sogno – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 04 Feb 2025 22:50:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 «Credo nel potere che ha l’immaginazione di cacciare la notte» https://www.carmillaonline.com/2024/03/27/credo-nel-potere-che-ha-limmaginazione-di-cacciare-la-notte/ Wed, 27 Mar 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81723 di Sandro Moiso

Michele Neri, Ballardland, Italo Svevo, Trieste -Roma 2024, p. 144, 16 euro

Il testo di Michele Neri, appena pubblicato nella collana Biblioteca di letteratura inutile (B.L.I.) dalla casa editrice Italo Svevo, ha il pregio, nelle sue 130 pagine circa, di costituire una delle migliori sintesi e guide al pensiero e all’opera di James Graham Ballard (1930- 2009), uno dei maggiori scrittori inglesi della seconda metà del Novecento, troppo spesso e irrispettosamente relegato al solo genere fantascientifico.

Il carattere irrispettoso di certa critica non è tanto dovuto al ‘genere’ in cui lo ha inserito, ma piuttosto al fatto [...]]]> di Sandro Moiso

Michele Neri, Ballardland, Italo Svevo, Trieste -Roma 2024, p. 144, 16 euro

Il testo di Michele Neri, appena pubblicato nella collana Biblioteca di letteratura inutile (B.L.I.) dalla casa editrice Italo Svevo, ha il pregio, nelle sue 130 pagine circa, di costituire una delle migliori sintesi e guide al pensiero e all’opera di James Graham Ballard (1930- 2009), uno dei maggiori scrittori inglesi della seconda metà del Novecento, troppo spesso e irrispettosamente relegato al solo genere fantascientifico.

Il carattere irrispettoso di certa critica non è tanto dovuto al ‘genere’ in cui lo ha inserito, ma piuttosto al fatto con l’ignorare la distanza che lo scrittore di Sheppeton ha voluto marcare tra i testi e le riflessioni degli ultimi decenni prima dello scomparsa e la Fantascienza, genere cui si era dedicato fin dalle sue prime opere degli anni ’50, ma la cui funzione innovativa riteneva ormai esaurita sia dal punto di vista della possibile predizione del futuro sia di un immaginario che rimanendo, talvolta, troppo collegato all’innovazione tecnologica o ai viaggi nello spazio ha finito di ignorare la complessità dei mutamenti intervenuti nella psiche umana a seguito dei cambiamenti indotti dallo sviluppo tecnologico e dalla loro influenza sulle società ‘avanzate’.

Ecco allora che Ballardland entra, con gran dovizia di citazioni tratte da opere, saggi e interviste dell’autore inglese, in quell’universo psichico che costituiva davvero l’inner space che Ballard aveva comunque sempre contrapposto all’outer space tipico di tanta fantascienza classica. Accompagnando il lettore lungo un percorso che trae costantemente spunto dall’esplorazione ballardiana di ciò che rimane tra le rovine della mente e dell’Io nell’era del dominio tecnologico della Natura e della realtà che circonda gli individui e le compagini sociali che ne costituiscono l’espressione formale.

Michele Neri è nato a Milano nel 1959. Giornalista culturale e professionista in campo fotografico, ha pubblicato Scazzi (Mondadori), i saggi Photo Generation (Gallucci) e L’ultima foto, un dialogo con Enrico Ratto (Seipersei), i romanzi Sospensione (Centauria) e Come un mattino texano (Polidoro Editore), oltre a racconti su «Nazione Indiana» e «minima&moralia», con questo saggio biografico rende omaggio ad un autore certamente molto ammirato, amato e direttamente conosciuto e frequentato non soltanto attraverso la lettura delle opere, ma anche in occasione di svariate interviste.

E’ lo stesso Neri a rendere il lettore edotto su ciò che si intende per “Ballardland”, paesaggio/luogo di confine tra mondo reale e proiezione dello steso nella psiche di chi lo abita.

Ballardland è nel cielo giallo di Manhattan dopo gli incendi in Canada, negli oceani che sommergono atolli abitati, nel sorriso dei turisti che si fanno fotografare di fianco al cartello che segnala i 55 gradi Celsius della Death Valley, e ancora nei nostri sogni ormai avverati – alter ego sintetici, cloni di rimpiazzo, desideri d’istantaneità, immortalità –, che stupiscono per quanto siano scellerati, noiosi. Ballardland è lo stato d’animo di quei tecnici che, avendo richiesto a un prototipo meccanico guidato dall’intelligenza artificiale di occupare uno spazio determinato muovendosi in orizzontale e strisciando, si sono accorti che aveva preferito ottenere lo stesso risultato procedendo con una sequenza di salti in alto. È mantenere in vita l’avatar digitale di un parente defunto perché si comporti come non avrebbe fatto in vita. Il perturbante non è davanti a noi, è una condizione di partenza1.

Qualcosa che era già stato preannunciato da Virginia Woolf, nel 1915 sul margine della Prima guerra mondiale, quando nel suo diario aveva scritto: «The future is dark, which is the best thing the future can be». Ma l’oscurità di Ballard non è sociale o storica, è psichica e appartiene tutta al modo in cui la nostra mente si relaziona con trasformazioni che sono, allo stesso tempo, traumatiche e inevitabili in un contesto in cui non esiste più una sola concreta e ‘naturale’ realtà delle cose. Come lo stesso scrittore aveva già affermato in un’intervista rilasciata nel giugno del 1992, in occasione della seconda edizione del Noir in Festival di Viareggio.

In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali2.

Il sogno come prodotto della psiche e il mondo come prodotto tra ciò che l’Io profondo immagina di se stesso e del proprio rapporto con il mondo stesso o, almeno, con ciò che ha introiettato come tale.

Ecco allora che per Ballard l’oscurità di un mondo fatto di guerre, devastazioni ambientali e sociali e di tecnologie sfuggite al controllo dei poveri individui che fingono ancora di poterle dominare, può essere superata soltanto dall’immaginazione che, pur succube dei dati e degli stimoli provenienti dall’esterno, può ancora «cacciare la notte».

Oppure trovare il modo di trarne piacere, per perverso che questo possa essere.
Poiché, in fin de conti, per l’esploratore psichico inglese: «L’immaginazione non è uno stato mentale: è l’esistenza umana stessa».


  1. M. Neri, Ballardland, Italo Svevo, Trieste -Roma 2024, p. 109.  

  2. J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, introduzione e intervista a cura di S. Moiso, con un saggio di Simon Reynolds, Krisis Publishing, Brescia 2019.  

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Elogio dell’eccesso: Babylon https://www.carmillaonline.com/2023/02/10/elogio-delleccesso-babylon/ Fri, 10 Feb 2023 21:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75979 di Sandro Moiso

Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con [...]]]> di Sandro Moiso

Non si può certo dire che i giudizi della critica riguardo all’ultimo film di Damien Sayre Chazelle siano stati unanimemente positivi, anzi tutt’altro. Mentre anche l’impatto sul pubblico, a giudicare dagli incassi al botteghino delle prime settimane dopo la sua uscita, non deve aver soddisfatto la società produttrice. Il regista statunitense (classe 1985), figlio di genitori franco-canadesi, che. con il musical La La Land, nel 2017 aveva vinto il Premio Oscar per la miglior regia, diventando il più giovane regista nella storia ad aver vinto la celebre statuetta, torna con Babylon ancora una volta alla sua passione per il cinema, il suo mondo e la sua storia.

Una passione, velata di nostalgia, già espresso nella pellicola vincitrice del premio in cui aveva reso omaggio ai classici film musicali prodotti a cavallo fra gli anni ’50 e ’60. Nel film attuale la rappresentazione dei sentimenti del regista nei confronti del cinema del passato è affidata al personaggio che fa un po’ da trait d’union tra i personaggi e le storie narrate, interpretato dall’attore Diego Calva, riuscendo ad aprire spazi di riflessione su cosa sia stato il cinema, su cosa sia diventato o continui ad essere, superando ampiamente il pericoloso effetto nostalgia canaglia che, scorrendo in sotto traccia avrebbe potuto gravemente menomarne il significato. Facendo sì, invece, che la sua visione risulti stimolante anche per quanto riguarda le possibili riflessioni sull’arte, il sogno e il desiderio in tutte le loro possibili forme.

Di scarso interesse sarebbe riassumerne qui la trama, ripetere gli elogi per la bravura di Margot Robbie, Diego Calva e Brad Pitt e di molti dei comprimari. Scontato elogiare la tecnica dei piani sequenza lunghi e visionari in cui feste orgiastiche oppure set improvvisati nel deserto californiano diventano occasione per un uso smodato della steadicam o di riprese che precipitano letteralmente lo spettatore nella scena cui sta assistendo. Mentre va sicuramente segnalata la stratificazione di storie ed emozioni che, pur non tradendo le aspettative di un film destinato al grande pubblico e non certo ai cinema d’essai, incollano alla poltrona gli spettatori e, al tempo stesso, li costringono a riflettere sulla magia del cinema, il suo immaginario, lo star system e la loro funzione, allo stesso tempo, liberatoria e ingannatrice.

Le cose da segnalare però rimangono tante, per una storia che narra il passaggio dal cinema muto delle origini al cinema sonoro dei grandi studios, organizzati con modalità di fabbrica a Burbank, posta nell’area di Los Angeles. A pochi chilometri di distanza da Hollywood, ritenuta a torto o ragione ancora oggi, “la Mecca del cinema”. Una storia che si svolge complessivamente tra la seconda metà degli anni Venti e il 1952, anche se il cuore della vicenda è racchiuso tra il 1926 e il 1934.

Il 1926 è infatti l’anno in cui il cinema delle origini perde la sua libertà espressiva, l’anarchica tendenza a portare sullo schermo qualsiasi sogno, desiderio o avventura per iniziare a diventare una macchina da sogni molto più regolamentata e organizzata. E’ infatti l’anno in cui per la prima volta la società di produzione Warner Bros. porta sullo schermo 8 cortometraggi sonorizzati col metodo Vitaphone mentre, il 26 agosto dello stesso anno, il primo lungometraggio sonoro, è presentato al Warner Theatre di New York per un pubblico pagante.

Tale innovazione di carattere tecnologico avrebbe così causato un autentico terremoto nel sistema produttivo hollywoodiano, segnando la fine delle star precedenti e della libertà dì espressione, spesso caotica, ma quasi sempre geniale e creativa, sia delle attrici e degli attori che dei registi impegnati su set che, fino a quell’epoca, erano stati più di carattere artigianale che industriale.

La nuova tecnica imponeva regole e limiti all’espressività fisica degli interpreti. Imponeva il potere della parola sui corpi e sulle immagini, ne delimitava i confini spaziali, psicologici e recitativi. Portando le regole della recitazione teatrale all’interno di un’arte che era nata altra. La dizione iniziava a contare e la voce di una ragazza del Midwest, proletaria e poco educata (la Nellie LeRoy interpretata da Margot Robbie) poteva rivelarsi disastrosa proprio là dove, prima, la sua esuberanza fisica e recitativa aveva costituito la sua fortuna nei confronti del grande pubblico.

Vale per l’attore bello e dannato (Jack Conrad interpretato da Brad Pitt), uscito tanto dalle pagine di Francis Scott Fitzgerald quanto dalle vite di attori autentici quali Douglas Fairbanks (grande interprete di film d’avventura) o John Gilbert (il più pagato di Hollywood nel 1928), la cui voce non avrà lo stesso fascino del suo sguardo e del suo volto, finendo col rendere ridicole scene che prima ne avevano esaltato il fascino.

Ma vale anche per il trovarobe Manuel “Manny” Torres (interpretato da Diego Calva), innamorato di tutto ciò che è cinema e di Nellie in particolare, che poco per volta rinuncerà alla sua identità messicana, portata via dal vortice di Tinseltown, per essere trasformato sempre più in un produttore esecutivo che non riuscirà, però, a sposare con successo la sua passione con le regole del “nuovo” cinema. E anche se sarà l’unico a sopravvivere fino all’avvento di una nuova grande star (Marilyn Monroe), lo farà da nostalgico testimone di un’epoca e da modesto rivenditore di elettrodomestici a New York.

E’ un passsaggio di portata storica quello raccontato nel film di Chazelle. Storia di una Babilonia sul Pacifico che già altri avevano tentato di rappresentare e di narrare, dagli scandalosi testi di Kenneth Anger sui vizi e le perversioni della città del cinema1 ai fratelli Taviani con il loro Good Morning Babilonia del 1987, in cui veniva raccontata la nascita artigianale del grande cinema di Griffith, vista attraverso gli occhi e le esperienze di due modesti artigiani di origine toscana.

Il cinema di Griffith, con i suoi Birth of a Nation (1915) e Intolerance (1916), e quello di Erich von Stroheim, costituiscono i due capisaldi in mezzo ai quali si muove il cinema dell’epoca precedente il sonoro. Cinema che però aveva alimentato anche le storie di Charlie Chaplin, Buster Keaton e molti altri. Tutti accomunati dall’essere dei visionari in un’arte che proprio dalla “visione” è sempre stata determinata, Fin dagli esordi dei fratelli Lumière e di George Méliès.

Arte nata in Europa e che Lenin aveva definito la più importante delle arti. Che a Torino aveva visto realizzare il primo colossal dell’epoca, Cabiria (1914), della durata di 168 minuti, che sarebbe stato anche il primo film ad essere proiettato alla Casa Bianca, probabilmente ispirando, con il suo successo, The Birth of a Nation (durata 190 minuti) di David Wark Griffith, già prima citato.

Cinema decisamente artigianale, rispetto al successivo, ma che aveva permesso quei voli fantastici dell’immaginazione che avrebbero così totalmente rapito e irretito l’immaginario e la mente di milioni di persona di ogni nazionalità. Fornendo così la base su cui si è fondata tutta la potenza narrativa del cinema, fino al più recente Avatar 2 – La via dell’acqua2. Registi e attori che hanno di fatto rappresentato gli autentici fratelli Wright dell’inizio dei voli della mente davanti al grande schermo, all’interno di una sala buia ma popolata da molti altri spettatori destinati a sognare tutti insieme. Spesso nelle forme più diverse e meno automatiche, che solo la parola recitata avrebbe iniziato ad indirizzare verso uno spazio comune della mente.

Gli effetti complessivi del passaggio dal muto al sonoro potrebbero essere riassunti nel viaggio compiuto dal cinema italiano dalla Torino dei film di Giovanni Pastrone alla Cinecittà di mussoliniana ideazione e realizzazione alla metà degli anni Trenta. Dal cinema della visione a quello dei “telefoni bianchi”. Da quello ispirato, come Cabiria, ai romanzi d Emilio Salgari (Cartagine in fiamme, 1906-1908), a quello rispondente alle esigenze di svago preordinato per il “dopolavoro” delle masse e di propaganda ideologica del regime. Da quello del sogno a quello dell’impero. Osservazione quest’ultima che, dal punto di vista cinematografico, vale per le due sponde dell’Atlantico.

Se c’è una parola che può servire a descrivere il prima e il dopo, questa è eccesso.
Che, almeno per una volta, andrebbe compresa nel suo significato generale e non soltanto di giudizio morale. Termine che indica il massimo, l’estremo, il sommo grado cui si può giungere nella realizzazione di un’opera d’arte o di una vita. Vocabolo che serve benissimo a definire ciò che è arte da ciò che non lo è e che, spesso, non è nemmeno cultura. Vocabolo adatto a descrivere l’intima essenza desiderante della Rivoluzione, ma non il Riformismo degli equilibri e la volontà dello Stato di mantenere l’ordine costituito, che può eccedere nelle sue funzioni, ma mai potersi pensare in “eccesso”.

Fin dal 1915 la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America aveva stabilito che le pellicole cinematografiche non erano coperte dal primo emendamento: «la proiezione di immagini in movimento è un business puro e semplice, nato e gestito per il profitto […] non deve essere considerato […] come parte della libera stampa del Paese o come un mezzo di formazione della pubblica opinione». La medesima sentenza stabiliva inoltre che i film «possono essere usati per fini malvagi» e che pertanto la censura di questi «non travalica i poteri del Governo». A seguito di tale sentenza città e contee avevano iniziato a porre divieti sulla pubblica esibizione di film giudicati “immorali”, e gli studios temevano che presto sarebbe seguita una legislazione statale o federale.

