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Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

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Il nuovo disordine mondiale / 8: mai più per un pugno di conchiglie https://www.carmillaonline.com/2022/03/22/il-nuovo-disordine-mondiale-8-mai-piu-per-un-pugno-di-conchiglie/ Tue, 22 Mar 2022 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71094 di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu [...]]]> di Sandro Moiso

“La situazione internazionale ha subito nuovi e importanti cambiamenti, il tema della pace e dello sviluppo sta affrontando gravi sfide e il mondo non è pacifico” (Xi Jinping a Joe Biden durante la conferenza sulla crisi in Ucraina del 18 marzo 2022)

Alla fine del XIX secolo, ai tempi della «corsa verso l’Africa», l’oro africano alimentava da almeno mille anni le economie europee e del mondo islamico, mentre fin dal XV secolo i suoi regni, alquanto evoluti e sofisticati, commerciavano con gli europei lungo le coste atlantiche, dal Senegal all’Angola. Almeno fino alla metà del Seicento fu un commercio tra eguali, basato su diverse valute. Soprattutto conchiglie importate dalle Maldive e dal Brasile.
Nel corso del tempo, le relazioni tra Africa ed Europa si incentrarono sempre di più sul commercio degli schiavi, danneggiando il relativo potere politico ed economico dell’Africa, mentre i valori di scambio monetario si spostarono drasticamente a vantaggio dell’Europa.

Questo, almeno, è quanto raccontato e analizzato da Toby Green, Senior Lecturer di Storia e cultura lusofona africana presso il King’s College di Londra, in un testo molto importante e sicuramente destinato a diventare di riferimento per quanto riguarda la storiografia sul colonialismo1.

Se l’imposizione di un sistema monetario basato sul denaro, come feticcio e valore equivalente per gli scambi commerciali, si rivelò decisivo per lo sviluppo degli scambi avviati dalla prima grande globalizzazione coloniale e capitalistica, oggi l’assoluta e trionfale diffusione del sistema su cui si fondò l’accumulazione primitiva e l’instaurazione di un autentico regime di rapina, basato sullo scambio ineguale, causa, sia al cuore che alla periferia dell’impero occidentale, sconvolgimenti pari soltanto a quelli che la rapida diffusione della rete e dei social ha causato al sistema di informazione e disinformazione mediatica, politica e militare operativo tra gli Stati e tra i governi di questi e i loro cittadini2.

Apparentemente, fino ad ora, la narrazione dell’attuale conflitto russo-ucraino sembra essere stata relegata ad una guerra tra due nazioni, in cui una è formalmente aggredita mentre l’altra riveste i panni dell’aggressore, oppure ad una guerra tra Russia e Nato con l’Unione Europea come addentellato. In realtà, se osservata con maggior distacco e su un piano storico più ampio, questa guerra, soltanto per ora non ancora trasformatasi in mondiale, porta alla luce contraddizioni e criticità che per lungo tempo, sicuramente in Occidente, sono state nascoste sia dai governi che dalla comunicazione mainstream.
Non solo, però, ma anche da una concezione, ancora figlia del colonialismo e dell’idea, ereditata spesso anche da certo socialismo e anarchismo di ispirazione tardo ottocentesca, del cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” ovvero della necessità per la “razza bianca” di farsi carico dell’educazione politica e morale, oltre che economica, dei popoli “altri”.

Da qui lo sfoggio in gran spolvero, in ogni occasione e soprattutto in tempi di giustificazionismo di guerra, delle idee di democrazia, libertà civili e individuali e diritti formali che hanno finito spesso col coinvolgere nelle diatribe interimperialistiche, militari ed economiche, anche porzioni di classi e partiti che, invece, avrebbero avuto interesse a tenersi ben lontane da tali questioni. Non per indifferenza, ma proprio per presa coscienza della truffa, esercitata soltanto in nome degli interessi proprietari e finanziari, contenuta in tali immorali chiamate alle armi (ideologiche prima e militari successivamente) di coloro che dai conflitti militari ed economici del capitale hanno sempre e soltanto da perdere, spesso la vita ma mai le “storiche” catene.

Ora, di fronte al baratro della natalità occidentale, in vista di un 2050 in cui le stime demografiche prevedono che su circa dieci miliardi di abitanti del pianeta soltanto un miliardo o poco più sarà dislocato in Europa e Nord America, è evidente che, in maniera prima impercettibile poi sempre più evidente, la lotta per le risorse e le ricchezze del pianeta ha cominciato a vedere protagoniste nazioni che, fino a qualche decennio or sono, l’idea colonialista del mondo ereditata dall’Occidente insieme alle sue fortune dai secoli precedenti contribuiva a definire come sottosviluppate, in via di sviluppo oppure appartenenti al Terzo Mondo (quando il secondo era rappresentato dal cosiddetto socialismo reale di stampo sovietico).

Alcune di queste nazioni (come India, Pakistan, Indonesia, Egitto, Nigeria, Etiopia, Congo e Tanzania) non soltanto appartengono al gruppo di quelle destinate ad avere il maggior incremento demografico nel prossimo futuro, ma sono anche tra quelle che alla votazione avvenuta recentemente alle Nazioni Unite si sono astenute dal condannare la Russia e dall’approvare le sanzioni internazionali nei confronti del suo regime e della sua economia. Tra queste appunto, oltre alla Cina, troviamo infatti l’India, il Pakistan, il Congo, la Tanzania e altre trenta variamente dislocate tra Asia, Africa e America Latina3.

Quella astensione, occorre ribadirlo con forza, non ha segnato certamente un appoggio più o meno mascherato all’autocrate del Cremlino, erede a sua volta della tradizione di un impero sovranazionale, sia in epoca zarista che in epoca staliniana e post-staliniana, ma piuttosto una sorta di rivendicazione di indipendenza di diverse nazioni, certo non tutte di pari grado e importanza o estensione spaziale e demografica, dall’ormai insopportabile e antistorica pretesa dell’Occidente di essere punto focale e riferimento per il mondo intero.

Sono stati e nazioni spesso di diverso credo religioso, in alcuni casi divise da rivalità economiche, militari e talvolta etniche, quasi sempre governate da partiti e personaggi tutt’altro che progressisti, ma accomunate sempre dall’essere state in precedenza colonie degli imperi occidentali e dal far parte di un’umanità colorata e non bianca.
Intravedere in tutto questo una prosecuzione della lotta anti-coloniale sarebbe certamente illusorio e fuorviante, ma occorre coglier in tutto ciò un aspetto importante di quel “nuovo disordine mondiale” di cui si va parlando, anche in questa serie di articoli, da diverso tempo a questa parte.

In prospettiva, una separazione di interessi anche dal dollaro e dal suo sistema, che, sicuramente, le drastiche sanzioni prese dall’Occidente nei confronti della Russia, in primo luogo l’esclusione dal circuito Swift per i pagamenti interbancari e le transazioni finanziarie internazionali, hanno contribuito indirettamente a incoraggiare.
Da questo punto di vista si può iniziare a cogliere proprio ciò che si diceva in apertura, ovvero che quello che era diventato strumento di dominio ed accentramento economico alle origini del capitalismo (la moneta europea nelle sue varie forme nazionali, auree e cartacee), rafforzatosi poi, dopo Bretton Woods4, con la “folgorante” carriera del dollaro come strumento monetario internazionale per gli scambi commerciali e le transazioni finanziarie su scala planetaria, inizia a rivoltarsi proprio contro coloro che per secoli oppure decenni ne hanno mantenuto il controllo. Dando vita a guerre, non solo “monetarie”, di cui anche la creazione dell’euro è stato un effetto, che sempre più si orientano alla sostituzione della moneta americana con altre, bitcoin compresi.

Come era già stato proposto al decimo summit dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) tenutosi a Johannesburg, in Sud Africa nel 2018. In tale contesto, nella più totale indifferenza europea, un atteggiamento miope che ha rivelato tutta l’impotenza politica dell’Unione europea di fronte ai grandi cambiamenti geopolitici che stanno determinando la storia, i cinque paesi, soprattutto Russia e Cina, avevano confermato politiche di diversificazione delle loro riserve monetarie e di progressiva dedollarizzazione delle economie.

In Russia, per esempio, nell’ultimo decennio la quota dell’oro è decuplicata, mentre gli investimenti nei titoli di debito del Tesoro USA sono calati al minimo. Se nel 2010 Mosca deteneva obbligazioni americane per 176 miliardi di dollari, nel 2018 ne deteneva 15 miliardi. La Russia è poi fra i primi cinque paesi per riserve auree. Secondo alcune stime, all’epoca del summit deteneva circa 2.000 tonnellate di oro, pari al 18% di tutte le riserve auree nel mondo. Simili processi erano in corso anche in Cina, che negli anni precedenti il 2018 aveva acquistato 800 tonnellate d’oro, e, anche se in modo più attento, aveva diminuito gli investimenti in titoli di debito americano, scesi dal picco di 1,6 trilioni di dollari del 2014 ai circa 1,2 trilioni5.
Mentre l’Europa, nel frattempo, ha preferito trascurare i Brics intesi come gruppo, sottovalutando che esso, nel frattempo, rappresentava all’epoca il 23% del pil mondiale e il 18% dell’intero commercio globale, limitandosi a rapporti bilaterali.

