dei suoi vagabondaggi per la città, come un “Pollicino rêveur incapace di rintracciare il filo della prossima mollica”. In La mia bohème, è lo stesso poeta francese a definirsi come un “Petit-Poucet rêveur” (“Pollicino sognatore”) mentre vagabonda per strade e osterie nelle notti di settembre. Il romanzo ritrovato di Zanotti è costellato anche da criptocitazioni, le quali, parafrasate, si inseriscono quasi naturalmente all’interno della narrazione, perfettamente inglobate e ‘naturalizzate’ nel testo ospitante. Ad esempio, nel momento in cui Francesco Paolo, nel suo giardino, è intento a sfogliare un libro sul Madagascar, sopraggiunge Ortensia come un’apparizione fantasmatica e l’autore commenta: “Perché gli spettri ti possiedano non c’è bisogno di una stanza, non c’è bisogno di essere una casa”, frase che appare quasi come una parafrasi dei seguenti versi di Emily Dickinson: “Non occorre esser camera né casa / per sentirsi invasati dallo Spettro” (One need not to be a chamber – to be Haunted / One not to be a House”).

Una spiccata letterarietà di fondo non risparmia neppure certe descrizioni trasognate dei personaggi. Nel momento in cui Emilia e Florian si incontrano per la prima volta, la reciproca attrazione che li travolge è rivestita di connotazioni romantiche venate di letteratura. Infatti, “Emilia era bella come una reincarnazione di Emilia Viviani, la Rapunzel dell’Ottocento rinchiusa nel convento di Sant’Anna e amata dal poeta Shelley esiliato a Pisa: Emilia Viviani, l’«anima amante che si slancia fuori del creato e si crea nel infinito un Mondo tutto per essa diverso assai da questo oscuro e pauroso baratro»”. Se Florian, nel guardare Emilia, possiede un filtro romantico e letterario, anche la ragazza, nel momento in cui vede il giovane per la prima volta, non è da meno: “E a questa apparenza di anima bella corrispondevano pensieri altrettanto romantici, se anche Emilia era riuscita allora a vedere in Florian, nei suoi riccioli e nella sua barba che sapeva di mare l’ultimo fiore di una lunga genìa di viaggiatori, pirati, avventurieri, liberatori della Grecia, garibaldini, anarchici cavalieri dell’ideale, partigiani, sessantottini e più in generale combattenti per la libertà”. Anche le descrizioni della città di Pisa sono incastonate in una dimensione letteraria e incantata. Se nella frase “in questo periodo, le notti di Pisa hanno qualcosa delle notti bianche”, la città toscana è immediatamente accostata all’immaginifica Pietroburgo di Dostoevskij, in quest’altro brano un po’ più lungo, la città, sotto lo sguardo di Ortensia, si trasforma letteralmente in uno scenario da romanzo:

Per le strade di Pisa, intanto, Ortensia cammina col suo passo ciondolante, eppure svelto e snello. Di tanto in tanto, senza fermarsi, sorride e ridacchia. Percorre via Vittorio Veneto, e poi via Battelli e via De Amicis fino all’arco e a piazza Gondole. Di lì inizia la scenografia notturna di via Santa Marta, e infine si arriva all’Arno. Dal ponte della Fortezza il fiume si vede più largo che dal ponte di Mezzo. Ci si può anche scendere e trovare un piccolo lembo di terra tra erbosa e sabbiosa. Ortensia si ferma sul ponte, ma guarda in alto. Al di sopra dell’Arno incombe un cielo romanzesco: metà turchino intenso, metà blu cobalto – forse domani pioverà (e forse è quello che stanno pensando tutti). Nella parte più chiara del cielo, le stelle vanno a comporre un percorso prefissato. Un aereo ne costeggia alcune e poi, sotto forma di automobile, si scontra con una stella più luminosa. Ortensia ridacchia e sorride, sorride e ridacchia, poi guarda al vecchio palazzo del lungarno Galilei, si rabbuia e se ne va (pp. 112-113).

Come in un esperimento di geopoetica, le vere strade di Pisa si trasformano in uno scenario narrativo e romanzesco. Con Trovate Ortensia! possiamo insomma divertirci a seguire un personaggio letterario sulla mappa reale di una città, come fa Umberto Eco con Parigi per scoprire “dove abitava quell’individuo reticente e misterioso che era Aramis”4 oppure a ripercorrere dal vero quelle stesse strade nella Pisa contemporanea che, da quella seconda metà anni Novanta, non è poi cambiata così tanto.

