Shoa – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 05:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Varlan Šalamov: una voce dalla Kolyma https://www.carmillaonline.com/2024/11/20/la-voce-di-un-fantasma-della-kolyma/ Wed, 20 Nov 2024 21:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85321 di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, [...]]]> di Sandro Moiso

Varlan Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, a cura di Irina Sirotinskaja, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 468, 24 euro

Ogni nuova uscita in Italia di un’opera di Varlam Tichonovič Šalamov dovrebbe rappresentare un evento culturale di rara importanza, ma anche se l’autore russo è stato tradotto nel nostro paese fin dal 1976, sei anni prima della sua morte, ancora non sembra aver raggiunto la notorietà che sicuramente meriterebbe. Quasi che non si trattasse altro che di un fantasma o di un ricordo da cancellare, per alcuni, o da utilizzare, per altri, per condannare in blocco l’esperienza sovietica nel suo insieme, dalla Rivoluzione di Ottobre almeno fino agli anni successivi alla morte di Stalin, invece che di una delle voci più significative e potenti dell’intera letteratura del ‘900.

Quella prima pubblicazione italiana, ovvero Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti ed edita da Savelli, con una traduzione condotta sul testo russo dallo stesso curatore, avvenne senza il consenso dell’autore, anticipando una pratica editoriale per cui in Occidente le novelle di Šalamov sarebbero state pubblicate in prima battuta senza la conoscenza o il consenso dell’autore che, per questo motivo, mostrò sempre un particolare risentimento, poiché dallo sfruttamento editoriale occidentale della sua opera più importante Šalamov non avrebbe mai guadagnato un solo rublo. Cosa che, tra le molte altre, lo avrebbe costretto a trascorrere gli ultimi anni di vita in precarie condizioni economiche, in una casa di riposo per scrittori anziani e disabili situata a Mosca.

Nato a Vologda nel 1907 e scomparso a Mosca nel 1982, Varlan Šalamov è stato uno scrittore, poeta e giornalista d’età sovietica. Prigioniero politico per lunghi anni, sopravvisse all’esperienza del gulag nel corso dei più di vent’anni che trascorse nel bacino della Kolyma che prende il nome dall’omonimo fiume artico della Russia siberiana nordorientale che sfocia nel Mare della Siberia Orientale), dopo aver percorso 2.129 chilometri.

Il fiume Kolyma attraversa una delle regioni più fredde ed inospitali della Siberia, caratterizzata dal permafrost e da un clima estremo, dove si raggiungono temperature minime fra le più basse dell’emisfero settentrionale del pianeta, motivo per cui il fiume è ghiacciato per la maggior parte dell’anno Negli anni dello stalinismo tale regione costituiva la sede di alcuni dei più importanti e conosciuti campi di lavoro forzato, essenzialmente costruiti per lo sfruttamento delle abbondanti risorse minerarie (soprattutto oro), nei quali, secondo le cifre riportate da diversi storici, dagli anni Trenta fino ai primi Cinquanta morirono circa tre milioni di deportati.

Di questo autentico inferno in terra, già utilizzato dal regime zarista, ma in seguito allargato e reso più efficiente da quello staliniano, esistono numerose testimonianze, a partire dalla Memoria della casa dei morti di Fëdor Dostoevskij1 fino alla dettagliata descrizione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, certamente quest’ultimo tra i più importanti testimoni dell’esperienza concentrazionaria siberiana.

Ma tra l’ultimo e Šalamov intercorrono svariati gradi di diversità, sia sul piano politico che letterario. Infatti il secondo, figlio di un prete ortodosso, dopo tre anni trascorsi nello studio del diritto sovietico presso l’Università Statale di Mosca, fu arrestato il 19 febbraio del 1929 e condannato a tre anni di lavori forzati nella città di Višera, nella zona degli Urali, per essersi unito ad un gruppo trotzkista. L’accusa era quella di aver distribuito le Lettere al Congresso del Partito, note anche come Testamento di Lenin, in cui venivano sollevate critiche all’operato di Stalin, oltre a quella di aver partecipato ad un picchetto dimostrativo per il decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con lo slogan Abbasso Stalin!2. E precipitando così in un sistema carcerario spietato tanto con i condannati quanto con i loro momentanei aguzzini.

D’estate si lavorava dieci ore al giorno, senza festivi, con una sola turnazione, come dicevano lì: una giornata di riposo ogni dieci giorni. In ottobre le ore diventavano otto, in dicembre sei, in gennaio quattro. In febbraio la curva di rialzava: prima sei, poi otto, e poi di nuovo dieci ore.
“In un giorno la Kolyma estrae tanto di quell’oro che ci si potrebbe sfamare il mondo per ventiquattro ore” scrisse Berzin sulla Pravda nel 1936 per le celebrazioni dei tre anni della sua impresa, quando i primi seicento chilometri della celebre “rotabile” della Kolyma erano già stati costruiti.
Nel 1937, in veste di ordinaria integrazione, alla Kolyma vennero mandati i trockisti, come li chiamavano allora. Tra i quali figuravano molti conoscenti di Berzin. Erano arrivati con delle strane istruzioni: “da utilizzare solo per lavori fisici pesanti”, vietare la corrispondenza, riferire mensilmente sulla loro condotta.
Berzin e Filippov fecero rapporto: quel contingente non era adatto alle condizioni dell’Estremo Nord, glieli avevano mandati senza la documentazione medica necessaria, nei convogli c’erano molti vecchi e malati, il novante per cento dei nuovi detenuti aveva svolto solo lavoro intellettuale, ed era del tuto antieconomico utilizzarli nell’Estremo Nord.
Berzin venne convocato a Mosca con un telegramma e arrestato direttamente sul treno. E ora aspettava la morte dentro una cella3.

Rilasciato nel 1931, dopo che nel 1936 aveva visto la luce il suo primo racconto, Le tre morti del Dottor Austino, fu nuovamente arrestato il 12 gennaio 1937, durante le grandi purghe, per “attività trockiste contro-rivoluzionarie” e mandato ai lavori forzati per cinque anni nella Kolyma, dove ne 1943 gli venne inflitta una seconda pena, stavolta per dieci anni, per “agitazione antisovietica”.

Durante la prigionia lavorò prima nelle miniere d’oro, poi in quelle di carbone. Durante tale periodo Šalamov si ammalò di tifo e più volte fu posto in regime punitivo, sia per reati d’opinione sia per tentativi di fuga. A differenza di Solženicyn, però, negli scritti di Šalamov non si avverte mai l’afflato religioso e nazionalistico del primo, mentre invece, anche nei momenti più bui narrati nei suoi racconti della Kolyma, si avverte una certa dose di ironia che spesso riesce a far sorridere il lettore, tipica espressione della letteratura russa, da Puškin a Gogol’ fino ad altri scrittore russi e sovietici del XIX e del XX secolo.

Per riscoprire o scoprire per la prima volta le doti e le capacità di questo grande e perseguitato scrittore, si rivela dunque veramente utile e ricca di spunti la raccolta di testi appena pubblicata dalle edizioni Adelphi, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, che si inserisce nella pubblicazione dei suoi scritti, editi e non in Italia, che la casa editrice del fu Roberto Calasso porta meritoriamente avanti da anni4. Il testo raccoglie scritti prodotti fra gli anni Cinquanta e Settanta ed è apparso per la prima volta nel 2004.

Testi che, oltre che all’esperienza della Kolyma che rimane centrale nella vita e nell’opera di Šalamov, ci riportano anche alla Vologda della sua infanzia, dove si manifestarono precocemente sia l’amore per la poesia che l’insaziabile sete di libri; ma anche alla rigogliosa scena letteraria sovietica degli anni Venti, dove brillavano le stelle di Šklovskij, Majakovskij, Mandel’štam e Bulgakov. Uno straordinario e quasi unico ambiente letterario e artistico messo in moto dalla Rivoluzione, ma presto destinato a scomparire, «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato». Mentre in chiusura ci riporta al tempo della sua riabilitazione ufficiale e dell’amicizia con Pasternak.

Ho molti dubbi, troppi. E’ una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio racconto? […] A chi servirà da esempio? Educherà qualcuno a non cedere al male e a fare il bene? Sarà o non sarà un’affermazione del bene, del bene sempre e comunque, dato che è nel valore etico dell’arte che vedo l’unico suo vero criterio… E poi perché io? Non sono né Amundsen né Peery… La mia esperienza è condivisa da milioni di persone. E non c’è dubbio che fra quei milioni c’è gente con una vista più acuta della mia, con una passione più forte, una memoria migliore e un talento più grande del mio5.

È un interrogativo doloroso quello che Varlan Šalamov si pone nello scritto degli anni Settanta qui riportato. Pagine in cui Šalamov non si limita a mettere a nudo se stesso, ma rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e tutte le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a “relitti umani”. Condizione cui, nel 1946, lo stesso era stao ridotto. Una violenza, quella di ridurre un detenuto allo stremo, per cui esisteva anche un termine gergale russo dochodjaga, “giunto in fondo”. Una condizione cui il detenuto giungeva dopo essere stato picchiato da tutta la scorta. «Diventi un dochodjaga e tocchi il fondo quando ti indebolisci del tutto a causa della mansione troppo gravosa, senza dormire a sufficienza, un lavoro di manovalanza a cinquanta gradi sotto zero» come avrebbe ricordato ancora l’autore russo in altre sue memorie.

La sua vita sarebbe stata salvata da un medico anche lui prigioniero, Andrej Pantjuchov che, correndo qualche rischio, riuscì a prenderlo come proprio assistente presso l’ospedale del campo, dove iniziò a lavorare stabilmente come infermiere, un po’ come il protagonista di Il primo cerchio di Solženicyn. Questa nuova sistemazione gli consentì di sopravvivere e, successivamente, di riprendere a scrivere. Esperienza e dubbi che lo accomunano ad un altro celebre sopravvissuto e “salvato”, Primo Levi, e che dimostrano come tutti i parallelismi tra gulag sovietico e lager nazisti siano pienamente giustificati. Anche se Levi, al momento della pubblicazione dei primi racconti di Šalamov in Italia, non seppe riconoscerne la comune volontà di «catturare briciole di verità, per quanto squallide siano» e, nel commentare il capolavoro, non riuscì ad andare oltre una “commozione e simpatia” per le pagine dello scrittore russo. Forse ancora parzialmente abbagliato dal “mito politico” della presunta “unicità” della Shoa e di un male considerato “assoluto” da chi si ostinava e si ostina a negare gli orrori del gulag e della repressione staliniana, ovvero di quel “male” di cui parlava l’autore russo nei suoi racconti.

