Skinhead – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estetiche inquiete. Quando il punk preoccupava la Stasi https://www.carmillaonline.com/2020/08/29/estetiche-inquiete-quando-il-punk-preoccupava-la-stasi/ Fri, 28 Aug 2020 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61614 di Gioacchino Toni

 

«Volevamo solo divertirci… e loro ci prendevano sul serio». Così un ragazzo cresciuto a Berlino Est ricorda l’ondata punk che tanto ha preoccupato la Stasi nei primi anni Ottanta.

Già sul finire degli anni Settanta la cultura punk, giunta nella Germania occidentale dalla Gran Bretagna, oltrepassa il confine e raggiunge la Deutsche Demokratische Republik diffondendosi sopratutto a Berlino Est, Lipsia, Dresda, Erfurt e Halle. All’inizio del decennio successivo i degenerati sintomi del punk si mostrano ormai anche nella Germania orientale: magliette strappate recanti scritte incomprensibili agli amanti dell’ordine, capigliature colorate e modellate con il sapone o con [...]]]> di Gioacchino Toni

 

«Volevamo solo divertirci… e loro ci prendevano sul serio». Così un ragazzo cresciuto a Berlino Est ricorda l’ondata punk che tanto ha preoccupato la Stasi nei primi anni Ottanta.

Già sul finire degli anni Settanta la cultura punk, giunta nella Germania occidentale dalla Gran Bretagna, oltrepassa il confine e raggiunge la Deutsche Demokratische Republik diffondendosi sopratutto a Berlino Est, Lipsia, Dresda, Erfurt e Halle. All’inizio del decennio successivo i degenerati sintomi del punk si mostrano ormai anche nella Germania orientale: magliette strappate recanti scritte incomprensibili agli amanti dell’ordine, capigliature colorate e modellate con il sapone o con la colla di pesce, musica assordante e metodi di ballare decisamente non convenzionali. Quanto basta per mettere in allarme le autorità deputate al mantenimento della legge e dell’ordine socialista.

Se in un primo momento le autorità tedesco-orientali si limitano a osservare il diffondersi di tale fenomeno proveniente da Occidente – dopotutto si tratta pur sempre di ragazzini di soli sedici anni –, le cose cambiano quando i giovani punk cominciano a organizzare concerti e a palesare codici di comportamento e di comunicazione incomprensibili, prima ancora che inaccettabili, ai solerti osservatori del Ministero per la Sicurezza di Stato. Da quel momento su questa gioventù poco incline a rassegnarsi a vivere il grigiore quotidiano in maniera convenzionale iniziano a essere puntati microfoni e telecamere, oltre che piovere denunce per “disturbo della quiete pubblica”, divieti di accedere ai locali pubblici e imputazioni di “trasgressione della morale socialista” e “incitamento all’emigrazione”.

Al di là degli stereotipi sedimentati nel tempo, la società della DDR è molto più sfaccettata di quel che si crede, come racconta, ad esempio, il recente volume di Marcello Anselmo Il consumatore realsocialista (Le Monnier 2020) – recensito da Giovanni Iozzoli su “Carmilla” – che ricostruisce la parabola della Deutsche Demokratische Republik attorno alla categoria del “consumatore”, soffermandosi anche sulla non facile dialettica tra processi di ammodernamento imposti dall’alto e spinte dal basso soprattutto in termini di consumi ricreativi e comportamenti culturali. Ed è proprio attorno al consumo di prodotti immateriali che si danno interessanti confronti tra settori di società civile e rigidità statale.

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta in DDR

le velleità di costruire modelli di consumo alternativi all’Occidente vengono abbandonate: a quel punto la negoziazione avviene solo su quanto e come la pressione dei prodotti culturali occidentali unilateralmente subita potrà tracimare dall’altra parte di quel Muro, destinato da lì a breve a sgretolarsi. Il socialismo prussiano – burocratico, puritano, autoritario – aveva perso la sua competizione con l’Occidente ben prima dell’89 e dei rivolgimenti geopolitici che sconvolsero la carta geografica d’Europa1.

È all’interno di tale complesso contesto che deve essere collocata la scena punk nella Germania orientale dei primi anni Ottanta, scena che, pur avendo tratti comuni con analoghe esperienze occidentali, ha peculiarità tutte sue e sembra nascere soprattutto in reazione a un sistema asfissiante votato a esercitare una governance totale sulle vite e sui desideri soprattutto dei più giovani.

Sicuramente il fenomeno punk in DDR ha a che fare con rotture generazionali, con mitizzazioni del modello oltrecortina, compreso il suo ribellismo giovanile, ma un ruolo non irrilevante nella sua diffusione spetta al bisogno profondo di autonomia e autodeterminazione, di emancipazione dalle direttive di Stato: non possono essere pianificati dall’alto i gusti culturali e le modalità con cui vivere la quotidianità.

