Siberia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Strisciare col ventre nel fango” https://www.carmillaonline.com/2018/06/27/strisciare-col-ventre-nel-fango/ Wed, 27 Jun 2018 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46183 di Sandro Moiso

Francesco Dei, La Rivoluzione sotto assedio. Storia militare della guerra civile russa, 2 voll., Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2018: 1° vol. 1917-1918, pp. 244, € 22,00; 2° vol. 1919-1922, pp. 510, € 28,00

Il testo in due volumi di Francesco Dei, proposto da Mimesis, va a colmare una lacuna non secondaria della storiografica sulla Rivoluzione d’Ottobre e le sue conseguenze sociali, politiche, economiche e militari. Si tratta infatti non tanto di una prima, approfondita storia della guerra civile seguita alla Rivoluzione russa del 1917, quanto piuttosto di una ricostruzione dettagliatissima delle vicende militari che l’accompagnarono.

A [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco Dei, La Rivoluzione sotto assedio. Storia militare della guerra civile russa, 2 voll., Mimesis Edizioni, Milano – Udine 2018: 1° vol. 1917-1918, pp. 244, € 22,00; 2° vol. 1919-1922, pp. 510, € 28,00

Il testo in due volumi di Francesco Dei, proposto da Mimesis, va a colmare una lacuna non secondaria della storiografica sulla Rivoluzione d’Ottobre e le sue conseguenze sociali, politiche, economiche e militari. Si tratta infatti non tanto di una prima, approfondita storia della guerra civile seguita alla Rivoluzione russa del 1917, quanto piuttosto di una ricostruzione dettagliatissima delle vicende militari che l’accompagnarono.

A differenza di molte altre storie dello stesso periodo, quasi sempre comprese all’interno di opere più generali sulle vicende che accompagnarono la nascita e l’affermazione dell’URSS e del Partito bolscevico, il testo appena edito costituisce un’autentica storia militare del conflitto, privilegiando maggiormente gli avvenimenti sul campo di battaglia piuttosto che le risoluzioni politiche, le decisioni dei Soviet e del Partito oppure quelle prese in ambiti politici e diplomatici avversi alla nascente repubblica proletaria.

Viene da ridere, mente si leggono le pagine estremamente dettagliate e allo stesso tempo emozionanti di questo libro, pensando alle difficoltà che i governi odierni, nascituri o sconfitti, di destra o di “sinistra” sbandierano oggi per giustificare la propria incapacità di risolvere i problemi o nell’affrontare la finanza internazionale e le troike europeiste. Viene da ridere, anche se l’argomento è certamente serio e drammatico, se paragonato alle difficoltà che i rivoluzionari, non soltanto quelli appartenenti alla frazione bolscevica poi risultata vincitrice, i lavoratori, i contadini e i soldati russi dovettero affrontare in un periodo di carestie, massacri, battaglie che contribuì in maniera prevalente a determinare poi il divenire della società sovietica.

Una guerra che succedeva ad una rivoluzione che era scoppiata , essenzialmente, per porre fine ad un’altra guerra: quella imperialista del 1914-1918. Una guerra che vide essenzialmente scontrarsi sul territorio della più grande nazione del mondo non soltanto gli eserciti rossi, bianchi, verdi, le formazioni anarchiche e quelle di autentici banditi che cercarono di approfittare del disordine politico, sociale e militare per i loro scopi criminali, ma anche, almeno fino a tutto il 1919, gli eserciti di almeno altre 15 nazioni intervenire pesantemente nel conflitto.

Il dramma non era soltanto costituito dal fatto che la maggioranza di questi eserciti, soprattutto quelli stranieri ma non solo, era formata da uomini stanchi di guerra e che pure una guerra ferocissima dovevano ancora condurre, ma anche dai milioni, decine di milioni di russi, donne e uomini, che in tale marasma dovettero riuscire a sopravvivere, lottando per farlo, schierandosi a fianco dell’uno o dell’altro e, in certi casi, di un altro ancora dei contendenti. Talvolta passando per necessità, sconfitta, scelta o tradimento dall’uno all’altro, come pietre che rotolavano sul fondo del fiume di sangue della guerra.

Una narrazione che assomiglia, nonostante l’accuratezza delle ricerche e un’attenta analisi di tutte le fonti (spesso inedite per l’Italia) disponibili, ad un grande romanzo storico. Una guerra senza pace, che sembrerà finire più per sfinimento e progressivo ritiro dei nemici dei Soviet e del loro governo, più che per una decisiva vittoria militare dei secondi. Una sconfitta del nemico che diventa opaca, meno gloriosa di quella che la propaganda della Russia stalinizzata vorrà poi celebrare. Resa opaca poi dal fatto che i suoi veri vincitori, dal punto di vista militare, quali Trockij, Tuchačevskil o Frunze (solo per citarne alcuni), sarebbero diventati invisi al potere negli anni successivi e tutti eliminati prima entro il 1940. Lasciando un vuoto enorme nell’organizzazione e nella teoria militare dell’Unione Sovietica, una volta che questa fu assalita da Hitler.

I personaggi tragici si trovano su ogni fronte: oltre a quelli già superficialmente citati per il fronte rosso, occorre ricordare la figura di Nestor Makhno e della sua lotta anarco-contadina, oppure dei generali bianchi come Denikin o il ferocissimo barone folle Ungern-Sternberg o i tanti atamani cosacchi al servizio dell’idea imperiale. Il libro, giustamente, va però ben oltre i nomi più famosi e illumina il lettore con una miriade di personaggi, fatti, battaglie che, fino ad ora erano stati rimossi dalla storiografia politica “ufficiale”.

Comandanti dell’Armata rossa di estrazione proletaria e contadina, ufficiali di carriera arruolati nella stessa armata per la loro esperienza militare ma posti al comando di quegli stessi uomini che nel 1917 si erano rifiutati di combattere ancora ai loro ordini o a quelli dei loro colleghi che, al contrario, nel corso della guerra civile si troveranno schierati sul fronte opposto.

Giovani operai arruolatisi come volontari nelle file delle armate rivoluzionarie che grazie all’inesperienza o alla scarsa preparazione (nel corso del conflitto imperialista spesso gli operai non erano stati arruolati per meglio assolvere alle loro funzioni produttive e di fabbrica) verseranno un tributo di sangue terribile nel corso delle prime fasi della guerra civile.
Contadini arruolati a forza in tutte le armate mentre le campagne e le comunità venivano depredate, bruciate, distrutte. E tutto questo potrebbe andare a costituire il coro dell’immensa tragedia che anima le pagine della ricerca di Dei, che può così affermare:

“Porteremo il lettore sulle rive del placido Don a seguire le colonne dei giovani cosacchi in marcia verso il Volga; nel gelido fango della tragica marcia sul ghiaccio dell’Armata bianca di Kornilov o nei quartieri generali sovietici, tra carte geografiche, matite e qualche bicchiere di vodka a scoprire la nascita dell’Armata rossa e di quei comandanti che ne influenzarono il primo anelito di vita come Tuchačevskil e Frunze. Inoltre il lettore avrà anche l’occasione di conoscere quei personaggi, meno famosi per noi occidentali, che le conferirono il tono di una vera e propria epopea […] Tra questi il sanguinario Stanislav Bulak-Balachovich che fece dei viali di Pskov una via crucis di bolscevichi, o lo sconclusionato e folle atamano Grigoriev poco credibile Pugačev del XX secolo…e così tanti altri”.1

Il tutto compreso in una cornice quasi surreale di armi luccicanti al sole, vessilli di tutti i colori mossi e agitati dal vento, di povere uniformi oppure di divise ricche e vistose che talvolta si mescolano con i treni blindati che percorrono la vastità del territorio russo, spesso affiancandosi su binari paralleli da cui daranno vita a scontri terrestri e rapidi che però sembrano ricalcare quelli delle grandi battaglie navali del passato.