Šalamov, rilasciato nel 1951, avrebbe continuato a lavorare e scrivere nello stesso ospedale, finché, nel 1952, dopo aver spedito alcune sue poesie a Boris Pasternak, avrebbe avuto modo di tornare a Mosca e di conoscere e frequentare, dopo la morte di Stalin nel 1953 e dopo la sua personale riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1956, altri importanti scrittori come Solženicyn e Nadežda Mandel’štam, oltre che lo stesso Pasternak.

Purtroppo il metodo dell’eliminazione dei famigliari e dell’isolamento anche morale dei condannati, tipico dello stalinismo e delle sue crudeli e ferree logiche, avrebbe fatto sì che, al termine della prigionia, l’autore scoprisse che la sua famiglia non esisteva più e che la figlia, ormai adulta, rifiutava di riconoscerlo. Le sue condizioni di salute, nel frattempo, erano talmente peggiorate da far sì che, ormai invalido, gli fosse assegnata una pensione. Soltanto nel 1978, a Londra, sarebbe stata stampata la prima edizione integrale in russo dei suoi racconti, mentre nel 1987, cinque anni dopo la sua morte, l’opera vide la luce anche in Unione Sovietica.

Ci sarebbero ancora tantissime riflessioni e osservazioni da fare, sia sullo scrittore che sui testi appena pubblicati da Adelphi, ma una cosa che vale la pena qui di sottolineare ancora è la vicinanza “morale” tra il testimone della Kolyma e un altro grande scrittore russo caduto in disgrazia durante lo stalinismo e il periodo successivo spacciato per “destalinizzazione”: Vasilij Semënovič Grossman6.

Accomunati entrambi dalle medesima volontà di rintracciare le radici del Bene e del Male in una umanità segnata dall’esperienza dei due più oscuri abissi del ‘900: i lager nazisti e il gulag sovietico. Così, chi qui scrive preferisce lasciare ai lettori la scoperta e l’interpretazione di un libro di cui raccomanda l’imprescindibile lettura, non soltanto per il suo valore letterario, ma anche ai fini della comprensione dei drammi e delle tragedie del XX secolo e della svolta controrivoluzionaria messa in atto dal regime sovietico a partire dalla fine degli anni Venti.


  1. In proposito si veda qui  

  2. Si veda: P. Broué, Comunisti contro Stalin. Il massacro di una generazione, A.C. Editoriale Coop, Milano 2026.  

  3. V. Šalamov, Berzin. Schema di romanzo saggio, p. 327 ora in V. Šalamov, Tra le bestie la più feroce è l’uomo, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 317-329.  

  4. Si vedano, per l’appunto: I racconti della Kolyma [ed. parziale], traduzione di Marco Binni, Collana Biblioteca n.298, Adelphi, Milano, 1995, e successivamente Collana gli Adelphi n.153, Adelphi, Milano, 1999; La quarta Vologda, a cura di Anna Raffetto, Collana Biblioteca n.412, Adelphi, Milano, 2001 e Višera. Antiromanzo, trad. di Claudia Zonghetti, Collana Biblioteca n.560, Adelphi, Milano, 2010,  

  5. V. Šalamov, La Kolyma, p. 163 ora in V. Šalamov, op. cit. pp. 163-305.  

  6. Le cui opere principali sono tutte disponibili nel catalogo Adelphi (tra parentesi l’anno della prima pubblicazione degli stessi nel catalogo della casa editrice milanese). I romanzi: Vita e destino (2008), Tutto scorre (1987), Stalingrado (2022), Il popolo è immortale (2024). Le raccolte di articoli, saggi e racconti: Ucraina senza ebrei (2023), Uno scrittore in guerra (2015), Il bene sia con voi! (2011), La cagnetta (2013) L’inferno di Treblinka (2010).  

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Andare oltre “l’indicibile” https://www.carmillaonline.com/2024/06/18/andare-oltre-lindicibile/ Tue, 18 Jun 2024 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83106 di Sandro Moiso

Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 311, 20,00 euro

“A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato (Rabbi Arnold Jacob Wolf – Yale University)

Ben venga il ritorno nell’attuale panorama editoriale italiano del testo di Norman Finkelstein, già pubblicato da Rizzoli nel 2002. L’edizione attuale è arricchita da un saggio dello stesso autore dal titolo “Neo-anti-semitismo” è davvero così nuovo?, da una postfazione alla seconda edizione e da un’appendice contenente una replica al saggio di Stuart E. Eizenstat intitolato “Imperfect Justice: Looted Assets, Slave Labor [...]]]> di Sandro Moiso

Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 311, 20,00 euro

“A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato (Rabbi Arnold Jacob Wolf – Yale University)

Ben venga il ritorno nell’attuale panorama editoriale italiano del testo di Norman Finkelstein, già pubblicato da Rizzoli nel 2002. L’edizione attuale è arricchita da un saggio dello stesso autore dal titolo “Neo-anti-semitismo” è davvero così nuovo?, da una postfazione alla seconda edizione e da un’appendice contenente una replica al saggio di Stuart E. Eizenstat intitolato “Imperfect Justice: Looted Assets, Slave Labor and the Unfinished Business of World War II”.

Un testo necessario in un momento in cui, a partire dall’operazione condotta dall’Idf nella striscia di Gaza e dal revanscismo dell’ultradestra sionista, qualsiasi critica allo stato di Israele e al colonialismo espansivo sionista è assimilata all’antisemitismo dai gazzettieri di regime e da tutti coloro che ritengono inammissibile l’esistenza di uno stato palestinese indipendente e della stessa resistenza anticoloniale del popolo gazawi.

Il testo non è direttamente collegato agli avvenimenti attuali, ma è ancora utilissimo per destrutturare il discorso sull’Olocausto sviluppatosi non dalle reali sofferenze degli ebrei d’Europa nel corso del secondo conflitto mondiale, ma dalla necessità di rafforzare l’immagine del baluardo costituito da Israele nel medio e vicino oriente a favore degli interessi imperialistici statunitensi e occidentali. Come sostiene l’autore, infatti:

“L’informazione sull’Olocausto”, osserva Boas Evron, rispettato scrittore israeliano, è in realtà “un’operazione d’indottrinamento e di propaganda, un ribollio di slogan e una falsa visione del mondo il cui vero intendimento non è affatto la comprensione del passato, ma la manipolazione del presente”1. […] Due assiomi centrali stanno a sostegno dell’impalcatura ideologica dell’Olocausto: il primo è che esso costituisce un evento storico unico e senza paragoni; il secondo è che segna l’apice dell’eterno odio irrazionale dei gentili nei confronti degli ebrei. Nessuna delle due affermazioni appare in interventi pubblici prima della guerra del giugno 1967, né, per quanto esse siano diventate la pietra angolare della letteratura sull’Olocausto, figurano negli studi critici sull’Olocausto nazista2. D’altro canto, i due assiomi attingono a componenti importanti dell’ebraismo e del sionismo.
Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L’ebraismo americano, in particolare, si diede cura d’inserirlo in un contesto di tipo universalista. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. “La prima e più importante convinzione che emerse dal conflitto del 1967 e che divenne l’emblema dell’ebraismo americano” fu, come ricorda Jacob Neusner, che “l’Olocausto […] era qualcosa di unico, senza paragoni nella storia umana”3. In un saggio illuminante, lo storico David Stannard mette in ridicolo la “piccola industria degli agiografi dell’Olocausto che sostengono l’unicità dell’esperienza ebraica con tutta l’energia e l’ingenuità di zeloti della teologia”2. Il dogma della sua unicità, dopotutto, non ha senso3.

Anche se si potrebbe facilmente provare che «qualunque evento storico è unico, se non altro in virtù del tempo e del luogo in cui accade, e presenta tanto caratteristiche sue proprie quanto tratti comuni ad altri eventi storici. L’anomalia dell’Olocausto consiste nel fatto che la sua unicità è ritenuta assolutamente decisiva […] Come è evidente, i tratti distintivi dell’Olocausto vengono isolati allo scopo di porre l’evento in una categoria completamente separata. »4.

Cosa che si rende particolarmente evidente quando, a causa del furore della difesa dell’unicità dell’Olocausto, si dimenticano gli infiniti tratti di sofferenza e distruzione che potrebbero accomunare il popolo ebraico a quello palestinese proprio in virtù di due tragedie, di fatto, speculari e complementari: la distruzione nazista degli ebrei d’Europa e la Nabka, ovvero la cacciata degli arabi palestinesi dalle loro terre a seguito della prima guerra arabo-israeliana del 19485.

Ebreo americano e figlio di deportati nei campi di concentramento, Norman Finkelstein è uno storico, politologo e attivista statunitense. Ha compiuto i suoi studi alla Binghamton University di New York, all’École pratique des hautes études di Parigi, conseguendo infine un dottorato in Scienze politiche all’Università di Princeton. I suoi principali campi di interesse sono l’Olocausto e il conflitto arabo-israeliano, due temi strettamente intrecciati tra di loro, rispetto a cui si pone in antitesi. Sostenendo, con vigore e onestà, la necessità di liberare la memoria dell’Olocausto dalle distorsioni che la circondano perché il principale pericolo non viene solo dal negazionismo e dal revisionismo, ma anche dai sedicenti guardiani della memoria che hanno fatto dell’Olocausto un unicum che non può essere sottoposto al vaglio critico e storico.

Come è facile immaginare il suo lavoro di ricerca ha solevato, fin dall’inizio, durissime polemiche e accuse nei suoi confronti anche se è vero che:

fino a tempi abbastanza recenti, l’Olocausto nazista era quasi assente dalla vita americana. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e quella degli anni Sessanta, solo un esiguo numero di libri e di film toccò l’argomento e in tutti gli Stati Uniti si teneva un unico corso universitario espressamente dedicato a esso2. Quando, nel 1963, Hannah Arendt pubblicò Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil [La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme] poté attingere solamente a due studi in lingua inglese: The Final Solution [La soluzione finale: il tentativo di sterminio degli ebrei d’Europa, 1939-1945], di Gerald Reitlinger, e The Destruction of the European Jews, di Raul Hilberg3. Lo stesso capolavoro di Hilberg dovette faticare per vedere la luce. Il suo relatore alla Columbia University, l’ebreo tedesco Franz Neumann, studioso di teoria sociale, cercò di dissuadere energicamente Hilberg dallo scrivere sull’argomento (“È il tuo funerale”) e nessuna università o editore tradizionale volle toccare il manoscritto. Quando fu finalmente pubblicato, The Destruction of the European Jews6 ricevette poche recensioni, per lo più critiche.
Non soltanto gli americani in generale, ma anche gli ebrei americani, intellettuali compresi, prestarono poca attenzione all’Olocausto nazista. In un’autorevole indagine del 1957, il sociologo Nathan Glazer riportò che la Soluzione Finale nazista (così come la nascita di Israele) “aveva avuto ben poche ripercussioni sulla vita interiore della comunità ebraica americana”7.

