Shakespeare – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Tutti invitati al Festival dell’estasi https://www.carmillaonline.com/2022/08/14/tutti-invitati-al-festival-dellestasi/ Sun, 14 Aug 2022 20:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73385 di Franco Pezzini

Jules Evans, Estasi: istruzioni per l’uso, ovvero L’arte di perdere il controllo, ed. orig. 2017, trad. dall’inglese di Cristiano Peddis, Carbonio, Milano 2018.

 

Non soltanto Platone e Aristotele, ma anche

le menadi. […] Noi ci siamo limitati a staccare

una pagina dall’antico libro greco.

(Aldous Huxley, L’isola)

 

Usciti mai totalmente da una crisi che ha fatto trovare ogni scusa ai furbetti del quartierino in politica ed economia per sottrarre diritti e spazi di libertà; usciti non ancora da una pandemia [...]]]> di Franco Pezzini

Jules Evans, Estasi: istruzioni per l’uso, ovvero L’arte di perdere il controllo, ed. orig. 2017, trad. dall’inglese di Cristiano Peddis, Carbonio, Milano 2018.

 

Non soltanto Platone e Aristotele, ma anche

le menadi. […] Noi ci siamo limitati a staccare

una pagina dall’antico libro greco.

(Aldous Huxley, L’isola)

 

Usciti mai totalmente da una crisi che ha fatto trovare ogni scusa ai furbetti del quartierino in politica ed economia per sottrarre diritti e spazi di libertà; usciti non ancora da una pandemia affrontata dai Grandi Manovratori con ogni tipo di abusi, e un sovrano disinteresse verso ogni ricaduta non asfitticamente economica di due anni di prigionia in casa; entrati nel delirio peloso di una guerra dove ogni straccio di dignità è perduta (oltretutto con aumenti dei prezzi da ribellione popolare in un paese che fosse meno psicologicamente depresso); incastrati nelle mille trovate ammannite da piccoli affaristi di lotta & di governo, tutti uniti in cordata (non di casta, ma di classe) fingendo antagonismi cosmici per giochini elettorali: insomma, in questo penoso purgatorio dove è sfibrante arrabattarsi, che ci si scopra inariditi e demotivati ad affrontare la quotidianità è il minimo. E realizziamo di aver bisogno di qualcosa che ci sollevi fisicamente e psicologicamente: le esortazioni virtuose servono a poco, tanto più che spesso arrivano da chi beneficia o almeno non è troppo danneggiato dal contesto. A volte avremmo – ma vorrei dire abbiamo – bisogno di poter uscire da noi stessi e da questo quadro per un tempo minimo necessario a respirare: non una fuga dalla realtà, al contrario, ma il tempo breve di un recupero di forze per affrontarla (in sostanza, una vacanza o una sbronza non sono sufficienti). Avremmo, abbiamo bisogno di un tipo di esperienza psicologicamente forte, esistenzialmente significativa a sostegno della stessa dimensione fisica: e riflettere seriamente sull’estasi, come propone questo bel libro, pare tutt’altro che una facile evasione.

Sarebbe sbagliato confondere Estasi: istruzioni per l’uso, di notevole interesse e intelligenza, con una delle tante pubblicazioni New Age o di filosofia all’acqua di rose sulla necessità di restare psicologicamente integri e di non mutilare dimensioni feconde della vita: ci arriviamo, grazie, mentre l’approccio qui resta saggiamente problematico. Anzitutto perché (la quarta di copertina mette le mani avanti),

 

L’estasi di Dioniso necessita di essere bilanciata dallo scetticismo razionale di Socrate. Senza Dioniso, la razionalità socratica è arida e priva di anima, ma senza la pratica e la riflessione socratica, l’estasi dionisiaca non è che una fiammata.

 

E poi perché una mappatura delle varie esperienze estatiche – come l’autore qui tenta, con il giochino dell’ipotetico Festival dell’estasi diviso in padiglioni, a definire il discorso in spazi corrispondenti ai capitoli e relative divisioni – può riservare sorprese. Premettiamo subito, l’approccio dell’autore, che dopo una lunga e radicata adesione ai principi stoici cerca di superarne i limiti e arricchirne la visione, non è di chi cerchi di barare: nessuna ambiguità di confessionismo nascosto nel constatare con Aldous Huxley il “bisogno, profondamente radicato [nell’uomo] di autotrascendenza”, con Abraham Maslow la necessità di “esperienze picco” che permettano di “superare il proprio Sé e […] sentirsi in connessione con qualcosa di più grande” e con Mihály Csíkszentmihályi la realtà di una diffusa ricerca del flow, “il flusso, termine con il quale lo studioso intende quei momenti in cui siamo così assorti in qualcosa che perdiamo la cognizione del tempo e ci dimentichiamo di noi stessi”, sorta di estasi sottotono. Il fatto è che la vita civile in Occidente ci obbliga a un continuo controllo di noi e delle nostre emozioni, all’inibizione degli impulsi: ma la nostra identità continuamente arginata, controllata, assoggettata a censure (su temi, spesso, non così indiscutibili) ha bisogno di un respiro più ampio, di un sollievo fisico-psicologico e di una comunione con il resto della realtà (e non della sua caricatura premasticata a colpi di inni nazionali dai balconi e messaggi “Andrà tutto bene” appesi come addobbi nazionalpopolari).

La necessità insomma di trovarci, in qualche misura, “al di fuori” di noi stessi, come evocato dal termine antico greco ékstasis. Un’esperienza che, a ben vedere, può non essere affatto uno spasso, recando uno sbatacchiamento dell’anima fino a un senso pieno e terribile del termine stupore. Poi certo, può esistere una trascendenza salutare e una nociva, al ribasso, che ci danneggia: per cui imparare a perdere il controllo in modo sano, intuisce il filosofo Evans, sembra un obiettivo degno di ricerca. Per far ciò incalza per anni la quest dell’estatico, attraverso esperienze dirette con una pletora di gruppi, sondaggi, dialoghi con specialisti di varie discipline e un attento esame di sé, e questo volume è il risultato della sua indagine.

A fronte dell’esame condotto nel 1971 dall’antropologa Erika Bourguignon su 488 società di diverse aree del mondo, è emerso che “nel 90 per cento dei casi esistevano rituali istituzionalizzati per raggiungere una condizione di perdita dei confini dell’Io”. Non nella società occidentale, come conseguenza dell’Illuminismo “e del passaggio da una visione del mondo incantata [in cui la psiche umana è “porosa”] a una di stampo materialista”, dove l’estasi è una semplice illusione della mente e i Sé sono schermati, separati dalle altre persone da una sorta di muro e dalla natura per opera della nostra autocoscienza razionale. “Il controllo razionale è alla base della moralità, e la perdita di questo controllo è qualcosa di cui vergognarsi”. In fase di introduzione, l’autore propone dunque una sintesi di come si sia arrivati a una demonizzazione dell’estasi, poi a un suo revival negli anni Sessanta e alle successive analisi del fenomeno come rilevante a quattro livelli (corpo, mente, cultura e spirito) e nei suoi portati positivi (l’estasi guarisce, motiva e agisce da collante sociale) ma anche negativi. Nel procedere idealmente da un padiglione all’altro della ricerca rileveranno – secondo la terminologia di Timothy Leary – il set (atteggiamento mentale del soggetto) e il setting (il contesto dell’esperienza estatica).