Velocità ferroviaria e lentezza delle fanterie, modernità tecnologica e arretratezza organizzativa, aerei che galleggiano tra le nuvole mentre animali e soldati sprofondano nel fango delle campagne in primavera e in autunno (in Siberia anche d’estate). Un paesaggio infinito squarciato da ferite irrimarginabili e soffuso di un rosso che apparterrà più al colore del sangue che non a quello delle bandiere di partito. Questo lo sfondo del dramma, lo scenario di una vicenda che metterà alla prova la tenacia dei contendenti e, soprattutto, dei bolscevichi. Motivi per cui Lenin avrebbe affermato: «Se non riusciamo ad adattarci alle circostanze, se non siamo inclini a strisciare col ventre nel fango, non siamo rivoluzionari ma ciarlatani».2

Anche se sarà proprio questo spirito indomito a prevalere, nel corso del conflitto, sugli avversari, l’autore ci invita a non credere superficialmente che :

“la guerra civile russa sia un semplice scontro tra due fazioni contrapposte […] poiché, in questa, si confrontarono non solo bolscevichi e controrivoluzionari ma anche movimenti e partiti diversi, regioni che reclamavano l’autonomia, nazioni straniere ed eserciti sbandati. Possiamo, quindi, affermare con certezza assoluta che la guerra civile non fu una lotta a due ma una guerra senza quartiere tra una moltitudine di fazioni”.3

Il compito per lo storico è stato sicuramente gravoso, sette anni di lavoro, ma il risultato è per il lettore appassionato, sicuramente, interessantissimo e spesso rivelatorio.
Il corredo iconografico e di carte che riproducono l’evolversi degli scontri e delle battaglie, oltre che lo spostamento e il formarsi dei fronti, aiuta sicuramente chi legge ad orientarsi al meglio in un conflitto che, come pochi altri, ha contribuito alla formazione di un’esperienza politica, di una nazione, di una società e di una classe dirigente e, last but not least, dei suoi rapporti economici, politici e diplomatici con le nazioni vicine e lontane.

Ancora una volta dunque, a discapito delle più superficiali convinzioni pacifiste e falsamente umanitarie, la storia militare si rivela estremamente utile per comprendere non soltanto l’evoluzione di avvenimenti solo apparentemente lontani nello spazio e nel tempo, ma anche l’origine di contraddizioni che agitano il mondo in cui viviamo e che, molto probabilmente, ancora lo faranno nel prossimo futuro.


  1. F.Dei, La rivoluzione sotto assedio, Vol. 1°, pag. 11  

  2. in F.Dei, op.cit., Vol. 1°, pag. 11  

  3. op. cit. pag. 11  

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 76 https://www.carmillaonline.com/2016/12/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-76/ Thu, 15 Dec 2016 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34800 di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979 Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: [...]]]> di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979
Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: ho sbrigliato la mia fibra ottica e, voilà, eccovi il resoconto di quanto ho visto. Purtroppo.
Che si tratti di un’epocale fetecchia è evidente dopo pochi secondi di visione: si parte con il monumento a Lenin e il picchetto d’onore sulla piazza Rossa. Poi scene della ridente Mosca brezneviana, grigia e piovosa. Stacco e c’è una bella bruna che ansima a gambe larghe e un bel tomo le zompa addosso e con voce off si rivolge a noi malcapitati spettatori: “Vi chiederete come mai mi trovi in un posto come questo… Mosca intendo”. Capisco che si arriverà a vette sublimi. Ma come siamo giunti a questo punto? Dunque: Scott è un giornalista di Seattle minacciato di licenziamento; gli fanno vedere un filmino hard e veniamo a sapere che in URSS sta proliferando la pornografia underground con funzione dissidente e la leader è tale Librianna: Scott deve andare a intervistarla, costi quel che costi. E per entrare in Unione Sovietica basta chiedere, no? Il protagonista arriva come turista sul Mar Nero (che non è chiaramente il Mar Nero) in treno (da Seattle!) e poi da lì a Mosca in aereo, con intrattenimento orale gentilmente offerto in volo da una compagna (“Abbiamo infranto la barriera del suono”). Scott finisce sulla piazza Rossa (e c’è sul serio! E fa quasi più impressione che ci sia del contrario!) e si chiede, da vero segugio: come trovare Librianna? Basta andare ai magazzini GUM, e dove, se no? (C’è solo una milionata di russi, del resto, a guardare i prodotti, pochi). È il momento più godibile dell’immonda pellicola: Scott salta fuori qui e là nelle location moscovite come un Paolini in cerca di notorietà. Però gli va sempre buca: decide allora di provare la fortuna alla parata che celebra la Rivoluzione d’Ottobre. Del resto è logico: più gente c’è, più è probabile che si trovi lì anche Librianna… La logica viene ulteriormente violentata grazie a un tizio che vende al mercato nero la dritta verso tale Maya, una con il tatuaggio di una stella rossa su una chiappa, giuro. Ovvia copula ma il lavoro di intelligence va in malora perché Maya è un’agente KGB. Arrestato e interrogato, Scott riesce a scappare (non è dato sapere come: la mai abbastanza celebrata grandezza dell’ellisse narrativo!) ed è Librianna a contattarlo. La leader controrivoluzionaria è una ninfomane che vuole liberarsi del giogo comunista e si masturba con i libri di storia sovietica: sa tutto di Scott e lo ha seguito insieme al suo servo, un personaggio incappucciato chiamato Igor. Riceve lo straniero nel suo covo segreto, lo invita a farsi un bagnetto e gli concede l’agognata intervista. Lui le chiede come mai sia così ricca e riesca nella sua attività porno-politica e lei gli risponde come se parlasse a un deficiente: in URSS sono tutti così timorosi di fare domande che nessuno le fa e questo le permette di prosperare. Ma pensa! E da qui prosegue l’assortimento di bestialità, con una trama pensata da qualcuno che ha ingestito peyote grossi come birilli, farcita di scene pornografiche eccitanti come in un film di Rocco – ma Buttiglione non Siffredi – con fotografia amatoriale, musiche stonate e montaggio e regia che farebbero augurare un’effettiva permanenza in Siberia degli autori di cotanta vaccata. C’è tutto il repertorio: sopra, sotto, davanti e dietro, ma è sempre tutto di una bruttezza indicibile, assolutamente inibente qualunque desiderio sessuale, anche a causa di attori orrendi, senza distinzione di genere, tutti, maschi e femmine, oltretutto pelosi anche oltre le folte abitudini dell’epoca. Lui sembra un Kevin Costner con la frangetta, finito sotto una pressa e senza un bagliore di intelligenza negli occhi ed è un attore bestiale, asinino ma non dove ti aspetteresti che lo sia un attore porno. Lei è una non irresistibole tettona alla Russ Meyer, dal volto cubista e con parrucca platinata. Il top della comicità involontaria è toccato con la scena di seduzione della bionda nei confronti di Scott: passeggiata sulla spiaggia, bacetti, cena a lume di candela e ballo lento, con lui con un completo enorme che andrebbe forse a Galeazzi e lei vestita come Moira degli elefanti. Tra le altre perle la liberazione di Igor da un gulag entro il circolo polare artico, impresa irrisoria perché “sanno impedire alla gente di uscire dai campi, ma non di entrarci”. Infine la conclusione: Scott torna a casa, pubblica il suo articolo e si riguarda beato i filmini della sua avventura, con il degno finale di lui che possiede Librianna con addosso un costume da orso sovietico, scena degna del peggior film porno mai visto, ma mai brutto come questo. (22/8/11)