Mentre, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, anche in Israele, come ci ricorda uno dei più importanti scrittori israeliani, in un suo romanzo autobiografico8, i superstiti della Shoa erano guardati con vergogna e sospetto, come se potessero rappresentare una macchia per la narrazione trionfalistica dei successi del sionismo in terra palestinese. Come Finkelstein ancora confida al lettore:

Il mio interesse nei confronti dell’Olocausto nazista prese le mosse da vicende personali. Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento. Tranne loro, tutti gli altri membri dei due rami della mia famiglia furono sterminati dai nazisti. Il mio primo ricordo, per così dire, dell’Olocausto nazista è l’immagine di mia madre incollata davanti al televisore a seguire il processo ad Adolf Eichmann (1961) quando io rientravo a casa da scuola. Anche se erano stati liberati dai campi solamente sedici anni prima del processo, nella mia mente un abisso incolmabile separò sempre i genitori che conoscevo da quella cosa. A una parete del soggiorno erano appese fotografie di parenti di mia madre (nessuna foto della famiglia di mio padre sopravvisse alla guerra). In pratica non riuscii mai a mettere in relazione me stesso con quelle facce, men che mai a immaginare quello che era successo […] Per quanto mi sforzassi, non riuscii mai, nemmeno per un istante, a fare quel salto d’immaginazione che saldava i miei genitori, con tutta la loro normalità, a quel passato. Francamente, non ci riesco neanche ora.
Ma il punto più importante è un altro: se si esclude questa presenza spettrale, non ricordo intrusioni dell’Olocausto nazista nella mia infanzia e la ragione principale sta nel fatto che a nessuno, all’infuori della mia famiglia, sembrava interessare quello che era accaduto. I miei amici di gioventù leggevano di tutto e discutevano appassionatamente degli avvenimenti contemporanei, eppure, in tutta onestà, non ricordo un solo amico (o un suo genitore) che abbia fatto una sola domanda su quello che mia madre e mio padre avevano passato. Non era un silenzio dettato dal rispetto, era semplice indifferenza. Sotto questa luce, non si possono che accogliere con scetticismo le manifestazioni di dolore dei decenni seguenti, quando l’industria dell’Olocausto era ormai consolidata 9.

Forse proprio da questa memoria “personale”, spesso l’unica capace di districarsi tra le maglie dell’ideologia e della retorica istituzionale, deriva la determinazione dello storico ebreo-americano nel sostenere come:

Questo libro si propone di essere un’anatomia dell’industria dell’Olocausto e un atto d’accusa nei suoi confronti. Nelle pagine che seguono, dimostrerò che “l’Olocausto” è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista. Come la maggior parte delle ideologie, mantiene un legame, per quanto labile, con la realtà. L’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe. Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile, grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di “vittima”, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano. […]
A volte penso che la “scoperta” dell’Olocausto nazista da parte dell’ebraismo americano sia stata peggiore del suo oblio. I miei genitori continuavano a ripensarci nel loro privato e la sofferenza che patirono non ricevette pubblici riconoscimenti. Ma non fu forse meglio dell’attuale, volgare sfruttamento del martirio degli ebrei10?

Sullo stesso teme non si è mosso, a livello di indagine, il solo Finkelstein, però.
Anche lo storico e saggista Tom Segev, figlio di profughi tedeschi che vive a Gerusalemme, si è occupato del drammatico incontro tra i superstiti dell’Olocausto e una società, quella del neonato stato di Israele, che andava costruendo se stessa intorno al culto dell’eroismo e dell’”uomo nuovo”ed è andato dimostrando come la pesante eredità della Shoa sia stata manipolata e distorta a scopo ideologico e calcolo politico11.

L’industria dell’Olocausto non indaga soltanto l’uso ideologico fatto dal sionismo colonialista e dallo Stato israeliano, ma anche l’ipocrisia di stati come la Svizzera e gli stessi Stati Uniti nei confronti dello sterminio nazista degli ebrei e dell’uso postumo della memoria di tale evento e dell’appropriazione indebita dei beni degli stessi operata no soltanto dai nazisti.

Finendo col rivelarsi come un’opera che, a distanza di quasi un quarto di secolo dalla sua prima pubblicazione, torna ad esplodere come una bomba tra le mani del lettore, suscitando ancora adesso l’ira di tutti coloro che sulla tragedia dell’Olocausto hanno costruito le basi e la giustificazione delle immani sofferenze di un altro popolo che non ha mai smesso di resistere alla dominazione colonialista, all’ingiustizia e al tentativo di sterminarlo.


  1. B. Evron, Holocaust: The Uses of Disaster, in “Radical America”, luglio-agosto 1983, p. 15.  

  2. J. Neusner (a cura di), In the Aftermath of the Holocaust, vol. II, Gar­land, New York 1993.  

  3. N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 47-48.  

  4. N. Finkelstein, op. cit., p. 48.  

  5. A tale proposito si veda: B. Bashir, A. Goldberg (a cura di), Olocausto e Nabka. Narrazioni tra storia e trauma, Edizioni Zikkaron 2023.  

  6. Oggi disponibile in Italia come R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, 3 voll., Einaudi Editore 2017.  

  7. N. Finkelstein, op. cit., pp. 22-23.  

  8. A. Oz, Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli editore, Milano 2003.  

  9. N. Finkelstein, op. cit., pp. 17-18.  

  10. Ivi, pp. 15-18.  

  11. T. Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Mondadori editore , Milano 2001 (edizione originale 1991)  

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Il trionfo della “società dello spettacolo” e le sue conseguenze https://www.carmillaonline.com/2023/07/24/il-trionfo-della-societa-dello-spettacolo-e-le-sue-conseguenze/ Mon, 24 Jul 2023 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78200 di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 105, 8 euro

Invece di approfittare dell’occasione offerta da un fatto naturale come la morte per trovare il tempo di indagare storicamente le ragioni del successo, tra una fetta significativa dell’elettorato italiano, di un uomo sicuramente discutibile e sopra le righe in ogni sua manifestazione, alcune starlette dell’intellighenzia di “sinistra” continuano a perpetuare il mito di Berlusconi babau con un atteggiamento che, se non affondasse le sue radici nell’ignavia e nell’insipienza di una sinistra perbenista, anonima e amorfa, sembrerebbe sfiorare la psicosi. Prova ne sia un’affermazione come quella contenuta in un numero di luglio del «Venerdì» di Repubblica: “Il berlusconismo è stata la disgrazia più grande”, attribuita a Sabina Guzzanti.

Già, la disgrazia più grande. Così mentre il grande pubblico dello spettacolo mediatico, politico e “culturale”, non ha ancora finito di assorbire il fatto che la Shoa abbia costituito il “male più grande”, ecco che già gli viene propinato un altro villain definitivo, dopo Hitler, Mussolini o chi altro diavolo si voglia. E mentre l’audience viene tenuta in uno stato di costante allerta da una classifica di “disgrazie” che non sembra mai finire, dal Vajont al Covid o alla guerra in Ucraina, un nuovo (?) “urlo di dolore” e moto “di denuncia” inizia a diffondersi per l’aere mediatico. Un’eterna corsa al vaccino definitivo contro i mali causati dalla Destra a livello politico e sociale che, però, non intacca mai la sostanza di una società (quella italiana ma non solo) e di un modo di produzione di cui la stessa Sinistra “criticante” fa parte, condividendone spesso valori e principi, fin da prima della caduta definitiva del fascismo storico.

Hanno fatto dunque benissimo le Edizioni Mimesis a riproporre nella collana “Volti” un testo del filosofo e scrittore italiano Mario Perniola (1941-2018), già precedentemente edito nel 2011: Berlusconi o il ’68 realizzato. Come si afferma nella Nota redazionale che precede l’attuale riedizione:

Il grande filosofo italiano che è stato Mario Perniola ci ha regalato uno stile di pensiero in cui ridere e comprendere vanno a braccetto, in nome di un umano e lucido disincanto del presente. Quando uscì Berlusconi o il ’68 realizzato, imperversavano gli scandali delle “cene eleganti” e vacillava la credibilità internazionale del Paese Italia. […] Allora risultarono quanto mai puntuali queste valutazioni di Perniola sul significato storico delle trasformazioni personificate da Berlusconi nella politica, nella cultura, nei costumi e nella vita sociale del Paese. Ma anche oggi, soprattutto oggi, al termine della parabola biografica dell’uomo di Arcore, l’analisi della rivoluzione spettrale, qui proposta, risulta essere uno dei migliori discorsi di commiato che si possano fare1.

Discorso in cui occorre sottolineare, così come fa Perniola e non soltanto per gusto provocatorio, il ricongiungersi, in maniera sicuramente distorta, nel programma di Berlusconi della gran parte degli obiettivi che caratterizzarono la grande ondata del Sessantotto. Dalla fine del lavoro alla distruzione dell’università e al vitalismo giovanilistico fino al trionfo della comunicazione massmediatica. Una sorta di rinnovato “spirito del capitalismo” cui avrebbero fatto riferimento in seguito Luc Boltanski e Eve Chiapello, annotando: la sua vocazione alla mercificazione del desiderio, soprattutto quello di liberazione, e di conseguenza al suo recupero e inquadramento2.

In attesa dunque di valutazioni storiche e politiche degne di questo nome, che non si basino soltanto su frasi ad effetto e battute salaci che si accontentano soltanto di rovesciare lo stile berlusconiano, in realtà senza negarlo nei fatti ma bensì propagandolo3 ad oltranza, val la pena di riprendere la lettura delle pagine del breve testo di Perniola.

Qui chi scrive si limita a riproporre l’interpretazione di alcuni temi, tra i tanti possibili, che ricollegano la “mancata rivoluzione” del ’68 alle sue conseguenze nei decenni successivi durante i quali, come sempre accade in questi casi, la Rivoluzione fallita si è trasformata in arma della Controrivoluzione e uno dei suoi testi più conosciuti e importanti4 si è tramutato nel possibile manuale d’uso per una concezione spregiudicata, ma tutt’altro che rivoluzionaria, della politica e della comunicazione5. Comparso infatti nel 1967, il testo di Debord affermava che: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale tra persone mediato da immagini». Anticipando di decenni il modo in cui Silvio Berlusconi con Mediaset e Mark Zuckerberg con Facebook e Instagram, per non parlare di tanti altri social media, avrebbero poi portato alle estreme conseguenze i meccanismi dell’alienazione individuale e sociale.