L’itinerario parte con l’esperienza personale di Barbara Alexander, diciassettenne nel 1958 quando vive un’esperienza estatica spontanea, “un incontro furioso con una sostanza viva che arrivava fino a me attraverso tutte le cose in un unico momento […] Niente avrebbe potuto contenerlo”, altro che beatifiche fusioni con il Tutto, che la condurrà poi come studiosa – con il nome di Barbara Ehrenreich – a occuparsi del fenomeno: peraltro non ignoto a mappature scientifiche, considerando gli oltre 6000 resoconti di esperienze analoghe raccolti al Religious Experience Research Centre (RERC) di Lampeter in Galles dall’eminente biologo Sir Alister Hardy. Certo, esiste il problema di trovare una tassonomia adeguata all’analisi di tali fenomeni, e Hardy ha dovuto affinare via via (tale per esempio la dicitura con parole chiave della diciottesima voce nel database: “Visioni ossido di azoto dentisti movimento tunnel luce karma barba Paul reincarnazione Cristo cervello”) a testimonianza di un’estrema varietà. Tuttavia queste esperienze spirituali – usando l’aggettivo nell’accezione più ampia – risultano sempre più diffuse, in particolare durante infanzia e adolescenza: a falsare l’indagine è la resistenza a raccontare gli episodi per appartenenze confessionistiche o rifiuto delle medesime, o in generale per il timore di passare per matti, ma lentamente a grandi numeri tali riserve stanno indebolendosi. Tre sarebbero le tipologie principali di questi fenomeni spontanei, cioè epifanie di connessione e unione con la realtà, esperienze di abbandono a Dio in coincidenza di momenti particolari di sconforto, esperienze di pre-morte, ed Evans ne affronta le connotazioni senza nascondere le interpretazioni più scettiche. Analizza poi benefici e rischi di tali esperienze, compresi i casi in cui

 

la presenza spirituale che si incontra potrebbe essere percepita come minacciosa, malevola, perfino demoniaca. Quasi il 10 per cento delle NDE [esperienze di pre-morte] include un’esperienza infernale – alcuni resoconti sono degni dell’immaginazione pittorica di Hieronymus Bosch.

 

Tiene ovviamente presente la teoria della psiche di James-Myers-Jung, e cerca di individuare “una terra di mezzo tra la ricezione acritica di simili esperienze quali perfette rivelazioni, e il completo rifiuto di esse quali patologie mentali”, con la sfida per chi le vive di scinderne gli aspetti positivi dai negativi anche attraverso il supporto di una comunità circostante (familiare, amicale, scientifica…).

È impossibile ripercorrere analiticamente il contenuto di tutto l’itinerario tra diversi padiglioni che Evans propone: ci limiteremo qui a cenni, rinviando però caldamente alla lettura. Il cap. II riguarda le esperienze estatiche dell’autore con comunità di cristiani carismatici dell’attivissimo Holy Trinity Brompton (HTB) in una Gran Bretagna ormai per altri versi post-cristiana: il nodo di partenza è l’esperienza del non sentirsi amati, del disperato bisogno di approvazione da parte del mondo, ma la comunità ti accoglie e invita lo Spirito Santo a manifestazioni come quelle presenti nella Chiesa primitiva (glossolalia eccetera). Un’occasione per affrontare in chiave di sintesi la storia del cristianesimo carismatico, emerso in Inghilterra tra le diffidenze della chiesa di stato e degli stessi riformati di maggioranza (luterani, per esempio) contro gli “entusiasti” che chiedono i doni dello Spirito, associati agli ordini sciolti per ordine regio e più avanti – ai tempi del Dio orologiaio – a casi di malattie mentali. L’estasi torma solo col Metodismo e una serie di moderni movimenti di revival, fino appunto all’HTB e ad altre realtà minori. Evans partecipa, resta convinto e commosso, a un certo punto si converte suscitando reazioni sdegnate tra gli iscritti alla sua newsletter – tanto più considerando il rigorismo conservatore dei carismatici in fatto sessuale – e si pone il problema se la propria esperienza non abbia avuto connotati ipnotici, confrontandosi con uno specialista: ne matura la convinzione che quello religioso carismatico rappresenti uno degli “spazi controllati in cui perdere il controllo” in interscambio collettivo. Poi, “In termini di ‘setting’ del Cristianesimo carismatico, esiste, ovviamente, il rischio che le chiese diventino un ambiente di trance collettiva”, già le lettere paoline mettevano in guardia contro un certo atteggiamento e la chiesa anglicana ha molto chiaro il pericolo. L’HTB rifugge da atteggiamenti settari, ma Evans mette a fuoco una serie di meccanismi discutibili lì riscontrati – sorta di buone tecniche di vendita – e dopo un po’ l’abbandono è inevitabile, pur non impedendogli di considerarsi ancora culturalmente anglicano.

La tappa successiva (III) richiama Il Cinema Estatico – ma è aperta a un contenuto molto più ricco. Attraverso la realtà del sogno (“la più comune delle esperienze estatiche”), le letture di Freud e Jung e il rapporto con l’Ombra, si arriva al macrotema delle arti: “secondo Jung, ci rendono capaci di comunicare con la nostra mente subliminale per mezzo del linguaggio onirico dei simboli, delle metafore e del mito” (il che è una sintesi un po’ concentrata, ma si può perdonare la semplificazione all’autore che un po’ in tutto il libro lavora di sintesi su posizioni di enorme latitudine o complessità). Dopo essersi interrogato se le arti possano essere un sostituto della religione, poi sul rapporto tra culto e cultura e sulla separazione consumata a seguito della Riforma, che prepara alla distinzione tra scienza e arti dell’Illuminismo – con una salutare liberazione, va detto, delle medesime dai vincoli religiosi – nota però che dopo la cancellazione delle visionarie, incantate processioni medioevali dei Misteri per opera dei puritani, un nuovo tipo di spettacolo, il teatro elisabettiano e in particolare di Shakespeare, prende il posto delle liturgie vietate. Con effetto tanto febbricitante che Huxley segnalerà: “L’aggettivo che più spesso vi si applica è transporting: ti trasporta, ti trascina fuori da questo mondo, e ti conduce in un Mondo Altro”. Evans continua:

 

Le commedie di Shakespeare sono sogni estatici in cui le tradizionali strutture dell’Io vengono violate. I personaggi si scambiano i partner, nonché il genere, lo status, la sessualità, perfino la specie. In tutti loro c’è un tocco della malizia di Puck – l’Io non è stabile come lo concepiamo, e il teatro ci permette di assumere delle identità alternative. Le tragedie, ovviamente, sono più vicine all’incubo nel loro indagare l’Ombra più oscura dell’identità umana – cosa significa essere traditi, abbandonati, uccisi, scacciati dalla propria casa e lasciati a vagare nel deserto? Le tragedie del Bardo ci aiutano quindi a guardare in faccia questi incubi, e a opporre, collettivamente, resistenza.