ddv7602877 – La bestia nel cuore – e temo anche alla regia – di Francesca Comencini, Italia 2006
Premetto: farò di tutto per non scadere nel querelabile. E aggiungo: non escludo che cattiva digestione, ansie professionali e meteopatia possano avere influenzato il mio giudizio. La prendo larga: per quel che mi riguarda questo film è disastroso ed è l’epitome (ehi, ho usato la parola “epitome”) di tanto cinema italiano, tronfio e insopportabile. La cosa che soffro di più è il testo, mortificante, tutto scritto, legato, finto: la regia insistita e non granché originale contribuisce a questo senso di poca spontaneità, in una generale piattezza talvolta interrotta da qualche lampo d’invenzione, alternanza – rara – che insinua il dubbio della casualità e dell’inconsapevolezza. La drammaturgia è gestita come un macellaio tratta un nodino, con improvvisi apici recitativi scomposti, tra urla e gemiti. Poi arriva il momento leggiadro, sentimentale e, zac!, parte la Gnossiénne numero 5: povero Satie, ridotto a stereotipo musicale. Giovanna Mezzogiorno non recita, ma sussurra ai limiti dell’inudibile e sembra avere qualche problema di dizione e siccome l’argomento è scottante la si premia, anche in memoria del padre Vittorio che in vita, invece, ce l’eravamo filati poco nonostante avesse lavorato con Peter Brook. Luigi Lo Cascio se la cavicchia, ma qui non mi sembra un problema di capacità attoriali, ma proprio di gestione delle stesse, con una regia che anestetizza tutto fino alla prossima accelerazione isterica, passando da personaggi narcotizzati a giulivi e poi tragici. In certi momenti il film sembra Boris, ma per comicità involontaria. Finale con rallenti e fermo immagine: non vado oltre se no finisco nel penale. Audio brutto, luci e scene finte, con interni irreali, case vuote, senza tende o persiane (la metafora? Spero di no ma pure potrebbe). Dialoghi da manuale, ma di quelli per principianti: più che indignato, sono incredulo e Barbara mi è testimone dello scempio cui assistiamo. La trama è tratta da un romanzo della regista e si può sintetizzare il più brevemente così: papà è pedofilo e incestuoso, ma la figlia ha rimosso nonostante l’evidenza dei ricordi. E certo, se no il film non si fa. Lei incinta va in USA dal fratello per rasserenarsi dato che la turba l’immagine ricorrente della patta aperta del padre che la raggiungeva nel suo lettino di bimba. E chissà mai cosa sarà potuto accadere. Ma in USA non ha il coraggio di chiedere esplicitamente al fratello. Poi annuncia che è incinta e quando la cognata dice che la gravidanza le farà dimenticare tutto, che questa nascita la salverà, arriva il picco drammatico: “Salva da cosa!?!”, urlando all’improvviso. E da lì rivelazioni a cascata e ritorno in Italia con ulteriori vicissitudini che culminano nella scena stracult del delirio preparto, con camera zenitale che ondeggia sulla Mezzogiorno in deliquio. Candidato per l’Italia al premio Oscar, il film non è stato però premiato e chissà poi perché. Mentre scrivo, cioè il giorno dopo questo supplizio, la Comencini ha presentato il suo nuovo film a Venezia, tratto da un altro suo romanzo. Ci son state risate a scena aperta durante le scene drammatiche. Lei ha accusato i critici maschi, e te pareva. Mi dispiace, ma dopo questo La bestia nel cuore non ho dubbi su chi possa aver ragione. Critico no, ma maschio sì, sorry, e non significa che devo accettare sullo schermo ogni cosa solo perché la regista si ritiene intoccabile per nascita, eh. Vabbeh, basta: ho una fame nera, comunque, e vorrei capire perché se basta una sera per prendere un chilo, serve un mese per abbatterlo e perché a 20 anni mangiavo 5 etti di patatine fritte e non avevo problemi e adesso non posso più farlo. È un mondo cattivo, con la bestia nel cuore, certamente. (Diretta su RaiMovie; 6/9/11)

ddv7603879 – L’incantevole, giuro, Come d’incanto di Kevin Lima, USA 2007
Galeotto fu il trailer in un dvd Disney visto recentemente. Le bimbe pretendono e il pessimo padre obbedisce. Il concept è imbattibile (personaggio da favola, simil-Principessa, immerso in realtà metropolitana odierna) e il risultato finale è ottimo perché si tiene il ritmo delle trovate e non si sbraca mai. La prima parte funziona benissimo ma è anche la più facile (per modo di dire) da scrivere. È la parte destruens, con tutta l’ironia – anche cattiva – sul mondo disneyano e gira a mille con equivoci, gag e anche battute azzeccate. Il primo Shrek era tutto così ed era amabile. Ma era solo così: parodia, geniale perché inedita, ma solo parodia. Diventa difficile però portare avanti il gioco, la parte construens: come far funzionare la trama, come risolvere tutto ed è qui che io batto le mani perché tutto si incastra alla perfezione, sempre con autoironia e plausibilità narrativa. È un ottimo lavoro, sinceramente, e non l’avrei mai detto, ma mai mai mai. Brava la protagonista principale, Amy Adams, e anche il belloccio contemporaneo, tale Patrick Dempsey, che, mi spiega Barbara, si tratta di gnoccolone riverito dall’universo mondo femminile intiero in quanto protagonista di Grey’s Anatomy, uno di quei telefilm di bassa lega che ha conosciuto immensa popolarità in tempi recenti (ne ho visto una volta una puntata e l’unica cosa curiosa era che protagonista fosse una cinese con la faccia più storta che avessi mai visto, tolti due quadri di Picasso). Film adorato dalle bambine (le mie, intendo) e pure apprezzato da me, com’è evidente. (1/10/11)