Sul lavoro e il suo rifiuto

Sebbene Berlusconi sia stato lungo tutta la sua vita un lavoratore instancabile, egli ha consentito alla maggior parte dei giovani di realizzare la famosa ingiunzione di Guy Debord (1931-1994) Ne travaillez jamais! (Non lavorate mai!). L’ironia sta nel fatto che ora i giovani vogliono lavorare, anche a condizioni indecenti e vergognose, incredibilmente più alienanti e squalificate di quelle che erano loro offerte negli anni Sessanta e Settanta: allora una vita piccolo-borghese era più o meno garantita a tutti, oggi essa è un sogno irraggiungibile per quanti non hanno alle spalle una famiglia che li aiuti. È come se Berlusconi avesse monopolizzato nella sua persona tutto il lavoro, e lasciato agli altri solo il gioco6.

Sulla cultura e gli intellettuali

Di tutto il culturame (attenzione, questa parola è detta in camera caritatis, cioè non pubblicamente) ce ne freghiamo: però dobbiamo dire che siamo a favore della cultura, della ricerca, dell’innovazione, dell’inglese, di internet, dell’impresa e di quanto ancora suoni alla moda, anche se di tutte queste cose non ce ne importa un fico, perché a farle sul serio, sono troppo care e complicate e lasciano uno spazio troppo ristretto per la corruzione. Le facciano gli americani, che legandole strettamente all’economia aziendale riescono a guadagnarci un sacco di soldi oppure i paesi del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) che essendo in ascesa e avendo tassi di sviluppo notevoli hanno bisogno di creare una borghesia relativamente istruita! […] Mi raccomando poi di non cadere nella trappola di sostenere sul serio i cosiddetti “intellettuali di destra”, perché questi sono molto più pretenziosi di quelli di sinistra, i quali un po’ per partito preso pauperistico, un po’ per demagogia si autodefiniscono “operai della conoscenza” e quindi non hanno più tante ambizioni: basta che fate far loro qualche comparsata gratuita in televisione e pensano subito di essere dei divi e di spezzare il cuore di qualche ragazza, come se le nostre ragazze di oggi avessero un cuore! Se poi sono veramente accro (segnatevi questa parola francese perché nessuno la capisce e quindi fa un certo effetto), voglio dire sono proprio accaniti, come quel tale Saviano o Saviani che dir si voglia, basta che lo inseriate in uno show ricreativo di puro intrattenimento per neutralizzarlo completamente. Lui vuol fare il tragico, ma se lo mettete insieme ai comici, chi si accorgerà della differenza? E poi in Italia la tragedia non ha mai avuto fortuna: sì certo, c’è stato qualche piemontese tragico come Alfieri e Pareyson, ma chi li legge? Servono per fare delle tesi di laurea. Quindi nessuna fatwā contro i Saviani, tanto meno attentati o cose che fanno casino: non dimenticate che spacciandoci per liberisti (mentre è ovvio che siamo monopolisti) dobbiamo anche mostrare di essere liberali e magnanimi. Mica siamo come i russi o i cinesi, che perseguitano i dissidenti! Tanto alla fine quello che dicono o scrivono non ha alcuna effettualità politica e il popolo bue lo si conquista nella campagna elettorale abbassando o eliminando qualche tassa od odioso balzello7.

Sulla dignità

Una parola che ricorre sempre più frequentemente nei discorsi etico-politici è dignità. Questa è diventata uno dei termini chiave della bioetica, nonché il motto in cui si sono riconosciute le rivolte politiche che hanno scosso molti stati arabi, provocando talora la caduta dei governi. In Italia coloro che si sono detti indignati dalla condotta di… sconi (questa volta mi viene in mente solo la parte finale del nome di questa persona), non si contano. Gli studenti che hanno occupato le piazze di alcune città spagnole si sono definiti los indignados. È nato così un Global Indignant Movement che si è manifestato in molti Paesi. La parola dignità ha eclissato altri termini più tecnici del linguaggio politico, come comunità e diritti dell’uomo. In effetti, la prima è caduta nel ridicolo da quando si è cominciato a parlare di una “comunità internazionale” […]. Quanto ai “diritti umani” che costituiscono uno dei cardini della civiltà occidentale, l’uso fazioso e opportunistico che se ne è fatto, li ha svuotati di credibilità […] Ora la domanda cruciale è: possiamo permetterci di essere indignati, se non abbiamo nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia)? Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità? Se non siamo minimamente coerenti con noi stessi ma immersi nel mondo della comunicazione, nel quale tutto si capovolge in tutto? I caratteri fondamentali della comunicazione sono descritti benissimo dagli Stoici sotto il termine di stoltezza. Lo stolto non è uno sciocco, uno stupido, un ottuso ma l’essere umano che, in preda a un continuo turbamento, cambia opinione da un momento all’altro; incapace di stare fermo, corre a precipizio con impeto irrefrenabile verso il primo obiettivo che incontra e si pente con facilità di tutto ciò che ha fatto; incapace di ascolto, parla e agisce in modo inconcludente; inetto a elaborare valutazioni stabili e a compiere scelte irreversibili, salta ora qua ora là, pretendendo di avere e di prendere tutto. La stoltezza non nasce da una mancanza, ma da una deviazione, da una distorsione, da un pervertimento della facoltà razionale. Per essere indignati, bisogna almeno avere coraggio, cioè pazienza, perseveranza, magnanimità e magnificenza (Tommaso d’Aquino dixit). Noi italiani (e forse noi occidentali), siamo troppo deboli per permetterci di essere indignati8.


  1. Nota redazionale a M. Perniola. Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2022, pp. 7-8  

  2. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014  

  3. Si veda quanto già scritto qui  

  4. Guy Debord, La società dello spettacolo, SugarCo Edizioni, Milano 1990.  

  5. Si veda: Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo. Storia critica dell’Internazionale Situazionista 1957-1972, Mimesis Edizioni, 2017.  

  6. Non lavorate mai! in M. Perniola, op. cit., p. 21  

  7. Gli intellettuali da nona categoria puzzolente a spina dorsale della nazione in M. Perniola, op. cit., pp. 64-67  

  8. Possiamo essere indignati? In M. Perniola, op. cit., pp. 95-99  

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Il grande nulla * https://www.carmillaonline.com/2020/02/04/il-grande-nulla/ Tue, 04 Feb 2020 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57755 di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. (La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e [...]]]> di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
(La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e non è mai morto, l’informazione mainstream, le frange superstiti di partiti ormai morti o in via di estinzione e anche alcuni siti che si vorrebbero antagonisti hanno esultato per la vittoria elettorale dell’”antifascismo”.
Una sorta di rivincita da campionato regionale su un avversario (le cui miserabili imprese politiche ed iniziative securitarie sono state già abbondantemente raccontate e vivisezionate sulle pagine di Carmilla da Alessandra Daniele) che come tattica elettorale, oltre al discorso securitario cucinato in ogni possibile salsa, ha avuto quella di baciare salumi e formaggi e andare a suonare i citofoni degli stabili di periferia, come un monello destinato prima o poi ad essere preso a sberle da qualche inquilino indispettito.

Ma si gongola anche qui e là per la vittoria del rappresentante di un partito che da anni ha fatto del mantenimento dell’ordine pubblico e della stabilità finanziaria la sua unica ragione di vita (e che senza vergogna sta al governo con chi ha precedentemente avvallato tutte le mosse di cui oggi il leader della destra è accusato). Si festeggia, inoltre, la scomparsa di un movimento (fondato da un comico e finito in farsa) nel quale molti dei critici odierni avevano precedentemente creduto, rivelando così, complessivamente, una cecità politica e una visione perbenista della realtà che non sa più assolutamente distinguere il grano dalla pula, la realtà dalla fantasia, il risotto dalla merda e, soprattutto, ciò che serve a liberare il pianeta e la specie dall’oppressione del modo di produzione più vorace e distruttivo che sia mai esistito.

Sì, cari lettori e compagni, perché ancora una volta non è stato l’antifascismo a vincere. Quello è stato sapientemente sbandierato da sardine e soci soltanto per nascondere il fatto che la scelta elettorale era tutta all’interno dello stesso campo.
Il campo giustizialista e securitario di chi suona ai citofoni e minaccia i migranti e quello di chi chiede un’identità digitale per accedere ai social e il daspo per chi non rispetta le regole del dialogo civile definite dall’ordine borghese.
Il campo della violenza organizzata delle squadre fasciste e delle ronde anti-migranti e della violenza di Stato che garantisce il dis/ordine pubblico nelle piazze e nei centri di detenzione attraverso la militarizzazione dei territori e del tessuto urbano.
Il campo della “giustizia” che reprime i sindacati di base e i lavoratori in lotta, i difensori della terra e delle comunità locali e sulla quale gli “antifascisti” vincitori non hanno nulla da dire, ma con il quale hanno molto da condividere (scusate se non ricordo, ma chi era il sindaco di Bologna definito lo sceriffo e a quale partito apparteneva?).

Il campo delle grandi opere inutili e dannose al Nord come al Sud (la prima dichiarazione della candidata del centro destra, dopo la vittoria in Calabria, ha riguardato la necessità di portare anche lì l’alta velocità ferroviaria, confermando così di fatto gli interessi della ‘ndrangheta nelle grandi opere, dalla Valsusa al resto del paese).
Il campo di chi reprime i migranti internandoli nei campi libici oppure negando loro lo sbarco sulle nostre coste oppure, ancora, trasformandoli in schiavi per il lavoro nero (soprattutto nell’edilizia e nei campi).
Il campo degli interessi incrociati tra aziende private, cooperative e finanza ed imprese edili di origine illegale.
Il campo dell’estrattivismo dichiarato, a favore delle trivelle nell’Adriatico e degli interessi dell’ENI.
Il campo di chi si affanna ad equiparare la violenza verbale a quella fisica, salvo poi voltarsi dall’altra parte quando i manganelli scendono pesantemente sulle schiene e sulle teste dei manifestanti contrari all’ordine esistente. Oppure di chi non sa cogliere nemmeno lontanamente l’enorme ingiustizia e la violenza insite nei licenziamenti individuali e di massa e nei rapporti di lavoro definiti dalle aziende, multinazionali o nazionali che siano, in nome del profitto e dell’estrazione selvaggia di plusvalore.
Il campo di chi non sta con le lotte, ma con gli imprenditori.
Il campo di chi si crede il mare, ma è soltanto una palude.

Ho sentito parlare di buon governo della regione “rossa”: certo il buon governo del capitalismo ben temperato di prodiana memoria1, in cui dalla collaborazione tra privato e pubblico può sorgere il “radioso avvenire” di una società capitalistica avanzata e magari green.
Il buon governo della triplice sindacale che vota favorevolmente per le grandi opere in nome del lavoro salariato e degli interessi delle azienda e delle coop rosse e bianche oppure, ancor meglio, della Nazione. Buon governo che, però, non sembra aver toccato o convinto tutti allo stesso modo (qui).