 

Per il grande studioso Sir Jonathan Bate, Shakespeare sta “consapevolmente sperimentando l’idea del teatro quale sostituto di quei rituali cattolici che la Riforma aveva spazzato via”. Anche se ovviamente i valori etici della “religione del teatro” sono diversi da un culto tradizionale, e spingendosi oltre i confini dell’Io il teatro permette di incontrare la più ampia e fertilmente molteplice varietà di entità (“‘Chi è là?’ recita la primissima battuta dell’Amleto”), preziosa per un’epoca di scetticismo. Un’estasi insomma nel segno dell’ambiguità, derubricata a “trucco” o illusione da Teseo nel Sogno di una notte di mezza estate. Al che però Ippolita gli ribatte:

 

Ma il racconto di tutto ciò che accadde questa notte, e il fatto che le menti di ognun furon stravolte, attesta qualcosa di più che fantastiche visioni, e la cosa assume grande consistenza – per quanto strana e prodigiosa.

 

Una posizione pragmatica che prelude a letture moderne sull’estasi: sia o meno legata a “spiriti”, quella consistenza è rilevante sia nelle nostre singole vite, sia anche a livello di uno sconvolgimento comunitario (le “menti […] stravolte”).

A distanza di cinque secoli, il teatro offre ancora momenti di trasporto per cui il riferimento all’estasi non è inadeguato, ma all’avvio dell’età moderna anche la poesia inizia a emergere “quale canale di accesso quasi-laico all’esperienza estatica”. Se un’intera scuola di mistici cristiani aveva rivendicato ispirazioni estatiche (si pensi solo alla Commedia dantesca), inizia ad apparire qualcosa di nuovo: “In L’Estasi, il poema di John Donne, è l’amore sensuale, non lo Spirito Santo, a trasportare il poeta oltre i confini del proprio Io”, e lo smarcamento sarà via via sempre più accentuato: Wordsworth, Coleridge, Keats… fino ad autori molto più moderni come Rilke (“è nel potere dell’artista creativo gettare un ponte tra i due mondi”) e Seamus Heaney (la poesia come “una porta verso l’oscurità”).

E poi c’è il romanzo, per Evans “una tecnologia in grado di incidere profondamente sulla nostra coscienza. Nel mondo creato da un buon libro, noi ci perdiamo” o – come dice il neuroscienziato Norman Holland autore di Literature and the Brain: “Raggiungiamo stati mentali unici, simili alla trance nei quali diventiamo inconsapevoli del nostro corpo e dell’ambiente che ci circonda. Veniamo trasportati”. E di lì il discorso si apre all’arte come portale estatico, in tutta la latitudine del concetto, fino a concentrarsi su “Cinema e realtà virtuale come caverna dei sogni” che – così David Lynch – “concede la parola al subconscio”. Per allargarsi nuovamente a discorsi generali sull’estasi dell’ispirazione creativa, sull’ispirazione come dono dall’alto, sulle arti come sogno collettivo e sulla questione se possano sostituire la religione.

L’indagine prosegue con il rock and roll (IV), con impagabili incontri tra reverendi canterini, memorie delle leggende della musica, libertà estatica nella danza, commistioni di sacro e profano (“Puoi salvare delle anime!” urla il produttore Sam Phillips a Jerry Lee Lewis, dubitoso di incidere Great Balls of Fire in quanto presuntamente demoniaco), musica che cura, autorizzazioni a perdere il controllo e venerazione degli idoli rock. Come afferma Springsteen al “New Yorker”, “Sul palco sei un po’ uno sciamano che guida la congregazione […] Sei il canale di contatto”, magari attraverso alter ego funzionali all’uscita dall’Io e per sbloccare aspetti subliminale della psiche. Dove i festival diventano “zone temporanee autonome”, come li definisce il filosofo sufi Kakim Bey, “spazi per il sogno collettivo”.

Il capitolo V riguarda la psichedelia, su cui la ricerca dopo quarant’anni sta ripartendo, nell’eco di pratiche antichissime che hanno conosciuto un grande oblio nella cultura occidentale per millecinquecento anni – salvo il fatto che alle tradizionali piante psichedeliche si affiancano oggi i prodotti estatici sintetizzati in laboratorio. Qui un po’ più nota è la storia della diffusione e della successiva criminalizzazione degli psichedelici, mentre sul funzionamento, la presenza di tesori & mostri liberati abbassando la soglia della coscienza, il rapporto con la concezione di un cosmo animista, l’opportuno discernimento degli spiriti o l’adozione degli psichedelici in chiese locali sudamericane come quella del Santo Daime (cioè “Dammi”) alcune informazioni potranno giungere nuove al lettore non specialista.

Si passa poi alla contemplazione (VI), e Evans si è assoggettato qui a un difficile ritiro di meditazione Vipassanā: in questo contesto prende in esame il declino della contemplazione cristiana (ma qui, come altrove, l’occhio dell’autore è troppo concentrato sulla situazione britannica, nel continente la situazione è un po’ diversa), poi il dilagare delle pratiche orientali, della mindfulness, i rischi della meditazione – che può far affluire esperienze anche traumatiche per chi non sia preparato.

Il nuovo padiglione visitato, altro tema noto, concerne l’estasi delle pratiche sessuali (VII). Passiamo così attraverso il Tantrismo e le dottrine di Osho (ma anche le deviazioni di alcune sue comunità) con pratiche curiose di rimozione delle inibizioni; i pregressi storici dal mondo antico alla “polizia antivizio” della cristianità, ad “Amor cortese e scopate illuministe”, “contro-Illuminismo romantico e […] sesso mistico”, fino alla rivoluzione sessuale modernista, alla religione del sesso di D.H. Lawrence, agli orgasmici anni Sessanta e al “lato oscuro dello scambismo” nel decennio successivo. Inevitabile approdare al rapporto sadiano tra agonia ed estasi e alla via del dolore BDSM; e infine a quella tormentata eredità della rivoluzione sessuale che non impedisce all’attività sessuale ordinaria “occasionali momenti di estasi” (al di là dei tracolli del desiderio da lockdown successivi all’uscita di questo libro), ma vede oggi soprattutto acquisito il più modesto obiettivo di un minor imbarazzo rispetto al sesso e una maggiore accettazione di scelte sessuali diverse. Un po’ sull’onda degli scritti di Colin Wilson proposti dallo stesso editore Carbonio, è inevitabile realizzare che c’è qualcosa di profondamente asfittico nella sessualità vissuta in occidente, tra sesso virtuale e psicologicamente depresso, laddove una maggiore intelligenza e vivacità nell’attingere a una certa dimensione recherebbe un beneficio dalle ricadute collettive anche in termini di modelli sessuali. In coda al capitolo Evans affronta anche un diverso e particolarissimo tipo di estasi, quella che può instaurarsi tra genitore e figlio.

La tappa ulteriore è più spiacevole, l’estasi della violenza e della battaglia (VIII) tra hooligan, veterani del Vietnam, militari di servizio in Iraq e fondamentalisti islamici: dall’idea di guerra come mito sacro alla catarsi del sangue, dalle estasi nazionaliste alla “Venerazione del Leader Glorioso”, fino allo Stato laico come antidoto all’estasi e ai sostituti mimetici che fungono da sbocco per la medesima. Come lo sport, con la catarsi del sudore, le sue comunioni estatiche e i danni – ebbene sì – che possono derivarne.