ddv7604880 – Boris – Il film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2011, non vale il Boris che conoscevamo
La partenza è buona, con la sentenza definitiva sul fare tivù (“è come la mafia: non se ne esce, se non da morti”, confermo) e con il racconto dolorosamente attendibile del sottobosco cinematografico: la cialtronaggine dei produttori finti e veri, le fisime intellettuali degli sceneggiatori, i salari rubati, le pose acculturate. Finisce che René Ferretti accetta di girare un improbabile La casta, provando il colpaccio con un’operazione in stile Gomorra. Ovviamente finirà tutto in vacca, rassegnati – anche su pellicola – a riprodurre le modalità lavorative della televisione. Perfetta la caratterizzazione della grande attrice italiana, che non parla ma sussurra ed è piena di fobie, ritrattino che mi sembra adattabile a un numero imprecisato di attrici (ma facciamoli ‘sti nomi: la Mezzogiorno, la Morante, la sempre nevrotica Buy). Ci sono alcune trovate azzeccate, ma più che ridere si sorride e in alcuni momenti si subiscono stasi esiziali e la questione è che da un film così vorresti avere una brillantezza insuperabile, come nella serie tivù. Invece si rimane in superficie in troppi momenti. La seconda parte ricalca le dinamiche note nella serie, ma senza la freschezza e la velocità cui eravamo abituati e la morale finale l’abbiamo già vista in tre finali di serie, anche se Barbara parte con le ipotesi: e se fosse stato un sogno? Ma non cambia il risultato: René quello sa e deve fare, la tivù cialtrona, ammesso che ne esistano altre possibili. Gli attori sono tutti bravi e ben diretti. Sermonti è l’unico che mi risulta fastidioso, ma non per limiti suoi, ma perché il suo ruolo non ha più misura, è completamente fuori controllo e non credibile nel pur poco credibile livello di realtà. Cameo grandioso di Nicola Piovani che si riscatta dall’amorazzo con Giovanna Melandri e rende meritevole l’Oscar vinto anni fa con La vita è bella. (1/10/11)

ddv7605886 – Babylon A.D., una babelica stronzata di Mathieu Kassovitz, Francia 2008
Questo film fa cacare, ma dolorosamente, con crampi e nebulizzazioni diarroiche tipo spray. È di sconcertante bruttezza, dalla trama intorcinata e inspiegabile, senza alcun fascino visivo e narrativo. Pure le scene d’azione fanno schifo e Vin Diesel non ha una battuta una che sia decente. Di contorno una Rampling truccata come The Joker (e con qualcosa della Moratti, ecco) e un Depardieu conciato da cattivo in maniera grottesca con un nasone immenso e i denti marci. Brutto tutto, la fotografia buissima, la musica che si dimentica subito. Prevedibili gli sviluppi della trama, sono implausibili anche nel campo dell’implausibilità della fantascienza i motori narrativi della vicenda. Tremendo. Rai4 sta comunque diventando il nostro canale preferito del digitale terrestre: ha un programma denso di vaccate assolutamente godibili. Ti siedi, accendi e subisci, sdivanato e assente. Sembra una Italia1 di 15 anni fa, piena di film d’azione di cui uno non sospetta neanche l’esistenza. Barbara s’è vista due film dedicati alla Banlieue 13, che io invece ho assunto a tratti. Scene d’azione sempre godibili, montate freneticamente ma anche con bei cinematismi, inventivi, cosa che nel film di Kassovitz mancava clamorosamente togliendo anche uno dei pochi motivi di visione. Le trame e i dialoghi invece facevano schifo, ma la colpa magari è della traduzione, chissà. (No, non credo). Ad ogni modo il secondo episodio finisce con gli eroi della banlieue (arabi, dropout, punk, delinquentelli, sballati etc.) che fanno tenerezza al presidente francese improvvisamente illuminato, tutti vanno d’amore e d’accordo, egalité, fraternité, Beyoncé, e si completa il piano del cattivone di turno (il capo della flicaille) che voleva bombardare la banlieue per realizzare una pesante speculazione. La si bombarda sì, ma tutti decidono che la si ricostruirà migliore e con del verde. Ma che buffoni! (Diretta su Rai4, 21/10/11)

hqdefault888 – Fulminati e persi ne La Vallée di Barbet Schroeder, Francia 1972
Moglie di diplomatico annoiata conosce 4 hippie storti che nella verdeggiante Nuova Guinea vogliono trovare l’uccello del paradiso in una valle misteriosa. Ovviamente la ciccetta si diletta di ornitologia in altra maniera, con consumo entusiasta di droghe, tronata e libera da convenzioni piccolo borghesi, e l’allegra combriccola intraprende un trekking: il film diventa quasi un documentario, con facce, usi e costumi degli aborigeni e la consueta uccisione dei maiali (sembra un obbligo narrativo degli anni Settanta) presi a legnate in faccia, in una scena abbastanza cruenta e insistita. Il viaggio prosegue imperterrito sinché la compagnia arriva stremata in cima a una montagna. Sono tutti affamati, sporchi, distrutti da fame, sete e fatica e – con un effettaccio tipo TeleTubbies che simula la rifrazione dei raggi solari – la protagonista si risveglia e dice: la vedo, ecco la valle! (letteralmente, come da titolo: la vallée!) e poi “FIN” e buonanotte ai suonatori. Eeeeh? E nonostante ciò il film ha un suo perché: è lentissimo e ipnotico, drogato e drogante, nel senso che non riesci a metterlo giù nonostante l’azione pressoché nulla e il finale stupefacente nel suo lasciarti a bocca asciutta. La Nuova Guinea, è un’isolaccia immensa, pressoché disabitata se non da tribù che vivono su altipiani a 2000 metri e senza quasi risorse alimentari (ho appena letto Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond, bellissimo, sull’evoluzione dell’uomo e ‘sti poveretti sono (stati) cannibali per la drammatica mancanza di proteine nella loro dieta). Per altro gli indigeni seminomadi sono fisicamente stranissimi, come degli aborigeni australiani, ma più scuri, con niente in comune con gli orientali né tanto meno gli occidentali. I paesaggi sono maestosi: sembrano alpini, ma con foreste intricatissime, ed è sempre nuvolo, con una percepibile umidità che solo a guardare il film mi sentivo venire i reumatismi. Sono andato su Google Maps a dare un’occhiata e in effetti è ovunque chiazzato di nuvole. La colonna sonora (per canzoni) è dei Pink Floyd, contenuta nell’album Obscured By Clouds, come la valle paradisiaca, sconosciuta e introvabile in quanto non fotografata nelle ricognizioni aeree perché oscurata dalle nubi. La musica è usata poco e male ed è un peccato perché è una delle opere più originali dei Pink. Realizzata in due settimane, praticamente buona alla prima, ha un piglio rock niente male (dall’hard fino a due pezzi invece inusitatamente pop, con David Gilmour in bella evidenza) e stupisce al confronto del coevo Dark Side of the Moon. O forse mi piace perché c’è quell’inconfondibile sonorità, ma su pezzi non così rifiniti, non cesellati, puliti, quasi asettici come nel capolavoro di cui si celebrano in questi giorni i 40 anni con edizioni clamorosamente costose e ricche (di roba inutile: un capolavoro per pulizia progettuale e interpretativa ti viene rivenduto con gli scarti zozzi? mah!). La protagonista Bulle Ogier è interessante, sembra una bambolina, così compita coi suoi occhioni azzurri e i capelli biondi. Gli hippie invece sono mostruosi, non particolarmente convincenti come attori e ce n’è uno che a un certo punto indossa il chiodo da metallaro… in Nuova Guinea! Alle volte, i corto circuiti temporali e climatici, mah! Il film l’ho cominciato a guardare in treno sul computer e al 15° minuto ‘sti qui trombano, come se fosse la cosa più normale del mondo. E forse lo era. (Quando sarebbe interessato a me, no. Dopo neanche. Oggi neppure). Comunque non potevo vederlo col timore che arrivasse alle spalle un controllore mentre due copulano sullo schermo. Vabbeh, l’ho spento e rivisto con più calma a casina mia. Interessante spaccato di vita quotidiana, nevvero? (29/10/11)