No, non è così che si vince il fascismo. Come già sapevano i migliori compagni comunisti, anarchici e antifascisti negli anni ’20 e ’30,2 la cui esperienza fu cancellata dalla controrivoluzione staliniana e dalla carneficina del secondo conflitto mondiale, il fascismo si batte soltanto vincendo sul capitalismo e superando proprio i limiti del dettato nazionale, aziendale, produttivistico e lavoristico su cui fonda il suo discorso. Di cui però gli attuali, momentanei, vincitori della schermaglia elettoralistica sono tra i migliori ed agguerriti rappresentanti.

Un vecchio comunista italiano, Amadeo Bordiga, affermava che chi vuol essere progressista dovrebbe avere almeno il coraggio di dichiararsi fascista, poiché proprio l’idea di progresso, tipica di questo modo di produzione oggi fallimentare in tutti i campi, fin dalle sue origini ha avuto come corollari il rafforzamento degli stati nazionali, il governo dei loro confini, lo sfruttamento in casa e fuori della manodopera schiavizzata nelle fabbriche e nei campi. Qualunque fosse il colore della pelle e a qualsiasi latitudine appartenessero gli imprenditori e i governanti.

Il capitalismo industriale è nato in carcere3 e il fascismo ne ha sempre esaltato le funzioni. Sia dell’uno che dell’altro.
Nazionalizzare le masse, questa la funzione del fascismo (il razzismo, che non può essere ridotto al solo anti-semitismo che è molto più antico, ne costituisce solo uno dei corollari, non il fondamento, poiché nacque con il colonialismo che avrebbe posto le fondamenta dell’attuale immondo modo di produzione)4. Rendere i cittadini tali in quanto orgogliosi del proprio (buon) governo e solidali con gli interessi del capitale e dell’imperialismo.
Non membri di una comunità umana, la marxiana gemeinwesen, di eguali sia dal punto di vista sociale che economico, ma partecipi di una comune fortuna di cui pochi, sempre meno visto che gli italiani più abbienti oggi detengono il 72% della ricchezza nazionale mentre a livello mondiale 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale5, detengono i rubinetti e il patrimonio globale.

Esaltare il lavoro produttivo e la “vittoria” sulla Natura sono altri due aspetti immarcescibili del fascismo e sono entrambi, ullallà, derivati dall’idea di progresso figlia dell’Illuminismo ben pensante e moderato.
Atteggiamenti moderati nei rapporti politici tra le classi, ma smoderati nel consumo di risorse, territori, merci e forza lavoro. Tanto da dimenticare sempre più spesso, nell’attuale gozzovigliare alla tavola della shoa, che i lager nazisti come i gulag staliniani furono sempre e prima di tutto campi di lavoro forzato. In cui “naturalmente” milioni di individui di qualsiasi fede, etnia, nazione, genere ed età sarebbero morti prima di tutto per la fatica, la fame e le malattie. Esattamente come capita ancor oggi, a cielo aperto e senza SS a far la guardia, in tante, troppe parti del mondo.

Esaltare l’ordine e zittire le voci “altre”, contrarie oppure solo critiche del regime è l’altra pratica del Fascismo, che affonda però le sue radici in tutta la Storia di un mondo diviso in classi fin dall’avvento della proprietà privata e che fa delle maggioranze silenziose il proprio ideale di partecipazione politica. Esattamente come possono esserlo le folle che cantano inni patriottici e inneggiano alla figura del Capo nelle adunate di piazza a sostegno di un regime (o di un movimento che ha nel non aver nulla da dire sulla realtà delle contraddizioni economiche e sociali reali la sua unica arma di distrazione di massa).

Pesci in barile, citofonatori e mortadelle benedette non rappresentano dunque altro che le due facce di una stessa medaglia, di uno stesso ordine. Così come lo erano i 5 stelle di qualche anno fa (con l’unica differenza che oggi la rabbia non deve essere nemmeno manifestata o sussurrata, per rispetto del borghesissimo bon ton).
Non vale neppure la pena di far nomi in queste considerazioni, non per timore di denunce o intimidazioni, ma soltanto perché tutti questi miserrimi soggetti, che nascondono la realtà di contraddizioni e di lotte che ci circondano in ogni dove e che in alcuni casi si affannano a definire come “ondata di destra a livello mondiale” (mescolando insieme gilets jaunes e Orban, lotte sociali ed ignobili episodi di razzismo delle periferie che sono in subbuglio senza neanche comprendere appieno il perché) le lotte, spesso sanguinose, che si sviluppano in ogni dove, sono già destinati all’oblio anche se oggi, dando per un momento ragione a Andy Warhol, hanno avuto modo di brillare come meteore per un istante o ancor meno.

I tempi della Storia, invece, sono molto lunghi. Il capitalismo non è stato mai ben temperato se non sulla pelle di qualche popolo o continente dominato e sfruttato per qualche decennio. In questa fasulla modernità la sua anima resta fascista e oggi, ancora una volta, sia in Calabria che in Emilia Romagna, ha comunque vinto il nostro peggior nemico. Quello con cui non possiamo esser altro che in guerra. Perché il dovere di combatterlo ci apparterrà sempre.
Fino alla morte o alla vittoria.

Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che oblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
(G. Leopardi – La ginestra)

* In omaggio a James Ellroy e alla sua nerissima e spietata Storia degli Stati Uniti dal secondo conflitto mondiale agli anni ’70. Una tecnica letteraria (l’abbinamento tra crimine e storia americana) perfetta per raccontare efficacemente la contemporaneità e i suoi sottoprodotti sociali, politici e culturali.


  1. Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino, Bologna 1995  

  2. Si veda almeno Arthur Rosenberg, Il fascismo come movimento di massa. La sua ascesa e la sua decomposizione (1934), Circolo Internazionalista Francesco Misiano – Pagine Marxiste, 2019 che sarà recensito nei prossimi giorni su Carmillaonline  

  3. Si veda Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Oscar Studio Mondadori, 1982  

  4. Per un’analisi delle origini del razzismo moderno e della cultura che lo ha fondato, basati entrambi tanto sull’ammirazione acritica della cultura greco-romana quanto sull’idea, mai dimostrata, dell’esistenza di una comune radice indoeuropea “bianca”, si veda Martin Bernal, Atena Nera, il Saggiatore, Milano 2011  

  5. “Alla fine del primo semestre del 2018 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 8.760 miliardi di euro, registrando un aumento di 521 miliardi in 12 mesi) vede il 20% più ricco degli italiani detenere il 72% della ricchezza nazionale, il successivo 20% controllare il 15,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero appena il 12,4% della ricchezza nazionale. Il top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.” (qui)  

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Democrazie genocidarie https://www.carmillaonline.com/2019/06/27/democrazie-genocidarie/ Wed, 26 Jun 2019 22:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53121 di Sandro Moiso

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, pp. 424, 24,00 euro

In tempi in cui il dibattito politico-culturale ufficiale tende a ridurre il problema del genocidio al tema, fin troppo abusato, della shoa oppure, in chiave minore, a quello sollevato dal Tribunale dell’Aja sui massacri avvenuti in Bosnia a danno delle popolazioni di fede islamica, le novità connesse all’impostazione data da Leonardo Pegoraro alla sua ricerca, appena pubblicata da Meltemi, sulla distruzione dei popoli indigeni dell’America [...]]]> di Sandro Moiso

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, pp. 424, 24,00 euro

In tempi in cui il dibattito politico-culturale ufficiale tende a ridurre il problema del genocidio al tema, fin troppo abusato, della shoa oppure, in chiave minore, a quello sollevato dal Tribunale dell’Aja sui massacri avvenuti in Bosnia a danno delle popolazioni di fede islamica, le novità connesse all’impostazione data da Leonardo Pegoraro alla sua ricerca, appena pubblicata da Meltemi, sulla distruzione dei popoli indigeni dell’America Settentrionale, dell’Australia e della Nuova Zelanda, potrebbero rivelarsi di estrema importanza sia sul piano storico che su quello della riflessione politica e culturale.

Nonostante il fatto che Franco Cardini, nella sua introduzione al testo, tentando di superare alcuni schemi ormai considerati fisiologici della rilettura del ‘900 sulla base dei regimi totalitari e genocidari (Nazismo e shoa – Stalinismo/bolscevismo e gulag), cerchi di far rientrare il problema all’interno di una rilettura dei fenomeni sopracitati in una più ampia (e scivolosa) tendenza della specie e delle società umane a distruggere, da sempre, i propri simili, finendo così col sostituire il male assoluto rappresentato nell’immaginario contemporaneo dalla shoa con una sorta di male assoluto insito nel profondo delle società umane fin dalle loro origini più antiche, l’autore non ha dubbi nel sostenere che il genocidio è alla base del trionfo economico e coloniale di alcune delle società considerate liberal-democratiche per eccellenza: quelle anglosassoni rappresentate dallo sviluppo dell’impero britannico e del suo Commonwealth, da un lato, e degli Stati Uniti, dall’altro.

Già in passato, autori come Andrzej Kaminski avevano cercato di allargare il tema oltre la shoa e il gulag almeno fino allo schiavismo ottocentesco, ma senza mai uscire dalla logica dei campi di concentramento, prigionia e lavoro coatto1, mentre invece la ricerca di Pegoraro, che coordina attività di ricerca presso la Monash University di Melbourne e collabora a riviste scientifiche quali Settler Colonial Studies e International Critical Thought, accentrando l’attenzione sul problema della distruzione recente dei popoli indigeni del continente nord-americano e dei territori australi non si preoccupa di affondare le mani in una storia di sangue, soprusi, violenze e massacri che non hanno avuto altra giustificazione che non fosse quella di sgombrare il campo da società e individui ritenuti “inferiori” che ostacolavano il cammino del progresso economico moderno e della civiltà occidentale mercantile, bianca e cristiana.

Se nella prima parte, infatti, l’autore si interroga sui significati attribuiti al termine genocidio e sull’effettiva “unicità” dell’Olocausto ebraico, nella seconda, una volta giunto alla definizione di democrazie genocidarie per indicare le forme di governo che, pur distanti dall’esser totalitarie, hanno contribuito in maniera massiccia e spietata al massacro di milioni di esseri umani caratterizzati soltanto da un diverso colore della pelle e da un diverso approccio culturale ai modi della sopravvivenza umana nell’ambiente che li circondava, scoperchia un autentico vaso di Pandora di furia e violenza, descrivendo dettagliatamente come tali olocausti altri furono condotti e motivati.