Nei primi anni Venti tre grossi scandali avrebberoo turbato Hollywood3. Queste storie, avvenute in rapida successione, furono trattate con sensazionalismo e clamore dalla stampa e costituirono i titoli di tutti i quotidiani del paese e sembrarono confermare in pieno la percezione che molti avevano di Hollywood come “città del peccato”.

Questa presunta immoralità portò alla creazione, nel 1922, dell’Associazione dei produttori e distributori di pellicole cinematografiche, intenzionata a presentare un’immagine positiva dell’industria cinematografica, guidata da Will H. Hays, che chiese di stabilire una serie di standard morali per i film. A questo fine Hays tentò di rafforzare tramite la sua associazione l’autorità morale sui film hollywoodiani, ma con scarsi effetti. L’ufficio di Hays rilasciò infatti una lista di divieti e di cautele nel 1927, ma i registi continuarono a realizzare ciò che volevano e, in molti casi, i tagli proposti di alcune battute o scene non vennero effettuati.

Con l’avvento del sonoro, nel 1927 si sentì la necessità di un codice scritto più restrittivo. Fu così steso il Production Code che venne adottato il 31 marzo 1930, ma fu di fatto ignorato dagli studios. Questo e i codici successivi furono spesso denominati Codice Hays perché Hays ne era stato il promotore. Un emendamento al codice, adottato il 13 giugno 1934, creò allora la Production Code Administration, decidendo che da allora ogni film dovesse ottenere un certificato di approvazione prima di approdare nelle sale. Da allora, per tutto il ventennio successivo, tutti i film prodotti negli Stati Uniti aderirono più o meno rigidamente al codice4. Il primo intervento che coinvolse una major cinematografica fu nella pellicola del 1934 Tarzan and His Mate, nella quale una breve scena di nudo dell’attrice Maureen O’Sullivan venne eliminata dal negativo del film.

Oltre a ciò il codice si accanì anche nel modificare personaggi di animazione come Betty Boop, dalle forme troppo prosperose e ben in vista, oppure la cinematografia sui gangster imponendo, in piena grande crisi, che le storie di tale genere non potessero concludersi a “vantaggio” dei delinquenti rappresentati sullo schermo (e amati dal grande pubblico che ne seguiva le gesta nella realtà, come nel caso dei rapinatori di banche Bonnie Parker e Clyde Barrow e di John Dillinger, tutti letteralmente fucilati on the road dalle forze dell’ordine e del Federal Bureau of Investigtion).

Ecco allora, che poco alla volta, ci si è avvicinati al cuore di ciò che ispira la visione del film di Chazelle: la fine dell’eccesso che è anche la fine del sogno e del desiderio liberato.
Fosse anche solo nell’immaginario. Inutile, dopo, teorizzare archetipi ed eroi adatti ad un mondo trasformato e sottomesso dalle regole della tecnica, della produzione seriale e dei codici. Non a caso, l’ultimo vero grido “silenzioso” di rivolta è quello di Tempi Moderni di Charlie Chaplin (1936), ultimo film muto girato a Hollywood e l’ultimo in cui appare sugli schermi il vagabondo Charlot. Autentico canto del cigno di un’epoca giunta alla fine, nel film sono soltanto i rappresentanti del potere economico e politico e le macchine che ne proiettano l’immagine o trasmettono la voce “a parlare”.

L’avvento del sonoro e dei codici di comportamento e regolamento per sceneggiatori, registi e attori servirono soprattutto a regolamentare il sogno di massa e a ricondurlo nei recinti di ciò che è accettabile per il potere politico e la morale cristiana, nei suoi vari dettami. Ma anche quando, come al giorno d’oggi, si permetterà la presenza dell’eccesso questo sarà solamente il prodotto finto di una rappresentazione. Così come i Maneskin e il loro circo di insopportabili manierismi possono stare a Iggy Pop e ai suoi Stooges. Oppure The Walking Dead ai film di Romero e alle produzioni di storie di serie B di un cinema artigianale e ribelle soffocato dalle grandi e costosissime produzioni seriali e cinematografiche.

E’ un discorso tutto ancora da sviluppare questo scaturito dalla visione del film Babylon. Riguarda il desiderio, l’arte, il sogno: tre aspetti dell’attività umana che non possono avere limiti e regole che ne castrino la creatività fin dalle radici. Senza scomodare la psicoanalisi, basterebbe citare Leopardi che, nello Zibaldone di pensieri, si sofferma ripetutamente sulla naturale illimitatezza del desiderio oppure citare Dante e Boccaccio, con i loro eccessi nella scrittura opposti all’ordine e all’equilibrio del petrarchismo. Oppure, ancora, la lingua di Gadda contro quella di tanti scrittori di successo contemporanei. Non occorre essere obbligatoriamente dei punk per cogliere l’importanza dell’eccesso nella vita, nell’espressione artistica e nell’attività onirica. Conscia o inconscia che sia quest’ultima. Vale per gli eccessi narrativi di Philip José Farmer nei confronti di tanta vuota SF iper-tecnologica; vale per i due maggiori scrittori della letteratura francese del ‘900, Louis Ferdinand Céline e Marcel Proust, così distanti tra di loro eppure così eccessivi nell’uso della lingua e dei ricordi. Vale, infine, per i passaggi più visionari dei romanzi di Eymerich messi a confronto con tanta vuota letteratura mainstream odierna.


  1. K. Anger: Hollywood Babilonia, Adelphi, Milano 1979 e Hollywood Babilonia II, Adelphi, Milano 1986  

  2. Film dal risultato ben più modesto rispetto al precedente Avatar, sempre di James Cameron, uscito nel 2009, a dimostrazione che lo sviluppo della tecnologia, nel cinema come in qualsiasi altro ambito, è destinato a far sì che la stessa cannibalizzi se stessa insieme ai suoi prodotti, resi rapidamente e irrimediabilmente obsoleti ad ogni svolto della sua evoluzione  

  3. I processi per omicidio della star delle commedie Roscoe Fatty Arbuckle (accusato della morte dell’attrice Virginia Rappe a una festa), l’assassinio del regista William Desmond Taylor e la morte dovuta alla droga del popolare attore Wallace Reid.  

  4. Che si basava su tre norme fondamentali:
    1. Non sarà prodotto nessun film che abbassi gli standard morali degli spettatori. Per questo motivo la simpatia del pubblico non dovrà mai essere indirizzata verso il crimine, i comportamenti devianti, il male o il peccato.
    2. Saranno presentati solo standard di vita corretti, con le sole limitazioni necessarie al dramma e all’intrattenimento.
    3. La Legge, naturale, divina o umana, non sarà mai messa in ridicolo, né sarà mai sollecitata la simpatia dello spettatore per la sua violazione.

    Da cui derivavano ancora svariate altre regole:
    Il nudo e le danze lascive furono proibiti.
    La ridicolizzazione della religione fu proibita; i ministri del culto non potevano essere rappresentati come personaggi comici o malvagi.
    La rappresentazione dell’uso di droghe fu proibita, come pure il consumo di alcolici, “quando non richiesto dalla trama o per un’adeguata caratterizzazione”.
    I metodi di esecuzioni di delitti (per esempio l’incendio doloso, o il contrabbando ecc.) non potevano essere presentati in modo esplicito.
    Le allusioni alle “perversioni sessuali” (tra cui, all’epoca, veniva inclusa l’omosessualità) e alle malattie veneree furono proibite, come lo fu anche la rappresentazione del parto.
    La sezione sul linguaggio bandì varie parole e locuzioni offensive.
    Le scene di omicidio dovevano essere girate in modo tale da scoraggiarne l’emulazione nella vita reale, e assassinii brutali non potevano essere mostrati in dettaglio. “La vendetta ai tempi moderni” non doveva apparire giustificata.
    La santità del matrimonio e della famiglia doveva essere sostenuta. “I film non dovranno concludere che le forme più basse di rapporti sessuali sono cose accettate o comuni”. L’adulterio e il sesso illegale, per quanto si riconoscesse potessero essere necessari per la trama, non potevano essere espliciti o giustificati, e non dovevano essere presentati come un’opzione attraente.
    Le rappresentazioni di relazioni fra persone di razze diverse erano proibite.
    “Scene passionali” non dovevano essere introdotte se non necessarie per la trama. “Baci eccessivi e lussuriosi vanno evitati”, assieme ad altre trattazioni che “potrebbero stimolare gli elementi più bassi e grossolani”.
    La bandiera degli Stati Uniti d’America doveva essere trattata rispettosamente, così come i popoli e la storia delle altre nazioni.
    La volgarità, e cioè “soggetti bassi, disgustosi, spiacevoli, sebbene non necessariamente negativi” dovevano essere trattati entro i dettami del buon gusto. Temi come la pena capitale, la tortura, la crudeltà verso i minori e gli animali, la prostituzione e le operazioni chirurgiche dovevano essere trattati con uguale sensibilità.
    Sull’argomento cfr. AA.VV. Prima della grande censura. Hollywood e il Codice Hays, in “Cinematografie”, Anno II, n.3, primo semestre 1991, pp. 7-94 e AA.VV. Prima dei codici 2. Alle porte di Hays, XLVIII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – La Biennale di Venezia, 1991.  

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La guerra degli animali https://www.carmillaonline.com/2021/08/16/la-guerra-degli-animali/ Mon, 16 Aug 2021 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67516 di Sandro Moiso

Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori, Milano luglio 2021, pp. 281, 14,00 euro

Solo chi conosce il potere della violenza e sa come disobbedirgli, può amare e praticare la giustizia. (L’Iliade, poema della forza – Simone Weil)

L’ultimo romanzo di Serge Quadruppani pubblicato in Italia da pochi giorni, ma in realtà uscito in Francia nel corso del 2017, conferma l’autore francese come il vero erede di Alan D. Altieri. Il caso ha voluto che il libro sia comparso in lingua originale proprio nell’anno in cui l’autore italiano dava inizio al [...]]]> di Sandro Moiso

Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori, Milano luglio 2021, pp. 281, 14,00 euro

Solo chi conosce il potere della violenza e sa come disobbedirgli, può amare e praticare la giustizia.
(L’Iliade, poema della forza – Simone Weil)

L’ultimo romanzo di Serge Quadruppani pubblicato in Italia da pochi giorni, ma in realtà uscito in Francia nel corso del 2017, conferma l’autore francese come il vero erede di Alan D. Altieri. Il caso ha voluto che il libro sia comparso in lingua originale proprio nell’anno in cui l’autore italiano dava inizio al suo ultimo viaggio verso quelle città oscure descritte nei suoi formidabili libri di azione e riflessione sul divenire di un mondo crepuscolare, in cui a dominare sono soltanto i quattro cavalieri dell’Apocalisse continuamente resuscitati dagli interessi e dalle attività del capitale monopolistico e finanziario.

Quadruppani (classe 1952), autore di diversi romanzi noir (ma non solo) di cui molti editi in Italia, è anche traduttore in francese dei romanzi di Andrea Camilleri, Valerio Evangelisti, Sandrone Dazieri e Massimo Carlotto. La sua anima “nera”, però, frequenta gli stessi topoi che furono di Altieri, mescolando tensione, azione, geostrategia e geopolitica degli imperialismi, minuziosità tecnica nella descrizione delle armi usate, una certa dose di cinismo dei personaggi (indipendentemente dalla “squadra” o al campo cui appartengono) e una dettagliata descrizione delle conseguenze sui corpi umani dell’uso di armi mortali e violenza, mai intimidita dal timore di mostrarle fino in fondo.

A differenziarne, però, stile e scrittura è una certa dose di ironia e i riferimenti metaletterari che Serge Quadruppani inserisce nel corso della narrazione oltre che le allusioni all’attualità, molto più evidenti e precise di quelle contenute nei romanzi di Altieri. Anche se nell’ultimo romanzo, infatti, a dominare sono la jihad islamica e l’azione dei servizi segreti dedita a contrastarla e a deviarne gli obiettivi per finalità più consone agli interessi del capitalismo francese e statunitense, non mancano i riferimenti al movimento No Tav valsusino, all’esperienza della Zad di Notre Dame des Landes, all’inchiesta sul presunto affaire di Tarnac, agli scontri tra casseur provenienti dalle banlieue e studenti delle scuole superiori che caratterizzarono le manifestazioni che si svolsero a Parigi nel 2005, e a molto altro ancora.

Le stesse parole che chiudono il romanzo, che oltre che noir potrebbe anche essere definito distopico, se non fosse che molte delle azioni descritte, sia in Medio Oriente che in Francia, potrebbero benissimo appartenere all’attualità politico-militare degli anni recenti, tirano in ballo la triste vittoria di Emmanuel Macron alle ultime elezioni presidenziali, pur senza nominarlo direttamente. «Tutto ciò è una storia ormai nota. La ricordiamo soltanto per chiedere al lettore uno sforzo di immaginazione. Che per un attimo provi ad immaginare come sarebbe stato più brutto e triste il mondo se le elezioni presidenziali previste per l’aprile-maggio 2017 si fossero svolte davvero!»1

Si può cogliere il sorriso sulle labbra dell’autore mentre immagina, dopo aver descritto il ritorno di un agente speciale da una guerra crudele ed inutile (elemento fondante di tante storie di Altieri costruite intorno a personaggi traditi e disillusi) e gli sfortunati eventi che ne derivano, che in fin dei conti non tutto il male vien per nuocere, a patto, naturalmente, di saper ripagare gli avversari con la stessa moneta e magari anche con gli interessi.

E’ una fiamma sovversiva quella che pervade la narrazione, condotta sempre con grande maestria e senso della suspense, in cui, nonostante tutto, i possibili tessitori di trame e complotti possono finire sconfitti, a volte anche dall’intervento del caso o, come qui spesso capita, da quello degli animali e nemmeno dei più feroci ma piuttosto di quelli più vicini all’uomo come gatti, asini, api e taccole.

Il bel romanzo di Quadruppani, consigliatissimo per una divertente e intelligente lettura estiva, costituisce anche un canto per la Natura che si ribella, soprattutto nei confronti della sua duplicazione tecnologica, ricca di capitale morto e priva di vita. Facendo riflettere il lettore sul fatto che quelli che chiamiamo sprezzantemente “animali” non dovrebbero essere quelli pennuti, pelosi o piccoli e impegnati in attività utili come quella di produrre miele, molto più coscienti e intelligenti di quanto normalmente si pensi, ma le autentiche belve a due zampe che, in divisa da jihadista o in quella di un esercito nazionale oppure, ancora, vestite in borghese nelle stanze asettiche e fredde delle basi segreta americane sparse per il mondo, convertite per fede o per convenienza, non fanno altro che seminare morte, distruzione, odio e dolore tra gli appartenenti alla proprio specie.

L’unica eccezione la fa il lupo, solitario, braccato, invisibile, imprendibile e, all’occorrenza, feroce e determinato, proprio come il principale protagonista della vicenda: Pierre Dhiboun.
Non perdetevi quindi questa occasione di gustare almeno un’immaginaria e giusta vendetta, lasciandovi trasportare dal desiderio e dal sogno che pervadono tutta la narrazione. Buona lettura!


  1. Serge Quadruppani, Lupi solitari, Mondadori 2012, p. 278  

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L’immaginario di un secolo (tutt’altro che breve) https://www.carmillaonline.com/2021/06/17/limmaginario-di-un-secolo-tuttaltro-che-breve/ Thu, 17 Jun 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66628 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Maschere e pugnali. Utopisti e avventurieri da Platone a Nero Wolfe, Write Up Books, Roma 2021, pp. 466, 28,00 euro

Robert Louis Stevenson osserva che i personaggi d’un libro sono sfilze di parole. A questo, per quanto blasfemo ci possa sembrare, si riducono Achille e Peer Gynt, Robinson Crusoe e Don Chisciotte. A questo anche i potenti che ressero la terra: una seriedi parole è Alessandro, Attila un’altra. (Jorge Luis Borges, Nove saggi danteschi)

E’ una lunga esplorazione dell’immaginario del ‘900 quella che Diego Gabutti ci propone con la sua ultima raccolta di scritti. Un secolo che supera certamente i cento anni canonici, visto che le radici del suo immaginario si allungano almeno fino alla metà dell’Ottocento, mentre i suoi rami più lunghi si protendono fino al primo ventennio di quello attuale. Un percorso temporale caratterizzato tanto da numerosi “fin de siècle”, mai definitivi, quanto da altrettanti ripetuti inizi.