Una ben salda caratterizzazione letteraria (e musicale in quanto, in un’occasione, si trasforma quasi nella Marinella della celebre canzone di De André) la possiede anche Ortensia. Nella sua veste di personaggio etereo e fantasmatico viene infatti più volte avvicinata a una vampira. Non a una vampira qualunque, ma a Carmilla, la protagonista dell’eponimo romanzo di Joseph Sheridan Le Fanu del 1872, a cui si ispira anche il nome di questa webzine. I riferimenti alla vampira del romanzo dello scrittore irlandese vengono attuati anche tramite un sottile gioco allusivo, in quanto “Carmilla” è il nome di un locale di Pisa, molto frequentato dagli studenti nel periodo in cui si ambienta il romanzo. Ad esempio, a proposito di Viola-Ortensia così si esprime Luca: “Luca, per sdrammatizzare, gli disse che l’aveva scampata bella, perché questa Viola – che non a caso, beh, era finita al Carmilla – doveva essere tipo una vampira aliena che deve accoppiarsi, e all’uopo cerca il maschio più adatto […]”. E anche di fronte alle avances del “seduttore” Simone, Ortensia ha una reazione quasi vampiresca: “La reazione di Ortensia a queste effusioni si dimostrò, anzi, persino eccessiva, specie quando si chinò sul collo di Simone e iniziò a succhiarlo e baciarlo metodicamente, quasi a fargli male”. Successivamente, la ragazza appare preda di una misteriosa malattia – simile a quella da cui è afflitta Carmilla – che la illanguidisce e la fa dormire molto, rendendola ancora più evanescente ed eterea. Tra l’altro, ammalata, viene condotta a casa di Emilia, la quale le si affeziona nello stesso modo in cui, nel romanzo di Le Fanu, Laura, che vive con il padre in un castello isolato della Stiria, si affeziona alla languida e bellissima protagonista. E, non a caso, una volta che Ortensia si sarà ristabilita, Emilia progetta di portarla proprio al “Carmilla”: “Progetto per il prossimo fine settimana: la metto in tiro e la porto al Carmilla”. Un diretto rimando a Carmilla di Le Fanu è poi attuato da Florian, in riferimento alla possibilità che Arabella e Ortensia possano essere la stessa persona: “Però, se è veramente il suo vampiro, doveva averci il nome anagrammato: Carmilla-Mircalla. Ortensia, invece, non c’incastra con niente”. Si può ricordare che un riferimento alla protagonista del romanzo dello scrittore irlandese lo incontriamo anche in un racconto di Zanotti dal titolo La cella geografica (adesso, insieme ad altri racconti usciti sul “Caffè illustrato” fra il 2004 e il 2010, incluso nella raccolta L’originale di Giorgia e altri racconti, pubblicata nel 2017): qui, l’io narrante riveste di connotazioni quasi demoniche e soprannaturali una sua amica d’infanzia di nome Camilla, chiamata appunto con i due appellativi dei doppi di Carmilla, Mircalla e Millarca, anagrammi del nome della fanciulla vampiro.

Come già accennato, anche la dimensione teatrale riveste una notevole importanza in Trovate Ortensia!. Punto culminante della polifonia espressiva che anima l’intera narrazione è la messa in scena finale al “Sant’Andrea” del Racconto d’Inverno di Shakespeare: il teatro pisano si configura come lo spazio affabulatorio verso il quale convergono le erranze narrative del racconto e che vedrà riuniti tutti i personaggi. Il paradigma teatrale, nel romanzo di Zanotti, non è però rappresentato soltanto dal modello illustre di Shakespeare (pure se diverse opere dell’autore inglese appaiono come importanti ipotesti nel senso delineato da Gérard Genette). Esso compare anche, se così si può dire, in una sua dimensione più umile e popolare incarnandosi in una vera e propria rappresentazione di teatro vernacolare pisano attraversata dal registro stilistico più basso e buffonesco. Memorabile è la scenetta domestica, dominata da trovate comiche espresse con termini dialettali e popolari, che vede protagonisti il signor Lodovico, sua figlia Emilia, il signor Oreste e suo figlio Florian. Lodovico arriverà poi a trasformarsi quasi in un re che tiene imprigionata la figlia nella torre del suo castello per impedirle la frequentazione del pretendente Florian. Allora si scateneranno duelli, singolar tenzoni, avventure degne di un romanzo cavalleresco, monologhi drammatici in una granduignolesca mescolanza fra alto e basso.

Ogni dimensione narrativa appare dolcemente pervasa da un soprannaturale che, alleandosi con la letteratura, come osservava Orlando riguardo al Maestro e Margherita, permette il dischiudersi di un irrinunciabile diritto alla fantasia e alla libertà. È qui, credo, che risiede l’aspetto più significativo di Trovate Ortensia!, un vero e proprio gioiello letterario che finora era rimasto nascosto e che adesso, come un dispettoso e salvifico folletto, è riemerso dalle brume degli anni Novanta. E davvero, ai giorni nostri, c’è più che mai bisogno di una letteratura che, per mezzo di un immaginario venato di soprannaturale, possa offrire inediti slanci di liberazione a percorsi fin troppo obbligati. E allora ci rendiamo conto di quanto ci manca, oggi, la magica penna di Paolo Zanotti.


  1. F. Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, Einaudi, Torino, 2017, p. 159. 

  2. Ivi, p. 162. 

  3. Ivi, p. 22. 

  4. U. Eco, Lo strano caso di via Servandoni, in Id., Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, Bompiani, Milano, 1995, p. 124. 

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La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/08/31/la-costruzione-dellimmaginario-seriale-contemporaneo/ Mon, 31 Aug 2015 21:30:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24453 di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in [...]]]> di Gioacchino Toni

immaginario_seriale_contemporaneoSara Martin, a cura di, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 187 pagine, € 16,00

Gli studi sulle serie televisive presentati dal volume curato da Sara Martin, si sviluppano dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea. La serialità viene analizzata a partire dal concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, che individua con tale termine “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano” (M. Foucault, Eterotopia, Mimesis 2010). Pertanto, la televisione, può essere individuata come “l’eterotopia per eccellenza”, nella sua continua giustapposizione, in un luogo reale, di spazi che generalmente sarebbero incompatibili. Il processo di costruzione di un nuovo immaginario dei mondi seriali, secondo la curatrice del volume, ricorre a spazi anomali entro i quali i personaggi agiscono al fine di “proteggere la dimensione di chiusura dell’eterotopia, in cui si collocano, restii (o impossibilitati) a concedere l’ingresso degli altri spazi al loro interno”. Due le forme assunte dalle eterotopie definite da Foucault: “eterotopie di crisi” ed “eterotopie di deviazione”. Nel primo caso si tratta di luoghi riservati a chi, in relazione alla società, si trova in stato di crisi, nel secondo si tratta invece di quegli spazi in cui vengono collocati i devianti rispetto alle norme imposte (cliniche psichiatriche, carceri…). Il volume ragiona su questa seconda forma, “indagando la scrittura e la costruzione di luoghi e personaggi altri”.