Bollato sin dal 1977 dal quotidiano “junge Welt” (pubblicazione dell’organizzazione giovanile ufficiale tedesco-orientale Freie Deutsche Jugend) come una forma di “analfabetismo musicale” occidentale, il punk viene accolto sprezzantemente anche dalla radio giovanile DT64 della Germania socialista che – come riportato da Sandro Moiso, su “Carmilla”, nel suo scritto Come e perché cadono i muri2 – lo liquida con queste parole: «non ha alcun impatto sull’evoluzione della nostra musica […]  trova la sua ragione di esistere esclusivamente in un contesto societario di un certo tipo [e] si contrappone alle nostre norme etiche e morali di stampo socialista». «Mai – chiosa Moiso nel suo scritto – affermazione sarebbe stata più radicalmente rovesciata. Mai la supposta moralità di un socialismo cimiteriale sarebbe stata più decisamente negata. Ma all’epoca nessuno ai vertici del potere avrebbe potuto o voluto dare ascolto a ciò che le strade, i garage e i locali periferici della Germania Est già profetizzavano. Mentre la polizia e gli apparati culturali e repressivi cercavano ancora una volta di far regnare l’ordine a Berlino (Est)»3.

Le prime punk band della DDR si trovano a fare i conti con la mancanza di spazi in cui suonare, visto che nei locali è concesso di esibirsi in pubblico solo ai “musicisti riconosciuti”. È questo il motivo per cui diversi gruppi ricorrono agli spazi messi a disposizione dalla chiesa, soprattutto protestante, in quanto luoghi relativamente interdetti alle forze dell’ordine o, almeno, in cui il controllo diretto statale è limitato. Particolarmente attiva negli anni Ottanta è la berlinese Chiesa del Redentore che offre sostegno ai giovani alternativi arrivando a organizzare, sin dall’inizio del decennio, una lunga serie di concerti punk in cui si esibiscono gruppi come i berlinesi Namenlos e Unerwünscht. Da tale esperienza prende vita anche una fanzine punk.

Particolarmente curiosa è la storia della realizzazione di DDR von Unten, il primo disco punk della Germania Est stampato però ad Ovest grazie al giornalista musicale occidentale Dimitri Hegemann che, venuto a contatto con la scena underground orientale durante una sua permanenza a Berlino Est, convince la Aggressive Rockproductionen di Berlino Ovest a realizzare un disco. L’uscita dell’album è decisamente rocambolesca, anche se le ricostruzioni degli accadimenti a volte risultano un po’ romanzate.

Sembra che il primo tentativo di registrazione di materiale per l’album – che vede inizialmente coinvolti i gruppi Rosa Extra, Zwitschermaschine e Schleim-Keim – risalga al 1983, quando si ricorre all’attrezzatura casalinga di un musicista “regolare” nei pressi di Dresda. L’intervento della polizia complica le cose: il materiale registrato deve essere consegnato e per evitare ulteriori conseguenze, oltre alle condanne che non tardano ad arrivare, i Rosa Extra si trovano a cambiare il nome in Hard-pop, mentre il gruppo Schleim-Keim si trasforma in Sau-Kerle. Proprio questi ultimi, insieme alla band Zwitschmaschine, riescono successivamente a lavorare alle registrazioni presso Günther Fischer, importante compositore di colonne sonore per la casa di produzione cinematografica statale.

Il materiale prodotto giunge così ad Ovest ove, nel 1984, diventa il disco DDR von Unten che esce insieme a una pubblicazione di Sascha Anderson dei Zwitschermaschine sulla situazione delle controculture nella Germania socialista. C’è però un sequel che rende “meno romantica” la vicenda: dopo la caduta del Muro si scopre che Anderson, nel frattempo affermatosi come scrittore, ai tempi della DDR è stato una spia della Stasi. Difficile ricostruire quanto, tra doppi e tripli giochi, sia stato fedele alle autorità della Deutsche Demokratische Republik e quanto alla causa punk; quel che è certo è che il suo gruppo sul vinile inciso in Occidente ha trovato posto e con esso il suo racconto della scena musicale orientale.

«Non voglio più vederli in giro per le strade!», così nel 1983 si esprime Erich Mielke, dal 1957 al 1989 a capo della Stasi dopo esserne stato il fondatore. Le autorità decidono di intervenire radicalmente e di “risolvere” una volta per tutte “la questione punk”: arresti e processi di massa nei confronti di ragazzini tra i sedici e i diciotto anni e ricorso a infiltrati e confidenti. A tal proposito, dai documenti dei servizi segreti visionabili dopo la caduta del Muro, si è saputo della presenza di informatori in diversi gruppi, come nel caso di due membri della band berlinese Die Firma: punk al servizio dello Stato, insomma.

La Stasi ha lavorato sulle band anche per controllare l’intero ambiente giovanile alternativo e con esso le stesse famiglie dei giovani. Nella sola Berlino Est, nei primi anni Ottanta, oltre duecento punk vengono arrestati dalla Volkspolizei, costretti ai domiciliari o ai lavori socialmente utili e, in diversi casi, condannati al carcere o all’allontanamento temporaneo da Berlino. Anche così la DDR ha pensato di difendere il suo socialismo.

Nella seconda metà degli anni Ottanta la repressione si allenta e una parte di questi giovani vira decisamente su posizioni di estrema destra iniziando a prendere sul serio il ricorso al braccio teso che, fino ad allora, stando alle testimonianze, è stato alzato quasi esclusivamente in maniera provocatoria. Lo sbandamento a destra di tali gruppi giovanili finisce poi per trovare terreno fertile nelle contraddizioni sorte nei territori orientali durante le prime fasi della riunificazione ma è innegabile la presenza di gruppi che si rifanno a un immaginario neonazista già nella fase terminale della DDR. «Abbiamo di nuovo dei nazisti per le strade di Berlino» urla, sul finire degli anni Ottanta, un pezzo della band Namenlos di Berlino Est per denunciare la presenza di rigurgiti di estrema destra negli ambienti punk. Ciò non manca di sucitare l’ira delle autorità risolute nel negare anche solo la possibilità della presenza di neonazisti all’interno del Paese socialista. La risposta alla “provocazione” della band ha preso la forma di una condanna a due anni di carcere per i membri del gruppo.