Se tale processo andrà avanti, sarà certamente lungo e richiederà scelte dolorose soprattutto per le classi lavoratrici di quegli stessi paesi, se non sanguinose sul piano politico-militare, mentre la centralizzazione finanziaria e monetaria a livello mondiale non è certo per ora ancora in discussione. Però iniziano ad essere messe in discussione l’autorità della moneta e delle istituzioni che la hanno fino ad ora rappresentata. Certo è che non saranno più le conchiglie di ciprea o nzimbu, di cui si parlava in apertura, a soddisfare le intenzioni e le mire dei rappresentanti di tutte quelle economie che definire emergenti costituirebbe ormai soltanto un pallidissimo eufemismo.

Intanto si possono citare alcuni episodi “esemplari”. Iniziando dal presidente di El Salvador, Nayib Bukele, che in un Tweet avrebbe definito boomers (vecchi coglioni o qualcosa del genere) i rappresentanti del Senato americano che rimproveravano minacciosamente il suo governo nello stesso momento in cui relativizzava il dollaro (scelto nel 2001 come «moneta nazionale» da predecessori) instaurando il bitcoin come seconda «moneta nazionale» nel giugno 2021.
«Ok boomers», ha twittato Bukele. «Non siamo la vostra colonia, il vostro cortile o il vostro zerbino. Non immischiatevi nei nostri affari interni. Non cercare di controllare qualcosa che non puoi controllare». Ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno «zero giurisdizione» in El Salvador, una nazione sovrana e indipendente».

Bene, non siamo certamente davanti ad uno delle economie più importanti del pianeta e nemmeno davanti ad un governo rivoluzionario, anzi, ma cogliamo la connessione con gli altri Stati latino-americani astenutisi nel voto alle Nazioni Unite, esattamente come El Salvador (Bolivia, Nicaragua e Cuba e Venezuela che, semplicemente, non ha nemmeno votato), senza dimenticare, però, nemmeno quei vertici militari brasiliani che scoraggiarono Trump, più delle mobilitazioni pro-Maduro in Venezuela, dal posare gli stivali militari americani sul terreno sudamericano per risolvere il fallito tentativo di rovesciamento del regime venezuelano messo in atto da Juan Gaidò.
Movimenti e soggetti nazionalisti? Certamente. Rivoluzionari? Per niente. Ma che, rappresentano un autentico pain in the ass per l’amministrazione degli Stati Uniti proprio nel continente che pensava di avere assoggettato una volta per tutte.

Di maggior peso, invece, appare sul piano internazionale l’atteggiamento del primo ministro pakistano Imran Khan che, dopo che i capi di 22 missioni diplomatiche, comprese quelle degli stati membri dell’Unione Europea, avevano rilasciato una lettera congiunta il 1° marzo, sollecitando il Pakistan a sostenere la risoluzione nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che condannava l’aggressione della Russia contro l’Ucraina, ha affermato, durante un raduno politico: «Cosa pensate di noi? Che siamo i vostri schiavi… che qualsiasi cosa voi diciate, noi la faremo?»
Opportunismo tattico? Molto. Spirito di rivalsa di una nazione islamica sempre ambigua nel comportamento nei confronti dell’Afghanistan e dei talebani? Probabile. Retorica nazionalista adatta a nascondere i veri propositi e obblighi di un governo comunque considerato filo-occidentale? Ancor più probabile.

Dall’Africa non sono giunte voci altrettanto “chiare”, ma l’elenco di nazioni astenute è davvero impressionante, a partire dal Sud Africa e continuando, oltre alle due citate prima, con Algeria, Angola, Burundi, Repubblica Centro Africana, Madagascar, Mali, Mozambico, Namibia, Sudan, Sudan del Sud, Uganda e Zimbabwe. Mentre Etiopia, Marocco, Guinea, Togo, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale e Burkina Faso non hanno nemmeno votato.

E’ evidente non soltanto che la presenza militare russa e quella economica cinese esercitano ormai una forte influenza sulle politiche interne ed estere di quei governi, ma anche che un certo spirito di rivalsa anti-occidentale, condiviso da ampi settori dell’opinione pubblica locale e utile a sedarne in anticipo le eventuali proteste per condizioni di vita dovute alle politiche economiche messe in atto da quegli stessi governi, agita gran parte dei paesi ex-coloniali.

Occorre qui ripeterlo: non si tratta più di lotte di liberazione nazionale, com’era avvenuto fino alla metà degli anni Settanta o, ancora, con il passaggio di poteri in Sud Africa nei primi anni Novanta, ma piuttosto di una sorta di rivendicazione della possibilità di partecipare, con voce in capitolo, al gran banchetto della spartizione delle ricchezze mondiali che, a quanto pare, l’Occidente e il suo imperialismo sembrano ben determinati a trattenere tra le proprie mani o, per meglio esprimere il concetto, grinfie.

La favoletta della globalizzazione che avrebbe reso tutti più ricchi e moderni con relativa equità è fallita da tempo6, ma la diffusione dei sistemi produttivi ad essa associati ha portato a risultati imprevisti. Come la scalata cinese al predominio nella produzione industriale e lo sviluppo dell’economia indiana e l’importanza di entrambe le nazioni nella formazione di ingegneri e tecnici dalle conoscenze e abilità che spesso superano quelle occidentali in diversi settori avanzati. Mentre l’espansione del capitalismo cinese in Africa, come si è già detto, ha poi contribuito al resto.

Nulla che spinga in direzione di quel superamento del modo di produzione attuale cui sarebbe giusto aspirare ormai in ogni parte del mondo, ma sicuramente tutti elementi di contraddizioni ormai insanabili, che rivelano l’intima essenza di quel disordine mondiale di cui abbiamo parlato così spesso. Di cui l’esplosione della guerra in Ucraina potrebbe costituire nient’altro che l’aperitivo per le portate principali che devono ancora essere messe in tavola.

Impressione rafforzata poi da altri fatti, spesso inerenti paesi legati tradizionalmente all’Occidente e che hanno votato a favore della condanna di Mosca. Come la Turchia che, da anni, sta conducendo un gioco diplomatico e militare a sé, sia nel Medio Oriente che in Asia Centrale e in Libia, talvolta convergente e talvolta divergente da quello condotto dalla Russia. Motivo per cui l’impegno di Erdogan nelle attuali trattative avrà sicuramente un prezzo anche per l’Occidente.

Oppure l’Arabia Saudita e alcuni paesi del Golfo che non hanno accettato la proposta di Biden di regolamentare il prezzo del petrolio aumentandone il flusso verso Ovest, ma rivendicato piuttosto il diritto di trattare prezzo e quantità dello stesso con la Cina. Così, sempre per l’area del Golfo, va segnalato che, se dall’inizio della guerra in Siria, 11 anni fa, il presidente siriano Bashar al-Assad ha viaggiato pochissimo al di fuori del Paese, e solo per recarsi in Russia e in Iran, il 18 marzo scorso si è recato in visita negli Emirati Arabi Uniti, facendosi fotografare nel sontuoso palazzo dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati e sovrano di Dubai. Cosa che ha scandalizzato non poco il governo degli Stati Uniti.

Infine, occorrerebbe osservare ancora i comportamenti dell’India, che acquista il 70% dei suoi armamenti dalla Russia e che si è già dichiarata pronta ad acquistare gas e petrolio russo in quantità. Certamente in relazione alla sua rivalità economica e militare con la Cina, ma con un gioco diplomatico e finanziario che riduce, al momento, il ruolo dell’Occidente per quanto riguarda i suoi interessi i immediati.

Sarebbero ancora molto numerosi i casi e le contraddizioni che si potrebbero citare e soltanto i rappresentanti del capitalismo occidentale e i suoi media ed intellettuali asserviti sembrano non essersene accorti, continuando a raccontare storie che, come la strage al Teatro di Mariupol, poi smentita dagli stessi che l’avevano gonfiata ad uso propagandistico come autentica “carneficina”, rinverdendo i fasti della campagna di disinformazione europea ai tempi della caduta di Nicolae Ceaușescu nel 1989, non costituiscono altro che continue fake news di cui, forse, stanno addirittura perdendo il controllo. Con rischio ulteriore di far precipitare il conflitto attuale, ancora locale, in uno su scala mondiale. In cui le classi meno abbienti avrebbero soltanto da perdere, in ogni angolo del pianeta.

Come c’è da attendersi, in fin dei conti, da un ambiente politico-culturale in cui l’imbecillità trionfante spacciata per informazione fa sì che personaggi del calibro di David Parenzo possano zittire in malo modo un esperto di questioni internazionali come Alessandro Orsini, se soltanto quest’ultimo osa criticare l’operato della Nato e degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan; oppure in cui i discorsi di Zelensky vengono scritti dallo stesso sceneggiatore della serie televisiva che lo lanciò verso l’attuale presidenza. Tra gli applausi dei media e dei politici europei e nord americani.