Ma per scoprire la nostra connessione col pianeta e reintegrare il rapporto con la Natura, un ulteriore tipo di estasi è quello qui affrontato sotto il titolo “La Foresta delle Meraviglie” (IX): ecologia profonda, eco-centrismo, recupero di una connessione amorosa con la natura… È l’occasione per una breve storia dell’estasi relativa, del rapporto nel cristianesimo tra natura e trascendenza del divino, del passaggio dalla natura incantata a quella materialista. Sostituto naturale dell’estasi diviene allora la meraviglia; ma “Fin dagli inizi della rivoluzione scientifica, alcuni pensatori romantici hanno messo in discussione i principi del materialismo meccanicista nel tentativo di ritrovare una connessione estatica con la natura”, e tra i loro ideali predecessori c’è Thomas Traherne, oscuro sacerdote seicentesco anglicano – fermo oppositore del meccanicismo di Thomas Hobbes – la cui opera è stata riscoperta e valorizzata solo con il ritrovamento fortuito di un manoscritto nel 1896. Comprendeva un volume, Le meditazioni di un pastore, che C.S. Lewis definirà “probabilmente il più bel libro mai scritto in lingua inglese”. Dal rapimento cosmico di Traherne si passa qui alla riflessione su Sublime di Burke (1757), all’estasi neo-animista di Wordsworth, all’ambientalismo estatico di John Muir e di ambientalisti odierni come Jay Griffiths e George Monbiot. Evans esamina con simpatia le ragioni di queste posizioni, ma non ne nasconde i rischi, compreso un iperattaccamento New Age alle esperienze estatiche che può condurre a una scissione bipolare con lunghe cadute nella depressione, e un ripiegamento personale che può ostacolare cambiamenti politici. D’altronde “Il feticismo delle epifanie personali viene senza sforzo impacchettato nella forma del turismo di consumo”, si tratti dei pellegrini romantici nel Lake District di fine Settecento o del Yosemite Park invaso un secolo dopo da adoratori della natura; mentre il nesso “facile” di romanticismo & esotismo non permette di cogliere gli aspetti conservatori e patriarcali di culture native degnissime di attenzione ma al filtro dei dovuti strumenti critici.

Ultima tappa dell’itinerario è “Futureland” (X) sulla filosofia transumanista e le tecniche estatiche piratate qui e là, seguendo il misticismo evoluzionista del fratelli Huxley (Aldous e Julian) e le dottrine dello Human Potential Movement a colpi di LSD, nuove tecnologie e loro applicazioni (stimolazione magnetica transcraniale, dispositivi di bio-feedback delle onde cerebrali…) e – futuro assoluto per gli anni Sessanta – uso del personal computer come strumento di liberazione della coscienza. Con trovate – in cui ha un ruolo importante lo scrittore visionario e imprenditore del network Stewart Brand – che prefigurano Google: come scriveva Brand, “La vera eredità della generazione dei Sessanta è la rivoluzione del computer” e il World Wide Web prende ad apparire come una comunità spirituale con caratteristiche estatiche – il tutto nel preteso spirito di un’immensa comune hippie, contro tutte le avide corporation. Fino a vivere il cyberspazio come esperienza extracorporea, dal riconoscibile sapore gnostico nell’urgenza di trascendere la materia e divenire pura informazione, magari nella forma della realtà virtuale. La “beatitudine geek” indicata da William Gibson sarà a quel punto la creazione di un’intelligenza artificiale (AI) capace di superare i limiti dell’uomo. Evans narra l’esperienza della “dot.comune” nella San Francisco degli anni Settanta, in start-up come Apple o Intel dove alla dedizione totale si accompagna il flusso di cocaina, con guru come Steve Jobs che sceglie “di dipingere la Apple come un eroe ribelle in lotta contro il Grande Fratello delle società vecchio stile (ovvero la IBM)”, e di lì ai modelli di estasi aziendale degli anni seguenti; ma ne delinea anche il lato oscuro.

 

La venerazione che i transumanisti riservano alla tecnologia mi ricorda l’adorazione romantica per la natura, o quella dei neoliberisti verso la mano invisibile che governa il mercato. Si tratta di atteggiamenti fideistici riservati a forze non umane, cui viene attribuita una volontà benigna. La tecnologia ci renderà liberi, se ci abbandoneremo alla sua energia. Ma proprio come Werner Herzog che, guardando la natura, ha visto solo indifferenza, così un tecnoscettico come Nicholas Carr, osservando la tecnologia, ne coglie solo la natura amorale. “Se ne infischia se ci porta a una coscienza superiore o una inferiore” scrive. “Non gliene frega una mazza di noi”.

 

Fino al panorama di una grande truffa che stordisce la massa arricchendo un’esclusiva casta di sacerdoti della tecnologia; e a un’estasi della fuga da un pianeta alla fine. Concludendo – no, preparandosi a proseguire personalmente – l’itinerario, la risposta resta aperta: l’estasi ha una dimensione utilissima, va riscoperta e non può essere bandita come pensava di fare Penteo, ma va integrata in modo da garantire un equilibrio tra Socrate e Dioniso. Evans ammette di non avere le risposte, ma invita a riconsiderare una lunga storia di tradizioni accantonate, per imparare poco a poco, ciascuno a proprio modo, a perdere il controllo. Ammette di aver trascurato nell’esame tante piste – tra le quali la relazione tra estasi e mondo femminile – ma si tratta dell’avvio di un discorso. Condotto oltretutto sulla base di una ricchissima bibliografia e con uno stile narrativo di grande eleganza.

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Un François Rabelais del West https://www.carmillaonline.com/2021/10/27/un-francois-rabelais-del-west/ Wed, 27 Oct 2021 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68668 di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, [...]]]> di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, di Le avventure di Huckleberry Finn, ritenuto invece da T. S. Eliot “un capolavoro” e da Ernest Hemingway il romanzo capostipite della letteratura statunitense moderna, la raccolta antologica, proposta da Mattioli 1885 e fino ad oggi inedita in Italia, conferma il ruolo di provocazione e dissacrazione svolto dallo scrittore nordamericano nei confronti della cultura piccoloborghese, bigotta e perbenista statunitense, di ieri e di oggi.

Nel caso specifico l’obiettivo è quello di smascherare il puritanesimo perbenista del mondo letterario statunitense della seconda parte dell’800 che, pur fingendosi colto e attento alla grande letteratura del passato europeo, finiva con lo scandalizzarsi davanti all’uso di qualsiasi parola o frase che non rispettasse le regole del bon ton e del perbenismo borghese (e se ciò suggerisce al lettore alcuni atteggiamenti riferibili al fraseggio politically correct attuale, sappia che questo è proprio l’effetto che la presente breve recensione intende ottenere).

L’occasione per la stesura del testo che dà il titolo alla breve antologia, ce lo spiegano bene i curatori del volume e il successivo commento di Franklin J. Meine, intitolato non a caso Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana1, fu fornita all’autore dalla lamentela espressa dal direttore di una rivista dell’epoca sul fatto che alla letteratura americana mancasse un autore del calibro di Rabelais.
Detto fatto: Mark Twain, nato Samuel L. Clemens e che amava definirsi come «nato irriverente», confezionò su misura un breve ma strabordante testo nello stile dell’autore francese del XVI secolo e lo inviò al medesimo direttore. Che, naturalmente, espresse giudizi feroci e sarcastici sul manoscritto e sul suo autore.

