Simone De Beauvoir – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Liberarsi dal “giogo dei ruoli” https://www.carmillaonline.com/2022/12/19/liberarsi-dal-giogo-dei-ruoli/ Mon, 19 Dec 2022 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75218 di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese [...]]]> di Paolo Lago

S. Chemotti, M. Coglitore, Il giogo dei ruoli, Il Poligrafo, Padova, 2021, pp. 201, euro 23,00.

È difficile liberarsi dei “ruoli”, delle identità cristallizzate e incancrenite da dinamiche di tipo sociale, politico, economico e, perché no, anche letterario. È difficile perché il ruolo può presto trasformarsi in “giogo”, in una sorta di prigionia identitaria che cresce intorno ai singoli individui. E, probabilmente, risulta ancora più difficile quando i ruoli assumono le loro forme all’interno di una coppia, una struttura sociale appesantita da rigidità imposte dall’alto, dalle convenzioni di matrice borghese e cattolica ancora dure a morire nell’Italia di oggi, dove è stato creato addirittura un ministero “della famiglia, della natalità e delle pari opportunità”. Ma il “giogo dei ruoli” può trasformarsi anche in un vero e proprio gioco nel quale, per mezzo di una sottile ironia, si cerca di prendere a staffilate quelle antiquate e rigide convenzioni imposte dal potere. È ciò che si propongono di fare Saveria Chemotti e Mario Coglitore nel loro bel libro intitolato, appunto, “Il giogo dei ruoli”, in cui i due autori mettono in scena dei dialoghi fra personaggi letterari o reali che appartengono a coppie famose di innamorati o di amanti, cristallizzati dal tempo e dall’immaginario comune. All’interno di una struttura articolata in tre tempi, incontriamo, fra gli altri, Paolo e Francesca, Dulcinea e Don Chisciotte, Orfeo ed Euridice, Marianna e Sandokan ma anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, Mileva Marić e Albert Einstein, Sibilla Aleramo e Dino Campana. La scrittura si trasforma quindi anche in un gioco in cui la rigidità del giogo si rompe perché, come affermano gli stessi autori in una nota finale, “i momenti più divertenti di questa scrittura senza affanni sono consistiti nella stesura di quelli che abbiamo chiamato «ordini inversi», quando cioè ci siamo scambiati i ruoli, affidando al maschio di questa inusuale coppia di sorella e fratello per «elezione» il personaggio femminile e viceversa alla femmina il personaggio maschile. Un rovesciamento del «gioco delle parti» che ci è piaciuto particolarmente”.

I personaggi messi in gioco non dialogano soltanto fra di loro ma anche, metaletterariamente, con il lettore e con la sua epoca, con avvenimenti storici ancora di là da venire. Il “giogo” viene rotto anche in questo modo: le figure reali e letterarie messe in scena da Chemotti e Coglitore escono dal loro imprigionante contesto e si inseriscono all’interno di un immaginario comune non statico ma avvolto da un movimento continuo. Altre volte, come nel caso di Paolo e Francesca o di Alphonsine Plessis e Alexandre Dumas figlio non si instaura un vero e proprio dialogo ma una narrazione commentata attraverso la quale gli autori discutono sui personaggi, sul loro tempo e sul loro ambiente sociale, intervallando la narrazione con un andamento più riflessivo e saggistico. Ad esempio, come scrive Saveria Chemotti giocando sul significato del verbo “scambiare” e “scambiarsi”, “la colpa di Paolo e Francesca non è stata solo quella di scambiarsi di nascosto un tenero bacio, ma quella di aver scambiato la letteratura con la vita, cadendo nel più pacchiano degli errori”. Perché la stessa letteratura può trasformarsi in gabbia, in schema, in rigido meccanismo che consegna all’immaginario comune figure stereotipate. Gli stessi personaggi letterari (e mitici, come in questo caso) lottano per scrollarsi di dosso quegli stereotipi, quei gioghi arbitrariamente imposti, come Euridice (la cui voce è mediata da Chemotti) che, dopo essersi dichiarata una “preda del destino a cui mi hanno assoggettata gli dei”, afferma perentoria: “A nessuno viene in mente che io ero in grado di resuscitarmi da sola? Che potevo fare affidamento sulla mia sensibilità, sulla mia stessa natura per vincere le ombre e risalire al sole? Che potevo liberare la mia anima prigioniera dei gioghi di un potere che mi avrebbe incatenata a una ventura tragica e senza soluzione di continuità, secolo dopo secolo? Un giorno, nella primavera di molte ragazze io avrò finalmente consolazione e riscatto. Sarò una di loro e non mi volterò mai indietro”. Euridice, esprimendo la sua autoaffermazione di donna contro un potere invisibile che la vorrebbe sempre assoggettata, viaggia, se così si può dire, nel tempo fino a prefigurare le lotte femministe che verranno.