Una coazione a ripetere e ripetersi che sembra, di fatto, la base reale di ciò che viene definito spesso come post-moderno e che, a sua volta, guardando con attenzione ai personaggi e ai miti ri/proposti da Gabutti con il suo solito stile beffardo, non fa altro che rimodellare un immaginario definito una volta per tutte (o quasi) dal medesimo modello sociale e di produzione affermatosi nello stesso periodo su scala planetaria.

Simile per molti versi a due delle raccolte di testi più belle di Geminello Alvi1, con cui condivide l’attenzione per personaggi come Emilio Salgari, Amadeo Bordiga, J.R.R. Tolkien e Charlie Chaplin, Maschere e pugnali se ne distacca per la capacità dell’autore di sintetizzare in ogni occasione una enorme quantità di osservazioni di carattere letterario, filosofico, politico e fantastico mantenendo dritta la barra della fantasia scatenata come forza e utopia liberatrice dalle miserie del vivere quotidiano. Affiancando però, a differenza di Alvi, i personaggi reali a quelli altrettanto vividi prodotti dalla fantasia di autori di ogni genere, e suggerendo così al lettore che la vita possa essere essenzialmente null’altro che un sogno, tra i tanti che l’immaginario, sia individuale che collettiva, finisce col produrre e riprodurre in continuazione.

Problematica che ben si adatta ad una collana, DELIRIA, della casa editrice Write Up e diretta da Marco Vettorato, il cui intento è quello di sottolineare che: « Ricordare è sempre immaginare. Ci sono realtà entro le quali l’ignoto prende forma: dietro la razionalità dubitante c’è il genio creativo, c’è il lato fantastico della ragione che non riesce a distinguersi dalla follia sognante ».

E’ un enorme favoliere quello che Gabutti ci propone con le sue pagine, che racchiudono la Storia del lungo Novecento nella sua dimensione più autentica: quella della affabulazione letteraria e della narrazione, sia che questa si presenti come singola o collettiva, tossica o innovativa oppure , ancora, “realistica” o “fantastica”. Una grande narrazione, spesso destinata a ripetersi con trame ed eroi, malvagità e miracoli, speranze e deliri che solo apparentemente esplodono dal “nulla” come novità. Si tratti di ideologie oppure di catastrofi, di violenza, di incubi, sogni o avventure tutto finisce col confluire in una gigantesca e continua ricostruzione e distruzione del mondo che le ha prodotte. Una sorta di demiurgo impersonale, prodotto da migliaia o milioni di personalità, che come afferma l’autore a proposito dell’opera di Tolkien:

non si limitò a inventare nuove storie e neppure semplicemente raccolse quelle tramandate dalle
nonne e dalle antiche tradizioni letterarie. Organizzò un intero universo che agisse da cornice perfetta e smisurata per quell’idea di fiabe che lo divorava […]
Diede forma a un intero mondo, anzi a un intero cosmo, completo di storia, di lingue vive e morte, di popoli e di specie animali, con una geografia e uno scenario culturale perseguiti fin nei dettagli […] Quindi lo farcì di storie e accadimenti, di saghe celesti e d’ombre tenebrose, fino a comporre un quadro immane e labirintico, così vertiginoso e dettagliato da stordire chi troppo a lungo vi avesse fissato lo sguardo. La Terra di Mezzo divenne così un mondo storico, non meno reale di quelli testimoniati nei libri di scuola, persino altrettanto orribile e pericoloso2.

Letteratura, giornali, cinema e fumetti contribuiscono così a creare e ricreare quel “mondo reale” in cui, più che vivere, fantastichiamo di vivere e in cui, per esempio, la Cina romantica e mitica di Edgar Snow

In balia di briganti, artisti di strada, orfani, prostitute e «intellettuali borghesi al servizio del popolo»; percorsa da sinistri signori della guerra e da generali comunisti simili a «soldati di Cromwell» (per citare Beppe Fenoglio) «col fucile a tracolla e la Bibbia nel tascapane», è stata per un po’ – prima di Piazza Tien An Men e d’Alibaba.com – l’equivalente radical dell’Inghilterra vittoriana, della Contea di J.R.R. Tolkien o della Parigi di Balzac: una terra immaginaria e un modello sociale, un miraggio nel deserto e un’utopia3.

Un’azione continua di costruzione e decostruzione dell’immaginario e, in fin dei conti, del mondo che vede quella che un tempo fu sbrigativamente liquidata come sovrastruttura rivelarsi come parte fondante della struttura e dell’ordine del discorso che la regge. Sia nell’arte del governo dell’esistente che del suo rovesciamento utopico. In un secolo in cui Batman e Stalin, Hitler e Superman, Sauron e Bordiga possono direttamente o indirettamente scontrarsi su piani che rinviano alle antiche saghe, rinnovandone i fasti con la potenza della stampa e dei massa media, del digitale o del technicolor.

Nuovi eroi, nuovi dei malvagi e nuove terre di mezzo o lande selvagge popolano continuamente l’immaginario della modernità; nuovi pericoli la minacciano e nuovi salvatori, in mutande e costume attillato oppure nel grigiore di giacca e cravatta si propongono per la salvezza della stessa.
Generali in divisa e drag queen piene di lustrini percorrono con la stessa naturalezza il palco dell’immaginario del ‘900. Si tratti di San Remo e della TV di oggi oppure della Berlino della fine degli anni ’20. I demoni di Dostoevskij possono essersi trasformati tanto negli hippy sbiellati al seguito di Charles Manson quanto negli esaltati combattenti dell’ISIS oppure riposare sotto le spoglie dell’impiegato cantato da Fabrizio De André in una delle sua ballate più celebri.

Un territorio, quello dell’immaginario di questo lungo secolo, in cui le funzioni dell’autore e dello spettatore, dello scrittore e del lettore, magari quest’ultimo insaziabile e compulsivo (come nel caso di Philip José Farmer citato nel testo), finiscono col fondersi in un’unica figura destinata a inventare e reinventare il mondo in continuazione. In uno scambio di ruoli, spesso involontario, in cui non si capisce più davvero chi crei e perché o, al contrario, perché distrugga per poi rifondare.
Alla fine sembrerebbe essere James Ballard, di cui Gabutti è gran conoscitore, a muovere i fili della faccenda anche se è l’unico a cui non sia stato destinato neanche un capitolo4.

Ma, sospendendo un’interpretazione che potrebbe farsi un po’ “ingombrante”, chi scrive questa recensione deve assolutamente rimarcare come la lettura del libro di Gabutti si riveli, ancora una volta, non solo stimolante ma anche estremamente divertente. Basterebbe infatti soltanto il capitolo dedicato alla ricerca da parte dell’autore della casa in cui sarebbe nato Nero Wolfe in Montenegro per fondere in una girandola di invenzioni e peregrinazioni (autentiche) la realtà con la fantasia, lo humour con la letteratura e la vita dello scrittore con quella del suo personaggi preferito.

Sono più di 160 i soggetti dell’antologia di recensioni, spunti di riflessione e articoli che ci vengono proposti nelle 450 pagine del libro (cui ne vanno aggiunte altre 15 soltanto per l’elencazione dei testi citati): da Bob Dylan a Ian Fleming, da Hugo Pratt a Marx e Engels oppure da Lord Greystoke (Tarzan) a Star Wars passando per Kerouac e Lucky Luciano, Orson Welles e Raymond Chandler.
In un’autentica enciclopedia che non dovrebbe mancare nella biblioteca di chiunque si occupi dell’immaginario del ‘900 e della funzione mitopoietica e creatrice della letteratura e della affabulazione mediatica.

“Ti passano un pezzo di carta coperto di lettere e numeri e tu devi tirarci fuori una partita di baseball. Crei il clima, dai un corpo ai giocatori, li fai sudare, brontolare, gli fai tirar su le brache a strattoni, ed è straordinario, pensa Russ, quanto trambusto concreto, quanta estate e quanta polvere la mente sia in grado di sollevare da una singola lettera latina piatta su un foglio.” (Don Delillo, Underworld)


  1. Geminello Alvi, Uomini del Novecento, Adelphi, Milano 1995 e G. Alvi, Eccentrici, Adelphi, Milano 2015  

  2. Diego Gabutti, Tolkien 2 (vita, morte e miracoli) in D. Gabutti, Maschere e pugnali, Write Up Books, Roma 2021, pp. 114-115  

  3. D. Gabutti, Edgar Snow in op. cit., p. 97  

  4. “In qualche modo, è difficile definire dove sia il confine tra sogno e realtà. Credo lo sia ancora di più nel nostro mondo moderno, dove l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger?
    Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale.” James Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, p. 37  

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I ratti dell’immaginario https://www.carmillaonline.com/2021/04/21/i-ratti-dellimmaginario/ Wed, 21 Apr 2021 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66087 di Redazione

Dedicato a Giovanna e a tutti coloro che subiscono ma, ancora, resistono

Prima li sentivamo muoversi nei muri, come i topi del celebre racconto di H. P. Lovecraft, poi hanno iniziato a muoversi per le stanze di casa e per le vie delle città e oggi sono venuti allo scoperto rivelandoci tutto l’orrore di questa società che si sarebbe voluto tener nascosto dietro a pareti di discorsi democratici, progressisti e green moltiplicati e riproposti all’infinito dai media.

Si sono presentati così, a volto scoperto con la scusa della pandemia e dei provvedimenti di urgenza, con i Dpcm, con [...]]]> di Redazione

Dedicato a Giovanna e a tutti coloro che subiscono ma, ancora, resistono

Prima li sentivamo muoversi nei muri, come i topi del celebre racconto di H. P. Lovecraft, poi hanno iniziato a muoversi per le stanze di casa e per le vie delle città e oggi sono venuti allo scoperto rivelandoci tutto l’orrore di questa società che si sarebbe voluto tener nascosto dietro a pareti di discorsi democratici, progressisti e green moltiplicati e riproposti all’infinito dai media.

Si sono presentati così, a volto scoperto con la scusa della pandemia e dei provvedimenti di urgenza, con i Dpcm, con i lacrimogeni sparati in faccia a chi si oppone ai loro devastanti e inutili progetti, con la criminalizzazione dei lavoratori in lotta, con la distribuzione di anni di reclusione o di sorveglianza speciale per chi si ostina a battersi contro le miserie dell’esistente e, per finire in “gloria”, con generali in pompa magna che vorrebbero farci credere di essere al servizio della società e della “nostra” salute.

Negano l’evidenza della gestione fallimentare della pandemia e dell’esistente, negano o ignorano l’assoluta dipendenza di ogni loro decisione dalle necessità immediate o future del capitale, rovinano le mezze classi fingendo di rappresentarle e si accaniscono sui lavoratori salariati e i giovani in una epocale trasformazione del lavoro e della distribuzione che lascerà sul campo milioni di disoccupati oppure di lavoratori destinati a compiti sempre più umili, non garantiti e sottopagati.

Per fare ciò, però, non possono accontentarsi di disciplinare la società e il lavoro ma, come si è già detto su queste pagine (qui) devono anche riuscire a reprimere e disciplinare ogni aspetto dell’immaginario, individuale o collettivo.
Per raggiungere questo obiettivo hanno dovuto andare oltre i limiti della normale produzione di narrazioni tossiche cui ci hanno abituato da tempo le fake news sistemiche e di Stato; hanno superato i limiti di una produzione culturale mainstream, contro cui questa rivista si batte ormai da molti anni poiché ritiene l’immaginario un campo di battaglia fondamentale per la definizione del nostro futuro, e hanno iniziato a porre severi limiti alla libertà di immaginare, in ogni sua forma ed espressione.

In tale ipotesi la libertà d’opinione sarà definitivamente seppellita e si potrà essere liberi di immaginare soltanto se si immaginerà ciò che il Capitale e lo Stato riterranno utile e proficuo immaginare. La capacità di immaginazione sarà trasformata in reato della mente, in associazione a delinquere del desiderio e dovrà essere rigidamente controllata da una sorta di polizia politica dei sogni.

Nemmeno George Orwell con 1984 era giunto a tanto e anche Ray Bradbury, con il suo Fahrenheit 451, era tutto sommato rimasto ancorato ai roghi di libri già visti tante volte nella storia. Tentativi messi in atto, anche in tempi recenti, per cancellare la memoria del passato e la sua cultura.
Oggi invece si vuole cancellare il futuro e la capacità di immaginarlo insieme al presente.
Presente e futuro che devono certamente preoccupare molto, se non addirittura spaventare, gli attuali signori della guerra economica, sanitaria e psichica per farli giungere ad una pratica che forse solo Philip K. Dick aveva saputo adeguatamente descrivere in alcune sue opere.

Disciplinare la mente significa disciplinare l’immaginario, mentre immaginare significa, il più delle volte, anticipare. Ecco allora che ciò che viene messo in atto oggi, anche attraverso l’operato della magistratura, è proprio questo: il tentativo di negare il futuro o un’immagine altra del presente.
Sia ben chiaro: si tratta di una partita per la vita e per la morte di un presente oscurantista che per rendersi eterno deve uccidere sul nascere qualsiasi ipotesi altra. Anche se presente soltanto in un romanzo.

Come è accaduto nel caso di Marco Boba, al quale va la piena solidarietà di tutta la redazione di Carmilla, che sembra esser precipitato in una dimensione degna dell’Inquisizione tardo medievale, poiché dopo una condanna in primo grado a quattro anni di detenzione per “incendio volontario” a seguito dei frammenti da fuoco d’artificio caduti su un capannone interno al carcere torinese delle Vallette, durante una manifestazione di protesta al suo esterno nel febbraio del 2019, è anche diventato oggetto di un provvedimento di sorveglianza speciale proposto nei suoi confronti, a causa del suo romanzo Io non sono come voi edito nel 2015 dalla cooperativa editoriale Eris di Torino. Infatti, come si afferma nel comunicato della casa editrice:

Giovedì 1 aprile è successa una cosa molto grave, e prima di parlarvene abbiamo voluto prenderci qualche giorno per riflettere. Scusate la lunghezza, ma in certi casi ogni parola è importante.
A un nostro autore, Marco Boba, è stata notificata da parte della Questura e della Procura di Torino una richiesta di sorveglianza speciale. Sino a qua, purtroppo, niente di straordinario. Negli ultimi anni questa misura preventiva molto pesante è stata richiesta e applicata più volte a militant* e attivist* di tutti i movimenti. Per chi non fosse avvezzo, la sorveglianza speciale consiste in un insieme di regole e divieti che vanno a colpire la persona nella propria quotidianità a causa di quella che viene definita “pericolosità sociale”, quindi è un provvedimento che colpisce le persone al di là di uno specifico fatto ma per un “comportamento generale”1.
Quello che noi troviamo davvero pericoloso e allarmante è che all’interno di questa richiesta di sorveglianza speciale sia stato inserito il romanzo –Io non sono come voi– che Marco ha pubblicato con noi nel 2015 come aggravante e/o prova. Anzi, il fulcro di questa prova nello specifico è la frase che noi come editori abbiamo scelto di mettere nel retro di copertina: «Io odio. Dentro di me c’è solo voglia di distruggere, le mie sono pulsioni nichiliste. Per la società, per il sistema, sono un violento, ma ti assicuro che per indole sono una persona tendenzialmente tranquilla, la mia violenza è un centesimo rispetto alla violenza quotidiana che subisco, che subisci tu o gli altri miliardi di persone su questo pianeta.» Una frase che dice il protagonista del libro in un dialogo. Una frase che come sempre estrapoliamo dal romanzo per far capire a chi si ritroverà il libro in mano qual è il cuore della storia, il mood, l’atmosfera, lo stile narrativo.
Parliamo di un romanzo di finzione, con un protagonista di finzione. Il romanzo è scritto in prima persona, al presente, scelta tra l’altro fatta non in origine dall’autore, ma dopo un lungo confronto tra autore ed editore. Editing, normale editing.
Che il romanzo sia di fantasia tra l’altro è dichiarato sin da subito, nella sinossi presente nell’aletta che si discosta totalmente dalla biografia dell’autore e in due pagine esplicative finali.
Non basta lo sfondo, il contesto, l’ambientazione, per decidere che un romanzo è autobiografico. I fatti principali che costituiscono la trama e il motore principale della narrazione sono chiaramente inventati, di finzione.
Ecco, a noi sembra davvero pericoloso che una finzione possa diventare una prova, che il dialogo di un personaggio di un romanzo possa diventare una prova, che le opinioni o le azioni di un personaggio di finzione possano diventare una prova, che una frase scelta dall’editore, per promuovere al meglio un libro, possa diventare un’aggravante e che una questura o una procura si possano occupare di una materia che dovrebbe restare appannaggio di chi fa critica letteraria.
In questi anni più volte si è invocato il reato d’opinione. Dalla vicenda di Erri De Luca, assolto dall’accusa di istigazione a delinquere per essersi espresso a favore dei sabotaggi contro la Tav, alla studentessa accusata di aver partecipato attivamente a delle azioni No Tav solo per aver utilizzato il “noi partecipativo” nella sua tesi di laurea in Antropologia culturale sul movimento stesso.
Ma ci sembra che a questo punto non stia diventando illecito solo avere un’opinione, ma anche il puro e semplice immaginare. Una società in cui non solo si paga per le proprie opinioni, ma addirittura per le opinioni o le azioni dei propri personaggi d’invenzione sarebbe la trama perfetta per un romanzo distopico. Ma per qualcuno, invece, è la realtà, perché sta accadendo.