1601, o come recitava per intero il titolo corretto e completo Una conversazione, come la si faceva accanto al caminetto, al tempo dei Tudor, descrive una piacevole serata alla corte della regina Elisabetta I, ormai vecchia, circondata da personaggi quali Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Ben Johnson, Francis Beaumonte, la duchessa di Bilgewater (26 anni), la contessa di Granby (30) e sua figlia Lady Helen (15), due damigelle d’onore [Lady Margery Boothy (65) e Lady Alice Dilberry (70)] e William Shakespeare (qui rinominato Shaxpur). Tutti i personaggi sono reali e soltanto colui che tiene il diario della serata resta anonimo, anche se, a detta di Twain, è chiaramente ispirato alla figura di Samuel Pepys, un politico e scrittore inglese del secolo successivo che oggi è ricordato soprattutto per il suo Journal, il diario tenuto tra il 1° gennaio 1660 e il 31 maggio 1669, in cui si dimostrò capace di mescolare con grande abilità e naturalezza le osservazioni di carattere personale con quelle riguardanti i grandi avvenimenti di cui fu testimone. Diario di cui lo scrittore americano fu un avido ed erudito lettore.

Fin qui nulla di strano se non fosse che, al contrario di quanto potrebbe attendersi il lettore, l’argomento non è costituito dagli affari interni, dalla politica internazionale, dalla scienza, dal teatro o dalla cultura classica. Niente affatto. Qui, invece, si parla disinvoltamente della qualità ed intensità di scoregge, organi genitali maschili e femminili, amplessi più o meno focosi, abitudini sessuali e matrimoniali di altri popoli e delle perversioni in uso all’epoca della decadenza dell’impero romano. Senza scandalo alcuno e nella più totale naturalezza. Espressa dalla regina quando «ha sollevato le sopracciglia e con grande ironia e con aria smancerosa ha esclamato: Oh, merda! Al che tutti sono scoppiati a ridere, tranne Lady Alice»2.

Il testo, dopo l’invio al direttore della rivista, fu stampato una prima volta in tiratura limitatissima presso la tipografia dell’accademia militare di West Point grazie al tenente C.E.S. Wood che la dirigeva e che suggerì allo stesso Twain «di pubblicarlo come se si trattasse di un libro di età elisabettiana con caratteri ortografici obsoleti creati appositamente a mano. Inoltre Wood fece anche macerare dei fogli di carta di lino nel caffè allungato e in altri intrugli, facendoli poi seccare in modo da far sembrare che la carta fosse antica di quattro secoli»3.

Al di là della beffa contenuta nello stesso processo di falsificazione, c’è da dire che l’operazione riuscì a tal punto che ancora nel 1906, ventisei anni dopo la sua prima pubblicazione, fu lo stesso Mark Twain a dover chiarire, in una lettera indirizzata a Charles Orr, bibliotecario della Case Library di Cleveland, che: «Il titolo del pezzo è 1601. Consiste in una conversazione inventata di sana pianta che sarebbe avvenuta, esattamente in quell’anno, nel salottino della regina Elisabetta […] e non è, come John Hay suppone erroneamente, un serio tentativo di riportare la nostra letteratura e la nostra filosofia a i tempi sobri e casti di Elisabetta; se in quelle pagine si trova una sola parola decente, è solo perché m’è sfuggita»4.

D’altra parte come ebbe a sottolineare, successivamente alla prima pubblicazione del testo, lo stesso C. E. S. Wood:

Se ho compreso bene il fermento e l’inquietudine intellettuale di cui 1601 è il frutto, direi che la struttura intellettuale e lo strato subconscio più profondo derivassero dagli Anglosassoni, tanto primitivi quanto l’uomo comune del periodo Tudor. Mark Twain veniva dalle rive del Mississippi – dai marinai dei battelli a fondo piatto, dai piloti, dagli scaricatori di porto, dagli agricoltori e dai villaggi popolati da gente rozza e primitiva – esattamente come Lincoln.
Finì nei campi minerari dell’Ovest tra postiglioni di diligenze, giocatori d’azzardo e gli uomini del ’495. Aveva nel sangue e nel cervello la semplice ruvidità di un popolo di frontiera.
Quelle che alle orecchie altrui risuonano come parole volgari e offensive, per lui erano un linguaggio comune. […] Un simile linguaggio è energico e vigoroso, ed efficace, come lo sono tutte le parole primitive. L’affinamento rende meno espressivi, più deboli – o diciamo meno taglienti – ma le volgari parole monosillabiche cadono giù spietate come il colpo d’ascia di un pioniere, e MT era esattamente questo. Quindi credo che 1601 sia il frutto dell’umorismo, della satira e dell’odio del puritanesimo che in MT sono così profondi e istintivi. […] Ogni parola che troviamo in 1601 era utilizzata dai nostri rozzi pionieri in quanto facevano parte del loro vocabolario – e nessuna parola è stata mai inventata dall’uomo con intenti osceni, ma solo come linguaggio per esprmere meglio quello che intendeva dire. Nessun atto della natura è osceno in sé […] Credo anche che MT si divertisse a scandalizzare – ad affibbiare schiaffi sonori a ciò che Chaucer avrebbe semplicemente definito la “nuda realtà”6.

A completamento di quanto sino ad ora detto, vale la pena di citare ancora una volta lo stesso Twain che, avendo studiato in maniera approfondita i modi di fare e la mentalità sia maschile che femminile della cosiddetta “età aurea” della regina Elisabetta I, nel quarto capitolo del suo romanzo Uno yankee alla corte di re Artù, a proposito di una conversazione presso la famosa Tavola Rotonda, può permettersi di scrivere:

molti dei termini usati con la più grande disinvoltura da quella grande assemblea di dame e di gentiluomini di prim’ordine, ebbene, avrebbero fatto arrossire anche un comanche.
Indelicatezza? No, è un termine troppo blando per rendere l’idea. Certo, anch’io avevo letto Tom Jones e Roderick Random e altri libri del genere7, e quindi sapevo che in Inghilterra, per lo meno fino a un centinaio di anni fa, le dame e i gentiluomini inglesi, anche i più raffinati, indulgevano in un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, con ciò che implicava anche nell’ambito morale e di comportamento. Anzi, a essere sinceri, tale andazzo e proseguito anche nel nostro secolo XIX – quando, in linea di massima, nella storia dell’Inghilterra, o dell’Europa intera, hanno finalmente iniziato a fare la loro comparsa i primi esemplari di vere gentildonne e veri gentiluomini8. Pensate un po’…e se Walter Scott, invece d’infilare a martellate quelle conversazioni di sua invenzione nella bocca dei suoi personaggi, avesse permesso loro di esprimersi come volevano? Il modo di parlare di Rebecca, di Ivanhoe e della dolce Lady Rowena avrebbe imbarazzato persino uno scaricatore di porto dei nostri giorni9.

Al di là dell’ironia nei confronti delle vere gentildonne e dei veri gentiluomini del neo-puritanesimo borghese, è chiaro che a cadere sotto l’ascia da pioniere di Mark Twain è proprio colui che è ritenuto il padre di quel “romanzo storico” che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, avrebbe contribuito a ricostruire una storia nazional-popolare in chiave borghese. Percorso del quale Alessandro Manzoni fu in Italia esponente e precursore. Con tutte le conseguenze relative alla rimozione di linguaggi, mentalità e comportamenti considerati “disturbanti” all’interno delle reali classi sociali, basse o alte che fossero.