Bisogna infatti notare che tutti i personaggi femminili del libro possiedono in sé una forte carica di ribellione dalle connotazioni di genere, in quanto si oppongono costantemente al potere patriarcale rivestito e simboleggiato dalla controparte maschile della coppia. Penelope, sempre con le parole di Chemotti (che non a caso è una studiosa di letteratura di genere e delle donne), rivendica il suo diritto a raccontare la sua versione dei fatti perché ormai “stanca di essere additata a eroina del matrimonio consacrato”. Ebbene, secondo Penelope, Odisseo è tornato “per attuare la sua vendetta, non per raggiungere me”. E, sicuramente, nella rivisitazione del Giogo dei ruoli, l’eroina omerica avrebbe ceduto alla corte serrata dei pretendenti se avesse capito che l’intenzione di Odisseo era quella “di restare per una toccata e fuga capace di mettermi di nuovo incinta, cioè di imprimermi le stimmate del padrone”. L’eroe se n’è andato senza neanche salutarla: “egocentrico e avido di conoscenza se n’è andato alla ricerca dei confini del mondo”. Naturalmente, adesso non si tratta più del personaggio omerico ma di quello dantesco e, infatti, con spirito metaletterario, Penelope conclude che “si merita di finire all’inferno”. Ma non sono soltanto i personaggi femminili a rimproverare e, quasi, a maledire i propri uomini, in una sorta di libera rivisitazione delle Heroides di Ovidio; anche alcuni personaggi maschili sottolineano la condizione subalterna delle donne nella loro epoca. È il caso, ad esempio, di Alexandre Dumas figlio (non un personaggio letterario, quindi, ma uno reale, anche se legato all’immaginario della letteratura), a cui presta la voce Mario Coglitore. Quest’ultimo, attingendo alla sua vocazione di storico e studioso di dinamiche storico-sociali, dopo una digressione in cui descrive gli effetti nefasti della rivoluzione industriale (“L’età delle ciminiere. Che da giovane ho visto spuntare a una a una, sentinelle implacabili dell’economia di mercato e per converso dello sfruttamento indecente di uomini, donne e persino bambini”), pone l’accento su alcune dinamiche della “sessualità «vittoriana»”, in un periodo in cui le donne dovevano rivestire il ruolo di procreatrici “meglio se di maschi e non di femmine, naturalmente, specie nel caso dei primogeniti cui verrà affidato il patrimonio familiare”. Parlando di Alphonsine Plessis, la cortigiana divenuta amante dello scrittore al quale ha ispirato il personaggio di Marguerite Gautier per il suo romanzo La signora delle camelie, così Coglitore-Dumas figlio si esprime: “Lei, considerata né più né meno che una prostituta, ha preso tutto ciò che ha potuto dalla vita senza risparmiarsi, assaggiandone i frutti più dolci e soprattutto quelli più amari. Fino a che la malattia non ha spezzato l’insopportabile giogo che la teneva prigioniera di questi uomini dall’animo violento e dalla insaziabile bramosia. Gli stessi che la domenica frequentano la chiesa del quartiere o le grandi cattedrali, inginocchiandosi davanti agli altari e prendendo la comunione”.