Dopo la caduta del Muro sono poche le vecchie band orientali a restare in attività; tra queste si possono citare i gruppi Schleim-Keim di Berlino Est e Müllstation di Eisleben. Tra i pochi capaci di ritagliarsi uno spazio all’interno del mercato discografico occidentale vi sono il gruppo Sandow di Cottbus, che nel frattempo ha cambiato parecchio le proprie sonorità e i berlinesi Feeling B, poi divenuti Rammstein, che, si dice, per evitare l’oblio a cui sono condannate tante punk-band della ex Germania orientale, abbiano preferito far passare in secondo piano la loro provenienza orientale, proponendosi semplicemente come storica band tedesca.

Esiste un’importante produzione documentaristica audiovisiva riguardante la scena punk tedesco-orientale costruita su immagini superstiti, simboli e testimonianze dirette di chi vi ha preso parte. Vale la pena segnalare tanto alcune opere prodotte dopo la caduta del Muro che altre realizzate nella stessa Germania socialista poco prima della sua fine.

In Störung Ost (1996) di Cornelia Schneider e Mechthild Katzorke, le autrici tratteggiano la scena punk berlinese dei primi anni Ottanta sia facendola ricostruire da chi ha vissuto l’esperienza che mostrando filmati più o meno girati clandestinamete in super 8, foto personali e documenti cartacei e audiovisivi della Stasi divenuti nel frattempo disponibili. Le contraddizioni che emergono dai racconti degli intervistati sono le stesse dei vari movimenti giovanili occidentali e oscillano tra il volersi “diversi” dalla società che non si sopporta e la pretesa di essere da essa “accettati”.

Dalle testimonianze raccolte nel film emerge come i punk, accusati di non aver voglia di lavorare, siano spesso fermati dalla polizia e soprttutto le ragazze vengano costrette a ripulirsi il volto dal trucco e ad adeguare il loro abbigliamento all’ordine estetico socialista. La presenza femminile nella scena punk tedesco-orientale, pur decisamente minoritaria, anche perché maggiormente ostacolata dalla società e dalle stesse famiglie rispetto ai coetanei maschi, ha però un ruolo tutt’altro che trascurabile, non a caso diversi i documentari, come lo stesso Störung Ost, sono realizzati da donne.

Il regime, incapace di comprendere quanto accade tra i giovani nei primi anni Ottanta, giunge in taluni casi persino a etichettarli come “neo-nazisti”, cosa del tutto inconsueta in una DDR che si vuole del tutto immune sia da fenomeni nostalgici che di matrice neonazista. Per difendersi da tale infamante accusa, si racconta in Störung Ost, alcuni gruppi punk berlinesi tentano di deporre una corona di fiori al monumento delle vittime del nazismo.

Soltanto quando la repressione si acuisce i testi delle canzoni iniziano a farsi meno esistenziali e più ostili nei confronti del regime accusandolo di utilizzare contro i giovani alternativi le medesime leggi della Germania nazista: alcuni punk decidono di esibire provocatoriamente sui propri indumenti la stella gialla a cui erano costretti gli ebrei durante il periodo hitleriano.

Anche in OstPUNK! Too Much Future (2006) di Carsten Fiebeler e Michael Boehlke gli autori fanno raccontare ad alcuni protagonisti della scena punk tedesco-orientale – oggi in buona parte rientrati nei ranghi all’interno della Germania riunificata –, della musica, della voglia di libertà e del senso di appartenenza a una cultura contro, ma anche della repressione e del carcere subiti. Tra le punk-band su cui insiste il film vi sono il gruppo Schleim-Keim di Erfurt, i Paranoia di Dresda, L’Attentat di Lipsia, i Namenlos e i Rosa Extra di Berlino Est.

A proposito del film, uno degli autori, Michael Boehlke, sostiene che la sua realizzazione è derivata da un’insoddisfazione provata nei confronti delle produzioni esistenti sull’argomento e dal bisogno di raccontare autonomamente un’esperienza vissuta in prima persona tra la fine degli anni Settanta e la fine del decennio successivo.

La scena punk di Berlino Est era incasinata e confusa e tutti i film e i libri che raccontano la storia del punk nell’Europa occidentale non hanno mai incluso la corrente della DDR  […] Le persone che abbiamo intervistato raccontano differenti stili di vita, storie spesso drammatiche caratterizzate da una visione punk. Tutti sono stati arrestati e detenuti dalle autorità della DDR, ma sperimentare la detenzione per alcuni di loro non è stato poi così drammatico vista la presenza già opprimente del muro. Un fattore unificante per ciascuno di loro era avere le palle di manifestare il proprio dissenso. Alcuni si esprimevano attraverso la pittura o mettendo in piedi un gruppo punk, altri si sarebbero messi a girare video in super 8. Il film mostra anche che fine hanno fatto oggi i protagonisti con le loro vite, la loro professione, le loro opinioni politiche e il loro spirito punk.