Non solo: vi è in Mark Twain la chiara e precisa volontà di reintrodurre nella letteratura un linguaggio vero, autentico e reale, a differenza, ad esempio, del Manzoni appena citato che, invece, fece di tutto per reinventarlo allo scopo di dare all’Italia una lingua “nazionale” (che spesso ancora oggi e con tanta difficoltà occorre imprimere a scuola nelle giovani menti). Rivendicazione che si affiancava al tentativo di Walt Whitman di ricorrere a livello poetico al linguaggio quotidiano e che avrebbe così tanto caratterizzato buona parte della letteratura e della poesia americana moderna (con buona pace di Henry James che per poter trattare temi relativi alla coscienza e alla moralità “borghese” fu costretto a trovar rifugio sulle sponde europee)10.

Ecco allora che per contrastare il neo-puritanesimo accluso al pacchetto del politically correct perbenista, Mark Twai può ancora rivelarsi utile e dilettevole. Come dimostra magnificamente la feroce critica rivolta alla religione cristiana e alla bigotteria contenuta in uno dei racconti più divertenti tra quelli compresi nell’antologia, La piccola Bessie, in cui una bimba di appena tre anni, con le sue imbarazzanti domande alla madre, mette in crisi gran parte delle verità della fede rivelata.


  1. Franklin J. Meine, Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana in Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 17-42  

  2. M. Twain, 1601.Conversazionii davanti al fuoco, op. cit., p.63  

  3. Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea, Introduzione a M. Twain, op.cit., p. 13  

  4. Cit. da Franklin J. Meine in M. Twain, op. cit., p. 19  

  5. Il 1849 fu l’anno della corsa all’oro in California – N.d.R.  

  6. Ivi, pp. 27-28  

  7. Si tenga presente che a narrare l’evento è il protagonista del romanzo stesso. I due romanzi citati, Tom Jones di Henry Fielding e Roderick Random di Tobias Smollett, uscirono, rispettivamente in Inghilterra nel 1749 e nel 1748 – N.d.R.  

  8. Corsivo ad opera del redattore di questo testo  

  9. Mark Twain, Uno yankee alla corte di re Artù, Mattioli 1885, 2020, pp. 44-45 cit. in F. J. Meine, op.cit., pp. 29-30  

  10. Per quanto riguarda Walt Whitman si veda invece qui su Carmilla  

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Camerino 47. Attore morto che parla (3-fine) https://www.carmillaonline.com/2021/03/26/camerino-47-attore-morto-che-parla-3-fine/ Thu, 25 Mar 2021 23:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65409 di Alfredo Angelici

Per la prima e la seconda puntata vai qui e qui.

Gli pneumatici della Fiat Bravo d’ordinanza dei carabinieri urlando inchiodano davanti al Teatro Bellini. L’automobile viene parcheggiata come da coreografia tradizionale, in diagonale, rispetto al marciapiede, bloccando così l’intera carreggiata.

Tutti gli astanti vivono in quel momento un fenomeno di psicosi collettiva e pensano all’unisono: – “ma se tutti i parcheggi sono liberi, perché non parcheggiano per dritto senza bloccare la strada?”

I lampeggianti restano accesi. I gendarmi scendono. Uno è [...]]]> di Alfredo Angelici

Per la prima e la seconda puntata vai qui e qui.

Gli pneumatici della Fiat Bravo d’ordinanza dei carabinieri urlando inchiodano davanti al Teatro Bellini. L’automobile viene parcheggiata come da coreografia tradizionale, in diagonale, rispetto al marciapiede, bloccando così l’intera carreggiata.

Tutti gli astanti vivono in quel momento un fenomeno di psicosi collettiva e pensano all’unisono: – “ma se tutti i parcheggi sono liberi, perché non parcheggiano per dritto senza bloccare la strada?”

I lampeggianti restano accesi. I gendarmi scendono. Uno è basso e magro l’altro è alto e gigantesco. Comanda il piccoletto. Noi siamo sulla porta a parlare con amici che non vedevamo da tanto tempo. Spaventati ci rifugiamo nel foyer.  È una serata speciale, scostumata ed impertinente: il teatro è aperto nonostante il divieto e c’è il pubblico. Abbiamo commesso un reato!

Vvvvvvvrrrrrrrrrttt

Crono figlio di Urano finisce di sgranocchiare un figlio, ormai sazio risparmia Zeus che un giorno lo spodesterà, poi, per digerire, capovolge la clessidra del nostro tempo.

Flashback.

La pellicola del film che stiamo vivendo gira all’indietro, e ci riporta a qualche ora prima. Siamo ora nella sala del bar del teatro. Matilde dice che la nostra entropia risulta “invertita”, e che pertanto se ci muoviamo all’indietro viaggiamo nel futuro per mezzo dell’inversione del flusso temporale.

-“non ho capito che hai detto”- esclamiamo noi tutti in coro

Arriva a sorpresa Christopher Nolan, avido di concetti casual-fisico-filosofici e sceneggiature criptiche, ruba l’idea di Matilde, scrive il film Tenet, nessuno capirà mai di che parla, allora lui vince l’Oscar.

Dicevamo, siamo noi quattro, i superstiti…Matilde Federica Lorenzo ed Io. Pier Giuseppe ci ha abbandonato al 30° giorno, Licia ha resistito fino al 66°. Ha firmato la regia dello spettacolo e, sull’orlo di una crisi di nervi, ha deciso di lasciarci e tornare a far l’amore tra gli ulivi pugliesi col suo fidanzato.

Ho un’erezione isterica al pensiero

Sono le 13e30 e a noi, invece, ci potete guardare come sempre in streaming, siamo in pausa prove, mangiamo lenticchie e ci interroghiamo sul daffarsi.

Il morale è basso, un po’ perché abbiamo perso il conto dei giorni che non vediamo la luce del sole ed il calore degli affetti si è già raffreddato, un po’ perché al tg per l’ennesima volta non viene nominano lo spettacolo dal vivo come parte integrante del tessuto sociale italiano, ma soprattutto per via del fatto che lo sponsor che ci riforniva di vino ha chiuso i rubinetti dopo il primo mese. In questo momento ci ritroviamo a pasteggiare con un aglianico dolce e mosso, comprato alla mescita a uno e novantanove dai nostri angeli custodi: gli uomini e le donne del Difuori. Quelli che possono uscire e che pensano ai nostri viveri e ad i beni di prima necessità. Adorabili, preziosi, essenziali, ma evidentemente primordiali e basici conoscitori di vino.

Lorenzo travestito da Vinicius De Morales mette su Spotify un Fado portoghese dallo sconsolato fascino rilassante, uno di quei pezzi struggenti che fanno star bene, poi dice:

-“como sàimos daqui. Não aguento mais, estou morrendo, quero sair, quero que alguém nos observe”.

Poi gira la testa tre volte e si arrampica sui muri come un ragno. Padre Lankaster Merrin, detto l’esorcista, si affaccia e ci chiede se è tutto a posto.