Nell’immaginario prodotto da alcune serie si hanno rappresentazioni del mondo che portano lo spettatore a vivere esperienze affettivo-sensoriali fantastiche in grado, in taluni casi, di essere strumento di comprensione della realtà. In altri termini si può dire che diventano dei miti in grado di inglobare lo spazio dello spettatore trasformandosi in luoghi di “creazione di risposte” relativamente alla società. Altre serie narrano il mito di fondazione di civiltà costituentesi sulla base di un nuovo ordine, derivato da un disordine maggiore sconfitto in maniera più o meno definitiva. Essendo le eterotopie, sempre seguendo Foucault, la contestazione di tutti gli altri spazi esercitata o attraverso l’illusione che denuncia l’illusorietà della realtà, o creando uno spazio perfetto ed ordinato quanto il nostro è disordinato e caotico, il saggio si propone di tracciare una mappa dei luoghi in cui prendono vita questi mondi. In tali spazi si collocano le cosiddette prison television series, come, ad esempio, OZ (HBO 1997-2003), Prison Break (Fox, 2005-2009) ed Orange Is the New Black (Netfix, dal 2013). Una società può far funzionare con modalità diverse un’eterotopia, come nell’esempio foucaultiano del cimitero: si tratta di uno spazio trasformatosi radicalmente nel corso del tempo, da “luogo integrato” allo spazio abitativo, a “luogo altro”, distinto sino a divenire simbolo del culto moderno dei defunti. Relativamente al rapporto luogo di sepoltura, defunti e città, Sara Martin individua il costituirsi di differenti mondi narrativi; dalle serie incentrate sugli zombie, come The Walking Dead (AMC, dal 2010) ed In the Flesh (BBC Three, dal 2013), alle storie di vampiri, come il vecchio Dark Shadows (AMC, 1966-1971), Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003) e True Blood (HBO, 2008-2014). Essendo le eterotopie connesse con la suddivisione del tempo, in diverse serie si assiste alla questione della rottura con il tempo tradizionale. Ad esempio, in Lost (ABC, 2004-2010) si ha una rottura tra il tempo dell’isola e quello fuori da essa ed in Person of Interest (CBS, dal 2011) i protagonisti ricorrono all’archivio visivo delle telecamere di sorveglianza, luogo in cui, al pari delle biblioteche e dei musei, il tempo “non smette di accumularsi”.

Nel suo intervento, Roy Menarini, sottolinea come da qualche tempo le serie televisive non soffrano più della sindrome di inferiorità culturale nei confronti del cinema. Lo studioso individua in Avatar (2009) di Jeames Cameron un esempio di riconquista di mercato, nei confronti della televisione, da parte del cinema, attuato attraverso il ricorso al 3D, come elemento di “valorizzazione della sala”. Anziché sfidare le serie televisive sulla complessità del racconto, il cinema sembra optare per una particolare “esperienza di visione” ed una generale “semplificazione simbolica”. Il cinema cerca, in altre parole, di conquistare per via tecnologica quanto non riesce più a garantire in termini narrativi. A proposito di questi ultimi, Menarini sottolinea come anche i registi cinematografici che, in un primo tempo, hanno insistito su “rompicapi narrativi”, come lo stesso Quentin Tarantino, siano passati a racconti più lineari. La produzione contemporanea statunitense, soprattutto di carattere spettacolare, ha optato per strategie commerciali volte ad intrecciare le serie televisive con i prodotti cinematografici, in transmedia storytelling in cui i due prodotti si dimostrano l’uno l’espansione dell’altro. In ciò la produzione della Marvel è maestra, con tanto di ulteriore prolungamento nei videogames. La serialità televisiva contemporanea, secondo l’analisi di Menarini, ha raccolto la nozione di drama offrendo spazio a soggetti solitamente propri del cinema indipendente di nicchia, ampliando ed intorbidendo i riferimenti culturali. Tale complessificazione dei prodotti audiovisivi si traduce, dal punto di vista imprenditoriale, in strategie di marketing e di targeting sempre più elaborate basate su algoritmi e software di profilatura degli utenti sempre più elaborati.

Marta Boni, nel suo scritto, ragiona circa la capacità dei racconti seriali di costruire mondi con geografie che si sovrappongono a quelle reali. Quando si parla di mondi, sottolinea la studiosa, si parla di un sistema complesso non riconducibile né ad una storia né ad un solo medium. “Una serie è un sistema complesso, provvisto di confini, che tiene insieme vari racconti e che, grazie alla ‘saturazione’ delle capacità cognitive dello spettatore attraverso la molteplicità, ottiene il risultato di costruirsi come mondo consistente, esplorabile a piacere e, come tutte le eterotopie, può essere il luogo in cui una società pensa i propri confini ed elabora la propria identità”. L’epopea mette in ordine un mondo così come alcuni mondi seriali inglobano lo spazio dello spettatore divenendo luoghi di “creazione di risposte sulla società”. Il mito, conclude l’autrice, si costruisce per sedimentazione, si sviluppa nella ridondanza e nella permanenza di frammenti nello spazio sociale, è un processo storico di costruzione della memoria collettiva ed i mondi seriali “emergono nel tempo come degli spazi flessibili al punto da diventare sistemi, o ‘ecosistemi’, delle presenze durevoli nell’universo mediale contemporaneo”.