A partire dall’annientamento di una “razza esecrabile” come quella dei nativi nord-americani condotta con scotennamenti (premiati), cani, diffusione dell’alcolismo e del vaiolo che caratterizzarono la guerra contro gli “spietati indiani selvaggi”, Pegoraro ci conduce attraverso le marce della morte volute dal presidente Jackson per trasferire le tribù dai loro territori ad altri che poi gli furono ancora tolti in seguito (come l’Oklahoma). Ci fa assistere alle politiche di “spidocchiamento” delle Grandi Pianure e ai massacri avvenuti in quello che sarebbe diventato lo Stato più ricco dell’Unione: la California.

Ma non bastarono armi, malattie e spostamenti forzati, no.
Fu l’educazione forzata dei bambini a costituire uno strumento insostituibile per la distruzione della resistenza dei popoli indigeni, sia negli Stati Uniti che in Canada.
“Uccidi l’indiano, salva l’uomo” sembra essere lo slogan ideale per rappresentare un’educazione autoritaria e micidiale destinata a sradicare dai più giovani, spesso con violenze e abusi, l’anima “primitiva” e ribelle con una più “civilizzata” e accondiscendente.

In Canada tale distruzione “educativa”, le cui conseguenze fisiche e psichiche hanno iniziato ad essere riscoperte soltanto da pochi decenni a questa parte e il cui motto sembra essere stato “l’unico indiano buono è il non-indiano”, è passata attraverso la deportazione e l’internamento dei piccoli discendenti delle tribù originarie, la morte di numerosi di loro per i maltrattamenti o le scarse cure prestate, le sevizie fisiche e mentali cui furono sottoposti spesso negli istituti educativi religiosi e “caritatevoli”. Fino al reale impedimento di procreare indotto in loro con le minacce, la forza oppure attraverso la demonizzazione delle più naturali attività sessuali connesse alla sopravvivenza della specie. Nel caso del Canada, poi, furono anche i Francesi a metterci lo zampino, per tramite dei Gesuiti che fin dal XVII secolo si dedicarono all’opera di “conversione” delle popolazioni indigene2 .

Ma ancor peggio, forse, andarono le cose per gli aborigeni del continente australiano, dove la progressiva colonizzazione “bianca” e britannica (considerato che la maggioranza dei coloni era rappresentata da individui di origine inglese, irlandese, gallese o scozzese, spesso deportati a forza in quel continente lontano), distrusse e annientò quasi del tutto le popolazioni eora, darug, wiradjuri e i cosiddetti “diavoli neri” della Tasmania.

Diavoli, selvaggi, pidocchi: tutti termini che inducevano un’idea di male, di inciviltà e di sporcizia.
Qualcosa che i veri cristiani, i veri uomini civili, i veri portatori del progresso dovevano distruggere: pena la sconfitta del bene, dei valori universali del liberalismo europeo e dello sviluppo economico. Qualcosa che, a ben vedere, troviamo ancora nel “diritto penale del nemico” odierno e nell’educazione trasmessa da tutti gli ordini di scuola, statali, private o religiose che siano, ancora oggi. Anche qui da noi, come nel ’68 si seppe così ben riconoscere in una struttura educativa che rimaneva comunque parte di un sistema concentrazionario dal punto di vista politico e culturale.
Vogliamo dire di classe, per cancellare ogni dubbio dalle anime belle che ancora si peritano di illustrarci come una buona e diffusa educazione sia il fulcro della formazione del buon cittadino democratico?

Ultima, ma non per importanza, viene l’esperienza dei popoli indigeni della Nuova Zelanda.
Quanto sangue è scorso nei fiumi e quanto ha impregnato la terra della Nuova Zelanda prima che la Haka, la danza tipica dei popoli Maori, diventasse famosa precedendo le partite degli All Blacks? Questa mostruosa finzione di riconoscimento di una cultura altra, viene dopo le autentiche guerre genocidarie condotte contro gli indigeni dai coloni e dalle truppe che ne avevano invaso i territori.

Distrutti e sconfitti, nonostante le rivolte, i discendenti dei superstiti sono stati assimilati fino all’invenzione di una possibile provenienza ariana dei popoli originari neozelandesi. In un contesto in cui la ricerca storica, linguistica e scientifica, hanno messo in dubbio da tempo la stessa esistenza di una “stirpe” ariana. Come sostenne già, più di trent’anni fa, il sinologo Martin Bernal, nel suo fondamentale Atena Nera, collegando il mito dell’arianesimo e dell’esistenza dell’indoeuropeo all’espansione coloniale europea, soprattutto britannica nel corso del XIX secolo3 .

Alla fine il mito ariano, uscito apparentemente dalla porta, rientra sempre, dalle finestre o dalle feritoie della Storia e della cultura politica. Cosicché quest’opera fondamentale ha il merito enorme di rivelare definitivamente come tra democrazie liberali e totalitarismi il passo sia breve, anzi come l’unica vera differenza consista tra chi vince le guerre e possa in seguito definire le colpe dei “malvagi” sconfitti.

In fin dei conti fascismo e liberalismo potrebbero poi non essere così distanti come si cerca di far credere e, di conseguenza, Hitler ed Auschwitz potrebbero non essere altro che la realizzazione piena delle promesse insite nel progresso liberale e del modo di produzione capitalistico. E delle loro reali conseguenze per i lavoratori e la specie umana.
Un dovuto ringraziamento va dunque a Leonardo Pegoraro per averci fornito gli strumenti per poter affermare ciò con più argomenti e convinzione nel corso delle battaglie future per la liberazione della specie e del pianeta da un modo di produzione e di governo delle risorse sempre più iniquo e distruttivo.


  1. Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1997  

  2. Si legga in proposito il romanzo, di William T. Vollmann, Venga il tuo regno, pubblicato da Alet (Padova 2011) e che costituisce il secondo dei Sette sogni – Un libro di paesaggi nordamericani attraverso i quali l’autore ha inteso ricostruire la storia della conquista e colonizzazione del continente nordamericano.  

  3. M. Bernal, Atena nera. Le radici asiatiche delle società classiche, il Saggiatore, Milano 2011, edizione originale 1987  

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Vivere per raccontare: Primo Levi https://www.carmillaonline.com/2018/02/28/vivere-raccontare-primo-levi/ Wed, 28 Feb 2018 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=43891 di Sandro Moiso

Ian Thomson, PRIMO LEVI. Una vita, UTET 2017, pp. 806, € 35,00

Non costituirà forse l’opera definitiva su Primo Levi quella appena tradotta dall’originale inglese del 2002, ma sicuramente l’immensa mole di materiali raccolti da Ian Thomson, nel corso di una ricerca durata cinque anni, permette al lettore di penetrare, come non era mai capitato prima, in quella fabbrica della memoria e della narrazione che ha fatto dell’ex-prigioniero numero 174517 di Auschwitz uno dei maggiori autori italiani del secondo ‘900.

Il termine “fabbrica”, più ancora che “officina” o “laboratorio” di solito utilizzati per definire il luogo [...]]]> di Sandro Moiso

Ian Thomson, PRIMO LEVI. Una vita, UTET 2017, pp. 806, € 35,00

Non costituirà forse l’opera definitiva su Primo Levi quella appena tradotta dall’originale inglese del 2002, ma sicuramente l’immensa mole di materiali raccolti da Ian Thomson, nel corso di una ricerca durata cinque anni, permette al lettore di penetrare, come non era mai capitato prima, in quella fabbrica della memoria e della narrazione che ha fatto dell’ex-prigioniero numero 174517 di Auschwitz uno dei maggiori autori italiani del secondo ‘900.

Il termine “fabbrica”, più ancora che “officina” o “laboratorio” di solito utilizzati per definire il luogo ideale della scrittura e dell’elaborazione delle opere di un autore, serve proprio a sintetizzare una vita e un’opera che con l’istituto tipico dell’economia e del modo di produzione capitalistico hanno condiviso anni, riflessioni, preoccupazioni e immaginario. Sia in libertà che sotto il regime oppressivo e massacratore dei campi di lavoro e sterminio messi in essere dal Nazismo e dall’industria tedesca nel corso del secondo conflitto mondiale.

Levi il “chimico prestato alla scrittura”, come egli stesso si definiva, fu infatti fortemente segnato dall’esperienza del lavoro organizzato e disciplinato degli stabilimenti sia dell’IG Farben della Buna di Auschwitz, dove lavorò come chimico grazie alla sua specializzazione e alla sua conoscenza della lingua tedesca, che della fabbrica di vernici Siva di Torino, dove rivestì prima l’incarico di direttore tecnico e successivamente quello di direttore generale fino alla sua decisione di lasciare il lavoro.

Lavoro che entrerà più volte nella vita e nell’opera dello scrittore sia come ricordo che come materiale per i racconti di La chiave a stella. Lavoro visto come orgogliosa espressione di un’autentica vita activa, unica vera fonte di ispirazione possibile per le “creazioni” di un autore secondo Levi, ma anche come preoccupazione o addirittura ostacolo alla piena realizzazione della sua attività di letterato e scrittore. Una contraddizione che, come molte altre, percorrerà e sarà presente in tutta la carriera di Primo Levi.

Ian Thomson, reporter, traduttore e critico letterario inglese che collabora con giornali e quotidiani quali “The Observer”, “The Spectator”, “The Guardian”, “The Finacial Times”, “The Telegraph”, “The Times Literary Supplement” e “The London Review of Books” oltre ad essere membro della Royal Society of Literature e docente di Creative Non-fiction all’università dell’East Anglia, segue il filo della vita dell’autore italiano mentre si dipana tra il lavoro di fabbrica, sia coatto che libero, e lavoro creativo fortemente influenzato da ciò che Levi pensava dovesse essere il dovere di chi era sopravvissuto ai lager: “Per molti di noi la speranza di sopravvivere si identificava con un’altra speranza più precisa: speravamo non di vivere e raccontare, ma di vivere per raccontare. E’ il sogno dei reduci di tutti i tempi. E del forte e del vile, del poeta e del semplice […] Era chiaro a ognuno di noi che le cose che avevamo viste dovevano essere raccontate, non dovevano essere dimenticate. […] Ognuno di noi reduci, appena ritornato a casa, si è trasformato in un narratore infaticabile, imperioso, maniaco”.

Tutto questo era premesso in una Nota alla versione teatrale di Se questo è un uomo che fu rappresentata per la prima volta a Torino nel 1966, la cui origine e realizzazione, fino alle sue alterne fortune di critica e di pubblico, sono ricostruite, insieme alle aspettative e alle preoccupazioni di Levi in proposito, da Thomson nel diciassettesimo capitolo della biografia.
Capitolo che da solo basterebbe già a sintetizzare le alterne fortune e i grandi riconoscimenti di critica e di pubblico che accompagnarono sempre, o almeno fino a quando fu in vita, le opera dello scrittore torinese.