(8 – continua)


  1. Toby Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi, Torino 2021  

  2. Su quest’ultimo tema si veda su Carmilla il contributo di Gioacchino Toni contenuto in Il nuovo disordine mondiale / 7: il trionfo della disinformazione digitale di massa, 20/03/2022  

  3. Sullo stesso tema si confronti: Dario Fabbri, Una guerra per procura nel mondo che cambia, “Scenari”, 18 marzo 2022, pp. 2-3  

  4. Accordi di Deliberazione della Conferenza monetaria e finanziaria che si tenne dal 1° al 24 luglio 1944 presso la città di Bretton Woods, in New Hampshire (USA), con la partecipazione dei delegati di tutti i paesi alleati contro il Patto tripartito, compresa l’URSS. Entrati in vigore il 27 dic. 1945, oltre a prevedere la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, gli accordi istituirono il nuovo sistema monetario internazionale, basato sul principio di stabilità costituito dai cambi fissi tra le monete e dal ruolo centrale del dollaro. Tra i paesi firmatari, tra gli attuali appartenenti ai Brics attuali, risultava soltanto la Russia, all’epoca URSS.  

  5. Fonte: www.tendenzamercati.net  

  6. Se n’è parlato qui  

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Artsakh https://www.carmillaonline.com/2021/05/03/artsakh/ Mon, 03 May 2021 20:40:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66139 di Sandro Moiso

Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, 36 pagine, 3,00 euro.

Nel pieno dell’emergenza epidemica è ripreso, si è sviluppato e si è concluso un conflitto sulla cui importanza e sulle cui caratteristiche si è scarsamente riflettuto, grazie anche alle campagne di distrazione di massa condotte dai media nostrani. Molto più interessati a “dare i numeri dell’epidemia” che a svolgere il ruolo di informazione generale che competerebbe loro in una società appena un po’ meno asservita agli interessi del [...]]]> di Sandro Moiso

Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, 36 pagine, 3,00 euro.

Nel pieno dell’emergenza epidemica è ripreso, si è sviluppato e si è concluso un conflitto sulla cui importanza e sulle cui caratteristiche si è scarsamente riflettuto, grazie anche alle campagne di distrazione di massa condotte dai media nostrani. Molto più interessati a “dare i numeri dell’epidemia” che a svolgere il ruolo di informazione generale che competerebbe loro in una società appena un po’ meno asservita agli interessi del capitale nazionale e internazionale.

Si tratta della guerra esplosa nel Nagorno Karabakh, apparentemente tra le forze azere e armene ma, sostanzialmente, in nome dell’espansione del novello impero turco verso Oriente e del controllo militare, politico ed economico di una delle zone cerniera comprese tra il Medio Oriente e l’Asia centrale: il Caucaso. Ma non solo, poiché, l’opuscolo edito da Tabor mette bene in luce che:

nonostante lo scenario sia contraddittorio e intricato, nonostante non ci siano i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ciò nonostante la posta in gioco è chiara e inequivocabile. Due ragioni si affrontano sul campo: da una parte (quella azera e turca) c’è il diritto di uno Stato nazione
all’integrità del proprio territorio e all’imposizione dei propri confini; dall’altra (quella armena) c’è il diritto all’autodeterminazione e all’autodifesa di un popolo che resiste a secoli di oppressione e di tentativi di genocidio1.

Poco dopo aver conseguito la propria indipendenza nazionale, all’inizio degli anni Novanta, il popolo armeno riuscì a conquistare anche l’indipendenza de facto dell’Artsakh, o Nagorno Karabakh, enclave armena montanara incastrata dentro i confini dell’Azerbaijan.
Oggi, dopo trent’anni, fomentato e sostenuto dall’espansionismo turco, l’Azerbaijan ha scatenato una nuova guerra di aggressione che, oltre a migliaia di morti e di sfollati, ha gettato le basi di una nuova pulizia etnica ai danni del popolo armeno, costantemente minacciato di genocidio. Così, mentre l’“Occidente” mostra la sua totale irrilevanza, la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin – come già in Siria e in Libia – si spartiscono le rispettive aree di influenza in quella vera e propria “linea di faglia” tra imperi che tornano a essere i monti del Caucaso.

Naturalmente, per comprendere a fondo le ragioni di questo conflitto e di questa resistenza all’oppressione che motiva il popolo armeno, occorre fare un excursus, per quanto breve, nella storia plurimillenaria di un territorio e di un popolo che passa attraverso la formazione ed espansione dell’impero ottomano, la sua dissoluzione con la prima guerra mondiale, lo scontro tra quell’impero e quello zarista sulla frontiera del Caucaso, le trasformazioni avvenute con le conseguenze della rivoluzione bolscevica e di quella nazionalista dei Giovani Turchi di Kemal Atatürk, i maneggi di Stalin per conservare il controllo della regione creando conflitti territoriali tra gli abitanti dello stesso e, infine, gli interessi legati oggi allo sviluppo delle vie del gas e del petrolio che vedono, per ora, Erdogan e Putin sostanzialmente alleati in gran parte dello scacchiere mediorientale e nordafricano, mentre l’Occidente è costretto ad assistere, anch’esso soltanto per ora, a ciò che avviene a causa delle proprie divisioni e della propria fame di gas e combustibili fossili.

Senza dimenticare che anche l’italietta entra indirettamente nel gioco, grazie agli accordi per il TAP, mentre la società turca Yildirim si è di recente assicurata il controllo del porto di Taranto in nome del controllo di quella Patria Blu con il cui nome la Turchia di Erdogan definisce tutto il quadrante del Mediterraneo orientale (e forse non solo).

Al centro, naturalmente, rimane il tema del genocidio del popolo armeno portato avanti a più riprese dall’impero ottomano prima e dallo stato turco poi, tra il 1870 e la fine della prima guerra mondiale, che ha visto non solo milioni di armeni cadere a causa delle iniziative militari e repressive, oltre che oppressive turche, ma anche costretti ad emigrare a causa delle stesse. Un “olocausto minore” avvenuto nell’Asia Minore che coinvolse in quanto vittime anche gli assiri e i greci dell’ Anatolia e del Ponto, soprattutto tra il 1914 e il 1923. Genocidio che per alcuni autori è possibile additare tra quelli ispiratori della Shoa proprio a causa del coinvolgimento o almeno dell’assenso dato allo stesso dagli alleati tedeschi2.

Una lotta infine che per svolgimento e ruoli non può che rinviare a quella del popolo curdo e, soprattutto, al Rojava. In un crocevia dove gli inteeressi di Russia e Turchia incrociano quelli dell’Iran e anche di Israele, visto soprattutto l’appoggio militare dato dalle armi israeliane all’azione turca sotto forma di droni killer. Una questione lunga e complessa, ma non per questo meno chiara, che questo saggio, apparso, in due puntate e in versione leggermente ridotta, su «Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna» (nei numeri 58 e 59, autunno e inverno 2020-2021), aiuterà il lettore a comprendere ancor meglio.

N. B.

Per eventuali contatti e per ordinare delle copie:

tabor@autistici.org – www.edizionitabor.it


  1. Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, p.4  

  2. Si veda in tal senso: Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, edizione italiana a cura di Antonia Arslan e Boghos Levon Zekiyan, Edizioni Guerini e Associati, Milano 2003, in particolare pp. 279-330  

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Il Continuum di Omnibus https://www.carmillaonline.com/2019/10/20/il-continuum-di-omnibus/ Sun, 20 Oct 2019 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55500 di Alessandra Daniele

“Stiamo per subire un altro genocidio” dice la combattente curda, in collegamento con La7. Il conduttore di Omnibus l’interrompe: “Dobbiamo mandare la pubblicità”. È successo davvero. La denuncia d’un imminente genocidio non cambia niente. Deve aspettare. La priorità è la merce. Automobili, frullini, merendine, materassi. “Chi dice che le vacanze finiscono a settembre?” Chi deve tornare a lavorare. “Con soli 240€ potrai acquistare Evolatex”. Il materasso eugenetico. “Non seguire, fatti seguire”. Da uno bravo. Skyline scintillanti, chirurghi olografici, sorrisi perfetti. È il Continuum di Gernsback dell’hard sci-fi anni ’30, [...]]]> di Alessandra Daniele

“Stiamo per subire un altro genocidio” dice la combattente curda, in collegamento con La7. Il conduttore di Omnibus l’interrompe: “Dobbiamo mandare la pubblicità”.
È successo davvero.
La denuncia d’un imminente genocidio non cambia niente. Deve aspettare. La priorità è la merce.
Automobili, frullini, merendine, materassi.
“Chi dice che le vacanze finiscono a settembre?”
Chi deve tornare a lavorare.
“Con soli 240€ potrai acquistare Evolatex”.
Il materasso eugenetico.
“Non seguire, fatti seguire”.
Da uno bravo.
Skyline scintillanti, chirurghi olografici, sorrisi perfetti.
È il Continuum di Gernsback dell’hard sci-fi anni ’30, di cui parla William Gibson nel suo racconto omonimo.
Il futuro fittizio ancora adoperato per piazzarci tutte quelle variopinte stronzate, col riso e senza lattosio, che ci tengono buoni nelle nostre gabbiette.
Giocattoli per bambini decrepiti ma incapaci di crescere, bambini vampiri.
Vittime e complici d’un modello socio-economico che non ammette eccezioni. Non ammette eresie, come quella curda.
Un modello basato sul genocidio.
La priorità è la merce.
Sono stata nel ventre della Bestia. Ci siamo stati tutti. Supermarket, Superstore, Shopping center, Centro commerciale di gravità permanente: ha centinaia di nomi, e miliardi di fauci, fisiche e virtuali.
Ha miliardi di occhi, che ci guardano dagli schermi che teniamo in mano.
Ci ha ingabbiato in un timeloop, come criceti nella ruota, con uno scintillante futuro irraggiungibile appeso davanti al naso. E una pistola alla testa.
Stiamo per subire un altro genocidio.
Ma prima, pubblicità.