game-of-thrones-daenerysMaria Comand si sofferma sui personaggi della serialità fantasy sottolineando come questi non costituiscano un caso diverso rispetto a quelli di altri mondi di fantasia, visto che per entrambi lo spettatore impiega i medesimi procedimenti di comprensione ed adesione. Nell’analizzare il dibattito che si è sviluppato attorno alla serie Game of Thrones (HBO, dal 2001), l’autrice mette in risalto come attorno ad alcuni personaggi si sia sviluppata una riflessione assai approfondita. Sulla figura di Daenerys Targaryen, ad esempio, si scontrano interpretazioni che vanno da chi, accusando la serie di sessismo (Myles McNutt ha a tal proposito coniato il termine sexposition), stigmatizza i comportamenti della ragazza perché “esprimerebbero una subordinazione a codici di comportamento androcratici, giacché usa il proprio corpo per emanciparsi”, a chi, invece, la considera “un’icona progressista-femminista, in virtù del suo intendere la leadership come espressione carismatico-empatica e come cura degli altri”. Secondo Comand, questo serrato dibattito prova, prima di ogni altra cosa, l’esistenza di Daenerys: “come soggetto del dibattito pubblico, nella vita immaginativa, simbolica e affettiva degli spettatori, questa donna Nata dalla Tempesta e Madre dei Draghi esiste”. Evidentemente, sostiene la studiosa, “l’incredibilità non implica automaticamente scarsa credibilità o l’incapacità di coinvolgere, incantare, suscitare sentimenti e interrogativi”, tanto che, con estrema naturalezza, si arriva a chiedersi se Daenerys Targaryen sia o meno femminista.

Alberto Brodesco analizza il rapporto tra teorie scientifiche e trame seriali che struttura un immaginario scientifico-mediale ove la cultura pop “trova nutrimento nella scienza che sfida il senso comune”. L’autore sottolinea come, a differenza del cinema del passato in cui la scienza solitamente compare attraverso la figura dello scienziato pazzo che valica il confine del consentito, la fiction contemporanea “mostra la scienza costretta dalla sua stessa episteme a spingersi al di là dei limiti della mente umana”. Per lo spettatore la legittimazione fornita dalla scienza regala alla narrazione un’atmosfera, in cui si fondono mistero e razionalità, utile al mantenimento di quell’ambiguità che rappresenta “uno dei cardini su cui si reggono le narrazioni estese”.

Decisamente approfondita risulta l’analisi della complessa struttura di Game of Thrones (HBO, dal 2001) realizzata da Luca Bandirali ed Enrico Terrone. Viene dai due indagato il ruolo narrativo dello spazio nel conflitto messo in scena dalla serie. In tale opera, sostengono gli autori, il legame strutturale tra spazialità, conflitto e forme di vita raggiunge livelli estremi di articolazione e proliferazione. Lo spazio qua è l’oggetto della contesa tanto che il mondo di Game of Thrones risulta cartografato con estrema cura. In uno dei quattro continenti, Westeors, suddiviso in sette regni, abbiamo il centro focale di tutta la vicenda. Chi tra i sette regni, perennemente in conflitto tra di loro, occuperà King’s Landing, ove si trova il trono, si troverà a governare su tutti gli altri. Al di là dei conflitti interni, i pericoli per Westeors vengono da nord, oltre la barriera, dai barbari bruti che premono sulla frontiera per fuggire dalla minaccia dei “non-morti” mentre, da sud, la minaccia viene dall’ultima discendente dei Targaryen, un casato spodestato restato senza stato. Da nord la minaccia ultima è rappresentata dai “non-morti”, mentre da sud da un esercito “ibridato con forme di vita non umane, i draghi”. Lo scontro finale pare destinato ad essere quello tra umani e non-umani.
Bandirali e Terrone analizzano dettagliatamente la complessa sigla iniziale della serie rilevandovi un’elaborata presentazione della struttura spaziale e narrativa. La sigla offre le esatte coordinate geografiche della serie e varia leggermente in base alle località maggiormente coinvolte nella narrazione della puntata. In essa compare anche un’enigmatica forma sferica: “Se la mappa rappresenta lo spazio geografico, il topos, come condizione fondamentale della narrazione (…) questa sfera rotante, con le sue effigi di draghi, cervi e antichi condottieri, sembra piuttosto voler condensare le altre dimensioni fondamentali della storia: l’epos come incombere di un passato leggendario, il kratos come pervasività delle relazioni di potere, e il telos come tensione verso un futuro nel quale si addensano progetti, obiettivi, speranze, timori”. Ulteriore approfondimento riguarda la complessa orchestrazione degli spazi e, secondo gli autori, quando la serie “abbandona la tipica verbosità del fantasy e mette in scena il potere dello spazio, raggiunge l’apice della propria rilevanza estetica in una fusione perfetta tra progetto narrativo, stilistico e ideologico”.