Per brevità necessaria ad una recensione è impossibile qui anche solo riassumere le vicende che accompagnarono la pubblicazione degli scritti di Levi, fin da quel 1947 in cui la sua prima, straordinaria opera autobiografica fu rifiutata da tutti gli editori cui venne proposta e infine pubblicata da un piccola casa editrice torinese, la “Francesco Da Silva”, messa in piedi da Franco Antonicelli, ex-presidente del CLN piemontese e uomo di grande cultura.
Soltanto nel 1958, infatti, Se questo è un uomo divenne uno dei cavalli di battaglia della casa editrice Einaudi che avrebbe poi contribuito a promuoverlo come uno dei classici della letteratura italiana del ‘900. Da quello stesso anno tutte le opere di Primo Levi sarebbero state pubblicate dalla prestigiosa casa editrice torinese, anche se i rapporti tra lo scrittore, uomo colto ma piuttosto comune nelle sue abitudini, e l’editore Giulio Einaudi, dai modi aristocratici e dai gusti raffinati, non sarebbero mai stati molto stretti e intimi.

Più importante è forse la ricostruzione delle frequentazioni e delle amicizie di Levi che vedevano al primo posto, e in alcuni casi fin da prima della guerra, personaggi importantissimi ma poco appariscenti come Bianca Guidetti Serra, Alberto Salmoni, Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern, solo per citarne alcuni, e in un secondo tempo altri quali Leonardo Sciascia (anche se i due non si sarebbero mai incontrati fisicamente), Italo Calvino e molti altri ancora, sia italiani che stranieri.

Frequentazioni ed amicizie che poco, comunque, avrebbero potuto fare per salvare Levi da se stesso o, almeno, da quelle forme depressive che lo accompagnarono per molti anni, fino al suicidio avvenuto l’11 aprile 1987. Proprio nell’anniversario della sua liberazione dal campo di Auschwitz, l’11 aprile 1945. Quanto tutto questo fosse legato alla memoria di essere un ”salvato”, un sopravvissuto, rimarrà a lungo tema di discussione, ma rimane indiscutibile il fatto che la sua ultima opera pubblicata mentre era ancora in vita sia stata dedicata proprio allo stesso argomento, come recita fin dal titolo: I sommersi e i salvati.

Poeta, memorialista, saggista, autore di romanzi, scrittore di racconti di lavoro e di fantascienza, Primo Levi fu anche sempre estremamente attento al destino e alle scelte dello stato di Israele, che egli visitò una sola volta e in cui la sua opera principale fu pubblicata soltanto un anno e mezzo dopo la sua morte, nel 1988. Paese di cui, dopo aver apprezzato l’utopia e la sorgente socialista delle origini, Levi non poté fare a meno di diventare critico della politica sionista condotta nei confronti dei palestinesi.

In particolare nel corso della guerra in Libano del 1982 quando, ulteriormente inorridito dalla strage di palestinesi operata a Sabra e Shatila dagli uomini delle le milizie cristiano-falangiste con la complicità dell’esercito israeliano, avrebbe pubblicamente perorato la richiesta di dimissioni del premier israeliano Begin. “Dal punto di vista di Levi, ciò che era imperdonabile nel primo ministro Begin era il suo ricorso al mito degli ebrei come vittime dei nazisti per giustificare il proprio militarismo e le violenze inflitte ai palestinesi”1

La presa di posizione dell’autore suscitò indignazione nella comunità ebraica più conservatrice e gli procurò anche alcune dolorose fratture nell’ambito delle sua amicizie, ma sicuramente la difesa di Israele come luogo di rifugio quasi utopico per gli scampati alla Shoa operata da Levi non avrebbe mai accettato di piegarsi alle logiche imperialistiche di quello Stato, messe in atto dai suoi governanti e dai suoi eserciti e che in una intervista di quei giorni ebbe a paragonare alla campagna militare inglese nei confronti delle Isole Falkland che si svolse proprio in quello stesso anno.

Nato nel 1919 da una famiglia di origine sefardita, trasferitasi in Piemonte, come molte altre dopo la cacciata dalla Spagna riconquistata dai re cattolici, che dopo un primo momento di opportunistica liberalità concessa agli inizi dai Savoia aveva avuto modo di conoscere sia il ghetto che varie altre vicende di oppressione politica e d economica, Levi preferirà sempre l’ebraismo della diaspora a quello dello Stato nazionale, riconoscendo soltanto nel primo, pur rimanendo rigorosamente ateo e non praticante, l’anima autentica della cultura ebraica: cosmopolita e aperta alla comprensione dell’altro. Tranne per i persecutori ed autori della shoa per i quali non ammise mai qualsiasi forma di perdono.

Ian Thomson attraverso un’attenta ricerca sui testi, articoli di giornale, fonti di archivio e, soprattutto, attraverso più di 300 testimonianze dirette raccolte nel corso del suo lungo lavoro testimonia il travaglio di una vita. Dalle origini alla morte, di un autore che pur avendo un rapporto contraddittorio con Kafka, di cui fu traduttore dell’opera più complessa e disumana (Il processo), e Leopardi, di cui forse non riconobbe il materialismo, finì col condividere con gli stessi una visione cupa e pessimistica del suo tempo e del divenire della società umana. Purtroppo confermata dalle politiche e dalle scelte sociali ed economiche messe in atto dai governi degli ultimi decenni.

Come scrisse nella prefazione del 1972 dedicata ai giovani lettori dell’edizione scolastica del suo capolavoro:

“Risulta dalle stesse pagine di questo libro quale intimo rapporto legasse l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager: non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e allo stesso tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere ed i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale ed accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su du essi; erano una istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata e, da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse. Si prospettava apertamente un Ordine Nuovo su basi «aristocratiche»: da una parte una classe dominante costituita dal Popolo dei Signori ( e cioè dei tedeschi stessi), e dall’altra uno sterminato gregge di schiavi, dall’Atlantico agli Urali, a lavorare e obbedire. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo; la consacrazione del privilegio, l’instaurazione definitiva della non-uguaglianza e della non-libertà.”

Sono passati più di settant’anni dalla caduta “formale” del fascismo, eppure se ci guardiamo intorno, possiamo ancora riconoscerci nelle parole che Levi aggiungeva poche righe dopo:

“Soprattutto, non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere un Ordine Nuovo. Non ha mai rinnegato i Lager nazisti, anche se spesso osa metterne in dubbio la realtà.” 2

Forse, e questo è un appunto non del tutto secondario, la traduzione italiana dell’opera avrebbe dovuto rivedere ed integrare quelle parti in cui i giudizi e i riassunti della situazione sociale e politica italiana dagli anni sessanta agli anni settanta e ottanta avrebbero potuto e dovuto essere più ponderati e meno superficiali. Basti per tutti dire che nel testo le vittime dell’attentato di Piazza Fontana risultano essere dei passanti e che gli attentati che precedettero la strage che diede “ufficialmente” il via alla strategia della tensione vengono definiti come “bombette”.

Levi non ne sarebbe stato contento, non per motivi ideologici o politici, ma soprattutto per l’onestà e la precisione, la chiarezza e lo stile asciutto che sempre hanno caratterizzato i suoi scritti che lo annoverano sicuramente tra i più importanti scrittori e testimoni italiani del secondo ‘900. Insieme a Beppe Fenoglio, Leonardo Sciascia e Italo Calvino che, in modo e ambiti diversi, si mossero nella stessa direzione. Una lezione di memoria, storia e letteratura da parte di un autentico profeta del nostro tempo di cui abbiamo ancora bisogno. Soprattutto oggi.

Si segnala che l’autore, Jan Thomson, sarà presente a Milano, per un incontro con il pubblico, sabato 10 marzo alle ore 19 (Sala bianca) in occasione della manifestazione Tempo di libri, Fiera internazionale dell’editoria.


  1. Ian Thomson, Primo Levi, pag. 580  

  2. P. Levi, Se questo è un uomo, Prefazione 1972 ai giovani, Edizioni scolastiche Einaudi, pp 5-7  

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Una cronaca dei tempi dell’ISIS https://www.carmillaonline.com/2015/01/29/una-cronaca-dei-tempi-dellisis/ Wed, 28 Jan 2015 23:01:49 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20219 di Sandro Moiso

isis Da più di trent’anni i miei destini sono legati a quelli degli ISIS, Istituti Statali di Istruzione Superiore. La vicinanza della sigla a quella dell’attuale Islamic State of Irak and Syria è casuale e devo dire che se anche la seconda sigla è sbandierata come simbolo di terrore universale, la prima ha visto scorrere una gran parte della mia vita. Non sempre la peggiore.

Anzi, devo dire che se ancora non ho fatto la scelta nomade di andare a vivere sotto i ponti di Parigi, che mi attirano più delle grandi piazze adibite ad oceaniche manifestazioni [...]]]> di Sandro Moiso

isis Da più di trent’anni i miei destini sono legati a quelli degli ISIS, Istituti Statali di Istruzione Superiore. La vicinanza della sigla a quella dell’attuale Islamic State of Irak and Syria è casuale e devo dire che se anche la seconda sigla è sbandierata come simbolo di terrore universale, la prima ha visto scorrere una gran parte della mia vita. Non sempre la peggiore.

Anzi, devo dire che se ancora non ho fatto la scelta nomade di andare a vivere sotto i ponti di Parigi, che mi attirano più delle grandi piazze adibite ad oceaniche manifestazioni patriottarde, o di qualsiasi altra città, ciò è dovuto in gran parte agli allievi ed allieve degli Istituti Tecnici e Professionali in cui ho insegnato e tuttora insegno.

Allievi ed allieve che sempre più spesso non sono di origine italiana e che praticano la religione islamica: palestinesi, nord- africani, pakistani o arabi più in generale.
Allievi che spesso sono tra quelli più svegli, più attenti, più bravi e più incazzati.
Allievi ed allieve che sono ben lontani dall’ISIS, che criticano e che ritengono, soprattutto i palestinesi, un autentico nemico del popolo dell’Islam.

Sono anche, spesso, gli allievi che rifiutano di rispettare i minuti di silenzio in occasione della giornata della memoria. Giornata che molti di loro vorrebbero vedere dedicata anche ad altre vittime oltre che a quelle della Shoa. Per esempio alle migliaia di vittime civili palestinesi dei bombardamenti e delle rappresaglie israeliane.