ddv7607889 – La libertà irripetibile di Alpe del Vicerè 1973 e Re Nudo di Luigi Salvaggio e Dario Vergani, Italia 2010
Raccolta di documenti visivi (che si accompagnano a un divertente libro di Matteo Guarnaccia) che rinuncia programmaticamente alla forma filmica e alla nostalgia. Si tratta di diversi reperti storici dei primi raduni pop in Italia, genuinamente underground e realizzati con pochi soldi e tanta energia e idee. Le immagini sono attualizzate con interviste ai testimoni dell’epoca, realizzate tecnicamente un po’ coi piedi e con poca severità nei tagli, ma comunque interessanti e congruenti allo spirito rievocato. E non puoi che voler bene a queste persone che non ostentano alcun reducismo post sessantottino. Nelle immagini vediamo maree di giovani e c’è meno politica “parlata” di quanto si possa credere, piuttosto tanta politica praticata. Le sequenze di Alpe del Vicerè sono straordinarie e c’è un Battiato che se non lo vedi non ci credi. Ha una testa di capelli che al confronto Angela Davis era una dilettante calva: magrissimo e simpaticissimo, era già geniale allora, ma questo lo sa chiunque abbia ascoltato Fetus. Tra i protagonisti dell’epoca anche Finardi che racconta sullo sfondo di San Michele di Pagana, tra Rapallo e Santa Margherita. Quando lo vedo, penso: ma quegli scogli io li conosco! Incredibile: questo va da sempre nella spiaggia in cui andavo io da bambino (ho un evidente legame sotterraneo con Eugenio Finardi: veniva d’estate anche a Champoluc e oggi abita vicino a me: prima o poi devo intervistarlo). Dopo questo tuffo nella memoria, emozionante e per nulla compiaciuto, mi son rifatto la bocca con il finale del grandioso Trappola d’amore, un disastroso thriller sentimentale con un risibile Richard Gere al top della forma, tra pianti e scenate isteriche: prima o poi si impone una visione integrale con doverosa disamina critica. (3/11/11)

ddv7608890 – Il grande freddo di Drive, di Nicolas Winding Refn, USA 2011
Raggelato, stilosissimo, intrigante: il kitsch anni Ottanta che diventa stile. Mi ricorda uno Scorsese, ventenne nei temi e cinquantenne nella forma, ma c’è molto di più, è chiaro. C’è il Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, per esempio, e altre cose ancora che i critici seri sanno e io non ricordo più e neanche ho voglia di farlo. Drive è girato benissimo, con una lentezza ostentata che va di pari passo col mutismo del protagonista: non ricordo se l’ha detto Ryan Gosling o Refn proprio, ma sarebbe un sogno, o potrebbe esserlo, con le sequenze finali come uniche ambientate nella realtà. Ma non mi interessa, il film viaggia bene così. Titoli con lettering e colori fluo a sottolineare la curiosa adesione estetica di cui dicevo: si veda anche la musica di plastica, decisamente azzeccata (anche se a film finito non la sentirei manco sotto tortura). Bravi gli attori, bello il montaggio e intelligenti le piccole deviazioni narrative che ti ingannano per pochi secondi. (12/11/11)

ddv7609893 – Altrimenti ci arrabbiamo!, sempre!, di Marcello Fondato, Italia Spagna 1974
In realtà lo abbiamo visto a rullo per un mesetto circa, ma con continuità io l’ho rivisto solo stasera. E con che stolido piacere, signori miei. Pochissimo dialogo, tutto memorabile però, nella sua semplicità archetipica: quando l’ho visto nell’agosto 1979 ricordo che con Pier Paolo citavamo a memoria – e dopo una sola visione – tutte le frasi del duo Bud and Terence, manco declamassimo versi dell’Ariosto. E oggi lo vedo fare a mia figlia. I due protagonisti erano in stato di grazia e affiatatissimi, ma anche i personaggi di contorno sono perfetti (su tutti Donald Pleasance!), così come le caratterizzazioni (i duri della banda nemica, il killer Paganini). Le musiche dei fratelli De Angelis alias Oliver Onions sono eccezionali (e non solo la frizzante Dune Buggy, anche il Coro dei pompieri, Across the Fields che accompagna il rally iniziale e Il ballo, in tutte le scene danzerecce). Un giorno m’è venuto lo sghiribizzo di fare un controllino e ho verificato che lo stadio era quello dell’Atletico Madrid (Google Map è uno strumento prodigioso: certe volte passo un’ora a passeggiare virtualmente in posti che conosco. Sono un cretino, lo so). Poi ho googlato e trovato un sito con estensione Tokelau di un simpatico matto che ha perlustrato Madrid ritrovando tutti i luoghi del film 40 anni dopo. Vabbeh. Di solito coi film amati nell’infanzia, quando si rivedono dopo tanto tempo, si prova una sensazione agrodolce, scoprendo quanto fossero irrisolti, salvati dalla benevolenza della memoria. E invece no: Altrimenti ci arrabbiamo sta in piedi non solo dignitosamente, ma proprio benissimo e potrebbe correre la maratona. L’incasso fu stratosferico e non ho né voglio cercare le pezze d’appoggio, ma insieme a Fantozzi e a Ultimo tango a Parigi credo sia uno dei film più visti dal popolo italiano. D’accordo che c’erano le seconde visioni, le terze e i parrocchiali (io il film – del 1974 – l’ho visto al cinema sia nel 1979 che nel 1980) e la televisione era quella del monopolio Rai (e non ancora del monopolio Nano), ma Benigni, Aldo Giovanni e Giacomo, Zalone e Giù al sud, gli fanno una pippa ad Altrimenti. E anche non fosse un semplice calcolo sui biglietti staccati o sugli incassi, io parlo proprio di immaginario, perché non c’è persona tra i 40 e i 50 che non sia stato segnato dalla visione di questi film. Comunque che si continui a parlare d’incasso più grosso di tutti i tempi basandosi solo sul valore nominale dell’incasso e non sull’effettivo valore considerando la svalutazione, beh, è una coglionaggine che non ha veramente senso. (5/12/11)