Alice Cucchetti si occupa dei fenomeni fandom legati alle produzioni seriali partendo da una definizione di fan inteso come “fruitore che opera sul proprio oggetto di culto un investimento emotivo, affettivo, performativo. Descriversi come fan di un prodotto (culturale oppure no) corrisponde a dare agli altri e a se stessi una definizione di sé. E di conseguenza riconoscere come simili le persone che condividono la stessa passione”. Con il termine fandom si indica, pertanto, una comunità di fan composta da cultori che “adottano un approccio attivo e dinamico nei confronti del testo”. Il materiale idolatrato viene saccheggiato dai fan e rimodellato secondo esigenze di carattere creativo ed emotivo che, non di rado, sfocia in una “produzione derivata” che integra l’oggetto di partenza o se ne distacca totalmente. Le produzioni culturali narrative si prestano alle dinamiche di fandom per diversi motivi, tra questi hanno un ruolo importante la spiccata componente d’evasione, il “potenziale di immedesimazione intimamente personale” e la possibilità di intervenire, sia come “sforzo immaginativo” che come “agire produttivo”, nella manipolazione del complesso “universo narrativo finzionale”. Risulta evidente come le produzioni seriali, televisive e non, amplifichino tali dinamiche. L’autrice ricorda come il primo fandom riconosciuto sia relativo al personaggio di Sherlock Holmes al punto di imporre ad Arthur Conan Doyle di “resuscitare” il protagonista dopo averlo fatto morire in un racconto del 1893. Sul celebre investigatore sono poi stati prodotti oltre duecento film e diverse serie televisive che hanno offerto ai fan ulteriore materiale su cui investire energie ed emozioni. Tra le produzioni televisive spicca per popolarità, la serie Sherlock (BBC, dal 2010), che vanta un fandom particolarmente attivo sul web. L’universo narrativo di Doyle, in effetti, contiene diverse caratteristiche utili alla creazione del fenomeno fandom: la dimensione seriale, la chiamata in causa del lettore/spettatore coinvolto nel metodo deduttivo anche grazie alla figura di Watson come suo alter ego ecc.
In generale, la serialità televisiva, sostiene Cucchetti, apre a forme di gradimento basate, oltre che sulla ripetizione e sulla variazione infinita, sulla competenza intertestuale del pubblico. Tale tipo di fruizione si è intensificato nel corso della cosiddetta “Golden Age seriale” caratterizzata da “narrazioni stratificate e complesse, una forte orizzontalità, una moltiplicazione dei personaggi e delle relative storyline, un approfondimento di temi trasversali, filosofici e/o morali. È una tipologia di racconto che pretende di essere fruita collettivamente”. Il fenomeno fandom non deve però essere percepito esclusivamente come attività “dal basso” visto che le produzioni non mancano di stimolare la nascita di tali fenomeni mettendo a disposizione materiale in abbondanza: “la grassroot convergence” interagisce con la “corporate convergence”.
Circa la “potenza di fuoco” che alcuni fandom sono in grado di dispiegare, l’autrice riporta il caso di Firefly (Fox, 2002), ove le veementi proteste dei fan per la cancellazione della serie dopo pochi episodi (trasmessi dall’emittente televisiva disordinatamente e con una collocazione di palinsesto infelice) hanno convinto la Universal Pictures a riprendere il discorso interrotto attraverso la realizzazione del lungometraggio cinematografico Serenity (2005). Caso, per certi versi, ancora più eclatante riguarda la serie Veronica Mars (UPN / CW, 2004-2007), teen drama poliziesco cancellato dopo tre stagioni. Il creatore della serie e l’attrice protagonista hanno chiesto direttamente alla comunità di fan di contribuire, attraverso un crowdfunding, al finanziamento di una nuova produzione. Lanciata la raccolta dei 2 milioni di dollari necessari sulla piattaforma Kickstarter, questi sono stati ottenuti dopo sole 24 ore ed, a fine raccolta, sono stati raggiunti più di 7 milioni di dollari. In entrambi i casi si capisce come, nonostante l’insuccesso della normale programmazione, “una nicchia di pubblico apparentemente ristretta ma motivata da una passione intensa è un’audience fruttuosa e potente quanto (e forse più) di una larga massa debole”. L’intervento di Alice Cucchetti si chiude toccando una questione importante circa lo sviluppo delle comunità di fan: come influirà sulla fruizione sociale del prodotto seriale la scelta di piattaforme streaming, come Netfix, di rilasciare tutti gli episodi della stagione contemporaneamente?

L’intervento di Veronica Innocenti passa in rassegna la serie televisiva Buffy the Vampire Slayer (WB / UPN, 1997-2003), preceduta dall’omonimo film per le sale cinematografiche di F. Rubel Kuzui del 1992. In entrambe le produzioni, sceneggiate da Joss Whedon, si narrano le vicende di una giovane californiana che, all’improvviso, scopre di essere la prescelta per difendere l’umanità da creature mostruose. Ibridazione, ribaltamento ed ironia nei confronti delle convenzioni di genere rappresentano i punti di forza di Buffy. La serie, caratterizzata da una forte instabilità delle identità dei personaggi e da una spiccata ibridazione dei generi, è strutturata su un sistema modulare ed, al pari di diverse altre produzioni seriali contemporanee, sostiene Innocenti, risulta contraddistinta da una “particolare sensazione di permanenza”. Abbandonati i sistemi tradizionali di narrazione procedurale, le forme testuali contemporanea si sono trasformate in “ecosistemi narrativi” caratterizzati per essere “sistemi aperti, abitati da forme narrative e personaggi che si modificano nello spazio e nel tempo (…); fondati su meccanismi di rimando e rimediazione; persistenti e resilienti, cioè durevoli e capaci di resistere alle perturbazioni (…); caratterizzati da una componente biotica preponderante, cioè da una materia narrativa viva e vitale, soggetta a processi di competizione, di adattamento, di cambiamento, di modifica”. Circa l’estensione del fenomeno Buffy ben oltre al medium televisivo, Innocenti sottolinea l’importanza del suo approdo nel mondo dei videogiochi, grazie al quale si allargano notevolmente le situazioni narrative e si permette al fruitore un ruolo decisamente più attivo. Il fruitore non si trova più a seguire una serie televisiva, ma, piuttosto, è chiamato ad “inseguirla” nei diversi ambiti mediali.