Venendo invece ad alcuni lavori prodotti in seno alla stessa DDR, può essere citato flüstern und SCHREIEN – ein Rockreport (1988) di Dieter Schumann. Si tratta di un film-documentario commissionato direttamente dagli apparati cinematografici di Stato tedesco-orientali, attorno al quale il regista ha lavorato dal 1985 al 1988, praticamente sino al termine dell’esperienza della Deutsche Demokratische Republik, che racconta la musica, la moda e le vite dei protagonisti della scena underground della DDR, soffermandosi su punk-band come le berlinesi Feeling B e Silly e sul gruppo Sandow di Cottbus.

Oltre che sulle caratteristiche dell’abbigliamento, delle acconciature e della musica ascoltata o suonata, gli intervistati si soffermano sulla mentalità e sulle motivazioni esistenziali con cui sono cresciuti all’interno dell’ambiente tedesco-orientale a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta di cui tratteggiano anche il sistema di istruzione e le organizzazioni giovanili ufficiali e non.

Al primo montaggio il film di Fiebeler e Boehlke, proiettato in alcune scuole prima dell’uscita ufficiale, ha una durata di circa quattro ore, poi dimezzata nella versione definitiva a causa di qualche sforbiciata da parte della censura e, soprattutto, della decisione di rende l’opera maggiormente fruibile.

L’atteggiamento delle autorità nei confronti del film è quantomeno contraddittorio: se da un lato si tratta di una produzione commissionata ufficialmente, con tanto di regolare visto per la proiezione, le forze dell’ordine socialista intervengono nel corso della prima proiezione destinata a spettatori e musicisti per rimuovere il materiale pubblicitario appeso nell’atrio del cinema, minacciando i realizzatori di procedimenti penali per aver calunniato la DDR. In tale occasione si sono anche avuti disordini in seguito alle perquisizioni operate dalla polizia nei confronti dei partecipanti. Successivamente, il film è stato proiettato in tutti i distretti della Germania Est ottenendo un grande successo di pubblico, tanto che si calcola sia stato visto da mezzo milione di spettatori.

Unsere Kinder (1989) di Roland Steiner è un documentario prodotto in DDR presentato al Festival del cinema documentario di Lipsia solo quattro giorni prima dell’apertura del Muro di Berlino. L’autore, attraverso una serie di interviste a giovani e adulti, affronta le sottoculture giovanili ostili alle norme socialiste nella Germania orientale di fine anni Ottanta documentando le diverse comunità giovanili marginali – punk, skinhead, anti-naziskin, neonazisti – di cui ufficialmente le autorità preferiscono negare l’esistenza. Tra gli intervistati figurano anche Christa Wolf, che dialoga con due giovani radicali di destra e Stefan Heym, che tratteggia un confronto con la situazione di crisi dei primi anni Trenta.

Qualche traccia del punk in DDR è presente anche in Winter Adè (1988) di Helke Misselwitz, film-documentario presentato in anteprima alla settimana del documentario e del cortometraggio di Lipsia del 1988, in cui la regista attraversa in terno la Germania orientale colloquiando nel corso del lungo viaggio con donne di diverse generazioni ed estrazione sociale e culturale su questioni inerenti il matrimonio, il lavoro, i figli e le separazioni.

Su uno sfondo dolente e dimesso, enfatizzato dalla scelta del bianco e nero, il film racconta, attraverso le vicende personali delle donne incontrate, del permanere, nonostante la retorica ufficiale, della durezza e dell’alienazione del lavoro quotidiano e soprattutto della difficile condizione femminile in DDR soffermandosi in particolare sui rapporti sentimentali. Risulta impietoso lo stridente confronto tra le immagini delle celebrazioni ufficiali per la festa della donna e la realtà piena di amarezza e infelicità  raccontata dalle intervistate. Tra le donne interpellate vi è spazio anche per chi ha legato la propria vicenda esistenziale all’ambiente punk tedesco-orientale.

 


Störung Ost (1996) di Cornelia Schneider e Mechthild Katzorke

OstPUNK! Too Much Future (2006) di Carsten Fiebeler e Michael Boehlke

 

 


  1. G. Iozzoli, La consumazione della DDR, “Carmilla”. 

  2. S. Moiso, Come e perché cadono i muri, “Carmilla”. Qua l’autore recensice il volume di Sascha Lange & Dennis Burmeister, Oltre il muro di Berlino. Con i Depeche Mode in Germania Est alla ricerca della scena post-punk e new wave (Goodfellas, 2019). 

  3. S. Moiso, Come e perché cadono i muri, “Carmilla”. 

]]>
Sport e dintorni – Calcio e violenza operaia https://www.carmillaonline.com/2019/02/12/sport-e-dintorni-calcio-e-violenza-operaia/ Mon, 11 Feb 2019 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50646 di Gioacchino Toni

John Clarke, Football hooliganism. Calcio e violenza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 120, € 12,00

L’importanza dei lavori di John Clarke, tra i primi studiosi a occuparsi delle radici dell’hooliganismo in Gran Bretagna negli anni Settanta indagando il legame tra calcio e condotte violente delle fasce popolari, è messa in risalto nell’Introduzione stesa da Luca Benvenga al volume: «Attraversando epoche differenti [Clarke] mette sotto la lente conoscitiva, oltre all’evoluzione che ha investito questo sport in termini strutturali e più propriamente di partecipazione agli eventi, la tesi della violenza come conditio sine qua non per una crescente preoccupazione di [...]]]> di Gioacchino Toni

John Clarke, Football hooliganism. Calcio e violenza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2019, pp. 120, € 12,00