ddv7610895 – Voglio i Gremlins di Joe Dante, USA 1984
Approfittando del sonno pomeridiano della piccola Elena, Sofia e io ci concediamo una peccaminosa visione di un film che mamma Barbara sconsiglia. Ma vinciamo noi e, non avendo visto il film all’epoca, capisco a chi si riferisca il nome della band attualmente à la page dei Mogwai. Noto anche che il mio amore Phoebe Cates era proprio patatissima, nonostante certe camicette emetiche tipicamente anni Ottanta. Invece il protagonista non l’ho mai più visto. Dunque: siamo alla vigilia di Natale e un inventore senza arte né parte regala al figlio un curioso mostricciattolo peloso scovato in un robivecchi cinese. Ma, attenzione: niente luce, niente acqua e guai a dargli da mangiare dopo mezzanotte. Cose che puntualmente accadono e mentre sulla tivù girano prima La vita è meravigliosa e poi L’invasione degli ultracorpi, la cittadina viene invasa da mostruose creature devastatrici. È una fiaba di Natale horror, dove il buonismo spielberghiano viene sbeffeggiato (complice Spielberg stesso che produce). Rimandi cinefili e tanta ironia: altro che E.T.: questi gremlins sconquassano lo status quo, pervertono e perturbano anarchicamente tutto, sfasciano, fumano, sbevazzano, fanno pure giustizia dei tanti personaggi negativi della cittadina, ma ovviamente l’orrore sano non può vincere su quello reale, di un paese ormai finto, che finge di credere a Babbo Natale e che si sente assediato dagli stranieri (tantissime volte, se ne parla e si vedono prodotti esteri). Insomma, ne esce un film più intelligente di quanto vuol dare a vedere – con la sua estetica infantile e smaccatamente falsa (ma i mostri finti in modo pacchiano sono anche un omaggio alla fantascienza maccartista degli anni Cinquanta). Però rimane il solito problema: si ride e si scherza e si dicono pure cose non banali, ma il film non va bene per gli adulti (a meno che non siano un po’ rimbambiti) né per i bambini, perché al di là della vicenda (molto prevedibile) i temi sono fin troppo alti. Sofia ha visto tutto senza fare un plissé né reagendo al clamoroso spoiler: Babbo Natale non esiste! (9/12/11)

ddv7611897 – Fumata nera per Habemus Papam di Nanni Moretti, Italia 2011 Dvd
Naaaa. Non riuscito. Parte con un tema interessante che però non viene granché sviluppato: la solitudine della scelta di un uomo sembra lasciata esattamente al protagonista e la regia e la trama non provano a darci altre indicazioni. Un po’ comodo, quando invece si indugia su stupidaggini autoreferenziali (la partita a pallavolo che non finisce più, il tormentone prevedibilissimo della mancanza di accudimento) o alcune macchiette irritanti (il giornalista del Tg2 che poi, per fortuna, viene perso di vista). Un’occasione persa, insomma. C’è l’intelligenza di Moretti, ci mancherebbe, ma anche tante scorciatoie che lasciano l’amaro in bocca. A me che Nanni faccia Nanni, un po’ incazzoso e monomaniaco, non dispiace. Oh, è ben per questo che lo abbiamo amato, ma non si può cadere nella parodia di sé. Cosceneggiatori Francesco Piccolo (che ha venduto mille milioni di copie di un trascurabile liberculo intitolato Momenti di trascurabile felicità) e la genovese Federica Pontremoli che mai sono riuscito a incrociare tra Lumière e altro. (11/12/11)

ddv7612899 – Le colpe dei padri… Children of the Revolution di Shane O’Sullivan, Irlanda/Germania 2011
Curioso documentario dal repertorio iconografico storico clamoroso che racconta la storia di due madri “rivoluzionarie”, Fusaku Shigenobu e Ulrike Meinhof, e delle loro figlie, figlie della rivoluzione, senza padri e sballottate per il mondo, senza identità. Il film è apologetico e non “critico” o storiografico: sceglie di non dedicarsi alla storia delle madri in maniera approfondita, non entra nelle polemiche sui crimini commessi o meno né si occupa granché della morte della Meinhof. Circoscrive l’indagine privilegiando gli aspetti privati ed essendo un ritratto emotivo fallisce proprio perché rimane asettico, senza far scattare una vera empatia. Mai una scintilla, dell’affetto, una partecipazione, anche tra gli stessi protagonisti. Bettina Meinhof è una derelitta incarognita che ha pagato eccome per le colpe della madre, se la madre ne ha avuto, ancora ossessionata dai fan postumi. Le amiche di Ulrike che la raccontano sono delle anziane borghesi che sembrano non aver capito il travaglio della Meinhof (che a loro si ribellava) e tendono a giustificarla dando la colpa – ‘anvedi – alle cattive compagnie o ai problemi neurologici della giornalista (che si portava una bella piastra di metallo in testa che potrebbe averle cambiato la personalità). Mah. Delle due storie la più riuscita è decisamente quella di May Shigenobu, persona realizzata e dalla vita interessante. La madre Fusaku Shigenobu è stata partecipe in maniera onorevole, proprio secondo l’accezione giapponese – che non conosco, ma ci siamo capiti – della lotta palestinese per la libertà, assieme al FPLP, e non si può che provare simpatia quando la traducono in carcere, indifesa, innocua, dopo 30 anni di latitanza e lotta ideale, giacché dopo la partecipazione ai dirottamenti degli anni Settanta non ha più fatto nulla, se non vivere in fuga. I vecchi compagni della Shigenobu sono invece dei mai domi compagni nipponici, sorridenti, capaci di ironia, ancora irrequieti. Come del resto lei, di cui si vedono le immagini della cattura nell’aprile 2011, salda e sicura. Edizione sottotitolata in inglese quando i protagonisti non lo parlano direttamente (alcuni militanti palestinesi in maniera atroce e incomprensibile). Film interessante, non so quanto riuscito. (16/12/11)

(Continua, forse – 76)

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La carica dei 600 https://www.carmillaonline.com/2014/03/06/13250/ Wed, 05 Mar 2014 23:10:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13250 di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla” di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla”1. Per una volta Beppe Grillo non ha postato soltanto un’ennesima boutade, ma si è avvicinato ai fatti con una certa precisione. Diamogliene atto. Anche se, dal punto di vista dell’antagonismo di classe, la questione rimane un po’ più complessa.

D’altra parte ciò che scrive sul suo blog era già stato precedentemente affermato qui, su Carmilla, proprio a proposito della Siria2. E oggi, come allora, lo scontro politico in Ucraina potrebbe sia fermarsi, e rimanere tale, sia svilupparsi in un conflitto più allargato. Ciò che conta però è la tendenza e questa rimane sicuramente, e soprattutto da parte statunitense, indirizzata verso una situazione di guerra diffusa, destinata a minare gli equilibri e gli interessi europei nel Mediterraneo e nell’Europa Orientale. Come le code di giovani nazionalisti ucraini pronti ad arruolarsi a Kiev, dopo la visita di Kerry, fanno purtroppo presagire.

Anche se qui da noi si fa a gara, nei mezzi di informazione, nel far vedere chi è più ignorante di cose ucraine3 e di tutto ciò che riguarda la storia recente e passata , dovrebbe essere chiaro che l’Ucraina e, in particolare, la penisola della Crimea costituiscono nei rapporti con la Russia un nodo sicuramente delicato, spinoso e pericoloso. Un autentico terreno minato per la politica, la diplomazia, la geopolitica e l’economia.

Qualsiasi studente che abbia terminato la quarta classe degli istituti superiori dovrebbe, infatti, sapere che uno dei conflitti più sanguinosi della metà dell’ottocento fu proprio quello che vide coinvolte Gran Bretagna, Francia e Impero Ottomano da un lato e Impero Zarista dall’altro per il controllo della penisola della Crimea e di Sebastopoli. Peccato che, troppo spesso, non si spieghi il perché di quella guerra che vide schierate su fronti opposti due potenze che dal congresso di Vienna in avanti avevano costituito il cuore politico e militare della Santa Alleanza ovvero Russia e Gran Bretagna.