Il saggio di Paola Brambilla analizza Grimm (NBC, dal 2011), serie televisiva fantastico-procedurale ove il detective Nick Burkhardt, discendente dai “guardiani Grimm”, viene ad avere a che fare con creature demoniache. Grimm viene qua indagato “quale caso di evoluzione estetica e narrativa di una serie in relazione a fattori istituzionali e commerciali, legati alle esigenze dello scenario televisivo e mediale”. Dopo aver evidenziato come la forma iniziale della serie risulti influenzata dai meccanismi interni della broadcast television (che per sua natura è sottoposta ai controlli della Federal Communication Commision e deve prevedere i break pubblicitari, con ciò che ne consegue a livello di struttura narrativa), viene analizzata l’influenza sull’evoluzione stilistico-narrativa esercitata dal posizionamento nel palinsesto ed annesse strategie competitive. Elemento sfruttato al fine di accrescere la fidelizzazione risulta quello dell’incrementare il dialogo con i fan; ad esempio nella chiusura dell’ultima stagione compaiono sullo schermo note degli autori che, “strizzando l’occhio” al pubblico più affezionato recitano: “To be continued. Oh, come on. You knew this was coming”.

the-walking-deadLo scritto di Gabriele de Luca si occupa della rappresentazione dello straniero attraverso la figura del morto vivente in The Walking Dead (AMC, dal 2010). Prima di affrontare direttamente la serie, l’autore ricostruisce brevemente come la figura del morto vivente si presti a divenire nelle produzioni audiovisive contemporanee metafora “dello straniero, e più precisamente del migrante, quello irregolare, che si sposta clandestinamente, che viaggia senza i documenti necessari”. Analizzando le caratteristiche dello zombie, suggerisce de Luca, diviene possibile “riflettere sullo statuto attuale di questa figura” e sulla “rappresentazione dell’altro nei media contemporanei”.
Il classico dilemma circa la vera natura dei morti viventi torna anche in The Walking Dead: queste figure appartengono o meno al genere umano? I morti viventi della serie si presentano trasandati, pallidi, affamati e muti. “Gli zombie, come i migranti ridotti al silenzio dalle culture dominanti, sono muti, incapaci di articolare le proprie rivendicazioni, in grado a malapena di dialogare tra loro”. L’elemento che però sembra accomunare maggiormente zombie e migranti irregolari è la deindividualizzazione. I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come gli zombie, come folla, come orda che avanza col fine ultimo di sconvolgere la vita delle comunità civili. Tra le peculiarità della serie esaminata, de Luca individua il fatto che “la presenza dei walkers da stato d’eccezione diventa caratteristica costante di un mondo nuovo, rispetto al quale quello vecchio non è che un ricordo”. Una volta constatata l’impossibilità di sconfiggere il fenomeno dei morti viventi ed una volta scoperto che tutti, indistintamente, una volta morti si trasformano in zombie pur senza essere stati morsi da essi, ogni speranza di poter tornare alla vecchia società si spegne. La questione diventa allora quella di trovare forme di coesistenza, di costruire comunità nuove pur tra mille contraddizioni e difficoltà. L’elemento di novità introdotto dalla serie è che lo spunto narrativo dell’invasione dei morti viventi rimane presente ma viene pian piano relegato più sullo sfondo ed alla questione dello statuto degli zombie (umani/non-umani) “fa da contraltare un progressivo ed inesorabile assottigliarsi della barriera che separa uomini e zombie”. Anche gli esseri umani, via via, divengono sempre più lividi, sporchi, emaciati ed inclini ad impulsi violenti primordiali e l’assottigliarsi del confine che separa esseri umani e morti viventi è accompagnato da una “progressiva normalizzazione della situazione di eccezione”. L’accoglienza nei confronti di altri esseri umani si è data sul finire della terza stagione: all’interno della prigione-rifugio vengono accolti gli abitanti Woodbury, dopo che si è palesata la vera natura del Governatore. Resta da vedere se e come vi potranno essere modalità di apertura nei confronti dei walkers.

Les-Revenants-01Chiara Grizzaffi affronta la serie francese Les Revenantes (Canal+, dal 2012) in cui confluiscono i topoi di diversi generi, tra questi l’horror, il thriller ed il dramma. Seppure l’idea della serie derivi dal film omonimo realizzato nel 2006 da Robin Campillo, nella realizzazione seriale di Fabrice Gobert e Frédéric Mermoud, i cambiamenti sono parecchi. Venendo alla produzione di Canal+, le vicende narrate ruotano attorno ad un’immaginaria cittadina delle montagne francesi ai piedi di una diga, ove, pian piano, iniziano a far ritorno alle rispettive dimore personaggi deceduti da tempo. Il rapporto che si instaura tra questi personaggi che improvvisamente ritornano e gli abitanti della cittadina è al centro della vicenda. Altri elementi inquietanti si aggiungono, man mano, alla narrazione: la scoperta che il lago delimitato dalla nuova diga ricopre il vecchio paese sommerso da un’inondazione causata dal cedimento della precedente diga; il fatto che l’età di coloro che ritornano pare essere restata quella del momento della loro scomparsa mentre il resto del paese ha continuato ad invecchiare, l’inquietante figura della “guida spirituale” della comunità, i poteri che sembrano avere alcuni revenant, l’impossibilità di lasciare il paese da parte di chi tenta di andarsene e finisce poi per ritrovarsi sempre al punto di partenza, l’inspiegabile calo del livello dell’acqua del bacino delimitato dall’imponente nuova diga, la presenza di cadaveri di animali che sembrano essersi lanciati volontariamente nel lago, il fatto che alcuni dei revenant iniziano a manifestare piaghe di decomposizione sulla pelle dal sapore cronemberghiano ecc.
L’intera vicenda è contraddistinta, secondo Grizzaffi, da un tono perturbante; ciò che pur pare familiare allo spettatore, ben presto, a partire dalla sigla di testa, si presenta ad esso come estraneo. Se i primi episodi risultano “più intimisti”, gravitanti attorno al “conflitto psicologico” tra i personaggi, la trama sfocia, nell’approssimarsi all’epilogo, nel paranormale, lo scenario diviene post-apocalittico e la cittadina appare sempre più isolata dal resto del mondo tanto in termini spaziali che temporali, in una perturbante atmosfera sospesa in cui si mescola la temporalità bloccata dei ritornanti con lo scorrere del tempo dei cittadini che, pare, rallentare sempre più. Il finale pare zombie-oriented, con decine e decine di revenant che escono dalla foresta per dirigersi, tra le nebbie, verso l’abitato. Il rifiuto da parte dei vivi di consegnare Adèle ai revenant, porta allo scontro e l’ultima immagine ci mostra la città sommersa dalle acque.
La serie Les revenantes, sostiene acutamente Grizzaffi al termine del suo scritto, al di là dei riferimenti ai diversi generi (horror, thriller ecc.), “svela una complessità e una stratificazione maggiori: l’umanizzazione dell’orrore, il forte accento sui risvolti psicologici o sugli aspetti più banali del dolore e il rifiuto di motivare o spiegare la componente soprannaturale della trama, costituiscono una sfida per gli spettatori costretti a stare al gioco nonostante le regole – solitamente stabilite anche dalle coordinate di genere – in questo caso non siano chiare. (…) E, forse, tutto questo ci dice qualcosa anche sui tempi che stiamo vivendo: in un’epoca in cui l’oblio è un diritto da riconquistare e le tracce del nostro passato, soprattutto quelle digitali, sopravvivono anche alla nostra morte, rischiamo davvero di essere condannati al passato”.