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Scemo di guerra https://www.carmillaonline.com/2018/04/15/scemo-di-guerra/ Sun, 15 Apr 2018 18:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45067 di Alessandra Daniele

Luigi Di Maio del Movimento Cinque Stelle promette un “Governo del Cambiamento”. Tra le cose che però non ha intenzione di cambiare c’è la servitù militare verso USA  e NATO. È per un Movimento Cinque Stellette.

[“Scemo di guerra” è un titolo della filmografia di Beppe Grillo. La scheggia lunga di questa settimana L’ultima consultazione è uscita giovedì] .

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di Alessandra Daniele

Luigi Di Maio del Movimento Cinque Stelle promette un “Governo del Cambiamento”.
Tra le cose che però non ha intenzione di cambiare c’è la servitù militare verso USA  e NATO. È per un Movimento Cinque Stellette.

[“Scemo di guerra” è un titolo della filmografia di Beppe Grillo.
La scheggia lunga di questa settimana L’ultima consultazione è uscita giovedì]
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L’ultima consultazione https://www.carmillaonline.com/2018/04/12/lultima-consultazione/ Thu, 12 Apr 2018 19:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44957 di Alessandra Daniele

Quando arrivò l’allerta dei servizi segreti, al Quirinale era in corso un vertice informale fra i leader dei principali partiti, il premier uscente, e il presidente della Repubblica, alla ricerca d’un accordo per il nuovo governo che superasse lo stallo generato dal risultato incerto delle elezioni, e dai veti incrociati. I leader furono interrotti in pieno litigio dal presidente, che posando il suo telefono personale, annunciò: “Gli Stati Uniti stanno bombardando la Siria, e s’aspettano una rappresaglia russa che potrebbe innescare un’escalation. I servizi segreti raccomandano di trasferire immediatamente il vertice [...]]]> di Alessandra Daniele

Quando arrivò l’allerta dei servizi segreti, al Quirinale era in corso un vertice informale fra i leader dei principali partiti, il premier uscente, e il presidente della Repubblica, alla ricerca d’un accordo per il nuovo governo che superasse lo stallo generato dal risultato incerto delle elezioni, e dai veti incrociati.
I leader furono interrotti in pieno litigio dal presidente, che posando il suo telefono personale, annunciò: “Gli Stati Uniti stanno bombardando la Siria, e s’aspettano una rappresaglia russa che potrebbe innescare un’escalation. I servizi segreti raccomandano di trasferire immediatamente il vertice dello Stato italiano nel bunker sotto il Colle”.
I leader si guardarono a vicenda, shoccati.
Il premier uscente disse in tono solenne: “Sono pronto”.
“Eh no! – Protestò il leader nominato dal Movimento – Lei non ha nessun diritto al bunker, il suo governo s’è già dimesso!”
“Ma non ce n’è ancora un altro” obiettò il premier uscente.
“Sì che c’è! – Intervenne il leader delegato dal centrodestra, tendendo la mano a quello del Movimento – Abbiamo appena trovato un accordo”.
“Non vale! – Protestò il leader provvisorio del centrosinistra – non avete ricevuto il mandato, non avete prestato giuramento, non avete ottenuto la fiducia!”
“Basta con la burocrazia! La fiducia non è necessaria. Ci basta giurare davanti al presidente”.
“E noi giuriamo” annuì il leader del Movimento.
I due si presero sottobraccio.
“Ah si? E chi di voi fa il premier? Chi scende nel bunker?” Chiese il leader del centrosinistra.
I due sottobraccio si fissarono, e dissero in coro “Io!”
Poi s’afferrarono per le rispettive cravatte e cominciarono a strattonarsi, insultandosi.
Il presidente della Repubblica li guardò con aria imbarazzata.
“Il vertice dello Stato a cui si riferisce l’allerta dei servizi segreti sono io – precisò – soltanto io”.
“Perché?” Protestarono i due, con ancora in mano la cravatta dell’avversario.
“Perché secondo accordi internazionali segreti, in caso di guerra nucleare l’Italia perde del tutto la sua sovranità, e quindi non necessita più d’un governo autonomo, ma soltanto d’un esecutore delle direttive NATO”.
“Noi siamo sempre stati ottimi esecutori” disse il leader del centrosinistra, indicando il premier uscente.
“Sì, ma non c’è più bisogno di voi. Come capo delle Forze Armate, basto io” rispose il presidente. Schiacciò un pulsante sulla sua scrivania. Una delle librerie scivolò lungo la parete, rivelando una porta segreta.
I leader si precipitarono verso la porta, quattro agenti dei servizi ne uscirono, bloccandoli. Il presidente prese una valigetta dalla scrivania, e imboccò rapido la porta, seguito dagli agenti. La libreria la richiuse, lasciando fuori i leader.
“È tutta colpa vostra!” Strillò il leader del Movimento.
“Ma vaffanculo!” Urlarono gli altri.
Poi un rombo assordante sopra le loro teste li fece tacere.

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Gli ultimi figli d’Europa https://www.carmillaonline.com/2018/03/29/gli-ultimi-figli-deuropa/ Wed, 28 Mar 2018 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44491 di Sandro Moiso

Giovanni Iozzoli, Di notte nella provincia occidentale, Edizioni ARTESTAMPA, Modena 2018, pp. 272, € 17,00

E’ un vero peccato che oggi non ci siano più registi del calibro di Mario Monicelli, Pietro Germi o Dino Risi, in grado di prendere in mano un romanzo come questo e trasformarlo in uno dei grandi classici della commedia all’italiana e che, dietro al sorriso e all’umanità della narrazione, avrebbero saputo rivelare l’amarezza delle vite dei protagonisti e i drammi dall’esito incerto di una società in via di smantellamento.

Una vicenda che procede per cerchi concentrici: dal dramma individuale a quello [...]]]> di Sandro Moiso

Giovanni Iozzoli, Di notte nella provincia occidentale, Edizioni ARTESTAMPA, Modena 2018, pp. 272, € 17,00

E’ un vero peccato che oggi non ci siano più registi del calibro di Mario Monicelli, Pietro Germi o Dino Risi, in grado di prendere in mano un romanzo come questo e trasformarlo in uno dei grandi classici della commedia all’italiana e che, dietro al sorriso e all’umanità della narrazione, avrebbero saputo rivelare l’amarezza delle vite dei protagonisti e i drammi dall’esito incerto di una società in via di smantellamento.

Una vicenda che procede per cerchi concentrici: dal dramma individuale a quello famigliare a quello sociale, locale e internazionale; da quello dei sogni racchiusi in attività lavorative in attesa di essere definitivamente soppresse a quelli legati ad attività in proprio destinate a morire ancor prima di nascere; da quello delle speranze giovanili infrante ancor prima di essere espresse a quello delle speranze degli adulti riposte un tempo nel sindacato, nel partito o semplicemente in una vita onestamente vissuta e sudata.

Si piange e si ride, proprio come negli esempi migliori della commedia all’italiana, assistendo alle vicende di Pasquale Altiero, di sua moglie Lucia, del figlio Gabriele, del kebabbaro Mustafà, di suo figlio Karim e degli innumerevoli altri personaggi che popolano le pagine del romanzo di Iozzoli. Personaggi che vanno dal tossico senza speranza destinato a morire all’alba sulle rive del fiume Secchia ai pensionati appassionati delle canzoni di Toni Santagata e dallo stesso Santagata a Abu Bakr Al Baghdadi. Tutti hanno storie da raccontare, tutti sperano in questo modo di dare un senso alle loro vite e di lasciare traccia di sé in un mondo che già non si ricorda più di loro mentre sono ancora in vita.

Tutti tranne i due giovani adolescenti, allo stesso tempo ideali e concreti, rappresentanti di quegli ultimi figli d’Europa che, da Modena a Molenbeek, dalla Siria a Bruxelles a Bologna o a qualsiasi altra città europea, non hanno nulla da ricordare e ben poco in cui sperare, così implacabilmente diretti come sono verso un futuro oscuro e incerto che rischia di trasformarsi, in qualsiasi momento, in un irresistibile vortice in grado di farli sprofondare sia nel buio dello Stato islamico e dei suoi profeti che nel buco nero rappresentato dal consumo di eroina e di crack.