L’importanza dei lavori di John Clarke, tra i primi studiosi a occuparsi delle radici dell’hooliganismo in Gran Bretagna negli anni Settanta indagando il legame tra calcio e condotte violente delle fasce popolari, è messa in risalto nell’Introduzione stesa da Luca Benvenga al volume: «Attraversando epoche differenti [Clarke] mette sotto la lente conoscitiva, oltre all’evoluzione che ha investito questo sport in termini strutturali e più propriamente di partecipazione agli eventi, la tesi della violenza come conditio sine qua non per una crescente preoccupazione di gruppi di giovani partoriti dalla deindustrializzazione. Così riaffermando nella “passione aggressiva” i valori di una classe e l’esasperato senso di territorialità con la riappropriazione dei campi, in una logica tutta operaia di presidio simbolico di uno spazio (come lo street corner, la piazzetta o il quartiere) che emerge per contrapposizione […]. Secondo Clarke il progressivo cambiamento che interesserà il gioco del calcio nel secondo dopoguerra è, per i figli della working class britannica, il pretesto per l’esplosione di un sentimento di frustrazione e di un generale malcontento nei confronti della società. Il “football hooliganism” si afferma così in nome di una volontà di esprimere una refrattarietà all’imposizione di un modello-calcio che si sposta coattivamente verso la professionalizzazione […], la commercializzazione […] e la spettacolarizzazione» (p. 13).

Nelle alienanti società moderne avare di avvenimenti straordinari capaci di fuoriuscire dalla routine quotidiana, il calcio resta una dei pochi ambiti in grado di soddisfare tanto la domanda di emozioni forti che la possibilità di una loro espressione pubblica. «A partire dalla Rivoluzione industriale la vita di gran parte dei lavoratori si definiva nell’organizzazione tecnica e nella disciplina oraria del lavoro in fabbrica. Il calcio ha così offerto un’alternativa alla routine, ridisegnando l’esperienza quotidiana della classe operaia […] L’eccitamento si intensifica con l’esperienza di considerarsi parte di un vasto pubblico di tifosi. La pressione fisica, il trasporto psicologico, essere “uno” tra altri cento a incoraggiare la propria squadra è parte essenziale del fascino del gioco» (p. 38).

I settori popolari degli stadi sono stati storicamente occupati da lavoratori manuali abituati allo scontro dal loro dover fare i conti con la sopravvivenza sociale e un gioco come quello del calcio, caratterizzato dal corpo a corpo e dallo scontro fisico, non poteva che attrarre una classe operaia abituata da sempre al conflitto e alla durezza della vita quotidiana spesa tra lavoro e quartiere. All’interno di una working class abituata a fare i conti con l’aggressività e contraddistinta da una notevole dose di machismo, la violenza, sostiene Clarke, non era di certo vista come problema, né doveva essere giustificata.
Il calcio, scrive C. R. Critcher (Football as popular culture – an outline), «ci restituisce complessivamente la prospettiva operaia della violenza: “In questo alternativo universo morale la violenza è legittimata come in nessun altro contesto della società, ma è allo stesso tempo abbondantemente localizzata, come se il calcio consentisse di formalizzare delle attitudini proprie dei lavoratori, come fosse un sistematico aspetto della vita di ognuno che può periodicamente manifestarsi, ma non ci si aspetta che ciò sfugga di mano o che si trasformi in uno stato d’animo pervasivo”» (p. 40).

Il calcio, puntualizza Clarke, ha a lungo rafforzato quel senso di comunità, di territorialità e di mutualità della working class. Nella squadra veniva vista una sorta di rappresentativa della comunità impegnata nella difesa del territorio dagli estranei. Tale senso territoriale alle origini è stato rafforzato dal fatto che molti giocatori erano nati e vissuti in quei quartieri, spesso erano di estrazione operaia e per certi versi restavano parte della classe di provenienza in termini salariali e di stile di vita.

Il volume si sofferma anche sul ruolo rivestito dalla vittoria nell’immaginario popolare. Riferendosi agli anni Venti, scrive a tal proposito Arthur Hopcraft (The Football Man, 1971) che andare alla partita significava «lasciarsi alle spalle uno stato di profondo sconforto e immergersi nella lotta. L’identificazione con la squadra di casa restituiva un’individuazione positiva attraverso la forza e i goal. La vittoria era un successo personale, la sconfitta un altro schiaffo dato dalla vita. Il calcio non era tanto una droga per la gente, quanto un baluardo scagliato contro il capitalista che chiude la fabbrica e il padrone di casa armato di ufficiali giudiziari» (p. 43).

È a partire dal dopoguerra che il calcio cambia profondamente indirizzandosi verso la professionalizzazione, l’internazionalizzazione e la commercializzazione. «Tutte queste trasformazioni sono legate alla fiducia nella struttura sociale della Gran Bretagna negli anni Cinquanta. È l’era dell’Affluenza, del consenso politico, dell’emergere di una società senza classi. I club di calcio, in questo nuovo ordine sociale, anticipano la scomparsa del supporter con il tradizionale cloth-capped, percepiscono di dover affrontare una crescente competizione per accaparrarsi il pubblico, in concorrenza con forme alternative di intrattenimento, cinema e tv su tutti. Se lo storico fan non esiste più, rimane tuttavia il tradizionale attaccamento; i club si propiziano il nuovo consumatore senza classi, razionalmente selettivo. Egualmente, il gioco deve essere reso il più possibile coinvolgente “per attrarre” il nuovo spettatore, metterlo a proprio agio e accoglierne ogni richiesta. Era impensabile che si recasse ogni sabato ad assistere agli incontri di una squadra debole e perdente, perciò occorreva maggiore attenzione per scongiurare l’insuccesso» (p. 46).