Pietro Bianchi analizza la serie True Blood (HBO, 2008-2014) a partire dall’ambientazione: il profondo Sud rurale degli Stati Uniti. Tale mondo ha esercitato un certo fascino sull’immaginario americano, tanto che numerosi sono i film ambientati in tale località che riesce a mescolare eccessi e contraddizioni. Non è difficile immaginare come la rappresentazione del Sud rurale si sia alimentata di stereotipi propri della cultura urbana nordamericana che hanno finito con il costruirne un’immagine in cui le contraddizioni sono portate all’eccesso; di queste terre si elogia la genuinità e l’autenticità ma al tempo stesso ci si spaventa per l’arretratezza tecnologica e culturale. Bianchi sostiene che ”True Blood non ci vuol fare vedere il Sud, ci vuole far vedere l’immagine del Sud. Quell’immagine che l’ha reso un oggetto del desiderio delle élite colte e urbane americane e dei film di Hollywood degli ultimi anni. Il fatto che di questo luogo vengano mostrati con insistenza i tratti di eccesso sessuale, fisico, estatico; o che venga continuamente riaffermato il surplus di autenticità e veracità, costituirà il filo rosso dell’intera serie. La presenza dei vampiri serve infatti a raddoppiare all’interno dell’intreccio, quello che la rappresentazione del Sud costituisce all’esterno nell’immaginario contemporaneo”. Nella serie si sommano gli eccessi propri delle creature soprannaturali con le esperienze umane quando queste si fanno estreme. L’esperienza dell’andare oltre la propria umanità, secondo Bianchi, “non ha niente a che vedere con il registro del magico o del soprannaturale, ma con qualcosa di estremamente razionale e che la psicanalisi definisce ‘pulsione di morte’”. Nella serie la comparsa dei vampiri si accompagna “all’impossibilità di alcuni personaggi di riuscire a fari i conti con la distruttività del godimento”. Tale ragionamento porta l’autore a concludere che di “soprannaturale”, nella serie esaminata, c’è proprio la pulsione di morte, ossia “un principio di superamento dei limiti del vivente che tuttavia si trova al cuore dell’umano” e le creature soprannaturali (vampiri, licantropi ecc.) “sono un modo per dare manifestazione a ciò che di innaturale vi è nell’essere umano, non un modo per mettere a tacere l’umano con ciò che umano non è”.

person of interestLo scritto di Valentina Valente si occupa di Person of Interest (CBS, dal 2011), serie che mescola thriller spionistico ed aspetti avveniristici di derivazione fantascientifica ma esplicitamente ancorata a questioni che toccano il mondo reale ormai disseminato di telecamere di controllo a circuito chiuso e banche dati utili a tracciare i profili degli individui. La “Macchina” in grado di riconoscere e mappare gli individui sfruttando CCTV e banche dati, compare in quanto commissionata, in seguito all’11 settembre, dal governo statunitense, al fine di sventare attacchi terroristici. Grazie all’integrazione umana dei due protagonisti, la Macchina si rivela in grado di fornire informazioni riguardanti anche crimini non di carattere terroristico. Ed è di questo uso che si occupa Person of Interest. Nella serie si esplicita, secondo Valente, una distinzione tra chi, avendo accesso agli “strumenti della conoscenza e dello sguardo”, dunque detiene il potere, e chi, è inconsapevole. La Macchina costituisce la linea di separazione tra questi due mondi. Altro elemento su cui si sofferma tale analisi riguarda le caratteristiche dei luoghi entro cui si dipana la narrazione. La biblioteca-rifugio rappresenta il luogo della ricerca e della pianificazione, tale spazio è l’unico a presentarsi allo spettatore come sicuro, tanto che non viene quasi mai inquadrata la porta di accesso al fine di rafforzare l’idea di spazio inviolabile. Il commissariato di polizia che, normalmente viene presentato nei film e nelle serie televisive come spazio sicuro, in questo caso appare come luogo concepito per “impedire la riservatezza”; si tratta di un’ambiente corrotto, potenzialmente pericoloso. L’ambiente principale, continua Valente, è la città, New York. In questo caso lo spettatore ne prende visione principalmente attraverso la videosorveglianza. I dispositivi video “non sono soltanto oggetti diegetici che per un breve momento caratterizzano la narrazione (…) o sono semplicemente gli oggetti prevalenti per lunghi brani narrativi (…), ma connotano la configurazione visiva dell’intera opera”. I dispositivi di sorveglianza oltre ad essere “oggetto diegetico” rappresentano una “modalità di fruizione di immagini” a cui il pubblico contemporaneo è abituato, perciò “la loro varietà di topologia di immagine non è spiazzante, ma amplifica la complessità della collocazione dello sguardo nella frammentarietà della metropoli contemporanea”.