Un altro personaggio letterario inchiodato al suo ruolo dalla tradizione è l’Angelica dell’Orlando furioso (la cui voce è quella di Chemotti) che giustifica la sua fuga continua dalla guerra (“Io scappo. Anche da questo scempio, ma lo tengo per me”) e da Orlando con il suo diritto ad innamorarsi: il cavaliere “non contempla neppure l’ipotesi che io mi sia finalmente innamorata, che in me sia sorto un sentimento sconosciuto e raro che mi spinge ad abbandonarmi senza l’aiuto di sortilegi”. Ciò che rifugge è, ancora una volta, il ruolo stereotipato: “Certo: alcuni dicono che io non ho davvero una vita mia propria, che sono un «sorridente fantasma» perché configuro un modello che è fin troppo facile convertire in stereotipo e destabilizzarlo”. Perché una donna non può essere un “soggetto del desiderio”. D’altra parte, Angelica conclude la sua ‘tirata’ appassionata con un appello alle donne musulmane, parole che valicano i confini del tempo per giungere fino ai giorni nostri, dense di significato politico e sociale se pensiamo ai tragici fatti che avvengono in Iran: “Perché allora noi, cristiane e mussulmane, non stringiamo un patto che ci sveli nella nostra essenza, con la pretesa di esser guardate oltre la pelle liscia o a rughe, i capelli al vento o sotto un velo, comunque sia?”. Una rivendicazione di sé e dei propri diritti che suona anche come una contestazione alla società tout court è anche quella che Mario Coglitore, dando la voce a Jane (nel ‘dialogo’, costruito dagli autori in un “ordine inverso”, dedicato a Tarzan e Jane, i personaggi inventati da Edgar Rice Burroughs nel suo romanzo Tarzan delle scimmie del 1914), fa risuonare con echi politici e sociali. La giovane, infatti, afferma che la società europea e occidentale ha da sempre avuto pregiudizi non solo nei confronti degli africani ma dell’Africa intera, vista come “il Continente Nero pieno di misteri, giungle soffocanti e umidità insopportabile, screpolata in alcune latitudini da un sole impietoso e da sabbie smosse dal Ghibli tormentoso”. E allora, l’inglese Jane, innamorandosi del misterioso “Tarzan delle scimmie”, riesce a spezzare “i vincoli opprimenti della società del mio tempo, ben poco seducente” e, finalmente, non sarà più costretta a “respirare i miasmi del carbone delle industrie della capitale che sbuffavano a pieno ritmo, nebbia puzzolente dentro alla nebbia che già saliva dal Tamigi”.

E i personaggi maschili? Anche loro, nonostante siano in alcuni casi staffilati ben bene dalla loro controparte femminile, riescono a liberarsi dal giogo che li vorrebbe imprigionati nel loro ruolo. Se, come abbiamo visto, Dumas figlio sottolinea la subalternità della condizione femminile, Tarzan, da parte sua, nelle parole di Saveria Chemotti, afferma che anche lui si sente un ‘diverso’ nella giungla e, alcune volte, è stato costretto a nascondersi perché cosciente della propria diversità rispetto alle scimmie. Forse, però, la figura maschile che viene presentata più slegata dal proprio ruolo è quella di Giacomo Casanova, irrigidito nello stereotipo del seduttore fino all’antonomasia. Mario Coglitore, da buon veneziano, ci presenta un Casanova vecchio e triste in una lontana Boemia, profondamente immalinconito dal ricordo della sua ormai irraggiungibile Venezia: “Venezia mi manca. Mi manca l’odore dell’acqua che ristagna, i rumori del remo che sciaborda, lo spettacolo della laguna in qualunque stagione”. In quest’immagine malinconica (che può ricordare il poetico finale del Casanova di Federico Fellini, in cui il personaggio sogna di danzare sulla laguna ghiacciata con una dama meccanica), Casanova si libera del suo ruolo, concedendosi finalmente un immaginario libero dagli stereotipi. Ed è lo stesso immaginario che ci regala Il giogo dei ruoli: un tentativo di resistenza – attuato per mezzo di una scrittura che valica i confini fra realtà e letteratura – ai gioghi imposti da qualsiasi potere.

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Il desiderio, l’immaginario e i fantasmi rimossi della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/05/06/il-desiderio-limmaginario-e-i-fantasmi-rimossi-della-lotta-di-classe/ Wed, 06 May 2020 21:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59659 di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma [...]]]> di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma privilegiata. Questi ultimi, infatti, potevano inquadrare e colpire con sufficiente precisione singoli obiettivi, talvolta causando gravi perdite al nemico, ma chi puntò maggiormente sulle prime, potendo spaziare più lontano con lo sguardo, ebbe modo di colpire a distanza e in maggiore profondità.