Ian Taylor (Football Mad a Speculative Sociology of Soccer Hooliganism, 1971) ricorre al termine “borghesificazione” per indicare quel processo che vede la classe media appropriarsi di ciò che in passato apparteneva alla working class. Quella generale trasformazione tendente a piegare l’intera società inglese sul modello della classe media, sostiene Clarke, provocherà una modificazione della figura del tifoso “genuino” non più riconducibile al proletario tradizionale che viveva nell’attesa della partita settimanale «con le sue fortune inestricabilmente legate alle sorti della squadra, partecipante attivo del gioco», bensì a un «consumatore razionale e selettivo dei servizi di intrattenimento, che commenta dal suo comodo posto in tribuna. Questa antinomia trova la sua ipotesi esplicativa nelle figure del “Fan” da un lato e dello “Spettatore” dall’altro (una simile distinzione è stata adoperata per altre attività di svago della classe operaia, come il pub, per citare un esempio, nei termini di una ripartizione tra frequentatori e clienti)» (p. 48).

È a partire dalla metà degli anni Sessanta che il teppismo calcistico inizia ad essere etichettato come problema e attraverso la retorica gonfiata dai media sul teppismo legato agli stadi prenderanno piede alcuni stereotipi duri a morire, come l’idea che vede negli hooligan giovani ignoranti appartenenti alla working class che frequentano gli stadi privi di qualsiasi interesse per la partita al solo scopo di creare disordini per sfogare una violenza del tutto gratuita e irragionevole. Sui media inglesi spesso i settori popolari sono descritti come luoghi lerci, avvolti dal puzzo rancido di birra e cipolle, ove risuonano oscenità e vanno in scena comportamenti del tutto incivili. Affinché il calcio potesse essere confezionato su misura per la middle class, occorreva ripulirlo da tutto ciò: la working class andava ammaestrata.

In balia di tali trasformazioni molti giovani fan di estrazione popolare finirono per sentirsi derubati del loro gioco e della loro squadra. Secondo Ian Taylor a questi giovani non è restato che tentare di mantenere in vita alcune caratteristiche tradizionali del loro gioco. «Mantengono vive le antiche rivalità, oramai di poca importanza per i club, l’“invasione” del territorio nelle partita in trasferta lascia ora il posto al take the ende nella più recente occupazione del centro città. La natura del viaggio è di per sé significativa. La giornata per soli maschi della classe operaia ha rappresentato per lungo tempo un’occasione per “lasciarsi andare” e bere senza freni» (pp. 54-55).
Se Ian Taylor ha avuto il merito di cogliere e analizzare il collegamento tra violenza e calcio, palesa però il limite, scrive Clarke, di non spiegare i motivi per cui numerosi giovani vivono il calcio in maniera così totalizzante in un momento storico in cui si tanti loro coetanei si sono spostati verso altre culture giovanili.

Nella seconda parte del volume Clark analizza le trasformazioni sociali che hanno agito sul mondo del calcio a partire dalla comparsa del fenomeno Skinhead, considerato da molti l’estrema sintesi del fenomeno hooligan. Comparsi originariamente nel 1968 nell’East End di Londra, in poco tempo i gruppi Skinhead hanno fatto la loro comparsa negli stadi di tutto il paese attirando l’attenzione perché spesso coinvolti in episodi di violenza e per un modo di presentarsi decisamente connotato: scarponi da lavoro spesso dotati di rinforzo metallico, jeans con risvolto, bretelle, capelli rasati ecc. Il fenomeno Skinhead viene alla luce in un’epoca di mutamenti sociali che segnano la rottura dello stile di vita della working class la dissoluzione delle comunità tradizionali segnate dall’arrivo nei quartieri di immigrati e di famiglie della classe media attraverso trasformazioni urbanistiche che spostano molti nuclei famigliari nei nuovi quartieri sorti attorno ai sobborghi più periferici e per mezzo di una progressiva sostituzione dei tradizionali trenini di case orizzontali che correvano a stretto contatto con la vita di strada fatta di pub, negozietti e spazi comuni con grandi palazzoni in verticale. Questa sistematica rimozione dei vecchi spazi di socializzazione ha comportato un arroccamento nei pochi luoghi rimasti, come il campo da calcio, che hanno così assunto ulteriore valenza identitaria-culturale; è significativo, afferma Clarke, che le zone in cui si strutturano i gruppi di Skinhead corrispondono a quei nuovi o vecchi quartieri di edilizia popolare riprogettati e in cui giungevano sempre più “outsider”.

A cambiare non sono però soltanto gli stadi; gli stessi pub e i club vengono trasformati in “divertimentifici” e la concentrazione nel centro città delle strutture dedicate ai giovani comporteranno un indebolimento delle comunità periferiche. Se negli anni Cinquanta ha preso piede l’idea di una società che si voleva senza classi, avviata all’opulenza, il decennio successivo ha invece manifestato la povertà e i conflitti di classe, con un’istituzione scolastica vissuta come un luogo alieno da molti giovani della working class.