Giovanni Iozzoli, giunto al suo quarto romanzo, è stato tra i fondatori dell’esperienza di Officina 99 a Napoli, da ventiquattro anni vive e lavora a Modena, della cui provincia è diventato allo stesso tempo il cantore e il cronista, e con il suo terzo romanzo, La vita e la morte di Perzechella (edito sempre da ARTESTAMPA), ha vinto nel 2016 il primo premio alla trentatreesima edizione del concorso Città di Cava de’ Tirreni.

Il suo attuale romanzo piomba dritto come una bomba su quelle province dove un tempo regnava il PCI, la terra delle coop rosse e degli imprenditori che erano usciti dalla classe operaia e dove oggi, da Brescello a tanti altri comuni grandi e piccoli, lo scettro è passato ad altri partiti, ad altre promesse che pure affondano le loro radici in quella distorsione di un immaginario collettivo e politico iniziata già dai contemporanei di Peppone e Don Camillo.

Il sogno dell’integrazione formale tra classe operaia e impresa, tra lavoro e capitale ben temperato, tra immigrati e residenti (che spesso hanno dimenticato le loro origini di immigrati), tra partito e società è fallito e non è rimasto nulla con cui sostituirlo se non rancore, desideri insulsi, mutui sempre più difficili da pagare oppure un nichilismo individualistico che non comprende neppure di essere tale.

Viaggia con leggerezza e amarezza lo scrittore tra i flutti di una mareggiata che viene da lontano e che non finirà presto e, quasi unico negli ultimi anni, sa raccontarci una storia italiana e globale, generazionale e sociale senza cadere nel dramma ad ogni costo o nella narrazione intimistica di una vicenda meramente individuale.

Non viaggia in superficie l’autore, ma si tuffa nel mondo di oggi senza farci annegare e senza soffocare i suoi personaggi in un mare di banalità o di retorica, giocando sapientemente con gli artifici della narrazione e rivelandoceli poco a poco con ironia e intelligenza. Riuscendo a far sì che, ancora una volta, sia la letteratura a fornirci la chiave interpretativa più utile per provare a comprendere il mondo che ci circonda. Feroce, comico, drammatico, complesso o in qualunque altro modo lo si voglia definire.

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Qualcosa di nuovo sul fronte orientale https://www.carmillaonline.com/2017/12/23/qualcosa-sul-fronte-orientale/ Fri, 22 Dec 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42294 di Franco Foschi

D. Grasso, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, Alegre Edizioni, 2017, pp. 347,  € 16,00

Scimmiottare un famoso titolo di guerra come “Niente di nuovo sul fronte occidentale” per parlare della guerra rivoluzionaria in Kurdistan non è forse del tutto corretto, perché in quel romanzo lo scopo dichiarato era quello di suscitare l’orrore per la guerra, mentre in questo memoir di Davide Grasso lo scopo è ben diverso: qui si tenta di narrare (ma, come vedremo, questo termine è [...]]]> di Franco Foschi

D. Grasso, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, Alegre Edizioni, 2017, pp. 347,  16,00

Scimmiottare un famoso titolo di guerra come “Niente di nuovo sul fronte occidentale” per parlare della guerra rivoluzionaria in Kurdistan non è forse del tutto corretto, perché in quel romanzo lo scopo dichiarato era quello di suscitare l’orrore per la guerra, mentre in questo memoir di Davide Grasso lo scopo è ben diverso: qui si tenta di narrare (ma, come vedremo, questo termine è riduttivo) una guerra indispensabile, di documentare ciò che si è scelto sulla propria pelle, cioè la rivoluzione. Che, partita come lotta di liberazione di un popolo, si è trasformata nella lotta di pochi per tutti, nel simbolo della liberazione da tutti gli oppressori, ovunque e comunque, come promuove ogni liberazione di popolo aliena da interessi di Stato.

Davide Grasso un giorno, in una pausa delle attività tra i centri sociali, le attività No Tav e gli aperitivi musicali con gli amici, scopre su di sé il dolore profondo che le varie azioni dei nazisti dell’Isis inducono, il Bataclan su tutte, e decide, anzi viene deciso da una motivazione superiore alla personalità, che deve andare là dove i delinquenti assassini di Daesh nascono, per combatterli. Per ucciderli. È inutile cincischiare, è inutile fare i rivoluzionari da salotto: bisogna andare. E va.

Già il viaggio per la Siria è lungo e pieno di imprevisti, e incerto, e dall’esito per nulla scontato. L’infinito avvicinamento ricorda la lunga, tragica attesa, nutrita di speranze minuscole ed enormi fatiche, de “La tregua” di Primo Levi. Israele, poi la Palestina, poi i primi confini attraversati abusivamente… Tutto sembrerebbe urlare un ‘ma chi te lo fa fare, ma torna a casa’, la logica più ovvia di un percorso così accidentato. Ma Grasso conosce più che bene le sue motivazioni e se i dubbi sono sempre presenti, essendo umano, l’obiettivo è altrettanto solido e chiaro: «Sapevo che ero entrato nelle Ypg perché non avrei potuto vivere oltre, divorato dal crollo della mia autostima se avessi usato tutta la vita parole senza conseguenze». Parole senza conseguenze, che dichiarazione.

«Avevo messo in conto di morire»: quanti, senza essere Che Guevara, sarebbero disposti a sottoscrivere scelte estreme con questa lucidità? Quindi, il lungo viaggio, del quale Grasso non nasconde neppure le insofferenze e i compromessi, come il dover fare un tratto assieme alla croata Natascia, una squilibrata in cerca solo di forti emozioni non di rivoluzione, o il doversi fingere solidali con un paio di odiati Peshmerga pur di ottenere un visto di passaggio.

Nel lungo addio all’occidente Grasso non esita a riflettere sulle sue proprie contraddizioni. Ad esempio l’amore per gli USA di Animal House o di Sunset Boulevard, quando sai che appena arrivato al tuo destino ti trasformerai immediatamente in un nemico dichiarato degli “ameriki”. Oppure allo struggimento per la propria famiglia, che ogni rivoluzionario dovrebbe superare…

Ma infine, dopo mille peripezie, si arriva. Però sei un internazionale, quindi non vali un cazzo, sei un debole, non sai niente, sei molle, sei europeo! Entri così all’Accademia, il luogo dove devi, assolutamente devi, diventare un rivoluzionario, altrimenti di andare a combattere non se ne parla. Anche qui l’attesa è lunga ed estenuante. Preparazione fisica durissima, studio approfondito delle armi – del kalashnikov soprattutto, l’arma che esprime la logica del socialismo – ma principalmente indottrinamento ideologico. E devi, assolutamente devi, imparare il curdo.

Ciò che Grasso capisce e condivide, quel che per un europeo è retorica (“In Kurdistan combattiamo per tutti, per la rivoluzione mondiale”) lì è morale applicata; la pietà è un lusso e ti blocca, la rivoluzione deve andare avanti; non bisogna avere amici personali con legami troppo forti, l’amicizia (hevalen) è con tutti i rivoluzionari, indistintamente; una volta battuti il califfo, la Turchia e il regime siriano, l’odio reciproco tra etnie o religioni o altro si potrà battere solo con l’astensione dall’aggressione militare e dal furto.

È a questo punto che Grasso comincia a ravvisare le affinità tra la resistenza partigiana in Italia e la resistenza curda in Iraq e Siria: ricordando anche come i cosiddetti intellettuali inorridiscano a questi paragoni. Ciò che invece Grasso fatica a capire e non sempre condivide: cerca di far comprendere agli heval che esistono sfumature. Per esempio discute con un compagno il fatto che lui, in Italia, ha manifestato in favore del Rojava… e il compagno inorridisce, nauseato: la rivoluzione si difende con le armi, non con le manifestazioni e tanto meno con le chiacchiere.

Grasso al contrario inorridisce di fronte alla passione per la morte di tutti quei combattenti, che quando sono stanchi e stremati non fanno altro che desiderare il martirio, perché la cosa più importante è avere l’onore di chi rimane… Grasso mantiene dal primo istante all’ultimo della sua esperienza una lucidità estrema, per esempio ammettendo, contro ogni apologia acritica della rivoluzione, che tanti combattenti non sono altro che mitomani o pazzi, ben lontani dall’ideologia, verità che osserva soprattutto negli internazionali. Gustoso e tragico il racconto dell’incontro con un paio di combattenti anarchici e hippies del nord Europa, stanchi di aspettare il loro turno, che protestano in questi, agghiaccianti, termini: «Ma sono tutti diciottenni, perché loro non devono sopravvivere e noi sì?».

Poi viene finalmente accettato dai suoi compagni, indossa la divisa del Ypg e parte per combattere. E qui la narrazione, che è già un vissuto intensissimo, se possibile decolla ancora di più: sparare, lanciare bombe per uccidere, vedere i propri compagni morire di fianco a te. E la paura. E il dubbio. L’insicurezza del proprio corpo, e la malattia. Le persone che si ammirano, le persone che si detestano. E una compagna imbattibile: la paura. E la coscienza, fortissima, che a differenza di loro tu non vuoi morire, non vuoi morire, non vuoi morire!