Per Marco Boba, militante anarchico di lunga data, scrittore, occupante di case ed ex-redattore di Radio Black Out, il pm erede dell’operato anti-movimentista del duo Rinaudo e Padalino ha richiesto un provvedimento di sorveglianza speciale della durata di due anni basato, incredibilmente, su prove costituite non soltanto da una frase tratta dalla quarta di copertina del romanzo edito da Eris, come è stato detto già prima, ma anche da una recensione on line del libro stesso, oltre che dalla cattiva condotta suggerita dalla più che discutibile condanna precedentemente inflittagli nel primo grado di giudizio.

Sembra così, nell’operato della giustizia torinese, che la fantasia sia davvero andata al potere, visto che fantasiosi rappresentanti della magistratura perseguono reati di immaginazione, utilizzando qualsiasi forma o applicazione dell’immaginario per tarpare le ali non solo a quella che in tempi ormai lontani si sarebbe definita creatività, ma ad ogni forma di movimento dalle caratteristiche anti-sistemiche o antagoniste.

Dilungarsi ulteriormente su un episodio che più che appartenere ad una dialettica viva e reale tra le forze e le classi sociali potrebbe essere stato tratto da una farsa di Totò e Peppino, non sarebbe necessario se l’utilizzo a buon mercato e a largo raggio della sorveglianza speciale, accompagnato da accuse fantasiose, non fosse diventato pratica corrente nei confronti dei militanti NoTav, di coloro che come Eddi hanno combattuto per la libertà del Rojava oppure per gli anarchici cagliaritani e le giovani donne giunte da poco alla militanza antagonista, com’è successo recentemente a Firenze.

Vorremmo poter dire di questa giustizia fai da te, di questi apparati repressivi, dello Stato e dei governi imbelli, non ragionar di lor ma guarda e passa, ma l’unica cosa che possiamo invece affermare in questo momento e in solidarietà con tutti coloro che da questi provvedimenti e dalle violenze sono ormai quasi quotidianamente colpiti è che anche noi non siamo come voi e che molti ancora si aggiungeranno alle nostre fila, poiché il vostro operato sta proprio lavorando in quella direzione.

Grazie dunque a tutti coloro che, nel tentativo di ingabbiare e portarci via il nostro immaginario, faranno sì che questo diventi sempre più forte, chiaro, potente e condiviso.


  1. Per un approfondimento su pericolosità sociale e sorveglianza speciale si veda qui  

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Con Salgari alle radici del tempo https://www.carmillaonline.com/2021/02/07/un-novello-salgari-in-fondo-al-buio/ Sun, 07 Feb 2021 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64802 di Sandro Moiso

Andrea Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle. Memorie di un esploratore ottimista e ribelle, Società Editrice Milanese 2020, pp. 200, 16,00 euro

Si potrebbe affermare che l’avventura in sé non esiste. Infatti ciò che si può definire come tale da parte di alcuni, da parte di altri potrebbe essere dipinta come casualità, disgrazia, conquista, evento, sfortuna o fortuna. D’altra parte non bisogna mai dimenticare che i più classici avventurieri del XVI, XVII e XVIII secolo amarono spesso definirsi come gentiluomini di fortuna. Motivo per cui è [...]]]> di Sandro Moiso

Andrea Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle. Memorie di un esploratore ottimista e ribelle, Società Editrice Milanese 2020, pp. 200, 16,00 euro

Si potrebbe affermare che l’avventura in sé non esiste. Infatti ciò che si può definire come tale da parte di alcuni, da parte di altri potrebbe essere dipinta come casualità, disgrazia, conquista, evento, sfortuna o fortuna. D’altra parte non bisogna mai dimenticare che i più classici avventurieri del XVI, XVII e XVIII secolo amarono spesso definirsi come gentiluomini di fortuna. Motivo per cui è lecito pensare che questa esista soprattutto negli occhi di chi guarda al mondo come a un gioco o a una sfida.

Un gioco da bambini, o da uomini e donne che dei bambini non vogliono perdere lo sguardo. Ben distante da quello di coloro che sono invece affascinati dalle utilitaristiche tentazioni legate alla conquista, al dominio, al denaro, al potere. L’avventuriero è così, da sempre, una sorta di suonatore Jones cui, purtroppo, troppo spesso altri si sono accodati per trarre profitto, fama o successo dalle sue imprese.
Chi cerca l’avventura, di solito, esplora nuove possibilità e chi esplora, in fin dei conti, cerca prima di tutto l’avventura. Così luoghi dell’avventura possono essere individuati tanto nelle giungle delle Filippine quanto nelle valli e nelle grotte piemontesi. Illuminati dal sole del nuovo mattino o sprofondati nel buio del tempo geologico del mondo infero esplorato dagli speleologi, ben diversamente scandito e percepito da quello vissuto in superficie.

Andrea Gobetti, novello Salgari dell’avventura moderna, si è sempre mosso tra luce ed ombra, tra pareti verticali da affrontare con vertiginose salite e orridi e pozzi, sul cui fondo non arriverà mai la luce del sole, in cui sprofondare per ri/trovare ciò che la luce del giorno non può nemmeno immaginare. A differenziarlo da Salgari, che come lui visse molti anni della sua vita in prossimità delle colline torinesi, è però il fatto che mentre il padre di Sandokan e del Corsaro Nero visse le sue avventure soltanto attraverso gli occhi dell’immaginazione (e numerosi atlanti squadernati sul tavolo di lavoro), Andrea ha pienamente vissuto ciò che racconta, non importa se ogni tanto con il tono canzonatorio e spaccone dei tall tale che hanno sempre caratterizzato le narrazioni della letteratura e del folklore della frontiera americana.

Speleologo, alpinista, scrittore ed esploratore dei confini reali e immaginari del mondo, l’autore (classe 1952) del testo pubblicato dalla Società Editrice Milanese vive da molti anni in Lucchesia. Nel corso di un’esperienza più che cinquantennale ha conosciuto personaggi straordinari, ha fatto parte dei giovani arrampicatori ispirati dall’amico Giampiero Motti, teorico visionario del “nuovo mattino” ispirato dall’arrampicata californiana e da una diversa interpretazione della Montagna e della Natura; ha percorso abissi ritenuti insondabili ed è stato autore di numerose pubblicazioni e collaboratore nella realizzazione di vari documentari1.

Soprattutto, anche quando in gioventù è stato attivo in una delle formazioni più agguerrite e vituperate della sinistra extra-parlamentare, è sempre stato prima di tutto un militante dell’avventura e del sogno. Un’avventura e un sogno che richiedevano coraggio, ma anche elementi onirici e di autentica estasi, che una volta perduti avrebbero trasformato l’azione dirompente in mera archeopolitica, adatta soltanto ad amministrare l’esistente2. Un’esperienza di cui rimangono tracce significative, sotto forma di ricordi, anche nell’ultimo libro.

Se il titolo di quest’ultima opera offre già motivo di riflessione al lettore in quel guardar le stelle dal fondo di un pozzo, anche la prima opera edita di Andrea Gobetti portava con sé più di una promessa: Una frontiera da immaginare3. Ma quella frontiera, che all’epoca l’autore situava soprattutto tra le cime e le grotte del massiccio del Marguareis, nelle Alpi piemontesi, nel corso degli anni si è allargata e allontanata di un bel po’. Sia verso l’esterno “geografico”, sia in direzione di quell’inner space che è inseparabile da qualsiasi discorso sul sogno e l’avventura moderna.

Se scendi sottoterra, benché vivo e vegeto, subito alcune strane novità ti saltano agli occhi e anche addosso […] Nel buio scopri alcune curiose trasparenze.
La più nota è detta “Guarda la stella dal fondo del pozzo”, distaccati dalle luci del mondo e vedrai più lontano di quanto la massa degli abbagliati per vocazione non voglia né possa immaginare.
Un’altra trasparenza di quel buio primordiale scioglie il velo del tempo, ci mostra reale e presente una parte del mondo rimasta uguale a se stessa da migliaia se non milioni di anni. Nelle grotte il tempo non è più quel mostro furioso che in superficie divora uomini e panorami; pare invece paziente, fiero di sé mentre dedica tutta la sua arte agli arabeschi del vuoto.
Lo puoi accarezzare, tanto pare immobile.
[…] In questo su e giù di visioni spaziali, temporali, umane e fantastiche si eccitano, s’illudono e si consumano gli ardori degli speleologi, spesso mal accompagnati dalle solite scomodità notturnofile: il sonno, l’umido, il freddo, la fatica, la paura.
Perché ci vadano e perché tu li segua non è ben chiaro, ma laggiù nulla lo è. Forse le predette scomodità sono antidoti, vaccini contro mali ben peggiori in libera circolazione superficiale; forse sei matto, cerchi di andare dove il denaro non è mai arrivato4.

Certo, già prima di giungere allo splendore delle architetture sotterranee e prima ancora di poter contemplare l’opera del tempo secondo una differente prospettiva occorre affrontare un mondo esterno che spesso può riservare notevoli sorprese. Dall’apparizione improvvisa di un gruppo di guerriglieri comunisti nella giungla filippina, in cui si dileguano poi come fantasmi, alla cena preparata con un’anguilla da sette chili pescata da un membro di una delle tante spedizioni in un grande lago già in parte sotterraneo che custodisce l’accesso ad una gigantesca e inesplorata grotta tropicale.

Sorprese talvolta marcate dalla violenza, come spesso nel mondo di superficie accade e magari preannunciata dalla visita in sogno dell’amico Grundhal, come durante un viaggio in Albania al tempo delle sommosse popolari (che certo non risparmiarono le violenze ai danni dei rappresentanti del governo) degli anni ’90, oppure dallo stupore di fronte ad una massa di bianco calcare ancora mai sfidata e fino ad allora soltanto sognata.

Alla mia età scopro che si realizzano, a fronte delle delusioni e dei fallimenti riguardanti molti dei progetti in cui ho creduto in età adulta, i veri desideri di gioventù: una montagna di bianco calcare si erge ancora completamente inesplorata.
«Be’, sono qui, tutt’attorno a te» ride lei. «E ora che te ne fai di me, vecchio malvissuto?»
Lei e io siamo due esseri lontani uno sproposito, sia su scala spaziale che su scala temporale. Entrambi però siamo vuoti dentro, abbiamo la pelle traforata da migliaia di buchi grandi e piccini, siamo percorsi da fiumi e battuti dal vento. Tutti e due difendiamo una stabile temperatura interna. In fondo siamo più simili di quel che sembra, potremmo anche diventare amici.
Ogni volta che frequento grotte sconosciute finisce che scopro qualcosa di me, ma loro sono tante, mentre io solo uno.
«Ci vuole la banda» dice dal nulla la voce di un amico perduto.
Icaro, l’amico per vocazione.
Ci siamo mossi insieme in tantissime occasioni, quasi sempre cavandocela benissimo, finché non è caduto.
Ancora mi capita di consultarlo dentro di me, o forse è lui che viene a trovarmi quando non so dove sta il bandolo di una matassa appena avvistata5.

Vale la pena di concludere questo breve excursus, in un libro di cui si consiglia vivamente la lettura anche a chi non ha nessuna intenzione di affrontare pozzi e sifoni sotterranei e tutta l’umidità, la fatica e, talvolta, la paura che ne conseguono, con un’ultima riflessione dell’autore sulla memoria e sulla fortuna di poter comprendere i segreti delle montagne e delle grotte in esse nascoste, che non tutti, per loro sfortuna e per fortuna delle grotte stesse, che mai potranno diventare luoghi di turismo di massa se non in alcuni e ben delimitati casi, potranno mai comprendere.

So che non vale la pena di impegnarsi mezz’ora per ricordare un nome, un posto, una data che chi ci ascolta dimenticherà in pochi secondi.
La mia memoria è sempre stata bella strana, conserva un’infinità di cose inutili sin da quando ero ragazzo, ma già allora era incapace di dirmi dove stavano il quaderno, le scarpe da football, le chiavi della macchina.
«Non trovi niente!» si infuria mio padre nei miei ricordi più antichi.
«Non trovo gli occhiali!» mugolo adesso.
Per giunta sono trasparenti, e non li avrei comprati se ci vedessi bene.
Insomma, sono in forte disagio con le cose che si spostano, che vagano insieme a me or qui or là; con quelle ferme mi trovo meglio.
Le grotte non si muovono mai; si modificano all’interno, ma non fuori. La loro fissità è proverbiale. Credo che diffondano attorno a loro una certa qual aura di presenza antica, una stabilità temporale anomala che alcuni riescono a captare. Pare che io sia tra i fortunati6.

La conquista dell’inutile costituisce il titolo del diario tenuto da Werner Herzog nel corso dei due anni trascorsi nella foresta amazzonica per le riprese di Fitzcarraldo7, mentre I conquistatori dell’inutile è quello del diario, pubblicato per la prima volta nel 1961, dall’alpinista francese Lionel Terray8. Una definizione che va benissimo per definire l’avventura dell’esplorazione in qualsiasi contesto: infatti là dove inizia la ricerca dell’utile, come mi insegnò un certo amico fraterno ed istruttore del corso di speleologia del CAI – Uget di Torino ormai più di quarant’anni fa, finisce il divertimento.


  1. Qui alcuni titoli dei tanti libri pubblicati: Andrea Gobetti, Le radici del cielo, Centro Documentazione Alpina Torino 1986; L’Italia in grotta. Guida alle più belle grotte d’Italia , Gremese 1991; Drammi e diaframmi. Immagini e storia dei film di montagna (con Fulvio Mariani), Corbaccio 1997; L’ombra del tempo. Gli esploratori delle caverne, CDA & Vivalda 2003; Animalia Tantum (con Andrea Micheli), Skira, Milano 2000; L’uomo che scala, Visentini 2008; Le omelie del diavolo, Diffusione Immagine 2014  

  2. Forse è bene, a questo punto, ricordare come, pur partendo da ipotesi politiche diverse, un certo Lenin, in Stato e rivoluzione, abbia sostenuto che «il primo dovere di un rivoluzionario è quello di sognare»; mentre Paul Mattick, il teorico tedesco-americano del comunismo consigliare, avrebbe a sua volta successivamente riconfermato il concetto proprio nel titolo della sua autobiografia: La rivoluzione. Una bella avventura (a cura di Antonio Pagliarone, Asterios Editore, Trieste 2020)  

  3. A. Gobetti, Una frontiera da immaginare, prima edizione dall’Oglio editore 1976; seconda edizione CDA, Centro Documentazione Alpina, Torino 2001; terza edizione Alpine Studio, 2014  

  4. A. Gobetti, Dal fondo del pozzo ho guardato le stelle, SEM 2020, pp. 5-6  

  5. A. Gobetti, op. cit.. p. 77  

  6. op. cit., p. 53  

  7. Werner Herzog, La conquista dell’inutile, Mondadori, Milano 2018  

  8. L. Terray, I conquistatori dell’inutile. Dalle Alpi all’Annapurna, Hoepli, Milano 2017  

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Se sono chiuse le eterotopie del sogno https://www.carmillaonline.com/2021/01/18/se-sono-chiuse-le-eterotopie-del-sogno/ Mon, 18 Jan 2021 21:30:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64576 di Paolo Lago

Oggi, a causa della pandemia, sono stati chiusi cinema e teatri, biblioteche e musei. Tutti questi spazi sono accomunati dal fatto di costituire, all’interno della nostra società, delle eterotopie. Tale definizione è stata coniata da Michel Foucault, in un suo intervento del 1967 dal titolo Des espaces autres, per definire i luoghi “che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi [...]]]> di Paolo Lago

Oggi, a causa della pandemia, sono stati chiusi cinema e teatri, biblioteche e musei. Tutti questi spazi sono accomunati dal fatto di costituire, all’interno della nostra società, delle eterotopie. Tale definizione è stata coniata da Michel Foucault, in un suo intervento del 1967 dal titolo Des espaces autres, per definire i luoghi “che costituiscono delle specie di contro-spazi, delle specie di utopie effettivamente realizzate in cui gli spazi reali, tutti gli spazi reali che possiamo trovare all’interno della cultura, sono, al contempo, rappresentati, contestati e rovesciati, delle specie di luoghi che stanno al di fuori di tutti i luoghi, anche se sono effettivamente localizzabili”1. Le eterotopie sono degli “spazi altri” che costituiscono “una specie di contestazione, al tempo stesso mitica e reale, dello spazio in cui viviamo”2.