«Fin dall’avvento del rock’n’roll e dei Ted all’inizio degli anni Cinquanta, i giovani hanno cercato di risolvere questa crisi culturale e la conseguente mancanza d’identità creando delle culture più appropriate alle proprie esigenze ed esperienze. (La classe operaia ha reagito a questi cambiamenti in maniera difforme, tra chi aveva nostalgia dei tempi passati, e chi attraversava la sindrome del “Lavoratore Benestante” mediante un ritorno introspettivo in seno alla famiglia). Verso la metà degli anni Sessanta, le due tendenze di sviluppo della cultura giovanile erano la continuazione dell’“era Mod” e la crescita dell’underground inglese. Nessuna delle due correnti si adattava alle esperienze dei giovani che sarebbero diventati degli Skinhead» (p. 61).

Nel libro viene sottolineato come nonostante molti Mod provenissero dalla classe operaia, il centro della scena di questa cultura giovanile fosse in mano a giovani colletti bianchi occupati nei lavori più umili, inoltre lo stile Mod finì presto per rivolgersi a consumatori benestanti per divenire alla fine degli anni Sessanta una vera e propria impresa commerciale ben supportata dalle band musicali più in vista. «Da quel momento piombarono nella scena gli Skinhead, il vero impeto dei Mod scompariva e restava solo l’aspetto commerciale. Gli Skinhead stravolsero l’immagine Mod, esattamente come i Mod fecero con i Rocker. […] Lo stile Skin riaffermava le vecchie tradizioni di una cultura minacciata da una contaminazione di valori e simboli middle-class. L’uniforme Skinhead è una versione stilizzata della working clothes, è l’immagine rivisitata della classe operaia attraverso il taglio di capelli, attitudine, violenza, ma tutto ciò si esprimeva in tinte esagerate, come fosse una forma di auto-rappresentazione caricaturale […] e l’inevitabile scenario per ricostruire i tradizionali valori della working class era il classico luogo di ritrovo del sabato pomeriggio, il campo di calcio» (pp. 63-65).

Dunque, sostiene Clarke, nel fenomeno degli hooligan nel calcio è possibile scorgere un tentativo di mantenere o riportare il calcio alla working class, «un tentativo di difendere la cultura operaia dall’usurpazione della borghesia. La violenza, il razzismo, il puritanesimo e il localismo (l’effetto della comunità nel gruppo, ovvero l’aiutarsi l’un l’altro quando il pericolo incombe) fanno tutti parte di questo ricrearsi un tipo di vita» (p. 65).

Nel libro Clarke illustra «come il “declino della comunità d’origine”, l’aumento della ricchezza e le diseguaglianze socio-economiche possono essere ritenuti i responsabili della formazione di differenti risposte come quelle Mod e Skinhead. […] I Mod emergevano in un periodo della vita inglese in cui i temi della società senza classi e dell’opulenza erano fortemente significativi, mentre il quadro era cambiato notevolmente alla fine degli anni Sessanta, e il fenomeno Mod divenne parte del background sociale in cui trovarono spazio gli Skin» (p. 66)

Al tentativo disperato di questi settori giovanili di mantenere il calcio all’interno della working class si debbono aggiungere i media nel loro far da grancassa agli episodi di violenza negli stadi, contribuendo così a richiamare sugli spalti chiunque avesse voglia di menar le mani a prescindere dai motivi, le esigenze dei club calcistici avviati verso una riorganizzazione indirizzata a una middle class che voleva poter godere in tranquillità lo spettacolo calcistico, dunque il rafforzamento della presenza poliziesca. Con tali premesse la profezia della violenza non poteva che auto-avverarsi.

Secondo lo studioso il calcio ha a lungo mantenuto uno stretto legame con la classe operaia perché quest’ultima vi individuava valori comuni come l’abilità fisica, l’identità territoriale e il desiderio di vittoria. «L’assunto centrale era una precisa idea di mascolinità, su ciò che significa “essere uomo”. Un uomo si pensava dovesse essere “rude”, non nel senso di brutale o vizioso, ma in grado di sopportare un “castigo” (una “punizione”). Nel caso del calciatore significava essere colpiti alle spalle, farsi scaraventare a terra dall’avversario, tollerare tali “offese” e mostrarsi pronto a subire dell’altro. Per il tifoso della classe operaia questa “rudezza” era una qualità molto preziosa nella vita quotidiana. Egli doveva sopportare i rigori, le imposizioni, le pressioni del lavoro in fabbrica e sperimentare nuove tensioni ogni qualvolta si recasse sul posto di lavoro. Il lavoratore (come salariato) non poteva accettare di arrendersi a queste pressioni, così il calciatore non si poteva sottrarre allo scontro fisico sul terreno di gioco. Sia nel calcio che nella vita dei lavoratori maschi certi tipi di violenza erano “normali” – “un uomo deve essere in grado di badare a se stesso”. È importante comprendere che solo alcune condotte violente erano accettate: la slealtà, ad esempio, era tenuta fuori dalla “normalità” (pp. 76-77).

Gli operai inglesi d’anteguerra vedevano nella durezza a cui veniva sottoposto il fisico del calciatore un’analogia con quella a cui erano costretti a sottoporre il proprio nelle fabbriche. «I campi di calcio delle più antiche società sportive nascevano quasi tutti nelle aree industriali delle principali città. I fari, gli spalti, le terrace sorgono tra le ciminiere delle fabbriche e le file di case a schiera. Questa disposizione è l’aspetto più visibile della connessione tra il club e il territorio. […] L’interazione tra il gioco del calcio e gli spettatori veniva intensificata da un’origine che avevano in comune calciatori e il pubblico. Al contrario delle star di oggi, i primi rimanevano lavoratori nello stile di vita e nelle ambizioni» (pp. 77-78).