L’intensità del racconto, in questo settore del libro, è spasmodica. L’ovvia trascrizione delle storie in prima persona, trattandosi di memoir, rende tutto così vero, così vivo, così doloroso, che l’indifferenza o la stanchezza, i due principali rischi del leggere, sono ben lontani. Anzi, in questo racconto assoluto ci sono talmente tante immagini indimenticabili e una trazione e una forza colossale per sopravvivere, e per non abbandonarsi mai alla visione negativa, così antirivoluzionaria, che indimenticabile diventa tutto il libro.

Poi, dopo avere resistito al cupio dissolvi dei giovani guerriglieri, alle bombe e alle mitraglie dell’Isis, alla diarrea, alla diffidenza degli autoctoni, dopo un anno di vita combattente, si torna a casa. Quasi con pudore. Si torna a casa facendo un lungo giro, interminabile, per tutta l’Europa, come se la paura di staccarsi da quello che hai vissuto a favore di un comodo occidente possa rivelarsi una colpa.

Qui il racconto si fa più disteso, e alcuni avvenimenti assurgono al valore di vera gag (combattendo, in mezzo al deserto, in costante pericolo di morte violenta, lontano da tutto e da tutti, immerso nella vera solitudine malinconica del soldato, a un certo punto da una radio parte una canzone di Albano e Romina, e tu piangi, vorresti piangere, ma non puoi, non puoi dimostrare debolezza con gli altri heval…).

E infine, il dubbio della comunicazione: come farò a raccontare tutto questo? Cosa dovrò enfatizzare e cosa tralasciare? Come non sentirsi inutile, in Europa? «Chi avrebbe compreso? Chi avrebbe davvero voluto ascoltare?…la selezione e la distanza della scrittura, della parola, avrebbero creato uno scarto che non avrebbe potuto restituire la presenza di quella guerra. Tacere? No. Sarebbe stato un crimine».

Per fortuna Grasso non ha fatto la scelta di tacere, e ha confezionato uno dei libri più intensi, dolorosi e preziosi di questo periodo. Concludo di nuovo con le sue stesse parole, la maniera migliore per comprendere a chi/cosa ci affidiamo, quando prendiamo in mano questo libro fenomenale e fondamentale: «Era bella, la rivoluzione? Desiderabile? Il Medio Oriente mi faceva paura. Il ricordo dell’indecente romanticismo dei radicali europei mi faceva vomitare. La rivoluzione non era bella. Non avevo visto nulla di meno bello nella mia vita. La rivoluzione era necessaria. Questo continuavo a credere, con tutto me stesso».

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Una nuova Comune (al centro dell’Inferno che viene) https://www.carmillaonline.com/2017/12/20/nuova-comune-al-centro-dellinferno-viene/ Tue, 19 Dec 2017 23:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42275 di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson), Rojava una democrazia senza stato, Elèuthera 2017, pp. 222, € 16,00

L’interessante e ricco di testimonianze testo di Elèuthera è pubblicato in un frangente molto delicato e drammatico delle vicende del Vicino Oriente. Infatti l’edizione ha preceduto di pochi mesi la dichiarazione di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e le di poco precedenti dichiarazioni tese a costruire una sempre più stretta alleanza con l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo che, nascosta sotto un’operazione mediatica [...]]]> di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson), Rojava una democrazia senza stato, Elèuthera 2017, pp. 222, € 16,00

L’interessante e ricco di testimonianze testo di Elèuthera è pubblicato in un frangente molto delicato e drammatico delle vicende del Vicino Oriente. Infatti l’edizione ha preceduto di pochi mesi la dichiarazione di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e le di poco precedenti dichiarazioni tese a costruire una sempre più stretta alleanza con l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo che, nascosta sotto un’operazione mediatica di maquillage attraverso l’entrata in scena del nuovo erede al trono saudita Mohamed bin Salman, tende alla preparazione di un più vasto conflitto, forse non ancora diretto per gli USA, con l’Iran e gli stati in cui il regime di Teheran rivela un certo peso politico e militare.

Contemporaneamente le dichiarazioni pubbliche del Ministro della Difesa russo sull’addestramento in chiave anti-Assad cui gli americani starebbero sottoponendo i combattenti dell’ISIS e di Al Nusra, fuorusciti da Raqqa poche settimane or sono, hanno ulteriormente contribuito ad aumentare le tensioni in un’area che potrebbe rivelarsi decisiva per lo scoppio definitivo di un terzo conflitto mondiale.

E’ infatti al centro di tale area conflittuale1 che si sta sviluppando l’esperimento di quella che David Graeber, in uno dei due testi che lo vedono coinvolto all’interno del libro, definisce come un’autentica rivoluzione.
Nel Rojava è infatti in corso una trasformazione dei rapporti sociali, economici e tra i sessi destinata sicuramente a lasciare il segno sui movimenti sociali a venire e a ridefinire i compiti di quella che sarà la Rivoluzione del futuro. Esattamente come l’esperienza della Comune di Parigi contribuì a ridefinire, attraverso l’azione dei suoi protagonisti, i compiti del movimento operaio ottocentesco e novecentesco. Così tanto da influenzare e costringere, all’epoca, ad affinare il proprio pensiero i teorici del socialismo rivoluzionario da Marx a Lenin.

Afferma Graeber a proposito del Rojava e della situazione attuale:

Nel corso degli ultimi trenta o quarant’anni, i capitalisti hanno compiuto uno sforzo enorme per diffondere la convinzione che gli attuali assetti economici – non il capitalismo, ma la specifica forma di capitalismo finanziario e semifeudale che conosciamo oggi – costituiscano l’unico sistema economico possibile […] Come risultato, il sistema ci sta crollando addosso proprio nel momento in cui sembra essersi persa la capacità di immaginare qualcosa di diverso.
Ebbene, sono convinto che nel gito di cinquant’anni il capitalismo non esiterà più in nessuna delle forme a noi familiari e, forse, in qualsiasi altra forma conosciuta.Qualcos’altro avrà preso il suo posto […] Per questo ritengo che, in quanto intellettuali, o semplicemente uomini pensanti, sia nostro dovere tentare quanto meno di immaginare quale aspetto potrebbe assumere qualcosa di migliore. E se esiste qualcuno che sta realmente cercando di costruirlo, è nostro dovere fornirgli il nostro aiuto.2

Tutte le testimonianze presenti nel testo di Elèuthera non solo configurano la radicalità dell’esperimento condotto dalle forze curde nei territori del Kurdistan occidentale compresi all’interno dei confini siriani, ma anche il fatto che tale esperimento si basa sulla precisa coscienza che una nuova e differente società egualitaria non possa prendere a modello nessuno dei sistemi organizzativi e produttivi che sono già appartenuti al modo di produzione capitalistico e alla società borghese o che ad essa si sono ispirati.

Da cui derivano non solo la necessità dell’abolizione dello Stato centralizzato e nazionale ma, già nel corso della “rivoluzione” stessa, anche della sua sostituzione con organismi eletti e controllati dal basso a tutti i livelli (giustizia, sicurezza, difesa). Accanto a questa sostituzione federalistica e “comunale” delle strutture statuali deve però essere costruita in corso d’opera una società che non rinvii a “dopo” la questione della parità dei sessi e dell’eguaglianza dei diritti ed economica, ma che già realizzi tali principi nella vita quotidiana e materiale della società in transizione.

I differenti saggi contenuti nel testo curato da Dirik, Levi Strauss, Taussig e Lamborn Wilson toccano tutti i differenti aspetti di questa trasformazione in maniera sintetica, esauriente e convincente, dimostrando appunto che tale esperienza merita una straordinaria attenzione e mobilitazione da parte di tutti coloro che intendono opporsi all’imperialismo e al capitalismo su scala internazionale e a casa propria.

Proprio per questo motivo occorre però porsi alcune altre domande, che stanno alla base di un’altra affermazione contenuta nel discorso dell’antropologo inglese:

Non ho alcuna certezza che questa esperienza non venga schiacciata prima di arrivare a compimento, ma di certo lo sarà se si stabilisce in anticipo che nessuna rivoluzione è possibile, se ci si astiene dal darle un sostegno attivo, se addirittura la si attacca, contribuendo a isolarla ulteriormente, come fanno in molti.3

Occorre cioè non soltanto accettare acriticamente tutte le formulazioni e le scelta fatte sul campo dai combattenti e rappresentanti delle comunità del Rojava, ma anche contribuire a definire aspetti che nel contesto generale potrebbero risultare ambigui o, più semplicemente, contraddittori e confusi a causa della situazione d’urgenza.