Secondo Foucault, teatri e cinema hanno la caratteristica di giustapporre, in un unico luogo reale, numerosi spazi tra loro incompatibili: nel teatro, sulla scena, vengono ricreati una serie di luoghi estranei gli uni agli altri; nella sala del cinema, invece, in uno spazio a due dimensioni ne viene proiettato uno a tre dimensioni. Cinema e teatri sono poi strettamente legati alla fantasia, alla libertà dell’immaginazione, al sogno. Quando entriamo in un teatro o in un cinema si entra veramente in uno “spazio altro”, uno spazio del sogno, in cui si materializzano davanti ai nostri occhi, come per magia, delle storie messe in scena da attori presenti lì in carne ed ossa oppure presenti in una sorta di altra dimensione, all’interno della pellicola proiettata. Il cinema si è sempre caratterizzato come una vera e propria macchina dei sogni: alle sue origini, infatti, altro non vi è che la “lanterna magica”, uno strumento che proiettava su una parete, in una stanza buia, delle immagini dipinte. Gli spazi del teatro e del cinema sono poi caratterizzati dall’essere al buio: in essi, durante lo spettacolo, è presente solo la luce sulla scena o quella emanata dalla proiezione. Lo spettatore del cinema, rilassato nel buio della sala, dà libero sfogo alla sua immaginazione di sognatore giungendo a identificarsi con i personaggi cinematografici. Il cinema e il teatro, perciò, possono essere definite come delle vere e proprie eterotopie del sogno.

Le biblioteche e i musei sono definite da Foucault come “eterotopie del tempo accumulato all’infinito”, in cui “il tempo non smette di accumularsi”3. Anche questi sono spazi della fantasia e dell’immaginazione: nelle biblioteche possiamo dare libero sfogo alla nostra immaginazione per mezzo della lettura; nei musei incontriamo la bellezza dell’arte che, spesso, si unisce a racconti e storie del tempo passato, vestigia e testimonianze che ci parlano e ci incantano. In tutti questi spazi, nei cinema, nei teatri, nei musei e nelle biblioteche cadiamo insomma preda di un vero e proprio incantesimo, entriamo in una dimensione magica, in un altro spazio e in un altro tempo liberati dalle dinamiche della quotidianità, grigia e banale, che ci aspetta fuori.

Fra i diversi tipi di eterotopie ce n’è una, secondo Foucault, che si configura come “l’eterotopia per eccellenza”, la nave. Essa è un “pezzo di spazio vagante”, “un luogo senza luogo che vive per se stesso” e che diventa un vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, uno spazio del sogno e della fantasia liberata. In una precedente versione radiofonica del suo intervento, per descrivere tali qualità della nave, lo studioso francese usava tonalità più poetiche rispetto alla successiva: “Le civiltà senza navi sono come i bambini, i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”4. Da una parte abbiamo l’immaginazione, simbolicamente rappresentata dai pirati e dalle loro avventure; dall’altra la polizia, simbolo del controllo e dello “spionaggio”.

Al pari della nave, anche i teatri e i cinema, le biblioteche e i musei sono dei serbatoi di immaginazione. E quando sono chiusi, in un certo senso, ci viene negata la possibilità di immaginare, di sognare, di arricchire e curare una parte importante di noi stessi. Probabilmente, invece di una totale chiusura, nonostante la situazione di emergenza, si potevano mantenere gli accessi limitati e scaglionati, come nei negozi o nei centri commerciali. Ma le eterotopie del sogno non hanno certo un immediato ritorno economico. Non c’è quindi da stupirsi che siano state immediatamente chiuse (come anche un altro spazio eterotopico, la scuola) in una società dominata dal modello di sviluppo capitalistico, che insegue soltanto il profitto economico. Una società senza teatri, cinema, biblioteche e musei è – al pari di una “civiltà senza navi” – come un bambino “i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare” e, allora, “i sogni si inaridiscono”.

I sogni e l’immaginazione si annientano anche quando le navi, eterotopie per eccellenza, sono costrette a fermarsi nei porti, quando vengono bloccate, per motivi economici o per gli interessi degli armatori; quando la loro libera erranza sulla distesa del mare viene negata e annullata. Di navi ferme, nella narrativa e nel cinema contemporanei, ne incontriamo diverse: pensiamo al romanzo di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (Ilona llega con la lluvia, 1988), in cui una nave, la Hansa Stern, viene bloccata a Panama, sequestrata dalle banche. Il protagonista del racconto, Maqroll il Gabbiere, marinaio della Hansa Stern, è costretto a sbarcare e ad affrontare il grigiore e la noia della vita a terra. Mentre la nave sta entrando in porto, i funzionari della guardia di finanza di Panama vi si avvicinano per salire a bordo ed effettuare i controlli. Nell’ingresso in porto, lo stesso aspetto del mare cambia: l’immaginifico “imprevedibile disordine” del mare aperto lascia il posto a una “palude grigia” disseminata di spazzatura e di uccelli marini in putrefazione, segnali del progressivo avvicinamento dello spazio della terraferma, quasi esso stesso paludoso e putrefatto. La noia, il controllo e la “polizia” sembrano avere il sopravvento e il comandante della nave, Wito, si uccide con un colpo di pistola. Il suicidio, di fronte al blocco forzato dei sogni del mare, appare anche l’unica alternativa al capitano della London Valour (“che si sparava negli occhi”) dopo il naufragio, nel brano di Fabrizio De André, Parlando del naufragio della «London Valour», in Rimini (1978). Anche in Marinai perduti (Les marins perdu, 1997) di Jean-Claude Izzo, una nave, l’Aldébaran, è costretta al blocco nel porto di Marsiglia, sequestrata dalle banche a causa dei debiti contratti dall’armatore. Marsiglia, a differenza di Panama nel romanzo di Mutis, si presenta come uno spazio generatore di nuovi sogni per i tre personaggi principali del racconto: il capitano Abdul, il suo secondo Diamantis e il giovane marinaio turco Nedim. Ma la nave bloccata nel porto può trasformarsi anche in uno strumento di contestazione e resistenza, come nel documentario di Peter Marcias, La nostra quarantena (2015), che riflette una situazione reale mostrando la vicenda di una nave bloccata nel porto di Cagliari e occupata da quindici marinai marocchini, senza stipendio da mesi. La nave ferma (stavolta non in un porto) si trasforma poi in uno spazio di contestazione “fuori dai confini” e “fuori controllo” nel film di Richard Curtis, I love Radio Rock (The Boat That Rocked, 2009), in cui una nave ancorata nel Mare del Nord viene trasformata da alcuni simpatici e squinternati deejay in una stazione radio pirata che trasmette musica rock illegale nell’universo perbenista dell’Inghilterra del 1966.

Se sono chiuse le eterotopie del sogno e se le navi sono bloccate, la “polizia” comincia perciò ad offuscare l’assolata bellezza dei corsari e la sua fantasia. Ma, forse, possono nascere e svilupparsi anche inediti e creativi percorsi di resistenza e di liberazione.


  1. M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 310. 

  2. Ivi, p. 311. 

  3. Ivi, p. 314. 

  4.  Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2011, p. 28. 

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L’arte di intonare i mammiferi morti https://www.carmillaonline.com/2017/06/29/larte-intonare-mammiferi-morti/ Wed, 28 Jun 2017 22:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38991 di Sandro Moiso

Hans Rickeit, The Squirrel Machine, Eris, Torino 2017, pp. 190, € 16,00

L’ambientazione vittoriana della fiaba poco educativa, recentemente pubblicata in italiano da Eris Edizioni, rinvia sicuramente, per le autentiche diavolerie tecnologiche rappresentate nelle bellissime tavole di Hans Rickeit, all’immaginario steampunk. Ma, in realtà, nello sfogliare, osservare, leggere e divagare sulle sue pagine i riferimenti più prossimi sembrano essere piuttosto “L’arte dei rumori” di Luigi Russolo, i “Quaderni di un mammifero” di Erik Satie, il cinema onirico di David Lynch e il delirio erotico-libertino del “divin marchese” De Sade.

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di Sandro Moiso

Hans Rickeit, The Squirrel Machine, Eris, Torino 2017, pp. 190, € 16,00

L’ambientazione vittoriana della fiaba poco educativa, recentemente pubblicata in italiano da Eris Edizioni, rinvia sicuramente, per le autentiche diavolerie tecnologiche rappresentate nelle bellissime tavole di Hans Rickeit, all’immaginario steampunk. Ma, in realtà, nello sfogliare, osservare, leggere e divagare sulle sue pagine i riferimenti più prossimi sembrano essere piuttosto “L’arte dei rumori” di Luigi Russolo, i “Quaderni di un mammifero” di Erik Satie, il cinema onirico di David Lynch e il delirio erotico-libertino del “divin marchese” De Sade.

Potrebbe apparire strano che nell’elencare i possibili riferimenti per un’opera a fumetti manchino completamente i riferimenti ad autori e lavori che si muovano nel settore dei comics, ma la potenza espressiva e simbolica, oltre che onirica, delle tavole di Hans Rickeit è tale da superare qualsiasi paragone con altri disegnatori. Al massimo, per certi aspetti del rapporto tra corpo e macchina , si potrebbe ancora fare riferimento a “Tempi moderni” di Charlie Chaplin e al “Tetsuo” di Shinya Tsukamoto oppure al teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Ancora film e teatro, ancora autori visionari seppur di epoche differenti.

L’unico autore di fumetti cui Rickeit sembra essere debitore è sicuramente Winsor McCay che con il suo Little Nemo, pubblicato sul supplemento domenicale del New York Herald tra il 1905 e il 1911 e successivamente su quelle del New York American tra il 1911 e il 1913, raggiunse agli inizi del XX secolo vertici simili, sia per complessità e bellezza delle tavole che per dimensione onirica. Cosa che spinse il pubblico dei tempi a costringere McCay a riprendere ancora il suo personaggio tra il 1924 e il 1927 (nuovamente sul New York Herald).

L’autore, statunitense, è nato nel 1973 a Ashburnham, Massachusetts, in quella parte di America dove sembrano essersi concentrati tutti gli incubi dei Padri fondatori e del loro puritanesimo. E proprio dagli incubi e dai suoi sogni il cartoonist americano ammette di trarre gran parte dei suoi materiali, fin dalle short stories e dai cortometraggi che hanno agli inizi caratterizzato il suo percorso artistico ed espressivo. Così, tenendo conto che Rickeit si è anche esibito talvolta con la musicista Katt Hernandez,1 si può affermare che il disegnatore americano, pur avendo scelto il cartoon come suo principale strumento d’espressione, sia nei fatti un artista multimediale.

D’altra parte le vicende di The Squirrel Machine sono difficilmente narrabili dal punto di vista di una logica consequenziale oppure “romanzesca”, mentre il flusso delle immagini che rivelano poco per volta le vicende dei due protagonisti, i fratelli Edmund e William Torpor, e di coloro che li circondano, appartengono di più al mondo del sogno o dell’improvvisazione musicale, quando questa abbandona la partitura per rivelarci mondi e sonorità, impressioni e sensazioni inaspettate. Talvolta deliziose e talvolta inquietanti.

Il titolo stesso può essere tradotto in italiano sia come La macchina scoiattolo, con un richiamo alle macchine che sfruttano i corpi morti degli animali presenti nelle vicende narrate, sia come La macchina (molto) eccentrica, più adatto il secondo a definire gli strumenti utilizzati ed inventati (forse soltanto sognati?) dai fratelli Torpor e la “macchina narrativa” costruita dall’autore.

Addentratevi in questo mondo con la mente aperta e senza nutrire aspettative. Datevi tempo per entrarci dentro, tenendo questo libro poggiato sul comodino. Leggetene una manciata di pagine prima di addormentarvi, come per un rito preparatorio. Vi è mai successo di sognare di cadere e durante la caduta rendervi conto di essere in un sogno, e ricordarvi di aver già sognato più volte quella caduta nella vostra vita, e al risveglio ricordarvi nel dormiveglia il sogno con chiarezza «sapendo» che il «ricordo» dei sogni precedenti non era che parte di un sogno che stavate facendo per la prima volta? Gli attori dell’opera di Hans sono in caduta continua, e nella caduta ogni cosa è uguale”. Così afferma E. Stephen Frederick in una sorta di introduzione al testo e non potrebbe riassumere meglio la sensazione che si prova leggendolo.

Una caduta del lettore e della sua immaginazione in un vortice di macchine sonore che sembrerebbero tratte direttamente dagli intona-rumori di Luigi Russolo, se non fossero invece realizzate con teste di maiali, carcasse di vacche e piccoli scoiattoli morti o meccanizzati. Un vortice in cui la caduta, seppur tragica nel finale, è pur sempre estremamente liberatoria. Una caduta in cui le storie di ragazzine vittoriane, destinate a perdere l’innocenza e la vita, si accompagnano alle vicende di una sorta di affascinante e maledetta Circe campagnola, a giovani amanti che si accoppiano tra improbabili ingranaggi oppure che fanno l’amore tra milioni di lumache, e a quelle della madre dei due fratelli, sospesa quest’ultima tra una perversa attività creativa, la malattia mentale e il puritanesimo di facciata più rigido allo stesso tempo.

Un mix di situazioni in cui il “delitto” artistico ci attende sempre appena dietro la porta, come nella migliore musica contemporanea e nell’improvvisazione che la caratterizza. Un viaggio in cui Rickeit, come un hobo americano degli anni Venti, salta da un treno in corsa ad un altro, da una carrozza all’altra, senza preoccuparsi che noi, gli inseguitori, si riesca davvero a stargli dietro e non si finisca invece stritolati dalle ruote dell’ingranaggio. Annullamento che, però, potrebbe rivelarsi piacevole poiché di incubi inquietanti si tratta, ma mai terrorizzanti.

L’arte è pericolosa. O dovrebbe esserlo. Il suo scopo non è quello di tranquillizzare.
E’ lo stesso Rickeit ad affermarlo in una recente intervista rilasciata in occasione del Napoli Comicon 2017,2 in cui ha rivelato anche altri aspetti del suo lavoro: “Ai miei occhi le macchine sono sia estensioni delle persone che replicanti. Per me le persone sono oggetti, oggetti con il dono della consapevolezza. Non so da dove venga la loro scintilla vitale ma sono tutti oggetti preziosi e c’è poca differenza. Il confine tra persone e cose è labile.”

In queste premesse sta probabilmente il segreto della complessità e, allo stesso tempo, dell’attrattiva esercitata da The Squirrel Machine sul lettore: una sorta di metafora della ricerca e della libertà di espressione artistica in cui, proprio come succede ai due fratelli protagonisti del fumetto, l’autore è semplicemente un tramite che non crea, ma che si limita a “fare” ciò che la realtà o i sogni di cui si alimenta gli suggeriscono. Fino alle più estreme conseguenze.
Dando così vita ad un vertiginoso viaggio nel perturbante e nel gotico americano, quell’autentico magma di desideri, paure e rimozioni che si agitano appena sotto la superficie di tanta letteratura (da Poe ad Hawthorne o all’attuale Ligotti), pittura e musica popolare statunitense.