-”si padre, ce lo scusi, è l’effetto della Sindrome da Prisonizzazione”

-”è tutto sotto controllo padre, è un semplice processo di erosione dell’individualità funziona che sviluppi nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, parlare, assumi ideologie di tipo malavitoso e criminale. Per il resto a casa tutti bene grazie!”

Padre Lankaster Merrin ci guarda con rispetto, poi per sicurezza spara due:

– “Exorcizámos te, ómnis immúnde spíritus, ómnis satánica potéstas”

poi torna nel film. Lorenzo scende dal muro e torna Lorenzoforme.

-“come facciamo ad uscire da qui?”

-“facciamo come avevamo detto, quando il dpcm riaprirà il teatri invitiamo il pubblico e ce ne andiamo”

-“non è previsto….la data del 27 marzo suona farlocca è una data slogan”

-“ma ti pare che un Ministro fa un annuncio tipo uno spot su Twitter, non si rende conto che in un momento di gigantesca fragilità del nostro settore ogni frase, ogni parola o sillaba che lui dice è fondamentale? Ha un peso enorme”.

-”Perché ci tratta come dei ragazzini? Un Ministro che si rispetti studia, riflette, ascolta, fa i conti, poi ragiona poi tace di nuovo”.

-“Tace”
“-Tace”
“-Tace”
-“Lavora”
-“Lavora”
-“Lavora”

-”…e alla fine parla ma solo quando ciò che dice è un fatto concreto, un valore che effettivamente può essere un programma”.

Silenzio

Matilde, colpita dal ragionamento si inquieta. Prende la scopa e comincia a spazzare nervosamente.

Pausa, poi dice:

-“Un Ministro che si definisca tale non sottintende, non sintetizza, non grida ai quattro venti la riapertura dei teatri. Lo fa solo quando diventa consapevole che la filiera della teatralità italiana è messa nelle condizioni vere e concrete di poter tornare a lavorare e creare e produrre. E ad incontrare il pubblico, il suo pubblico. Il governo o l’amministrazione non può non conoscerne la complessità. Perché bisogna conoscere la complessità teatrale perché si abbia davvero una ripartenza e non è un’accensione simbolica delle luci di sala”

Ascolto queste sagge parole e mi incendio m’infiammo e m’infuoco, mi infilo la zuppiera a mo’ di elmo, sfilo la cucchiarella come spada, rubo la scopa a Mati, ci salto su a cavalcioni.

Declamo eroico:

“vedo nei vostri occhi la stessa paura che potrebbe afferrare il mio cuore, ci sarà un giorno in cui il coraggio degli uomini cederà, in cui abbandoneremo gli amici e spezzeremo ogni legame di fratellanza, ci sarà l’ora dei lupi e degli scudi frantumati, quando l’era degli uomini arriverà al crollo, ma non è questo il giorno. Quest’oggi combattiamo! Per tutto ciò che ritenete caro su questa bella terra, v’invito a resistere. Uomini dell’Ovest!”

Gli altri mi guardano tra l’attonito, il meravigliato e il compassionevole.

Intanto Daniele, l’autore, che è passato a salutarci travestito da Frodo Baggings, per farmi rinsavire mi molla un calcio in culo e mi fa cadere l’elmo dalla testa e con lui tutti i miei sogni di gloria.

-“scusate” – dico – ”è il provino che ho portato al Teatro di Roma, credevo fosse adatto all’occasione”
– “ti hanno scelto?”
– “no”
– ”devi lavorare sui costumi”

-“allora, stavamo dicendo: apriamo senza il permesso, un atto di protesta e di rottura”
-“ha detto l’avvocato che è un reato penale, non solo per noi ma anche per il pubblico che verrebbe”
-“allora non possiamo”….

Pausa
Silenzio

Federica fa per versarsi un bicchiere di vino.
Smorfia di disgusto degli altri.
Cambia idea.

-“usciamo e buonanotte ai sognatori”
-“dichiariamo il nostro fallimento e tutti a casa”
Federica assume un colore in volto tendente al blu, posseduta dallo spirito di Edward Norton e mossa da Spike lee

Urla

-“vaffanculo, fanculo tutti, fanculo anche noi, fanculo questa merda di paese, fanculo al pubblico che non sa chi c’è dietro al mondo dello spettacolo, in culo agli attori che vogliono aprire i teatri, fanculo ai registi che credono di essere indispensabili, fanculo agli autori che non hanno più un cazzo da scrivere, fanculo ai disegnatori luci che nessuno ha capito mai come si fa a disegnare con la luce, e vaffanculo agli ingegneri del suono che tanto oramai ascoltiamo tutto con la qualità dell’audio di una radiolina a transistors, che se ne andassero a fanculo macchinisti, elettricisti, fonici, falegnami, microfonisti, camionisti, costruttori di scena, pittori di scena, scenografi, coreografi, arredatori, autisti di produzione, musicisti, compositori, librettisti, aiuto registi, aiuto sceneggiatori, attrezzisti, aiutoattrezzisti, costumisti, sarte di scena, aiutosarte di scena, sottotitolisti, grafici, bozzettisti, assistenti alla regia, uffici stampa, direttori artistici, truccatrici, parrucchieri, comparse, figuranti, accompagnatori di minori, siparisti, suggeritori, mimi, trovarobe, addetti al catering (un tempo cestinari), trasportatori, stunt man, addestratori di animali (un tempo animalari), maestri d’arme, maschere, addetti alla biglietteria, guardarobieri, custodi, addetti alla sicurezza, addetti alla pulizia e al facchinaggio, montatori, aiutomontatori, montatori della scena, mixer, acrobati, addetti agli effetti speciali, rumoristi, disc jockey, marionettisti, burattinai, direttori di produzione, ispettori di produzione, segretari di produzione, location manager, casting, fotografi di scena, autori del backstage, imballatori, amministratori di compagnia, orchestrali, coristi, bandisti, maestri di canto, vocalisti, ballerini, danzatori, direttori di scena, impiegati amministrativi, curatori di produzione, trainer, produttori e distributori .….”

-“…e le loro famiglie”

Che ora è?

La 25esima.

-“certo che siamo proprio tanti”

Riflettiamo in silenzio che nessuno valuta seriamente l’indotto di cinema e teatro. Non solo la spesa al botteghino, ma lo shopping, i trasporti e i pasti fuori: 5,3 miliardi di spese, un valore aggiunto annuale del settore di 4,7 miliardi di euro, una produzione aggiuntiva da 10,8 miliardi, oltre a 99 mila unità di lavoro.

-“io a cosa servo”
-“io a cosa servo”
-“Io a cosa servo”
-“Io a cosa servo”

In questo momento esce Edipo dalle pagine della tragedia di Sofocle, ci guarda sorridente e ci intima che

-“proteggere e liberare le città dai danni provocati da un’epidemia, significa innanzitutto conoscere se stessi, prima che un’intera comunità si ammali di tristezza non riuscendo più a immaginare un futuro”.

Lo cacciamo via, che noi adulti qui si sta parlando di soldi non di sogni. Qualcuno dice che poi Edipo, non avendo retto al dispiacere di quello che ha visto in noi, è tornato nel libro ed ha ucciso il padre, copulato con la madre e si è ciecato. Non poteva sopportare la vista di come abbiamo bruttato ’sto mestiere.