La metafora della guerra sul mare potrebbe anche non piacere all’autrice, anarchica e antimilitarista, del libro qui recensito, ma può rivelarsi utile per guardare a due differenti approcci al problema del rovesciamento dei rapporti sociali e di produzione ancora vigenti.
Uno si accontenta di singoli, momentanei obiettivi (talvolta raggiunti, talvolta no), attraverso cui arrivare ad un cambiamento graduale, un passo dopo l’altro, destinato in realtà a non aver mai fine; mentre l’altro cerca uno scontro a tutto campo che allarghi la sua azione ad un orizzonte il più vasto possibile, per poter giungere ad una distruzione totale e definitiva dell’avversario. Questo secondo metodo può avere un margine momentaneo di errore un po’ più ampio, ma è sicuramente destinato a rivelarsi come l’unico possibile per una strategia di successo.

Anche la vita dei due equipaggi è in/comparabile: tristi, rinchiusi in un ambiente asfittico e buio i sommergibilisti, più baldanzosi e vivaci coloro che all’aria aperta su una tolda spazzata dal vento e dalle onde, ma illuminata dal sole, possono osservare l’orizzonte. Cogliendo con largo anticipo, anche ad occhio nudo, i mutamenti climatici e le mosse che potrebbero avvantaggiarli nella lotta contro il nemico. Senza parlare poi di quelli che possono librarsi in volo e spingersi a guardare con i loro occhi oltre l’orizzonte stesso. Anche al di là di quello temporale.

Annie Le Brun appartiene senza ombra di dubbio ai secondi, anzi ai terzi, in grado di volare oltre le miserie e le banalità del presente per provare a cogliere la gioia di vivere futura già in ogni istante del vissuto quotidiano. Nata nel 1942 a Rennes, è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria. Dopo aver incontrato André Breton a ventuno anni, prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 fino all’autodissoluzione del gruppo. E’ autrice di numerosi testi di cui soltanto due sono stati tradotti in italiano: Disertate! (il femminismo è morto), pubblicato da Arcana nel 1978 e quello qui recensito. Inoltre, nel 1996, ha curato la prefazione all’edizione francese del Manifesto di Unabomber, L’avvenire della società industriale.

Con il testo edito in Italia nel 1978, Annie aveva già suscitato un certo scalpore, proprio contrapponendo la vita all’ideologia, l’azione alla ripetizione formale di concetti provenienti da un esistenzialismo filosofico virato al femminile da Simone De Beauvoir, che del maggior rappresentante di quella corrente di pensiero (Jean-Paul Sartre) era stata compagna nella vita.

Qui, dove la perseveranza sta al posto dello slancio, e la ripetizione al posto della convinzione, eccoci ben lontani da tutte quelle lavandaie, battilana, brunitrici, calzolaie… della Comune di Parigi che ci hanno svelato le radici della rivolta femminile nel cuore stesso della vita, nel momento stesso in cui essa era più minacciata. Non che io voglia qui opporre l’azione alla riflessione. Voglio piuttosto opporre l’incontenibile esplosione di un’idea, alle ardite speculazioni più o meno interessate di cui essa diviene poco a poco il bersaglio e di cui non mancano mai di ridurre la portata. Quando si tenga bene a mente la tensione di queste donne della Comune prese nella invenzione appassionata del loro destino particolare e collettivo, la falsa obiettività universitaria del Secondo sesso diviene insopportabile, per il suo non essere altro che un artificio capace di ingannare le inquietudini di una personale devozione filosofica1.

Secondo l’autrice, infatti, mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare l’illusoria differenza che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, il neo-femminismo si affannava e si affanna a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio, che spesso ha portato il movimento a sfociare nel carrierismo, nello psicanalismo più grossolano oppure in un prolisso rivendicazionismo. Nel denunciare tale impasse l’autrice fonde il suo stile con quello dei surrealisti e dei situazionisti, cui sarà sempre fedele, come anche nel testo recentemente curato da Martina Guerrini. Che, nell’Introduzione, può affermare:

Il mio incontro con il pensiero di Annie Le Brun è stato un lampo capace di aprire un orizzonte da troppo tempo oscurato. Il suo unico lavoro tradotto in italiano mi aspettava su una bancarella di libri, e mai come in quel momento è stato comprensibile quanto l’imprevisto fosse benvenuto. Da allora è stata una corsa forsennata ad approfondire, un’immersione in ampi spazi e in abissi profondi, accompagnati da una scrittura sensuale e ruvida allo stesso tempo, difficile, carica di negativo.
Questo testo non fa eccezione, né fa sconti alle sicurezze e ai rituali – teorici, politici, filosofici, artistici – e soprattutto evita accuratamente di dare indirizzi o soluzioni.
È la bellezza sconvolgente dell’autrice, che non si nasconde mai pur chiedendo ai lettori e alle lettrici di abbandonare i propri sentieri perché tutto sia chiaro, […] Vale la pena, certamente, faticare e scalare letteralmente la prima parte dell’Eccesso di realtà, per capire cosa è realmente un testo di critica radicale.
D’altra parte, inerpicarsi su alte vette e raggiungere orizzonti a pochi consentiti è infinitamente più affascinante che cercare e trovare ciò che nutre la noia dei pensieri battuti2.

E’ un percorso di analisi e riflessione ben preciso quello che il testo della Le Brun ci propone. Percorso che va dall’impoverimento del linguaggio contemporaneo, dovuto principalmente ad un abuso di tecnicismi e di vocaboli tratti da una terminologia che si vorrebbe scientifica e specialistica, all’inaridimento della poesia (e più in generale della letteratura), costretta ormai a ripetere soltanto cliché stilistici ed emozionali destinati a fare trionfare il principio di realtà all’interno di ogni discorso e di ogni riflessione. Si badi bene però, l’unica realtà possibile deve essere quella dell’esistente e non quella della sua negazione. Il principio di realtà dominante, derivato ed esaltato da quello degli specialisti, degli intellettuali e dei promotori del pensiero asservito può essere soltanto quello che nega la negazione del mondo che ci è imposto.

E’ questo l’eccesso di realtà di cui ci parla l’autrice. Una realtà che si confonde con il virtuale e che, attraverso la distorsione del linguaggio e della poesia, giunge a delimitare l’immaginario per mezzo della finzione di un certo grado di tolleranza e, ancora, a sradicare il desiderio, incanalandolo lungo una sorta di sistema binario in cui lo 0 e l’1 sono sempre definiti secondo le logiche della assuefazione sistemica al principio di massima soddisfazione possibile all’interno di ciò che già esiste, senza mai superarne i limiti.

Un processo di spersonalizzazione collettiva ottenuta per il tramite di moduli adeguati a soddisfare le più svariate formule identitarie, in cui il politically correct ha la funzione fondamentale di rimuovere l’individuo e le sue passioni, i suoi lati oscuri, la sua sessualità, veri motori di ogni rivolta. Che non può scaturire altrimenti che dall’incontro delle contraddizioni del reale con l’immaginario, non ancora massificato, prodotto da una psiche che affonda le sue radici nella carne e non nella realtà prodotta dal web e dai suoi master.

Ecco allora che «le parole di Shakespeare, Charles Bukowski o Emily Dickinson si trovano poste sullo stesso piano di quelle di Neruda e altri cantori stipendiati»3. Una poesia che non può e non deve contenere già il seme della rivolta, ma funzionare da antidepressivo in funzione della conservazione dell’esistente.

Bisogna forse ricordare che i totalitarismi del xx secolo si sono tutti distinti per un medesimo gusto inveterato per una cultura raggiante di felicità? Stalin e Hitler erano degli allegri buontemponi in materia culturale e su fino a Tito che, alla fine della sua vita, ha condannato tutto ciò che gli sembrava troppo tetro, per promuovere se non ordinare una letteratura e una musica “rosa”. Certo, le cose sono cambiate: la poesia è diventata l’antidepressivo che ci obbligano in ogni momento a ingurgitare…4

Per raggiunger l’obiettivo desiderato occorre far circolare “dizionari della contestazione” in cui:

in buona posizione troviamo premi Nobel, dal “molto politicamente corretto” Dario Fo allo sbirro stalinista Pablo Neruda, mentre non vi figurano, per esempio, i nomi di René Crevel e del poeta Benjamin Péret, disertore francese, condannato in tre paesi diversi, solo menzionato qua e là, in una frase, per la sua partecipazione a Dada, al surrealismo, o ancora per un poema “istericamente anticlericale” […] Ma ci si domanda se non sia meglio essere stati dimenticati piuttosto che figurare in una simile antologia, dove se Georges Bataille è citato come “scrittore francese”, Antonin Artaud è citato,proprio lui, come “scrittore dei limiti”.5