A questo punto, per concludere il discorso, si rende però necessario tornare con la mente a Isidore Isou, fondatore del Lettrismo e precursore dell’Internazionale Situazionista, che negli anni ’50 immaginava una nuova architettura in grado di “far emergere i desideri dimenticati e la creazione di desideri totalmente nuovi” utilizzando “In luogo dei vecchi materiali poveri e limitati (legno, mattone, metallo) – altri totalmente – “nuovi: fiori, libri, legumi, comete, meteore, farfalle o elefanti, o parti di cadaveri o esseri viventi“.3 Assunto, allo stesso tempo artistico, politico e psichico, che Rickeit, con le sue immagini, sembra realizzare compiutamente, anche se forse inconsapevolmente.

Una perfetta lettura per le vacanze di chiunque abbia ancora tempo per il sogno, anche ad occhi aperti. Una sorta di livre de chevet da tenere sempre a portata di mano per far fronte alla calura e alla noia estiva. Da riprendere a leggere in qualsiasi punto e da qualsiasi pagina, procedendo in avanti oppure all’indietro come forse ogni buon libro dovrebbe permettere di fare al lettore. Magari in attesa che, in un prossimo futuro, le edizioni Eris vogliano offrirci la versione italiana di un’altra magnifica opera di Rickeit: Cochlea & Eustachia (di cui si propone un assaggio con la tavola riprodotta qui a fianco).


  1. Nata nel 1974 ad Ann Arbor nel Michigan, la violinista si è dedicata fin dagli esordi alla musica microtonale e all’improvvisazione e vive oggi a Stoccolma pur mantenendo forti legami con gli ambienti artistici di Boston e Filadelfia  

  2. http://www.panorama.it/cultura/fumetti/hans-rickheit-the-squirrel-machine-intervista/  

  3. Mirella Bandini, L’estetico e il politico, Officina Edizioni, Roma 1977, pag.47  

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“Serbatoio di immaginazione” e dinamiche del controllo: l’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema https://www.carmillaonline.com/2016/07/06/serbatoio-immaginazione-dinamiche-del-controllo-leterotopia-della-nave-nella-letteratura-nel-cinema/ Wed, 06 Jul 2016 21:30:58 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31363 di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti [...]]]> di Gioacchino Toni

nuovomondo13Paolo Lago, La nave lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 222 pagine, € 20,00

Nel saggio La nave lo spazio e l’altro, Paolo Lago, riprendendo il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault, analizza lo spazio della nave come “eterotopia per eccellenza” – luogo senza luogo, spazio in movimento diretto verso altri luoghi sconosciuti, scrigno di sogni – in svariati autori della letteratura e del cinema. Tale analisi conduce lo studioso ad individuare alcune grandi tipizzazioni: navi emigranti e dell’esilio; navi dell’avventura; navi “infernali”, mostruose e spettrali; navi della ricerca e dell’erranza; navi ferme e in disarmo. Il saggio, con un occhio di riguardo alle dinamiche sociali, ricostruisce dunque il mutevole funzionamento dello spazio eterotopico nelle diverse tipologie di imbarcazioni verificando come l’eterotopia-nave possa configurarsi come un “serbatoio di immaginazione” in grado di sfuggire alle dinamiche del controllo. La nave nella letteratura e nel cinema è pertanto analizzata dall’autore come spazio sociale così come spazi sociali risultano essere i luoghi che essa mette in comunicazione.

In apertura del volume viene ripreso il concetto di eterotopia sviluppato da Michel Foucault: se con il termine utopia si può indicare uno spazio privo di un luogo reale, con il termine eterotopia lo studioso francese indica invece un luogo reale ma separato dal contesto quotidiano in cui viviamo. Si possono avere, sempre secondo Foucault, “eterotopie di crisi” (luoghi riservati a chi è in uno stato di crisi rispetto alla società) ed “eterotopie di deviazione” (luoghi in cui vengono confinati individui con comportamenti devianti rispetto alle norme che regolano la società). Eterotopie sono anche i cimiteri, le biblioteche, i teatri, i cinema, i musei, i villaggi vacanze ed, in generale, quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito “non luoghi”. Altre caratteristiche delle eterotopie individuate da Foucault sono il loro essere dotate di un sistema di chiusura/apertura che le rende isolate/penetrabili ed il fatto che esse istituiscono uno “spazio illusorio” che palesa come lo “spazio reale”, al di fuori di esse, sia ancora più illusorio. Da pare nostra abbiamo già avuto modo di affrontare il concetto di eterotopia sviluppato dalle produzioni audiovisive analizzando [su Carmilla] il saggio curato da Sara Martin, La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi (2014).

Dopo un prologo incentrato sull’Odissea come opera archetipale dedicata ai viaggi via mare, il primo capitolo del saggio si occupa delle “Navi emigranti e dell’esilio”. Le navi di tale tipologia declinano il loro “serbatoio di immaginazione”, nell’approssimarsi alla località d’approdo, come speranza o come angoscia. Lo spazio-nave è però, ricorda l’autore, anche lo spazio ove si prende coscienza della propria condizione di emigrante o di esule. Si tratta, pertanto, di uno spazio di fuga rispetto a ciò che si vuole/deve abbandonare ed al tempo stesso di un contenitore di sogni autonomo rispetto al “fuori”, privo tanto di un punto di partenza che di approdo.

A proposito delle navi emigranti e dell’esilio, lo studioso inizia con l’affrontare opere letterarie e cinematografiche incentrate sul momento dell’approdo alla meta, al “nuovo mondo”. Nel romanzo autobiografico Il primo Dio (pubblicato postumo nel 1978) di Emanuel Carnevali viene raccontata l’esperienza di emigrante dello scrittore e l’analisi dello studioso si concentra su come il microcosmo di immaginazione rappresentato dal transatlantico, si sfaldi improvvisamente alla vista della destinazione. «Si può quindi pensare che, in questo caso, un’eterotopia serva per raggiungere un’utopia; ma non appena quest’ultima viene raggiunta non è più tale, non è più quel paese perfetto e ideale che si credeva» (p. 33). Nell’autobiografia Son of Italy (1924) di Pascal D’Angelo, invece, la nave si mostra inquietante e mostruosa sin dalla partenza, lo scrittore ne parla come di una prigione terrificante. Quello spazio navigante che per Carnevali è un sogno, per D’Angelo è un incubo che sembra attenuarsi soltanto in vista dell’approdo, nel momento in cui ci si prepara ad abbandonare la nave. L’imbarcazione come microcosmo separato dalla terraferma la si ritrova anche in Sull’Oceano (1889) di Edmondo De Amicis, che descrive il transatlantico come frammento della terra natale diretto verso un nuovo mondo sconosciuto. Nel caso di Vita (2003) di Melania Mazzucco, l’imbarcazione, vista con gli occhi di una bambina, diviene spazio fantastico d’avventura ed immaginazione e, in questo caso, non vengono descritti i momenti dell’approdo finale. Tale microcosmo onirico galleggiante sembra vivere per se stesso, come uno spazio “altro” senza partenza né approdo, ove il tempo scorre circolare.

nuovomondo3Per quanto riguarda l’ambito cinematografico, Lago si sofferma su Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, film che mette in scena una nave di emigranti siciliani diretti a New York. «I sogni degli immigrati, una volta che questi sono sbarcati e sottoposti al controllo e a una rigida selezione, vengono catturati e incasellati dalla “società disciplinare” che li vuole trasformare, reificandoli, in forza-lavoro produttiva all’interno della società industriale; le strutture di potere catturano l’immaginazione degli immigrati» (p. 38). Nel film, alla nave come “serbatoio di immaginazione”, si contrappone la terraferma come luogo di controllo e disciplinamento. Nell’opera di Crialese, sottolinea lo studioso, la nave si presenta come luogo misterioso che incute timore sin dal momento dell’imbarco ma, una volta salpata, man mano che si allontana dalla terra natia, conquista lo statuto di spazio autonomo, di “serbatoio di immaginazione” contenente i sogni e le speranze degli emigranti. In Terraferma (2011), successivo film di Crialese, viene affrontato lo sbarco dei migranti sulle coste italiane. All’arrivo i migranti vengono sottoposti ad un controllo disciplinare del tutto simile a quello a cui erano sottoposti i migranti italiani all’atto dello sbarco sulle coste statunitensi ad inizio Novecento. Viene mostrato anche l’incontro con “l’altro” in termini solidali tra pescatori ed alcuni clandestini ma, sottolinea Lago, per far ciò, è necessario contravvenire alle leggi. Nelle scene finali il “peschereccio solidale” viene mostrato allontanarsi dalla macchina disciplinare, «dal reticolo del controllo che si è stabilizzato fra le isole e le coste italiane e quelle africane [ed] il peschereccio, divenuto “serbatoio di immaginazione”, si dirige lontano dallo spazio del controllo riproducendo la possibilità del desiderio dei migranti di un altrove libero e liberato dalla dinamica della sorveglianza e della cattura» (p. 41).

Sempre all’interno del capitolo dedicato alle navi emigranti e dell’esilio, viene analizzato il romanzo Amerika (pubblicato postumo nel 1927) di Franz Kafka. In tale racconto la nave viene presentata come un ambiente labirintico e caotico che conduce ad un altro grande ambiente labirintico e caotico (New York). Si tratta di un “serbatoio di immaginazione” che offre agli ingenui occhi degli emigranti la visione di un mondo irreale, fantastico e caotico. «Lo spazio della nave, quindi, diviene quasi un’appendice eterotopica del luogo da cui parte e di quello in cui arriva, rispecchiandone le abitudini e le caratteristiche. Fra i due punti di convergenza c’è lo spazio del viaggio, della mescolanza, dell’immaginazione, della fantasia che si appropria utopisticamente del punto d’arrivo» (p. 43).

Una sezione del primo capitolo è dedicata anche alla figura dell’intellettuale che si trova a scrivere nel corso di un viaggio in mare che lo porta verso l’esilio. L’analisi inizia con l’esilio di Ovidio narrato nei Tristia (I sec. d.C.). In questo caso l’esiliato, salendo a bordo della nave, entra in un “altro” luogo ed in un “altro” tempo rispetto alla quotidianità. La scrittura del protagonista avviene dunque in un luogo di rottura assoluta col tempo quotidiano; a bordo, il tempo, è assorbito dallo spazio. L’imbarcazione può dirsi un ambiente liminale, una vera e propria prefigurazione delle sofferenze dell’esilio. «La nave, in questo caso, è perciò uno spazio che si dirige verso una condizione di morte; dalla civilizzata Roma, il centro del mondo, la nave sta portando Ovidio verso territori inospitali e ‘barbari’, abitati da gente selvaggia, rude, violenta e caratterizzati dal freddo e dall’oscurità» (pp. 49-50). Nel saggio viene fatto riferimento anche alla rilettura dell’esilio di Ovidio realizzata da Christoph Ransmayr nel suo Il mondo estremo (1988) ed al romanzo Le passioni dell’anima (2011) di Raffaele Simone, in cui si narra del burrascoso viaggio in mare di Cartesio e della sua permanenza nella fredda ed inospitale Stoccolma. Anche in questo caso la nave si configura come uno spazio liminale che prelude alla solitudine di quello che è vissuto dal Cartesio del romanzo come un esilio. Lago sottolinea come Cartesio, al pari di Ovidio, scriva durante una tempesta in mare, quasi si trattasse di un’anticipazione dello scrivere in terra straniera: «lo spazio della nave diviene un’anticipazione dell’eterocronia dell’esilio, della lontananza, della solitudine in terra straniera» (p. 52). Sia nel caso di Ovidio che di Cartesio, la scrittura in mare sembra generata dalla nave come “serbatoio di immaginazione” che, nell’avvicinarsi all’infausta destinazione, tende a trasformarsi essa stessa in luogo dell’esilio. Nei racconti si assiste ad una metamorfosi dell’eterotopia navigante che genera riflessioni sulla destinazione. «La spazialità della nave che trasporta letterati e intellettuali verso terre sconosciute è quindi essa stessa una creazione letteraria, ed è costruita dalla penna degli autori come una vera e propria anticipazione dell’ambiente che li attende lontano dalla loro patria e dalla sua rassicurante quotidianità» (p. 54).

nuovomondo06Il secondo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi nel ‘tempo d’avventura’” e qui, lo studioso, analizza la configurazione dello spazio eterotopico della nave quando questa diviene cerniera narrativa tra avventure. Dopo aver passato in rassegna alcuni esempi tratti dall’antichità, dal romanzo greco – a partire dalle Avventure di Cherea e Calliroe (I sec. a.C. – I sec. d.C.) di Caritone – al Satyricon (I sec. d.C.) di Petronio, Lago si sofferma su Gargantua e Pantagruele (1532) di François Rabelais, romanzo ove la nave si caratterizza come spazio di libertà attraverso cui si possono raggiungere nuovi mondi. Lo studioso mette in luce come, nel caso di Rabelais, ci si trovi di fronte ad un passaggio epocale, dal mondo medioevale alla modernità rinascimentale, ed in linea con gli studi di M. Batchin, Lago sostiene che qui la nave non è una semplice cerniera narrativa fra un’avventura e l’altra, come avviene nel romanzo greco, ma «diventa essa stessa corpo; una nave molto più ‘umanizzata’ che, vero e proprio “serbatoio di immaginazione”, conduce i personaggi verso territori fantastici ai quattro angoli del globo, vettore di spostamento su una geografia nuova, antigerarchica, in cui sempre nuove espressioni culturali stanno progressivamente entrando in libera interazione fra di loro» (p. 72).

A questo punto nel saggio vengono analizzati diversi romanzi settecenteschi in cui i lunghi viaggi in mare conducono ad utopiche terre misteriose e la nave diviene spesso uno spazio liminale ove i personaggi si ritrovano improvvisamente in universi fantastici. In tali testi l’imbarcazione, oltre che luogo dell’avventura e dell’immaginazione, riveste spesso valenze economiche; l’avventura si incrocia al commercio, come avviene nei Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, ove la nave incarna tanto la fuga verso l’ignoto, verso l’utopia, quanto il mezzo di “sviluppo economico”. Nel romanzo di Swift la nave con cui, di volta in volta, il protagonista fa ritorno dalle sue avventure è anche “spazio del linguaggio”, del racconto. «Lo spazio per eccellenza del ritorno dall’ignoto, dall’avventura, dall’Utopia è la nave, ed è tale spazio che permette il dispiegarsi della scrittura; una scrittura che nell’ottica swiftiana vuole insegnare, rendere migliori gli uomini. La nave dovrebbe configurarsi come lo spazio di un arricchimento culturale tramite la libertà dell’immaginazione, non come il mezzo di un cieco sviluppo economico che non esita a colonizzare e conquistare le popolazioni in modo barbaro e crudele» (p. 77).

Nel romanzo Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali (1749) di Zaccaria Seriman, si racconta di un viaggiatore che entra a far parte del microcosmo navigante con sete di conoscenza, pur spaventato dal doversi staccare dallo spazio-tempo quotidiano della terraferma. L’eterotopia si configura qua come spazio dello studio e della scrittura in vista degli incontri con nuove popolazioni; «la nave è veramente una finestra aperta sull’Altro, un ‘altro da sé’ da studiare in modo scientifico e razionale secondo un metodo che anticipa quello della moderna etnografia» (p. 79). Ai momenti di permanenza sulla terraferma spetta invece la fase empirica, il contatto con l’Altro in carne ed ossa.

Nel caso di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, per tutta la prima parte del romanzo, la nave può essere interpretata come il mezzo con cui ci si allontana dalla tranquilla ed operosa vita borghese, dunque come “spazio sovversivo”, come eterotopia che proietta il protagonista verso un altrove che finirà con l’avere la forma di una nuova eterotopia: l’isola. La nave funziona anche come spazio di salvezza durante la permanenza obbligata sull’isola; dall’imbarcazione, restata praticamente intatta su una secca, il protagonista recupera alimenti ed utensili utili alla sopravvivenza. La nave, vista dall’isola-prigione, assume una forte carica immaginativa che la connota come spazio di libertà. Lago segnala, inoltre, come nel romanzo l’imbarcazione abbia anche «una spiccata valenza commerciale e mercantile, mentre lo stesso protagonista assume le caratteristiche del moderno homo economicus della società capitalistica e borghese» (pp. 82-83). Ed infatti, se nella prima parte del libro la nave è spazio di allontanamento dall’economia borghese, nella seconda parte il valore commerciale del viaggio e della stessa nave finisce con l’avere il sopravvento. L’economia riprende il sopravvento sull’avventura. In Robinson Crusoe «la nave appare sia come una via di fuga dal quieto mondo borghese della famiglia di Robinson, sia come uno strumento utilizzato da quella stessa società inglese per arricchirsi e poter mantenere quello status sociale di benessere. L’avventura e il commercio, nel romanzo di Defoe, appaiono quindi come le facce di una stessa medaglia: la nave, come una sorta di Giano bifronte, le incarna entrambe» (p. 84).