L’analisi di Rossella Catanese e Valerio De Simone passa in rassegna Bates Motel (Universal Television Group – The Wolper Organization – A&E, dal 2013), serie che sembra un prequel anomalo di Psyco (1960) di Alfred Hitchcock. Le storie narrate si svolgono attorno alla famiglia Bates, nel corso dell’adolescenza di Norman. L’anomalia, se si vuole intendere la serie come prequel di Psyco, consiste nel fatto che la collocazione temporale contraddice tanto l’opera hitchcockiana, quanto il remake realizzato da Gus Van Sant nel 1998, essendo, la serie, ambientata in epoca a noi contemporanea e non prima degli anni Sessanta, nel caso anticipasse Hitchcock, né prima degli anni Novanta, nel caso decidesse di rifarsi alla versione di Gus Van Sant. Inoltre, cambia la località: un piccolo paesino sulla costa dell’Oregon, White Pine Bay, al posto della cittadina californiana di Fairvale. Bates Motel, pertanto, non può essere indicato né come un vero e proprio prequel, né, tantomeno, come, ennesimo, remake. Secondo gli autori la serie è piuttosto considerabile una rielaborazione, una rilettura di ambientazione contemporanea di un’opera ormai diventa classica. Dalla seconda metà degli anni Duemila sono numerosi i casi in cui vengono riprese opere cinematografiche o vecchie serie di successo ed ambientate ai giorni nostri con diversi cambiamenti. La serie Bates Motel, secondo Catanese e De Simone, può essere definita un “double re-imagined”: viene infatti doppiamente ri-immaginato ciò che non è stato mostrato precedentemente per poi collocarlo ai nostri giorni al fine di accrescere “il processo di identificazione” dei teenager. bates_motel_06Al fine di marcare lo stato di isolamento di Norman, viene mostrato indossare abiti “retrò”, per certi versi atemporali, differenziandolo così dalla comunità dei suoi coetanei vestiti invece in maniera contemporanea. Ulteriore elemento su cui si sofferma l’analisi riguarda il ruolo della crisi economica nella serie. Mentre in altre serie la crisi che ha attraversato gli Stati Uniti nel 2008, sostengono gli autori, risulta rappresentata come “evento traumatico di passaggio”, nella serie in esame diviene un elemento essenziale. “In Bates Motel il processo che ha generato la crisi viene capovolto: a generare la crisi non sono le speculazioni dei professionisti della borsa, bensì le proteste di un gruppo di ambientalisti” che mettono in crisi il business del commercio di legname, fino ad allora perno dell’economia locale, aprendo le porte alle attività illegali che sommergono la cittadina. È lo stesso dimesso motel a divenire emblema della crisi economica, motel che già nella versione hitchcockiana esibisce, nelle intenzioni del regista, il “grigio squallore della working class, i sogni infranti del benessere negato”. L’analisi di Catanese e De Simone insiste sulla centralità del motel segnalando come sin da Psyco di Hitchcock il set, composto da motel ed annessa casa sulla collina, sia pensato come “concretizzazione del paesaggio interiore del protagonista”, e finisca per rappresentare “il terrore collettivo per l’abiezione degli omicidi seriali, trauma culturale per gli Stati Uniti degli anni Cinquanta”. Il motel, nell’analisi esposta dagli autori, diviene “un’eterotopia, un luogo privo di riferimenti geografici o culturali, che condensa gli elementi aleatori e precari di un’idea di estraneità”, l’orrore non è più confinato nella spettrale casa sulla collina ma “appare improvvisamente nella banalità quotidiana e anonima del motel”, mentre l’isolamento dei due edifici, casa/motel, sembra replicare, simbolicamente, “l’io diviso del protagonista e contemporaneamente la sua dipendenza dalla personalità materna”.

L’ultimo contributo del libro curato da Sara Martin, è di Mimmo Gianneri e si occupa di Battlestar Galactica (Sci Fi Channel, 2004-2009), versione re-imagined della serie televisiva di fine anni Settanta Galactica (Glen A. Larson Productions – Universal TV, 1978-1979). La serie andata in onda a partire dal 2004 si inserisce nelle produzioni che intendono riprendere in maniera allegorica la società statunitense dopo l’11 settembre: “la flotta coloniale è alle prese con le conseguenze di un attacco al proprio cuore che si rivela fin da subito un’offensiva al proprio modello culturale e alle proprie certezze ideologiche”. Dal punto di vista stilistico la serie decide di adottare uno stile “documentaristico” con ambientazioni realistiche ed un “paesaggio sonoro costituito da suoni diegetici”. La colonna sonora riveste un ruolo fondamentale nella comprensione della filosofia della serie, tanto che l’analisi di Gianneri si concentra principalmente sul sonoro a partire dalla scelta di preferire al cliché della musica sinfonica, tipico di tanta fantascienza, sonorità non occidentali, al fine di sottolineare simbolicamente “la composizione culturalmente eterogenea della flotta in fuga”. Nell’economia del soundscape, sottolinea lo studioso, “la musica percorre una strada parallela a quella del sonoro diegetico realistico e aptico in una vera e propria divisione dei ‘compiti’. Se il suono diegetico è il prodotto del sudore, della fatica quotidiana e, in ultima misura del lavorio del metallo arrugginito che circonda le navi-prigioni perse in cerca di una ‘casa’, la musica extradiegetica rappresenta una forza esogena di pacificazione” E le rare occasioni in cui il sonoro diegetico ed extradiegetico dialogano, rimandano alla presenza di un’entità superiore tanto che il ritrovamento della Terra pare fondarsi sulla “capacità di cogliere e interpretare, da una prospettiva terrena – fatta di tradimenti, morti e ferite interiori – i segni divini (cioè musicali) percepibili”.

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