Unite nella reazione e nella controrivoluzione, ma nemiche negli scopi di espansione imperiale. Unite nel reprimere qualsiasi sollevazione rivoluzionaria in Europa, ma nemiche giurate dal Caucaso all’Hindu Kush e dal Mare Mediterraneo agli oceani e ai mari del nord. Ma una domanda ancora più difficile sarebbe, per gran parte del giornalismo italiano e per gli insegnanti di storia, chiedere quali fossero, e ancora siano, i porti principali per le flotte russe e quale la loro dislocazione.

Sì, perché il rapporto della Russia, in ogni sua forma statuale (Impero, Sovietica o attuale), con il mare è stato da sempre problema di non poco conto. Impero o nazione dal territorio immenso, ma scarsamente dotato di sbocchi al mare o, per lo meno, di sbocchi al mare utili sia dal punto di vista commerciale che militare. Non per nulla fu proprio lo czar Pietro I detto il Grande a cercare di sviluppare una prima flotta russa a partire dalla fondazione di San Pietroburgo, che per quello czar avrebbe dovuto costituire lo sbocco verso il mare, e l’ammodernamento del paese, in chiave anti-svedese e di politica di potenza sul Baltico ed oltre.

Infatti uno dei motivi della cronica arretratezza dello sviluppo russo aveva, sicuramente, ed ha avuto, anche in epoca sovietica, origine nella scarsità di accessi al mare. Infatti da Atene a Roma, dal Portogallo alla Spagna e dall’Olanda alla Gran Bretagna fino agli Stati Uniti, la libertà di accesso al mare e agli oceani e il loro dominio ha sempre costituito non solo un motivo di potenza ma, anche, di sviluppo. Mentre la Russia, sicuramente imponente come potenza continentale, si è sempre vista invece relegata a pochi altri porti oltre a quelli sul Baltico, mare chiuso e talvolta gelato:

– Primi tra tutti i porti sul Mar Nero e, in particolare, oltre a quello di Odessa, in Crimea. Sostanzialmente chiusi in un mare il cui controllo sta però nelle mani della Turchia (da lì l’insanabile conflitto politico e militare tra le due nazioni di cui si è avvantaggiata da sempre la NATO), attraverso il Bosforo e poi attraverso i Dardanelli.

– Il porto di Vladivostock, in Siberia, nell’estremo oriente del paese, che costituisce il più importante (quasi unico) accesso diretto della Russia all’Oceano Pacifico, ma chiuso tra Cina, Corea del Nord e Mar del Giappone ed estremamente isolato dal resto del paese (come si dimostrò durante la guerra civile quando fu occupato da truppe canadesi, cecoslovacche, americane, giapponesi ed italiane), di cui costituisce la stazione finale della ferrovia transiberiana.

– Arcangelo, posto sul Mar Bianco e scelto nel 1693 dal solito Pietro il Grande come sede dei cantieri navali russi. Idea che fu poi superata dalla fondazione nel 1704 di San Pietroburgo poiché il porto di Arcangelo rimaneva bloccato dai ghiacci per almeno cinque mesi all’anno. Proprio questa impossibilità di navigare per lunghi periodi sul Mare di Barents e sui susseguenti Mar di Kara e sul Mar Glaciale Artico fino al Mare della Siberia Orientale e al Pacifico, spinse l’Unione Sovietica alla costruzione di navi rompighiaccio sempre più grandi e potenti, fino alle attuali a propulsione nucleare. Anche, se in anni recenti, il riscaldamento globale ha permesso alle navi russe di navigare lungo tutte le coste settentrionali fino all’Oceano per tutto l’inverno. E questo costituirà ben presto per gli americani un vero e proprio problema “ambientale”.

– A tutto ciò va poi aggiunto che se la più grande nazione del mondo è sostanzialmente sotto-popolata e la sua popolazione è principalmente concentrata nella Russia europea, ciò è dovuto alla scarsa abitabilità di un territorio, come quello siberiano, in cui la presenza del permafrost 4 impedisce la presenza di qualsiasi forma di agricoltura, con una densità media di popolazione di 2 abitanti per kmq.
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Tutto ciò dovrebbe rendere chiaro che l’accanimento politico-mediatico e militare occidentale attuale nei confronti di territori strategici per la Russia (in Siria, è già stato precedentemente detto, vi è l’unica base navale russa nel Mare Mediterraneo), non potrà essere tollerata né da Putin né da qualsiasi altro gerarca russo (compreso quel vecchio ubriacone di Boris Eltsin cui l’Occidente poté chiedere qualsiasi cosa, ma che non avrebbe mai ceduto la Crimea).
Senza contare, poi, che l’Ucraina, oltre che importante per la sua posizione geo-strategica, è anche fondamentale per la sua produzione agricola, che ne ha fatto per secoli l’autentico granaio d’Europa e della Russia.

Chi spinge, oggi, in direzione della secessione sta cercando la guerra economica e mediatica oppure, domani, guerreggiata oppure, ancora, la semplice sottomissione della Russia alle pretese americane di dominio. Non vi sono altre scuse. Dimenticando, però, che la Russia di Putin sembra poco propensa a piegarsi ai voleri della NATO e dell’Occidente, così come ha già dimostrato in Siria e col sorprendente recupero di posizionamento politico in Egitto.

Certo, la Russia può essere vista come un gigante militare dai piedi economici d’argilla, come è provato ancora in questi giorni dalle difficoltà del rublo e della borsa russa, ma il controllo dei rifornimenti di gas, dai suoi enormi giacimenti verso l’Europa, concede ai suoi governanti un significativo potere di contrattazione, anche se la crisi economica mondiale ha finito col pesare sul valore delle sue riserve di materie prime. Ma la crisi pesa anche sugli Stati Uniti che, nonostante la fasulla retorica obamiana, hanno ben poco da proporre (un miliardo di dollari di aiuti all’Ucraina quando questa ha bisogno di decine di miliardi) se non lo spettro delle sanzioni economiche e militari. Di fatto le stesse modalità operative rimaste nelle mani del leader del Cremlino.

Chi scrive sicuramente non parteggia per la Russia di Putin e, tanto meno, ha mai parteggiato per la retorica “socialista” della Russia staliniana o brezneviana, ma le scuse addotte oggi per un possibile intervento ricordano troppo il pianto sui luoghi santi non rispettati dai russi che gli inglesi usarono in preparazione della guerra di Crimea. Oggi sostituito dal solito cordoglio per la solita generica libertà offesa, dalla lotta all’omofobia o dal sabotaggio delle Olimpiadi di Sochi e del G8 ivi convocato e dal pianto di Papa Francesco per i poveri ucraini.

Come nei riti feciali dell’antica Roma, la colpevolizzazione del nemico diventa allo stesso tempo rituale e fondamentale nella preparazione della guerra. “Attraverso una vera e propria «litis contestatio», alla quale veniva chiamato, come testimone tutto il creato (dei, piante, animali, uomini, magari passanti ignari) […] e segna un momento essenziale nella vicenda di rottura tra tempo di pace e tempo di guerra5 .

Oltre a tutto ciò va ricordato che l’Ucraina ha una lunga, drammatica e contraddittoria storia: sede della prima Rus’ nel medio Evo vichingo; parte della presenza svedese in Russia in età moderna; residuo parziale (proprio in Crimea) del khanato dell’Orda d’oro; protagonista della resistenza anarchica alle truppe bianche e rosse durante la guerra civile; testimone della più grande carestia europea del ‘900 durante gli anni trenta, di grandi massacri di popolazione ebraica durante l’avanzata nazista e dei trasferimenti forzati di molti suoi abitanti di origine tedesca e tatara verso la Siberia dopo il secondo conflitto mondiale.