All’interno del secondo capitolo l’autore affronta anche Candido, o l’ottimismo (1759) di Voltaire concentrandosi sulla nave diretta a Buenos Aires che, secondo Lago, può essere identificata, oltre che come cesura narrativa che conduce i protagonisti verso nuove avventure, anche come spazio di riflessione e di preparazione degli stessi a fare ingresso in un nuovo mondo. La valenza commerciale della nave è presente anche in questo romanzo ma, secondo lo studioso, qua è connotata decisamente in maniera più negativa rispetto agli altri romanzi settecenteschi analizzati. «L’immagine della nave mercantile che salpa per l’Europa dopo aver derubato l’ingenuo Candido ha […] una forte connotazione simbolica poiché rappresenta il lato negativo di quello “sviluppo economico” che non esita a sfruttare, derubare e imbrogliare» (pp. 85-86).

nuovomondo02A proposito di navi e di avventura, l’autore non poteva che affrontare il mondo dei pirati a partire da un libro esemplare in tal senso come L’isola del tesoro (1883) di Robert Louis Stevenson, per poi trattare un curioso romanzo contemporaneo, La vera storia del pirata Long John Silver dello scrittore svedese Björn Larsson, che palesa una sorta di rapporto ipertestuale con l’opera di Stevenson. Uno spazio del capitolo è dedicato anche alla tipologia della “nave-carcere” attraverso l’analisi del romanzo Viaggio al termine della notte (1932) di LouisFerdinand Céline e del film Satyricon (1969) di Federico Fellini. Nel primo caso, afferma Lago, non abbiamo alcuna soglia tra la terraferma e la nave; il passaggio del protagonista «nell’eterotopia della nave avviene […] entro una dimensione onirica che ce la fa apparire in una veste nuova: se, precedentemente, i personaggi che si sono imbarcati hanno sempre guardato la nave dal di fuori, prima di salirvi, caricando questo sguardo di sognante immaginazione e fantastiche aspettative, oppure di ansie e pensieri angosciosi, adesso […] ci appare già vista dal di dentro» (p. 95). La nave del romanzo di Céline resta ancora un “serbatoio di immaginazione” seppur diretto verso un’utopia in negativo. Nel film di Fellini, invece, l’imbarcazione non pare avere a che fare con il “serbatoio di immaginazione”, essa si presenta piuttosto come luogo di viaggio infernale. Lago ricorda come in Fellini, la nave come “serbatoio di immaginazione” faccia invece palesemente la sua comparsa nel film E la nave va (1983); in questo caso l’imbarcazione può dirsi microcosmo simbolico della fantasmagoria del mondo dello spettacolo che non si ferma nemmeno di fronte al dramma dello scoppio della Grande guerra.
Il capitolo si chiude con l’analisi del romanzo Roderick Duddle (2014) di Michele Mari. In questo caso, l’eterotopia della nave si caratterizza come spazio del sogno, tanto che anche la (inevitabile) tempesta sembra configurasi come un sogno legato al desiderio d’avventura del protagonista.

Il terzo capitolo del saggio è dedicato alle “Navi della ricerca e dell’erranza”. In questo caso i testi presi in esame sono Le Argonautiche (III sec. a.C.) di Apollonio Rodio e Moby Dick (1851) di Hermann Melville. Si tratta di opere in cui i protagonisti solcano il mare alla ricerca di un “oggetto del desiderio” (il Vello d’oro e la balena bianca) ma che assumono connotazioni erratiche. «La ricerca si unisce perciò al nomadismo e all’erranza: la nave non è più uno spazio di congiungimento tra due sponde, ma un universo lanciato dietro una ricerca nomadica in territori sempre più lontani e sconosciuti» (p. 107).

Alle “Navi mostruose, ‘infernali’, perturbanti, spettrali” è, invece, dedicato il quarto capitolo del volume, ove vengono affrontati viaggi marittimi in cui il “serbatoio di immaginazione” diviene “serbatoio di incubo”. Eterotopie naviganti di tale specie le ritroviamo in Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe – ove «lo spazio della nave non possiede più positive connotazioni avventurose o picaresche; il desiderio di scoperta e di avventura del protagonista si infrange contro il nulla dell’orrore» (p. 129) – e nel romanzo I pirati fantasma (1909) di William Hope Hodgson, ove la nave spettrale appare totalmente slegata dallo spazio-tempo tradizionale. All’interno di questo capitolo l’autore prende in esame anche il film The Fog (1980) di John Carpenter. In tal caso viene raccontata la storia di una nave spettrale popolata da fantasmi di lebbrosi (il rimando alla “nave dei folli” rinascimentale è evidente) che si presenta al cospetto di una cittadina americana per punire le colpe degli avi degli abitanti, rei di avere, un secolo prima, affondata la nave col suo carico di malati a bordo. La nave degli spettri appare davvero una nave proveniente da un mondo “altro” e tale “serbatoio di incubo”, come in molte opere di Carpenter, si presenta come minaccia della quieta, quanto cinica, società borghese.

A proposito di navi fantasma, non poteva mancare un riferimento al mito nordico dell’Olandese volante, vascello fantasma condannato a navigare in eterno, che ha ispirato parecchie trasposizioni nelle più diverse arti. Lago si sofferma in particolare sul romanzo La nave fantasma (1839) di Frederick Marryat e sull’opera L’Olandese Volante (1841) di Richard Wagner. Nel caso del romanzo lo studioso segnala come la nave spettrale appaia come un’eterotopia che non si limita ad istituire un “tempo altro”; in questo caso lo scorrere del tempo è annullato. La nave fantasma di Marryat è uno spazio senza tempo, è «lo spazio della leggenda, di un altrove in cui l’immaginazione e l’incubo si confondono; uno spazio senza tempo condannato in eterno a solcare il mare, luogo metaforico per eccellenza della libertà, dell’erranza nonché della perdita del sé» (pp. 137-138).

Lo spazio della nave ne Il compagno segreto (1910) di Joseph Conrad, è, invece, lo spazio del perturbate attraverso cui lo scrittore, secondo Lago, decostruisce lo spirito avventuriero e colonialista ottocentesco: «Conrad presenta una situazione assolutamente realistica e verosimile, lontano dai dettami della letteratura fantastica. Lo spazio della nave che fa la spola fra la ‘civilizzata’ e ‘razionale’ Inghilterra e l’universo ‘straniero’ delle colonie si riduce a un “battello di morti” minacciato dall’Inferno. Segno che forse – anche se il capitano riuscirà a condurre in salvo la nave – qualcosa sta cambiando: su quell’imperialismo marittimo di età vittoriana cominciano a formarsi delle crepe. L’avventura imperialista inizia inevitabilmente a decadere» (p. 144).

eterotopie-paolo_lago_coverIn alcune opere lo spazio della nave si presenta come vero e proprio inferno capace di trasformare gli stessi personaggi che lo abitano in esseri infernali. Le descrizioni ricorrono spesso ad una terminologia rimandante alla malattia ed al disfacimento fisico. Il negro del “Narciso” (1897) di Joseph Conrad è esemplare a tal proposito. Qui lo spazio della nave diviene lo spazio della malattia a cui si aggiunge una spaventosa tempesta e gli effetti della malattia sembrano placarsi soltanto all’arrivo della nave in Inghilterra, quando l’eterotopia si rompe al salire sulla nave delle persone della terraferma. Connotazioni infernali delle imbarcazioni si ritornavano anche in altri romanzi conradiani ed, in generale, secondo Lago, lo «spazio della nave che commercia con le colonie, in Conrad, è […] spesso segnato dalla malattia e dal disfacimento dei corpi dei membri dell’equipaggio. L’Imperialismo è ormai malato; lo spazio navigante che collega madrepatria e colonie si riduce ad un inferno di uomini malati e affaticati, paragonati a cadaveri o a maschere grottesche segnate dalla morte» (p. 153).

Seppure in maniera differente, anche Louis-Ferdinand Céline rappresenta la decadenza del colonialismo nel romanzo Viaggio al termine della notte (1932). Nuovamente lo spazio della nave che porta verso le colonie si presenta come “serbatoio d’incubo”, come spazio della malattia e del decadimento; le colonie divengono luoghi dannati che nulla hanno più a che fare con il sogno.
Invece, nel caso del romanzo La nave morta (1932) di B. Traven, la nave è sì spazio infernale ma, rispetto alla terraferma, ove non è possibile vivere senza un’identità attestata dai documenti, è pur sempre un inferno in cui, sottraendosi alla logica del controllo, il protagonista riesce a ritrovare una dimensione più autentica.

Uno spazio importante, all’interno di questo quarto capitolo, è dedicato alla nave del vampiro a cui hanno mirabilmente dato immagine Friedrich Wilhelm Murnau, nel film Nosferatu (1922) e, successivamente, Werner Herzog nel suo Nosferatu, Principe della Notte (1979). Nei due film Lago individua nella nave «il mezzo con il quale la forza infernale e irrazionale del vampiro giunge a minare il sicuro e razionale ordo borghese dell’Occidente; il suo è uno spazio spettrale che conduce, per mezzo di un ennesimo viaggio dell’incubo, il diverso ed il nomade verso i territori industrializzati del cuore dell’Europa. Il deserto, lo spazio liscio, la potenziale colonia lontana, adesso, attaccano l’Occidente colonizzatore per annientarlo» (pp. 165-166)

Nel quinto capitolo vengono passate in rassegna le “Navi ferme e in disarmo”. Nei romanzi di Álvaro Mutis, Ilona arriva con la pioggia (1988) e di Jean-Claude Izzo, Marinai perduti (1997), la terraferma finisce col contaminare la vita dei marinai a cui è momentaneamente preclusa la vita in alto mare, mentre nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) di Umberto Eco e nel film I love Radio Rock (2009) di Richard Curtis la nave è ferma al largo, dunque mantiene una certa autonomia dalla terraferma.

Nel romanzo di Mutis lo spazio della nave, nel momento in cui si avvicina a terra, «viene gradatamente invaso da un altro spazio e un altro tempo gravidi di ripetitivi rituali, subalterni alle dinamiche della quotidianità e del controllo» (p. 171). Dunque, il contatto con la terraferma determina «il progressivo sfaldarsi dell’eterotopia navigante e l’oscurarsi graduale del “serbatoio di immaginazione” che essa era stata: la “polizia”, la struttura del controllo sale a bordo e comincia ad annichilire l’assolata bellezza dei corsari e le sue dinamiche di immaginazione e di libertà» (p. 172). Si palesa così una contrapposizione tra lo spazio navigante, spazio della libertà e dell’avventura, e lo spazio della terraferma, spazio razionale e della quotidianità. Nell’essere obbligatoriamente bloccata in porto, la nave del romanzo di Izzo è costretta a sottostare alle regole del controllo statale, dunque finisce per divenire «il nucleo irradiante dal quale si dipartono tante linee di fuga verso la città e il suo spazio. I marinai, una volta a terra, sono “perduti”, quasi snaturati, e danno inizio a una serie di intersezioni con la terraferma che li trasforma fin quasi a perdere coscienza di sé» (p. 178). Come in molti romanzi di Izzo, ancora una volta, è Marsiglia la vera protagonista del libro, tanto che, nel venire a contatto con la nave bloccata in porto, è come se la città la fagocitasse, la trasformasse in una sua appendice.

Secondo lo studioso la nave ferma del romanzo di Eco può essere, invece, considerata «un complesso “mondo possibile”, creato in tutto o in parte dalla fantasia e dalle ossessioni di Roberto (e, dietro di lui, dal narratore onnisciente): un altro “serbatoio di immaginazione” che, anche se non in movimento, anche se non congiunge paesi e continenti, riesce a creare infiniti mondi, sogni, pensieri di pensieri» (p. 171).
Il film I love Radio Rock di Curtis narra di una stazione radio pirata che, nel 1966, trasmette all’Inghilterra musica rock da una nave ancorata al largo, quando i canali radiofonici ufficiali si ostinano a non prenderla in considerazione. Si tratta di una nave bloccata al largo, che non viaggia più ma capace di far «viaggiare la parola e il linguaggio in una dinamica di contestazione allo spazio ‘quotidiano’ della terraferma. Dall’eterotopia della nave si dipartono voci, parole e musica che minano alle sue basi la stanca società e il suo linguaggio d’ordine, regolato da meccanismi disciplinari» (p. 182). Dunque, suggerisce Lago, ricorrendo alle parole di Foucault (Spazi altri), lo spazio della nave, in questo caso, può essere considerato «una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo» (pp. 182-183). In tale film, continua Lago, la nave è «un’eterotopia della contestazione che si muove pur stando ferma, che possiede non il movimento (non a caso, quando proverà a muoversi si guasterà e colerà a picco) ma la velocità. Una velocità ‘nomadica’ che, dal mare aperto, dallo spazio liscio di un deserto marino, muove una pacifica e terribile guerra all’apparato statale immobile e sedentario» (p. 184).

croc_naufrIl volume La nave lo spazio e l’altro, si conclude con “Un epilogo postmoderno: la crociera”, in cui l’autore passa in rassegna la crociera, «vero e proprio “serbatoio di immaginazione” creato a tavolino, uno spazio postmoderno emblema dello sfarzo e del declino della società occidentale capitalistica» (p. 185) raccontata dal romanzo Una cosa divertente che non farò mai più (1997) di David Foster Wallace e dalle opere cinematografiche Un film parlato (2003) di Manoel De Oliveira e Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

Il romanzo di Wallace presenta la crociera come microcosmo spettacolare, becero e meschino, della società capitalistica statunitense. Il film di De Oliveira ricorre alla nave come simbolo dell’intera società occidentale contemporanea, segnata dalla forza razionale della parola, che si trova improvvisamente ed inaspettatamente a fare i conti con il suo doppio oscuro ed irrazionale che la fa saltare in aria. «Il terrorismo e il suo orrore non è altro che una mannaia che il razionalismo capitalista si è autoimposto, una mannaia direttamente collegata a terribili errori compiuti nel passato da quello stesso razionalismo. La nave da crociera, quel “trionfo calvinista del capitale e dell’industria sulla primitiva forza corrosiva del mare”, secondo le parole di Wallace, simbolo della società occidentale, è adesso devastata dalla morte e dalla distruzione. Ancora una volta, in fondo a quel “serbatoio di immaginazione”, rimane soltanto l’orrore, stavolta non letterario, ma crudamente e terribilmente reale» (p. 193). Nel caso di Godard la nave è un «postmoderno scrigno del divertimento ostentato e del benessere occidentale, […] simbolo di una società, di un popolo, di un continente» (p. 193). Quella di Godard è una nave alla deriva, che si allontana dall’Africa, dimentica delle sue colpe coloniali. «Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino» (p. 195).

Nell’individualismo più sfrenato a cui l’occidente capitalista ha condotto l’umanità sembra ormai tramontato anche l’invito all’arrangiarsi, al “si salvi chi può!”. La crociera postmoderna narrata da questi autori sembra piuttosto palesare l’impossibilità della salvezza. “Salvarsi non si può!”

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Tutte le immagini sono tratte dal film Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese tranne l’ultima che mostra il famoso naufragio del 2012, nei pressi dell’isola del Giglio, della medesima nave da crociera utilizzata nel Film Socialisme (2010) di Jean-Luc Godard.