Sebbene il controllo del calcio professionistico non sia mai stato davvero nelle mani dei tifosi di estrazione popolare, si può dire che sia stato «attraverso il modo di guardare il football e di sostenere la propria squadra che le classi lavoratrici hanno “colonizzato” questa forma di intrattenimento e fatta propria» (p. 78). Prima della guerra il rapporto tra i tifosi delle aree popolari e il calcio, scrive Clarke, non aveva nulla a che fare con il rapporto attuale divenuto ormai “spettatoriale”; all’epoca il coinvolgimento era decisamente più profondo. «Andare allo stadio non significava semplicemente guardare la partita, bensì rappresentava un’attività sociale di gruppo […] La partita non era solo ciò che accadeva “laggiù”, ma l’intero campo era parte di un evento sociale. Il tifoso non era una figura neutrale, ma qualcuno – parte del gruppo – coinvolto nella creazione di un evento fuori dal gioco. Da un’altra ottica, il tifoso non era neutrale ma un «militante», un partigiano del club nel suo senso più ampio. Questo significava avere un rapporto sentimentale con la partita, viverla non come un confronto tra due squadre, ma tra la “propria” e quella avversaria, una posizione che non sollecitava una banale complicità, ma incentivava il diritto di critica e i commenti nei confronti della dirigenza e del club» (pp. 78-79). Si trattava di una vera e propria appropriazione dello sport da parte dei tifosi.

Nel dopoguerra, quando la società dell’intera Gran Bretagna è sembrata avviarsi verso un generale miglioramento delle condizioni di vita e le opportunità di intrattenimento si sono ampliate, il calcio ha intrapreso quella strada della spettacolarizzazione e del business che, negli anni Sessanta e Settanta, ha portato alla ristrutturazioni degli stadi, ai posti a sedere e alla creazione di una serie di servizi di intrattenimento come bar e ristoranti. Il tifoso si stava ormai trasformando in uno spettatore propenso ad assistere al gioco «solo se gli sono offerti degli standard di benessere che troverebbe altrove». Il nuovo tifoso divenuto spettatore si avviava così a non essere più parte integrante dell’evento.

Nel processo di spettacolarizzazione un ruolo centrale spetta indubbiamente alla televisione. «Il calcio in tv non è semplicemente calcio, ma parte dell’intrattenimento mediatico, e come tale è soggetto alle regole e alle pratiche della creazione televisiva di un evento. […] Prima della guerra, l’esperienza di guardare il calcio era collettiva e fisica, la folla era coinvolta nel gioco, nel fare propria l’esperienza dell’incontro. Per il nuovo spettatore, il calcio è un divertimento offerto – qualcosa che sta al di fuori, piuttosto che un fatto interno alla relazione tra ciò che accade sul campo e la folla. Il nuovo spettatore vive distaccato, è in grado di formulare giudizi critici, di scegliere tra questa o un’altra forma di svago. Per lo spettatore di calcio televisivo questo aspetto si intensifica» (pp. 86-87). Il fenomeno dell’hooliganismo, sostiene Clarke, «si palesa quando le forme tradizionali dell’assistere alle partite intercettano la professionalizzazione e la spettacolarizzazione del gioco» (p. 88).

Dunque, se la lettura ufficiale dell’hooliganismo tende a ricondurre il fenomeno a una condotta che ha poco a che fare col vedere il calcio, Clarke sostiene invece che il teppismo calcistico possa essere problematizzato soltanto comprendendolo come parte del modo di contemplare il calcio e la violenza tra tifosi avversari dovrebbe essere letta come parte di una volontà di partecipazione al gioco, una sorta di «estensione della lotta sul campo che include anche quella sugli spalti […] L’importanza attribuita alla durezza, come nella cultura calcistica anteguerra, è ancora trasferita nella vita» (p. 95), i tifosi più accesi intendono pertanto mettersi fisicamente alla prova come «difensori delle identità locali e dei campanilismi – è la loro squadra, il loro territorio a essere in gioco […] La violenza è solo la parte più visibile dei differenti stili di assistere a una partita – i giovani tifosi hanno conservato ed esteso le tradizioni del tifo collettivo e partecipativo proprio mentre il gioco concedeva delle modifiche per attirare i nuovi consumatori. […] Se il gioco è cambiato per diventare più spettacolare, così la partecipazione dei tifosi è cambiata da attiva, al gioco, ad attiva in favore dello spettacolo» (pp. 95-97). Insomma, se il consumatore si limita ad osservare, i tifosi, necessariamente al plurale, intendono prendere parte allo spettacolo.

Fanno parte del volume anche una Prefazione – Sottocultura ultras e generazione X – scritta da Andrea Ferreri in cui si insiste sull’importanza di contestualizzare il fenomeno ultras italiano e l’hooliganismo inglese sviluppati dalla generazione nata in Occidente tra il 1960 e il 1980, all’interno di quei cambiamenti che hanno segnato i decenni del conservatorismo reganiano e thatcheriano e una preziosa bibliografia ragionata curata da Luca Benvenga: 100 titoli sui giovani, le sottoculture spettacolari e la violenza nel calcio.


Altro materiale di Sport e dintorni

]]>