D’altra parte Primo Levi, che temeva il gran mercato che si sarebbe poi fatto della memoria e della testimonianza, nella prefazione “ai giovani” dell’edizione scolastica Einaudi del 1972 del suo “Se questo è un uomo”, aveva scritto: “E’ passato un quarto di secolo (dall’anno, il 1946, in cui Levi scrisse il suo diario di prigionia), e oggi ci guardiamo intorno e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo (per la fine della guerra e la sconfitta del nazi-fascismo) era stato prematuro. No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto”.

In seguito sarebbero venuti il Cile, l’Argentina, Long Kesh, Abu Ghraib, Guantanamo, la scuola Diaz e quel grande carcere a cielo aperto che è diventata oggi la striscia di Gaza. Di cui a scuola si parla molto meno o, meglio, non si parla per nulla.
Io racconto loro delle mie possibili e lontane origini ebraiche. Di come il mio cognome sia reperibile soltanto in Piemonte e sia originario del Monferrato e della zona di Asti, che fu in età moderna un’area in cui gli ebrei poterono fin ad un certo punto vivere in pace. Proprio per quello a cavallo tra ‘500 e ‘600 una grossa comunità ebraica polacca, i Moise, si era lì tasferita per sfuggire ai locali pogrom cattolicissimi e cristiani.1

Poi con l’istituzione dei ghetti nel corso del ’700 per volontà della dinastia Savoia, la stessa che precedentemente aveva favorito per motivi economici l’afflusso di ebrei nei suoi domini piemontesi, molti preferirono modificare il patronimico e convertirsi per usufruire di maggiore libertà, anche di iniziativa economica. Da lì, molto probabilmente, il mio cognome attuale. Anche se mio padre non ne sapeva nulla e i miei nonni nemmeno. Semplicemente un caso di identità rimossa. Per paura, per necessità, per convenienza: chi lo saprà mai.

Un bell’esempio però di come la violenza razzista e statale operi sulle comunità e sulle identità. E sulla memoria. Perché va ricordato soltanto ciò che conviene.
Il resto deve essere cancellato e annullato.
La memoria di classe, il ricordo delle lotte, ma anche il nome e la religione e la cultura degli antenati. Una violenza culturale e psicologica, allo stesso tempo, che, privando gli individui e i gruppi di una propria identità li vuole sottomessi al potere e alla disciplina di classe o di razza.

Una bella schifezza insomma. Che si manifestava ieri con l’obbligo per gli ebrei di convertirsi per salvaguardare vita, diritti e proprietà, ma che oggi si spinge, non solo con le baggianate leghiste ma anche con le più subdole premesse “democratiche e progressiste”, a privare lo straniero della sua lingua (“Devono imparare l’italiano!”), della sua cultura2 e religione. Senza per altro donargliene una nuova (la cittadinanza per tutti o l’integrazione nel mondo del lavoro attraverso un contratto stabile).

Alla Renault di Flins, negli anni sessanta e settanta, gli operai non erano musulmani o cristiani, arabi o francesi, erano classe operaia in lotta. Quella era un’identità più forte. Che oggi non c’è. Così come non esiste più una sinistra internazionalista che sappia proporre altre prospettive alla rabbia delle periferie urbane. Mentre gli effetti dell’esclusione si fanno sempre più spesso sentire anche nell’istituzione che dovrebbe, almeno formalmente, contribuire più di ogni altra all’integrazione culturale: la scuola.

Ho avuto un’allieva palestinese che si è diplomata con ottimi voti. Accanita lettrice, apprezza Proust e molti altri autori del ‘900 europeo. La sua famiglia, originaria della Cisgiordania, è laica, ma lei, invece, porta il velo sulla testa e rivendica con quello ed una piccola spilla con la bandiera palestinese la sua identità, anche se il padre le ha consigliato di leggere la “Storia della rivoluzione russa “ di Lev Trockij.

Chiamiamola per comodità Rula. Ogni tanto mi scrive ancora delle mail per commentare i tragici fatti della storia attuale. Ad agosto, durante l’offensiva di terra su Gaza: “Sa che le dico? La Palestina è sola, anche al suo interno è divisa e quando si difende viene definita terrorista. Possiamo contare soltanto su noi stessi, perché beh, se l’avesse voluto, il mondo ci avrebbe salvati già da tempo”.

Oppure: ”Proprio ieri sera in un nuovo programma televisivo ne hanno parlato (della possibilità di una guerra allargata). Un programma se posso dirlo, schifoso e opportunista come in fondo quasi tutti, presi in mano da gente estremista, razzista che non fa altro che criticare gli immigrati e dar loro la colpa per la crisi di questa Italia. Che cerca ti metter in cattiva luce l’Islam e lo critica come fosse una religione terrorista, retrograda, che si basa su principi primitivi, che la donna è sottomessa e bla bla bla, insomma le solite cose che escon fuori dalla bocca degli stolti”. E dopo la manifestazione in cui, a Parigi, il peggior sciovinismo francese ed europeo è andato a braccetto con i probabili finanziatori medio orientali dell’ISIS: “di quale libertà parlano? Di una libertà vigilata sempre sappiamo da chi? “.

Uso le sue parole per trasmettere uno stato d’animo, non per esporre un’opinione anche solo pre-politica. Uno stato d’animo che si manifesta anche attraverso una sciarpa, riproducente la bandiera palestinese, annodata ad un montante della libreria di casa mia. Me l’hanno regalata due gemelli palestinesi della mia scuola, Suad e Bashir, che mi riconoscono come uno dei pochi insegnati con cui possono parlare del loro paese (dove vivono nonni e zii e da cui sono tornato sconvolti dopo un viaggio estivo per la brutalità dei controlli dell’esercito israeliano) e della loro musica. Figli di un ingegnere, sono nati in Italia; la madre è italiana e parlano a malapena l’arabo. Ma si sentono PALESTINESI.

Infine ancora una storia. Questa volta sulla mentalità italiana. Ancora due gemelli palestinesi della mia scuola (ci sarebbe da iniziare uno studio sulla genetica della gemellarità tra i palestinesi), Ghassan e Samir. Anche loro figli di un medico. Un po’ più vivaci degli altri di cui ho parlato prima. Infatti uno dei due, Ghassan, in una discussione fattasi un po’ accesa a proposito di un voto assegnatogli da una professoressa, aveva alzato minacciosamente la voce con la stessa, avvicinandosi a lei con il viso.

Dal punto di vista dei rapporti scolastici, anche se tutti i compagni hanno poi dichiarato che effettivamente il voto era immeritato e l’interrogazione condotta con un po’ di accanimento, un episodio sicuramente spiacevole che necessitava,dal punto di vista formale dell’istituzione concentrazionaria scolastica una sanzione. Dal mio punto di vista non gran che, considerato che un mio caro amico, allora minorenne, fu espulso da tutte le scuole d’Italia per aver preso a calci, nelle cosiddette parti intime, il vice preside del suo istituto tecnico mentre questi cercava di sfondare il picchetto dello sciopero studentesco durante le lotte dei primi anni settanta.

Oppure considerato anche l’episodio in cui, negli anni novanta, in un istituto tecnico alla periferia di Torino, mani ignote staccarono dal muro dei bagni maschili, posti al primo piano dell’edificio scolastico, un lungo e pesante lavabo che, con estrema perizia, fatto passare attraverso la finestra precipitò sul cofano dell’automobile del più odiato professore di elettrotecnica. Degli allievi della classe probabilmente coinvolta in quell’episodio conservo ancora una placca d’oro con i loro nomi e il loro riconoscimento al sottoscritto e per molti anni li ho ancora frequentati, senza scandalizzarmi più di tanto.

Beh, comunque, tornando a noi, la sanzione andava presa e quindi il consiglio di classe dovette riunirsi.
Già prima, qualche collega aveva mormorato che i due fratelli, che qualche problema con l’ordine costituito l’avevano già avuto, avrebbero un giorno potuto essere ideali militanti dell’esercito islamico. Peccato che io avessi già a lungo discusso con loro, parlando della storia novecentesca del Vicino Oriente, degli avvenimenti medio orientali e conoscessi quindi benissimo la loro avversione e quella della loro famiglia all’ISIS.

Ma questo non bastava. Dovevano essere per forza colpevoli. La sanzione doveva tener conto delle loro capacità tecniche nel picchiare (poiché iscritti, saggiamente, ad una palestra di arti marziali in cui poter scaricare le loro energie in eccesso e pulsioni), come affermava un collega, e la loro pericolosità sociale, come affermava il docente di religione che non avrebbe nemmeno dovuto intervenire visto che i due soggetti di certo non praticavano la religione cristiana.
Quindi: SOSPENSIONE! Di più giorni, con il solo mio voto contrario e due astenuti (anche se non avrebbero potuto farlo; cosa che invalidò poi il tutto agli occhi del preside, talvolta più saggio dei docenti).

Avrei potuto intitolare questo testo: “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Mentre anche gli allievi di cui ho parlato potrebbero essere soltanto proiezioni letterarie della mia pluridecennale esperienza di insegnante, ma l’importante, per me, è cercare di sintetizzare il problema reale di tanti giovani immigrati o figli di immigrati: la perdita dell’identità, sostituita da una identità mitica, nazionalista anche là dove la nazione non c’è o non può ancora esserci. Un’identità che accetta una religione per rifiutarne un’altra, in un contesto in cui la cultura e la democrazia occidentale moderna, che dovrebbero affondare le loro radici nel pensiero illuminista e nella pratica egualitaria, hanno abdicato ai propri compiti tornando ad evocare i peggiori fantasmi nazionalisti, razzisti e fascisti, rischiando così di vederseli ritorcere contro dai nuovi enragés delle periferie meropolitane.

Per cui, proprio come Primo Levi, nel continuare il mio lavoro sarò felice se saprò che anche uno solo dei miei nuovi studenti “avrà compreso quanto è rischiosa la strada che parte dal fanatismo nazionalistico e dalla rinuncia alla ragione”. 3 E sarà messo nella condizione di comprendere autonomamente che tutti questi odi, manipolati ad arte, non sono altro che un modo per nascondere la contraddizione principale: quella tra le classi e tra capitale e specie umana.


  1. Maria Luisa Giribaldi e Rose Marie Sardi, Bele sì. Ebrei ad Asti, Editrice Morcelliana  

  2. Vorrei qui ricordare che i Vespri siciliani del 1282 finirono piuttosto male per gli angioini e che tale rivolta popolare sanguinosissima esplose proprio a partire dal tentativo di un soldato francese di strappare il velo dal volto di una donna palermitana (proprio come ricorda anche Michele Amari nel suo Racconto popolare del Vespro siciliano, Sellerio 1982)  

  3. Primo Levi, Prefazione del 1972 ai giovani in Se questo è un uomo, Einaudi, pag.7  

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