Ma oggi tutto questo ha poco a che fare con le rivolte e gli interventi militari. Al massimo ne costituisce lo sfondo confuso da cui è possibile trarre ogni tipo di giustificazione. Per l’uno e l’altro fronte. Quello che conta davvero è che la Crimea per la Russia è irrinunciabile e qualsiasi tentativo di strapparla alla stessa (dalla guerra del 1853 e degli anni seguenti fino alla guerra civile, quando fu sede delle armate bianche di Denikin e Wrangel) è di fatto considerato da quella nazione come una minaccia alla propria sicurezza..

Certo, la rivolta di Kiev affonda le sue radici nella corruzione dell’esecutivo e nella crisi economica e Viktor Yanukovich non ha nessun carattere in grado di suscitare la minima simpatia o giustificazione per il suo operato, ma lì i gruppi di sinistra sono stati malmenati, minacciati e costantemente allontanati dalle piazze dagli appartenenti ai gruppi paramilitari di estrema destra. Proprio là dove, come tutti ricorderanno, la “Rivoluzione arancione” di Yulia Tymoshenko aveva già costituito il modello per tutte quelle che sarebbero state le rivoluzioni telecomandate via social network che sarebbero poi diversamente esplose sulle sponde del Mediterraneo, con i risultati che tutti, oggi, possono avere facilmente sotto gli occhi. Là dove i rivoltosi di Kiev, anche quando armati di fucili di precisione sono stati compianti come vittime quasi inermi, mentre qui, in Italia, chi incendia una betoniera è accusato di terrorismo. No, c’è qualcosa che non funziona…c’è del marcio in Danimarca6 .
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L’assenza di precisi riferimenti di classe e la presenza “importante” sulla piazza di un partito di estrema destra come l’Unione Pan-Ucraina “Libertà”, meglio conosciuto come Svoboda, e il fatto che questo abbia superato nelle elezioni del 2012 il 10% dei voti, non fa presagire niente di buono e fa intravedere risvolti e collegamenti politici internazionali certamente inquietanti. E non può bastare a giustificare ciò il fatto che per decenni l’ideologia del potere nell’URSS, prima del suo disfacimento, fosse stata quella del socialismo di stato.

Si tratta forse di dover parteggiare per la Russia? Ancora, dopo l’esperienza dello stalinismo e dell’espansionismo di stampo sovietico? Sicuramente no, ma non va accettata la retorica con cui si paragona la presenza militare russa in quella penisola con le invasioni dell’Ungheria, della Cecoslovacchia o delle altre nazioni europee definite all’epoca, da Stalin e dai suoi successori, come repubbliche sorelle.

Quelle invasioni rappresentavano la sostanziale continuità politica con la Santa Alleanza ottocentesca. Solo che, dopo Yalta, gli Stati Uniti avevano sostituito la Gran Bretagna nel gioco imperiale europeo e avevano comunque visto di buon occhio, e senza muovere un dito, la repressione violentissima delle rivolte operaie di Berlino Est del 1953, di Budapest del 1956 e dei successivi moti cecoslovacchi e polacchi. Là dove occorreva schiacciare l’iniziativa autonoma di classe erano le due super-potenze ad essere davvero sorelle.

Il conflitto rimaneva e rimane sui mari e sugli altri territori, esattamente come nell’ottocento. Ma la crisi, oggi, su uno sfondo in cui la Cina si va affermando come prima potenza economica, spinge i vecchi antagonisti della guerra fredda a bluffare in maniera sempre più pericolosa, creando una situazione di tensione, cui potrebbe bastare un nonnulla per trasformarsi in un autentico conflitto. Che per gli americani risolverebbe non pochi problemi economici, soprattutto se combattuto, ancora una volta, fuori dai propri confini e, magari, nelle vesti di una guerra civile appoggiata dall’esterno. Esattamente come successe nei Balcani a partire dal 1991.

Obama ha promesso pochi giorni or sono di voler ridurre la spesa militare a quella che era prima del secondo conflitto mondiale per destinare risorse allo sviluppo della società; peccato, però, che da più di un secolo per l’economia statunitense sviluppo e guerra coincidano perfettamente. Un conflitto alle porte dell’Europa e con la Russia, o anche solo la minaccia di una sua eventualità, avrebbe come risultato immediato quello di irrigidire e precarizzare i rapporti economici tra Russia ed Europa e tra Russia e Germania, in particolare, e finirebbe con l’indebolire ulteriormente la fragile economia europea e la sua inconsistente unione politica. Tutto a vantaggio del dollaro e delle imprese americane.

Non a caso, mentre la Francia , proprio come nell’ottocento, si è schierata da subito contro la Russia, Italia e Germania tentennano. Soprattutto l’Italia che, dalla rivolta anti- Mubarak in poi, ha perso terreno in Egitto (dove era il secondo partner economico), in Libia (dove era il primo beneficiario del petrolio e del gas libico) e ora in Ucraina ( dove, ancora una volta, è il secondo partner economico). Anche se, come sempre, la classe politica più vile del mondo occidentale alla fine si schiererà con chi saprà fare la voce più grossa.

Infine, una guerra, guerreggiata o anche solo pesantemente minacciata, servirebbe ancora una volta a dividere le società europee ed i lavoratori delle stesse attraverso il peggior sciovinismo nazionalista. Per questo occorre non cadere nella trappola dello schierarsi con le forze e le potenze in campo. Tutte egualmente ambigue.
Il capitale, di qualsiasi e colore e tendenza, è nemico non solo dei lavoratori ma di tutta la specie umana, come le recenti statistiche della rivista scientifica americana Lancet, sull’aumento del 43% della mortalità infantile in Grecia dovuto alle manovre e ai tagli dettati dall’austerità europea, ben dimostrano.

Nostra patria è il mondo intero, ma il capitale ci è nemico ovunque, comunque e soprattutto in casa nostra. Perché, nonostante le convinzioni dei pacifisti integrali, il capitale significa guerra e la società capitalistica è una società costantemente in guerra: tra le imprese, le nazioni, gli imperi e, last but not least, le classi. Per questo non possiamo far altro che augurargli la fine della brigata di cavalleria leggera inglese a Balaklava, la carica dei seicento7 appunto, durante la guerra di Crimea. Fu distrutta. Amen e così sia.


  1. 1914 Sarajevo – 2014 Sebastopoli, Il blog di Beppe Grillo, 01/03/2014  

  2. War! editoriale del 10 settembre 2013  

  3. Basti pensare che Maidan Nezhaleznosti ovvero Piazza Indipendenza è ripetutamente nominata dai nostri media come Piazza Maidan, là dove “maidan” in Ucraina già significa “piazza”  

  4. Un terreno gelato tutto l’anno anche fino a 1500 metri di profondità  

  5. Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli 1966, 1970 e 1988, pag.40  

  6. William Shakespeare, Amleto, atto I, scena IV  

  7. Celebrata in un bellissimo film antimilitarista di Tony Richardson del 1968, I seicento di Balaklava e in un album di folk rock antimilitarista dei Pearls Before Swine di Tom Rapp, sempre del 1968, intitolato Balaklava  

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