Scriveva Sigmund Freud in una lettera a Eric Jones del 17 maggio 1914: «Colui che permetterà all’umanità di liberarsi dall’imbarazzante sottomissione sessuale, qualsiasi stupidaggine scelga di dire, sarà considerato come un eroe»6.
Perché è proprio al punto di incontro tra impedimenti del reale, immaginario e sessualità che scaturisce il desiderio. Quel desiderio senza il quale non può esistere nemmeno il rovesciamento dell’esistente ovvero la rivoluzione. Perché solo dal desiderio più profondo può scaturire la passione.

Passione e possibilità di rivoluzione viaggiano l’una accanto all’altra. Minare la prima attraverso i percorsi di imposizione dell’unica realtà possibile significa, nella sostanza, minare e impedire la seconda. Impedendone anche soltanto il desiderio. Desiderio che per essere tale, vivo e provocatorio, può soltanto essere individuale, nato nel profondo di ognuno, ma che è destinato ad appassire e a morire ogni volta in cui è canonizzato in formule destinate a risistemarlo e impoverirlo. Per trasformarlo in una merce vendibile ad una maggioranza di consumatori passivi.

L’erotismo mercificato e fintamente liberato dalla cultura dominante odierna, si tratti della pruderie contenuta nelle pagine di noti scrittori invitati a scrivere racconti erotici per le riviste femminili o del voyeurismo mascherato nel discorso di tanti intellettuali e filosofi alla moda, oppure rimosso dal discorso neo-femminista, risponde in fin dei conti alla necessità di deerotizzare l’insorgenza, la ribellione spontanea, la rivoluzione. La fossilizzazione della quale avviene con un percorso lastricato da buone intenzioni, schemi e formule ripetute come mantra, buone per tutte le occasioni. Inutili e riduttive sempre, poiché destinate a rivitalizzare il conformismo dell’esistente.

Affinché la rivoluzione non sia patrimonio dei grigi burocrati e degli insoddisfatti petulanti, di ogni genere e convinzione, deve vivere di pulsioni e di passioni che non possono essere ridotte a formule, pena l’estinguersi ancora prima di essere entrata in scena. Come separarla infatti dalle giovani operaie pietroburghesi senza obblighi famigliari della rivoluzione del febbraio 1917? Come separarlo dalle donne della Comune e, infine, come separarla dall’irrefrenabile pulsione desiderante che animò la rivolta giovanile e operaia del ’68 e del ’77?

Oggi i linguaggi, i corpi, i desideri, le pulsioni devono essere codificati in una finzione di liberazione i cui promotori sono ben lontani, e non potrebbe essere altrimenti, da quella indicata, senza inutili pedagogismi, da Sade, Baudelaire, Rimbaud e dai surrealisti (cui oggi occorrerebbe anche aggiungere almeno un autore come James Ballard). Riscoprire tutto ciò, attraverso lo sguardo d’aquila e il cammino talvolta tortuoso della Le Brun, significa tornare alle origini della rivolta.

Quella che muove sempre da un moto individuale di rifiuto dell’esistente e delle sue leggi. Ciò che spesso non si sa come spiegare, ma che è immancabilmente destinato a diventare collettivo. Si tratti pure del manifesto di Unabomber o degli atti vandalici messi in atto dai giovani teppisti delle banlieue.
Farlo, significa tornare alla radici della negazione radicale, senza la quale non vi è cambiamento reale possibile. Liberando i fantasmi rimossi della lotta di classe dalle loro catene.


  1. A. Le Brun, Disertate!, Arcana 1978, pp. 10-11  

  2. M. Guerrini, Introduzione, A. Le Brun, L’eccesso di realtà, BFS Edizioni 2020, pp. 5-6  

  3. A. Le Brun, L’eccesso di realtà, op. cit. p.86  

  4. A. Le Brun, cit. p.86  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ivi, p.186  

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