Secondo la Encyclopaedia of Islam, il Kurdistan conta 190.000 km² in Turchia, 125.000 km² in Iran, 65.000 km² in Iraq, e 12.000 km² in Siria, per cui l’area totale sarebbe di 392.000 km².
Per il Rojava quindi 12.000 km² con circa 4,6 milioni di abitanti (di cui circa la metà rifugiati) in un Medio Oriente che comprende una superficie di 7 milioni e 300mila km² e circa 402 milioni di abitanti.4

All’interno di tale area il Rojava rischia quindi, a priori, di essere schiacciato non solo dagli interessi dei colossi dell’imperialismo geo-politico (Stati Uniti e Russia), ma anche da quelli dei giganti nazionali e militari rappresentati dai maggiori competitor in loco (Turchia, Israele, Iran e Arabia Saudita, tralasciando per il momento l’Egitto che, con i suoi 90 milioni di abitanti, è il paese più popolato dell’intera area).

Un’area in cui alcune e non secondarie questioni solo apparentemente nazionali (valgano per tutte quelle palestinese e curda in generale) potrebbero trovare nell’esempio kurdo un valido esempio per l’azione e l’organizzazione sociale, con forme di federalismo in grado di metter in relazione e contribuire all’alleanza di settori di popolazione estremamente differenti tra di loro per lingua, etnia, religione e situazione socio-economica.
Un esperimento, quindi, che non può davvero ricevere l’approvazione o la simpatia autentica di alcuni stati (vedi ad esempio Israele) che pur fingono di appoggiare i combattenti curdi o garantire il loro totale appoggio futuro (si pensi alla politica statunitense del divide et impera ). Né tanto meno l’aiuto di quelle forze di stampo sciita, che pur si contrappongono all’Isis e ai giochi saudito-israeliani nell’area, ma in chiave filo-iraniana.

Un errore di fiducia in tal senso potrebbe infatti costare molto caro ai curdi del PKK di Abdullah Öcalan e del Partito democratico del Kurdistano (PYD) e alle sue unità, femminili e maschili, di autodifesa. Un errore che è possibile intravedere in un’intervista, sicuramente interessantissima e chiarissima nei suoi scopi, rilasciata recentemente da Riza Altun (membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) ), in cui l’intervistato si sofferma ripetutamente sul paragonare l’alleanza tattica attuale con gli Stati Uniti con quella stabilita durante il secondo conflitto mondiale tra l’Unione Sovietica di Stalin e le potenze occidentali.5

In tal modo si rischia infatti non soltanto di far rientrare dalla finestra l’esperienza stalinista appena cacciata dalla porta con le scelte coraggiose operate dal PKK e dal suo leader, ma anche di paragonare l’attuale guerra di liberazione rivoluzionaria del Rojava alla condotta, sostanzialmente ispirata dalle logiche nazionaliste ed imperialiste, dell’URSS stalinizzata nel corso del secondo conflitto mondiale. Sopravvalutando allo stesso tempo la potenza militare delle forze curde, assolutamente inferiori per armamenti, numero di combattenti e potenziale produttivo alla macchina bellica messa in atto in Russia tra il 1942 e il 1945.

Oltretutto in un contesto in cui l’aiuto americano alle forze curde potrebbe trasformarsi rapidamente nel suo contrario qualora i giochi diplomatici internazionali richiedessero agli Usa di tornare sui propri passi, nel tentativo di recuperare l’appoggio dell’attuale Saladino islamico Erdogan. L’equilibrio attuale che vede infatti la Turchia pericolosamente schierata “a fianco” della Russia di Putin e contro Gerusalemme capitale dello Stato israeliano potrebbe infatti essere rimesso in discussione da una significativa offerta di espansione territoriale illimitata in Siria e a spese dell’indipendenza del Rojava.

L’esperienza, per quanto sconfitta dolorosamente, della Comune di Parigi del 1870/71 sembra quindi più appropriato dal punto di vista storico e più interessante come paradigma politico.
Dal punto di vista storico perché l’esperienza della Comune si sviluppò in un contesto molto simile: all’interno di una nazione militarmente sconfitta da un avversario più forte, la Prussia bismarckiana, una frazione significativa della sua popolazione, gli abitanti della capitale francese, insorse per determinare la propria indipendenza e il proprio futura. Ridisegnando le condizioni del conflitto di classe a venire, in cui le forze socialiste e proletarie, a differenza del 1848, non avrebbero mai più dovuto affiancare in Europa le aspirazioni borghesi.

Dal punto di vista politico perché il modello Rojava potrebbe essere fonte di ispirazione non solo per le altre esperienze in cui si confondono la lotta in difesa del territorio e dell’ambiente e lotta di classe, dalla Val di Susa all’esperienza francese della ZAD o al Chiapas, ma anche per tutte le questioni politico-territoriali ancora irrisolte in Medio Oriente, dalla Palestina al Libano e allo stesso Kurdistan extra-siriaco.6 Facilitando l’estendersi di una maggiore solidarietà internazionalista “dal basso” più che le sempre incerte ed oscure, nelle loro finalità ultime, alleanze “dall’alto”.

Naturalmente questi rapidi appunti non intendono assolutamente avere la pretesa di opporsi alla politica portata avanti dal PYD e dalle sue forze di autodifesa, né tanto meno criticare l’aiuto e il sacrificio con cui molti rivoluzionari provenienti dal resto del mondo stanno contribuendo alla causa del Rojava. Anzi, al contrario di ciò che schematici e settari rappresentanti delle vecchie ideologie politiche novecentesche continuano a fare criticando e insultando di fatto la lotta e le scelte del PKK e del PYD, intende piuttosto essere un contributo, anche se limitato, ad una causa che oggi come poche altre può indicare davvero una nuova via per la rivoluzione sociale.7

In tal senso i quattordici capitoli di questo prezioso e sintetico libretto, ognuno dedicato ad uno degli aspetti della rivoluzione in Rojava, possono così rivelarsi illuminanti, stimolando i lettori verso quel coraggio di immaginare che Dilar Dirik invoca nell’ultimo. Last but not least il titolo che rinvia al problema centrale di quanto detto fino ad ora: l’impossibilità di realizzare una vera democrazia all’interno dello Stato così come è venuto a formarsi all’interno delle necessità storiche, economiche e nazionali definite dallo sviluppo del capitalismo stesso.
Infatti un’autentica democrazia dal basso impone di spezzare la macchina statale non al termine del percorso rivoluzionario, ma mentre è ancora in corso d’opera. Così come realizzò, anche se per un tempo brevissimo, la Comune di Parigi fornendo, come si è già ricordato, un fondamentale insegnamento per le pagina più ispirate di Marx8 e Lenin9 sull’argomento.


  1. Si confrontino, solo per citare alcuni precedenti interventi sul tema: https://www.carmillaonline.com/2017/04/07/yankee-doodle-goes-to-war/ ; https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ ; https://www.carmillaonline.com/2014/08/22/world-war-zombie/ ; https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ ;
    https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ ; https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/  

  2. David Graeber intervistato da Pinar Ögünç, No, questa è un’autentica rivoluzione, in Rojava una democrazia senza stato, pag. 95  

  3. Graeber, op.cit. pag. 94  

  4. Dati del 2014, mentre erano erano 240 nel 1990  

  5. http://www.uikionlus.com/altun-per-la-prima-volta-abbiamo-creato-zone-di-liberta-in-medio-oriente/ e http://www.uikionlus.com/altun-il-socialismo-non-puo-essere-costruito-con-gli-strumenti-del-capitalismo/  

  6. Si confronti: http://www.uikionlus.com/meglio-di-una-soluzione-con-uno-o-due-stati-sarebbe-una-soluzione-senza-stato/  

  7. Si confronti: http://www.uikionlus.com/il-partito-della-terzarivoluzione-del-kurdistan/  

  8. Karl Marx, La guerra civile in Francia  

  9. Lenin, Stato e rivoluzione  

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I diari di Raqqa https://www.carmillaonline.com/2017/10/08/40996/ Sat, 07 Oct 2017 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40996 di Giovanni Iozzoli

Samer, I diari di Raqqa. Vita quotidiano sotto l’Isis (a cura di Gianpaolo Cadalanu), Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 114, € 15,00

Samer è lo pseudonimo di un’attivista di Raqqa che, per alcuni mesi, ha raccontato al mondo la vita quotidiana degli uomini e delle donne di Raqqa, sotto il governo dello Stato Islamico, che aveva fatto del centro, a nord della Siria, la sua capitale-simbolo. In una città chiusa e occupata da un controllo asfissiante delle comunicazioni, i messaggi, poco più che post, viaggiavano clandestinamente in forma criptata e venivano [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Samer, I diari di Raqqa. Vita quotidiano sotto l’Isis (a cura di Gianpaolo Cadalanu), Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 114, € 15,00

Samer è lo pseudonimo di un’attivista di Raqqa che, per alcuni mesi, ha raccontato al mondo la vita quotidiana degli uomini e delle donne di Raqqa, sotto il governo dello Stato Islamico, che aveva fatto del centro, a nord della Siria, la sua capitale-simbolo. In una città chiusa e occupata da un controllo asfissiante delle comunicazioni, i messaggi, poco più che post, viaggiavano clandestinamente in forma criptata e venivano poi raccolti e diffusi dalla BBC. Quest’ultimo dettaglio potrebbe rendere meno credibile la narrazione (tra la Siria e l’Iraq, la quantità di bugie, cinismo e disinformazione messa in campo dall’Occidente non ha precedenti nella storia), se non fosse che il racconto è assolutamente verosimile e corroborato da molte altre testimonianze giunte dalle zone occupate.