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Il reale delle/nelle immagini. La messa in finzione della realtà https://www.carmillaonline.com/2016/03/03/il-reale-dellenelle-immagini-la-messa-in-finzione-della-realta/ Thu, 03 Mar 2016 22:30:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28600 di Gioacchino Toni

robocop_g8Sul finire degli anni Novanta, l’antropologo Marc Augé, iniziò a sostenere l’idea che alla realtà si stavano sostituendo le immagini e tale fenomeno di “finzionalizzazione”, di messa in finzione della realtà, secondo lo studioso, stava avvenendo soprattutto, ma non solo, a causa del mezzo televisivo. Insomma, secondo tale ipotesi, l’età contemporanea sembrerebbe essere contraddistinta da una realtà volta a riprodurre la finzione. Gli anni Novanta sono sicuramente stati attraversati da un nutrito dibattito teorico circa il “problema della realtà” (quale/quali realtà?) e della progressiva scomparsa del reale nell’epoca dei simulacri [...]]]> di Gioacchino Toni

robocop_g8Sul finire degli anni Novanta, l’antropologo Marc Augé, iniziò a sostenere l’idea che alla realtà si stavano sostituendo le immagini e tale fenomeno di “finzionalizzazione”, di messa in finzione della realtà, secondo lo studioso, stava avvenendo soprattutto, ma non solo, a causa del mezzo televisivo. Insomma, secondo tale ipotesi, l’età contemporanea sembrerebbe essere contraddistinta da una realtà volta a riprodurre la finzione.
Gli anni Novanta sono sicuramente stati attraversati da un nutrito dibattito teorico circa il “problema della realtà” (quale/quali realtà?) e della progressiva scomparsa del reale nell’epoca dei simulacri (es. gli studi di Jean Baudrillard), numerosi sono stati anche i film che proprio a partire dallo scadere del Millennio hanno affrontato la difficoltà di discernere il reale dal finzionale ed a proposito di tale produzione cinematografica esiste un’ampia letteratura soprattutto anglosassone.

Quel fenomeno di “messa in finzione della realtà” di cui tratta Marc Augé, nel suo La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction (ed. orig. 1997, prima ed. it. 1998), rieditato da Elèuthera nel 2011, ha inciso anche sul documentario audiovisivo tanto che, da qualche tempo, questo sembra palesare sempre più un cortocircuito determinato dalla sempre più evidente trasformazione dell’immagine in un surrogato di realtà e la realtà, a sua volta, in un surrogato dell’immagine. Risulta difficile realizzare una documentazione audiovisiva in un’epoca in cui la realtà che si intende documentare attraverso le immagini sembra essersi sempre più spesso piegata ad esse, ove il reale sembra ormai votato a duplicare il finzionale, dando luogo così ad un groviglio inestricabile.

Secondo l’antropologo francese «è il nuovo regime di finzione ad affliggere oggi la vita sociale, a contaminarla e a penetrarla al punto da farci dubitare di essa, della sua realtà, del suo senso e delle categorie (l’identità, l’alterità) che la costituiscono e la definiscono» (pp. 8-9). Non si tratta soltanto dell’immagine, ma anche delle «condizioni di circolazione fra l’immaginario individuale (ad esempio il sogno), l’immaginario collettivo (ad esempio il mito) e la finzione (letteraria o artistica, messa in immagine o no) che sono cambiate. È appunto perché le condizioni di circolazione fra questi diversi poli sono cambiate che noi possiamo interrogarci sullo statuto attuale dell’immaginario. Possiamo infatti affrontare la questione della minaccia che pesa sull’immaginario a causa della “finzionalizzazione” sistematica di cui il mondo è oggetto, dove questa stessa “messa in finzione” dipende da un rapporto di forze molto concreto» (p. 12).

Tra le cause principali che, secondo l’antropologo, hanno concorso a modificare il rapporto tra esseri umani e reale, si possono annoverare tanto le modalità di rappresentazione associate alle tecnologie ed ai relativi processi produttivi, quanto quel processo di planetarizzazione che ha sradicato processi culturali di simbolizzazione costruiti nel tempo.
Se la finzione può essere definita come un regime di percezione socialmente regolato, allora, secondo il francese, «essa non ha solo un’esistenza storica che si traduce in istituzioni, tecniche e pratiche, ma (…) costituisce anche un fatto socioculturale che mette in gioco relazioni di alterità, rapporti di vario tipo con gli altri» (p. 99). Risulta importante domandarsi quanto lo sviluppo tecnologico, piegato a precise logiche economico-politiche, sia responsabile di una forma fuorviata di immaginario, detta “finzionalizzazione”, ove la realtà viene trasformata in finzione.

augé sogniAugé ricorda come storicamente i vari paesi coloniali, pur nell’essere tra di loro rivali, riconoscevano l’alterità radicale nelle popolazioni soggiogate, tanto che si può affermare che il colonialismo nel suo insieme determinava una presa di coscienza identitaria. Dal punto di vista etnologico, «ogni rituale produce identità attraverso il riconoscimento di alterità (…) l’attività rituale crea l’identità e non ne è soltanto la traduzione. (…) Il legame sociale creato dal rito deve essere pensabile (simbolizzato) e gestibile (istituito); in questo senso il rito è mediatore, creatore di mediazioni simboliche e istituzionali che permettono agli attori sociali di identificarsi ad altri e di distinguersene, insomma di stabilire mutualmente dei legami di senso (di senso sociale). (…) Quando si viene a creare un blocco rituale, un deficit simbolico, un indebolimento delle mediazioni (…) cioè un’interruzione o un rallentamento della dialettica identità/alterità, appaiono i segni della violenza» (pp. 17-20). Le nuove modalità comunicative ed il nuovo statuto delle immagini contribuiscono a rendere sempre più astratto il rapporto con l’altro.

Prendendo come esempio il ruolo delle immagini nella colonizzazione gesuita, l’autore insiste nel sottolineare come cambiamento culturale ed affermazione identitaria siano entrambi dei processi che ridefiniscono, reciprocamente, le identità e le culture; gli indios non si sono limitati ad accogliere le immagini cattoliche ma le hanno adattate in un processo di creazione e ri-creazione attraverso pratiche pittoriche e scultoree.
«Nella misura in cui ognuno è direttamente interpellato dall’informazione e dall’immagine, nella misura in cui i media di sostituiscono alle mediazioni, i riferimenti si individualizzano o si singolarizzano: a ognuno la sua cosmologia ma, anche, a ognuno la sua solitudine» (p. 17). Tale movimento, definito dall’autore “surmoderno”, rende sempre più astratta la figura dell’altro e provoca reazioni totalizzanti, escludenti ed alienanti; «fino a quando la dialettica identità/alterità funziona, un’affermazione di appartenenza a una collettività non può essere concepita né come esclusiva di altre appartenenze né come esclusiva dell’affermazione di identità individuale. Ma questa dialettica può incepparsi tanto per gli effetti di dissoluzione imputabili alle tecnologie surmoderne quanto per gli effetti di indurimento e di glaciazione indotti dal ripiegamento sulle appartenenze esclusive» (p. 29).

Augé analizza il rapporto tra morte, sogno, visioni e racconto a partire dal medioevo passando in rassegna gli studi di Jacques Le Goff, Jean-Claude Schmitt, Carlo Ginsburg e Serge Gruzinski. Da quest’ultimo l’antropologo francese riprende alcuni concetti relativi allo scontro tra immaginari nel Messico coloniale, approfonditi da Gruzinski nel suo La guerra delle immagini. Da Cristoforo Colombo a Blade Runner (orig. 1990, it. 1991). Augé riprende anche l’analisi psicanalitica proposta da Christian Metz a proposito dell’immagine e della finzione cinematografica, in particolare a proposito dello statuto del personaggio, del processo di identificazione e del confronto tra stato filmico e stato onirico.
Se nel teatro lo spettatore tende a dirigere l’attenzione sull’attore (priorità al rappresentante), al cinema lo spettatore la dirige invece, solitamente, sul personaggio (priorità al rappresentato) ed anche quando, al cinema, lo spettatore si identifica con l’attore lo fa in quanto attore-star, dunque , nuovamente, come personaggio di finzione. La visione cinematografica strutturerebbe un meccanismo che porta il pubblico ad avere la percezione di conoscere gli individui in quanto riconosce i personaggi e ciò, secondo Augé, avvicina il cinema la mito.
Il ruolo cinematografico risulta inscindibile dal suo interprete perché la sua rappresentazione interessa il riflesso dell’attore e non l’attore stesso e tale riflesso, essendo registrato, risulta impossibilitato al mutamento. È per questo motivo che l’industria hollywoodiana pone molta attenzione al legame tra ruolo cinematografico e suo interprete. A tal proposito Augé si sofferma sulla pratica statunitense di realizzare versioni americane di film europei mettendo in luce come non si tratti di modificare la sceneggiatura, solitamente mantenuta aderente all’originale, quanto piuttosto di ricorrere ad ambientazioni ed attori americani al fine di immergere il tutto in una “tintura americana”, quasi che il pubblico statunitense fosse ritenuto «allergico a ogni colore locale troppo deciso (…) come se non si dovesse lasciare supporre agli americani che esistono altre mitologie, altre storie, altri sguardi diversi dai loro, come se, al di là della molteplicità delle culture-finzioni, non potesse esserci che un solo vero immaginario collettivo» (pp. 94-95). Ed, in una sorta di ripicca imperialista, una volta realizzate, tali versioni americane, queste finiscono per essere inviate alla conquista del pubblico europeo, colpevole di aver osato prodursi in proprio storie ed immaginari immersi nel “colore locale”.
Tale pratica americana di girare da capo film stranieri non deve essere scambiata con il classico remake; spesso quest’ultimo resta nell’ambito della medesima cultura dell’originale anche se la sceneggiatura subisce variazioni più o meno importanti. Il remake, secondo l’autore, può piuttosto essere interpretato come un «rimedio contro la nostalgia (che) rifonda i miti, fa scivolare in avanti la mitologia» (p. 96).

Sono diversi gli studi che hanno indagato il ruolo dello spettatore al cinema ed in particolare il suo “tornare bambino”. Metz, ad esempio, ha indagato circa la pertinenza dell’accostamento tra rapporto individuo/schermo e lo “stadio dello specchio” giungendo alla conclusione che mentre il bambino vede nello specchio la propria immagine, nel cinema tradizionale di certo non si riflette l’immagine dello spettatore sullo schermo. Mentre nello specchio l’identificazione si costruisce intorno ad un soggetto-oggetto, nel cinema si costituisce attorno ad un “soggetto puro”. La passività dello spettatore al cinema, inoltre, accentua l’identificazione con lo sguardo della macchina da presa e con il proiettore. A risultare importante non è tanto l’identificazione col personaggio ma, piuttosto, l’identificazione con “l’istanza della visione” che è il film stesso come discorso.
Secondo l’autore anche le serie televisive avrebbero una “struttura mitica”, tanto che il successo di molte grandi serie americane sembrerebbe dipendere dal carattere di prevedibilità e dalla presenza costante degli eroi che finiscono così per essere percepiti dal pubblico come familiari.

Se è pur vero che il piacere provato dallo spettatore davanti allo spettacolo cinematografico passa per una abbassamento delle difese dell’io, da una sorta di isolamento narcisistico, allo stesso tempo la percezione filmica consente un’apertura all’altro: «il percepente riconosce l’esistenza di un Altro (l’autore) analogo a se stesso, analogo all’Io soggettivo della percezione» (p. 100).
Lo spettacolo cinematografico il più delle volte “si accontenta” di far identificare lo spettatore con il dispositivo filmico e con i personaggi, ma quando riesce a creare affinità tra le immagini filmiche ed il “fantasma” (inteso come realizzazione di desiderio) dello spettatore, si determina un caso di «rottura provvisoria di una comune solitudine» che determina la gioia da parte dello spettatore di ricevere dall’esterno (dallo schermo) immagini solitamente interiori.
«La finzione può dunque essere per l’immaginazione e la memoria dell’individuo l’occasione di provare l’esistenza di altre immaginazioni e di altri immaginari. Ma questa esperienza riposa allo stesso tempo sull’esistenza di una finzione riconosciuta come tale (…) e sull’esistenza di una autore riconosciuto come tale, con i suoi caratteri specifici, che quindi istituisce con ciascuno di quelli che costituiscono il suo pubblico un legame virtuale di socializzazione» (p. 103)

tv-6La televisione ha nella vita contemporanea un ruolo che va ben oltre ai contenuti trasmessi visto che, per certi versi sostituendosi ai campanili del passato, struttura e scandisce il tempo quotidiano domestico; ad ore prefissate compaiono gli stessi volti di personaggi che diventano delle star senza essere attori e gli eroi di alcune serie televisive di successo divengono talmente presenti nelle giornate degli spettatori da far sì che il personaggio assorba in sé l’attore. In generale, chi si manifesta regolarmente in televisione, sottolinea Augé, ottiene uno statuto di personaggio finzionale simile a quello degli attori cinematografici. Essendo però lo statuto della finzione televisiva meno evidente rispetto al cinema, lo scarto tra finzione e realtà risulta decisamente meno palese.

La televisione è lo strumento di “finzionalizzazione”, di messa in finzione della realtà, per eccellenza; «non è più la finzione che imita la realtà, ma la realtà che riproduce la finzione» (p. 110). Chiunque accetti di entrare a far parte, anche solo per ottenere un momento di celebrità, del mondo televisivo, contribuisce alla cancellazione del reale in funzione di una sua rappresentazione finzionale. In televisione gli eventi vengono livellati e le immagini scorrono senza soluzione di continuità: «Siamo presi a testimoni, divisi fra una dubbia innocenza (quella del bombardamento che sgancia bombe dal cielo) e una vaga colpevolezza, quella sensazione di un debito verso le vittime di catastrofi o di epidemie che ci spinge a versare il nostro obolo al telethon o a un altro dispositivo caritativo, forse per scongiurare la minaccia della disgrazia» (p. 111).
La televisione stessa tende a prendersi per oggetto raccontando la sua storia come fosse la storia di chi è di fronte allo schermo e per certi versi è così nella misura in cui lo spettatore ha «vissuto per e attraverso l’immagine» (p. 112).
Le trasmissioni televisive provocano una sorta di livellamento non solo tra le situazioni ma anche relativamente alle persone ed ai personaggi e ciò è, in buona parte, imputabile alle immagini stesse. La «guerra del Golfo ha assunto l’aspetto di un videogioco a tema guerriero che dimostrava il carattere “pulito” dell’azione occidentale» (p. 113). La distinzione tra realtà e finzione risulta sempre meno netta e l’autore risulta sempre più assente dalla coscienza dello spettatore.

Grazie ai nuovi media ed alle tecnologie digitali sono sempre di più coloro che, oltre a percepire immagini, le producono soprattutto al fine di realizzare testimonianze della loro presenza in luoghi che hanno attraversato, il più delle volte, velocemente e visionato con l’occhio dello strumento di registrazione utilizzato. Il mondo sempre più spesso è attraversato da individui con lo sguardo fisso sull’apparecchiatura di registrazione, sia essa una macchina da presa o un semplice smartphone. Si tratta di individui del tutto disinteressati della “realtà” che hanno di fronte; ciò che interessa loro è immagazzinare immagini per poi poterle si e no guardare prima di condividerle sui social network con persone di cui conoscono l’autorappresentazione veicolata dal media. Servono ulteriori testimoni al fine di sentirsi rassicurati dal fatto che “veramente” si è stati presenti agli eventi immortalati. «Si completa allora il movimento al temine del quale la verità di ciò che il soggetto ha vissuto (o non ha vissuto) e del soggetto stesso (perché alcuni artifici o la cortesia di un vicino gli permettono di figurare sulla diapositiva o sul film) si trova trasportata nell’immagine e nello schermo che le serve da supporto» (p. 114).
Effettivamente il mondo contemporaneo sembra sempre più essere organizzato per essere filmato, più ancora che visitato. I parchi di divertimento, i club vacanze, le aree residenziali protette, le catene alberghiere, i centri commerciali che riproducono sempre il medesimo ambiente, possono, secondo Augé, essere interpretati come “bolle d’immanenza”, ossia come il corrispettivo finzionale delle cosmologie: «sono costituite da una serie di riferimenti (…) che permettono di riconoscervisi, disegnano e marcano una frontiera al di là della quale non rispondono più di niente» (p. 115).

«In definitiva ci si può domandare se tutte le relazioni che si stabiliscono attraverso i media, qualunque sia la loro eventuale originalità, non dipendano prima di tutto da un deficit simbolico, da una difficoltà a creare del legame sociale in situ. L’io finzionale, colmo di una fascinazione che spunta in ogni relazione esclusiva con l’immagine, è un io senza relazioni e allo stesso tempo senza supporto identitario, suscettibile di assorbimento da parte del mondo delle immagini in cui crede di potersi ritrovare e riconoscere» (p. 119)

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