Del resto l’Isis ha fatto delle ferocia il suo brand pubblico ed esibito, e quando Samer racconta del clima di terrore imposto in città, non ci vuole molta immaginazione per credergli. La vita di questo “cronista per caso” assomiglia probabilmente a quella di centinaia di migliaia di siriani ed iracheni che tra il 2013 e il 2016, si sono ritrovati a vivere dentro un fosco incubo: truppe d’occupazione multinazionali, guidate da fanatici, sadici e criminali, avevano occupato i loro territori e le loro comunità, forti di logistica, arsenali e risorse economiche di enorme efficacia. Com’era potuta materializzarsi, questa specie di invasione aliena?Cosa stava accadendo, tra il disfacimento dello Stato iracheno e l’inizio dei tumulti anti-Assad in Siria?

Nel 2012, Al Qaeda in Iraq aveva volto le sue mire verso la Siria, sotto l’input degli Stati Uniti, di Israele, della Turchia e dei paesi del Golfo, tutti ansiosi di scalzare l’arcinemico alawita. In quel momento Abu Bakhr Al Baghdadi era un anonimo detenuto americano nelle prigioni irachene: venne evidentemente prescelto, liberato e ben fornito per ottemperare a un preciso obiettivo, rovesciare Assad e distruggere la Siria.

Dentro questi complessi piani genocidi di ridisegno del medio-oriente, la vita di milioni di ragazzi come Samer finisce stritolata: gli abitanti di Raqqa si ritrovano addirittura sudditi della capitale di un risorto Califfato e devono presto abituarsi a vivere sul un filo del rasoio; sotto il governo dell’Isis il confine tra la vita e la morte è sottile e labile. Basta un sospetto, o l’adozione in pubblico di un comportamento non shariaticamente ineccepibile, per incappare nell’arresto, la tortura o l’eliminazione. Organizzare un canale d’informazione clandestina in questo contesto, richiede un coraggio straordinario.

Mi sono chiesto cosa spinga una persona a raccontare come ha fatto Samer. Lui sapeva che così avrebbe messo a rischio non solo se stesso, ma anche le persone a lui care. La risposta è evidente nei suoi diari. Dopo aver visto amici e e parenti massacrati, la vita della sua comunità a pezzi e l’economia locale distrutta dagli estremisti, il nostro coraggioso diarista ha pensato che raccontare al mondo quello che stava accadendo alla sua amata città potesse essere il modo migliore di reagire (p. 16 , Prefazione di Mike Thompson).

L’incubo di Raqqa comincia ambiguamente, una mattina di marzo 2013, quando la città si sveglia senza i soldati e la polizia siriani – tutti fuggiti – e la città governata, de facto, dai ribelli anti Assad:

Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Corsi fuori e vidi le auto con la bandiera dell’Esercito Libero Siriano. Una si ferma proprio davanti a me. Un uomo si sporse dal finestrino e mi disse di non avere paura. Era venuto insieme ai suoi compagni per liberarci tutti dalla tirannia e dalla corruzione, disse. – Siamo tuoi fratelli -, aggiunse (p. 25).

La festa dura poco. Le formazioni che l’Occidente generosamente definisce “ribelli democratici” (compresi, incredibilmente, i qaedisti di al Nusra) vengono presto liquidate o cooptate da Daesh, che prende il controllo di Raqqa in breve tempo:

in un primo momento incantavano le persone con discorsi suadenti, promettendo loro la luna. Io non la bevvi… I primi che entrarono in città erano davvero convinti di essere venuti lì per salvarci. Gli altri erano molto più violenti (p.26).

Comincia l’oppressione infinita sulla vita quotidiana e i comportamenti degli abitanti: il pretesto della sharia e del rigore religioso, serve a Daesh a legittimare il suo monopolio della forza e la ferocia con cui lo esercita.

Il paradosso è che tale controllo sulla morale pubblica, viene condotto da truppe straniere, provenienti dal Caucaso, dalla Bosnia, dal Magreb, spesso dalle periferie delle metropoli europee; giovanotti di scarsissima formazione religiosa e dall’indole violenta, pretendono di insegnare l’Islam nelle terre in cui esso visse i suoi secoli d’oro. La popolazione, secondo Samer, li percepisce subito come invasori, ignoranti e pericolosi:

I miliziani di Daesh hanno iniziato a vendicarsi di tutti quelli che si oppongono… Li accusano di apostasia, ma è solo un’altra scusa per un’esecuzione. Ogni giorno fanno riunire la folla in piazza, come volessero mettere in scena una commedia. Eseguono anche alcune punizioni brutali nelle rotonde, proprio nel bel mezzo di strade trafficate. Sono decisi a mostrare a più persone possibili cosa accade a chi li delude. Non riesco a credere a quello che accade a chi li delude (p. 29).

L’accusa di apostasia è lo strumento con cui si può eliminare chiunque senza processi o remore umanitarie. È il lascito più venefico del whabismo, l’ideologia saudita, – delle cui derivazioni moderne i jhiadisti di tutto il mondo si nutrono. Fu il wahabismo a porre per la prima volta nella storia dell’Islam la minaccia apostatica sui dissidenti: chi non condivideva una determinata interpretazione teologica (o politica), era considerato “rinnegatore della religione” – mutazione sostanziale nella storia plurale e millenaria di un credo che non aveva mai avuto un’autorità centrale di legittimazione e certificazione di ortodossia.

Daesh costruisce a Raqqa una rete soffocante di spie, controlla la rete delle telecomunicazioni, chiude gli internet point, sanziona ogni comportamento pubblico non ritenuto ortodosso, mediante una “polizia della virtù” che sorveglia abbigliamento, tempo libero ed osservanza religiosa del popolo di Raqqa. L’autore deve subire 40 frustate pubbliche per un sospetto di imprecazione. E dentro questo clima di follia i servizi pubblici e sanitari, chiudono per l’incuria o l’applicazione di regole demenziali.

Il racconto si snoda in un rosario di sofferenze: la città comincia ad essere bombardata – dai russi, dagli americani, dai governativi, anche dai francesi, dopo il Bataclan. Le condizioni di vita peggiorano sempre di più e al sangue versato dalle milizie Daesh si aggiunge la conta delle vittime dei raid aerei, tra cui il padre di Samer.

Alla fine il narratore capisce di essere entrato nel mirino dei miliziani che lo stanno tenendo d’occhio. Non può più tergiversare e decide di scappare dalla città – con modalità tortuose e pericolose, come tutto quello che riguarda questo angolo di Medioriente. Si ritrova a scrivere il capitolo finale in un campo profughi, al confine con la Turchia, in una terra di nessuno piena di tende, mutilati e disperazione:

Nel campo non c’è abbastanza cibo, né medicine, gli aerei da guerra del regime volano sopra le nostre teste. Qui molte persone dicono che preferirebbero essere già morte… Conservo molti dei miei ricordi in una piccola borsa. Foto di persone e di luoghi. Pezzi smarriti, casuali, del mio passato, pezzi che probabilmente non esistono più… C’è una foto di un nostro vicino ucciso, morto accanto ai suoi figli in un raid aereo. Le foto di un mio vecchio amico crocefisso da Daesh. Qui un’immagine della nostra casa distrutta. Altre della nostra strada ormai devastata e vuota (p. 109).

Nella bella introduzione di Cadalanu riecheggia la domanda che spesso ci si pone sul moderno jhiadismo globale: stiamo assistendo a un processo di “radicalizzazione dell’Islam” o all’evoluzione di un radicalismo nichilista che in questa fase storica indossa l’abito dell’ortodossia musulmana – e domani chissà? Cadalanu opta per questa seconda ipotesi – sociologico-esistenziale, per così dire – e racconta della sua esperienza di giornalista a Mosul:

Gli abitanti del quartiere mi hanno raccontato che i miliziani si erano stabiliti poco lontano. I locali li chiamavano i russi: molto probabilmente si trattava di integralisti del Caucaso, ceceni o daghestani. E mi è sembrato ovvio domandarmi: come si fa a lasciare un paesino freddo, innevato con le foreste, per venire a morire sulla sabbia rovente dell’Iraq, in mezzo a gente che parla un’altra lingua e che odia profondamente chi tenta di imporle regole astruse facendo riferimento ad un vero Islam? (p. 8).

E questa deriva nichilista si accompagna allo sforzo massiccio, enorme, epocale di finanziamento, addestramento e armamento di queste milizie jhiadiste, che sono diventate un autentico esercito di complemento di attori statuali in lotta per ridefinire le loro posizioni in un’area strategica del mondo. Il primo “Jhiad” – quello afghano – fu finanziato in dollari e petroldollari. Dopo quarant’anni, siamo ancora dentro quella scia di morte e distruzione, che usa il fanatismo religioso per chiari fini politici di destabilizzazione , sfruttamento e distruzione delle nazioni.

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