Per farla breve, alla fine decidiamo di aderire a “Facciamo luce sui teatri”, la protesta ideata da Unita – Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo – un’associazione di categoria che suona seria ed aderente al settore. Siamo uno dei 600 teatri italiani che per questa notte accenderà le luci, le insegne, aprirà i portoni, inviterà il pubblico a recarsi a teatro … mamma mia come suona antico sembra una cosa del tipo “vi ricordate quando ancora si poteva….”. Come quando una specie si estingue e la si commemora.

In quattro e quattr’otto organizziamo la serata. Posizioniamo un podio nel foyer modello “Hyde Park corner”. Un microfono e basta. Chiunque vorrà, potrà salire sul podio e leggere un brano selezionato da noi, un testo scelto da lei, un pensiero condiviso da tutti. Stiamo attenti alle misure di sicurezza: amuchina come se non ci fosse un domani, litri di amuchina, ettolitri di amuchina. Eppoi rossetti, sì, proprio il lipstick del trucco. Serve alle persone che verranno, per scrivere sui mille specchi del Teatro Bellini. Per rispondere con dei pensieri alle domande: “cos’è il teatro per te” – “cosa ti manca del teatro” – “come vorresti che il teatro cambiasse” – “cosa può fare il teatro per te” …e così via.

Andiamo nei camerini e ci facciamo carucci. Ci laviamo, ci vestiamo coi vestiti della festa, ci trucchiamo, uomini e donne indistintamente. Mi metto per sbaglio troppo gel in testa, si crea l’effetto “ciuffo in su”. Lo prendo come un omaggio a Tutti pazzi per Mary, quando Cameron Diaz inconsapevole si sistema i capelli con lo sperma di Ben Stiller.

Ci sorridiamo con pudore come quando i fanciulli si accostano per la prima volta al sacramento dell’Eucarestia.

Emozione
Emozione
Emozione
Emozione

È una serata importante. Simultaneamente Veronica, Lello e Margherita dell’ufficio comunicazione lanciano l’evento sui social, spediscono email invitano amici e nemici.

Siamo pronti sono le ore 19. Orario della convocazione. L’eccitazione dell’attesa è palpabile. Carlo il custode si avvicina e mi dice una cosa in napoletano stretto. Capisco solamente che anche lui è emozionato. Gli sorrido ma con le mascherine sembriamo tutti Actarus il pilota di Goldrake. Allora gli canto il simpatico motivetto:

“Si trasforma in un razzo missile con circuiti di mille valvole
fra le stelle sprinta e va…
Lui respira nell’aria cosmica
è un miracolo di elettronica ma un cuore umano ha…
Ma chi è? Ma chi è?”

Felicità, isteria, trepidazione. Arriva la gente, il pubblico ed è

-L’INCONTRO

che aspettiamo da 76 giorni.

Dopo un anno circa il teatro, il nostro teatro torna ad essere un rito collettivo, catartico e purificatorio, basato su

-L’INCONTRO.

Si riprende violentemente la sua funzione sociale che risponde da sempre all’innato bisogno degli uomini di desiderio mimetico, di gioco, della narrazione delle storie, anche feroci, senza il timore di riceverne una punizione. Ed infine al piacere che c’è nel vivere la trasformazione dell’attore.

Il foyer si riempie ma la folla non diventa follia di massa, è tutto moderato e possibile. Il podio si illumina. Daniele fa da padrone di casa e legge un testo di Petrolini sulla funzione del Teatro. Poi io leggo Gaber. Poi qualcuno legge Flaiano. Poi Shakespeare, immancabile poi…poi….poi….

Qualcuno si disinfetta le mani e sale e legge

Garcia Lorca

“Finché attori e autori resteranno in mano d’imprese assolutamente commerciali, senza valore letterario o controllo statale di nessuna specie, imprese digiune di ogni criterio e senza alcuna garanzia, attori, autori e il teatro intero sprofonderanno ogni giorno di più….”

Poi un altro rimpiazza l’oratore di prima e legge Galeano

“Lei sta all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi. L’ orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve L’utopia? A questo, serve: a camminare”.

Le persone sul podio si trasformano, arriva Kierkegaard in persona

“Accadde in un teatro che le quinte presero fuoco. Il Buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo”.

Ci raggiunge Goethe

“Vorrei che il palcoscenico fosse stretto quanto il filo di un funambolo, cosicché nessun incompetente oserebbe metterci piede”.

Non può mancare Carmelo Bene

“Qui non si tratta della crisi di un teatro, ma del fatto che tutto il teatro è in crisi. Finché si penserà al teatro come a un raduno mondano, per assistere alla recita di gente imparruccata”.

Vvvrrrrrrrmmmmmm

Crono assonnato e gonfio di cibo riporta la clessidra del tempo ad ora. La pellicola si riavvolge nel futuro ed il passato raggiunge il presente. Avevamo lasciato la Fiat Bravo dei carabinieri parcheggiata male coi lampeggianti accesi. I gendarmi scendono. Uno è basso e magro l’altro è alto e gigantesco. Comanda il piccoletto. Noi siamo sulla porta a parlare con amici che non vedevamo da tanto tempo. Spaventati ci rifugiamo nel foyer. I due militari ci seguono all’interno ed io mi ricordo che furono due gendarmi ad arrestare Pinocchio. Lui diceva bugie. Sosteneva che l’uomo può trasformare la propria condizione passando dalla vita istintiva, simile a quella animale, alla vera vita, cospargendosi così del profumo di umanità.

L’app “Fata Turchina” che ho appena scaricato lampeggia e mi ricorda che “Se del perdono non sarai degno tutta la vita sarai un legno”.

Entra il carabiniere piccoletto. Guarda gli affreschi dell’800 del teatro e ci dice in dialetto sardo “Carrino questo llocale, ha apperto da ppoco?”

Buio

Sipario

Saluti

…e visto che ci siamo

Baci

Appare una scritta creata espressamente a chiusura della storia

-il vento può spegnere una candela ed accendere un incendio-

 

La prima foto è di Michele Amoruso.

(Il 5 marzo, a un anno esatto dalla chiusura dei teatri, si è sciolto il progetto Zona Rossa, un’iniziativa che ha unito protesta e performance artistica per denunciare la situazione di abbandono in cui versano i teatri nel nostro Paese. Il gruppetto di attrici, attori e drammaturghi/registi che ha trascorso settantasei giorni di reclusione all’interno del teatro Bellini di Napoli senza mai uscire ha messo fine al suo confinamento volontario. Durante questo tempo i reclusi hanno fatto teatro, si sono interrogati sul senso di questo lavoro, sulla sua necessità, sulle ragioni della crisi dello spettacolo dal vivo, esasperata dalla pandemia, e hanno mostrato in streaming non uno spettacolo compiuto, ma le fasi creative che portano alla sua realizzazione. Tutto questo in attesa dell’annuncio della riapertura dei teatri, per debuttare davanti a un pubblico. Ma la data del 27 marzo, indicata dal Governo per la ripresa delle attività, è sembrata da subito uno specchietto per le allodole e certamente non ha mai rappresentato per i protagonisti del progetto Zona Rossa una risposta alle criticità e alla complessità del settore. Missione fallita dunque? Anche se così fosse, per gente di teatro non sarebbe un buon motivo per perdersi d’animo, stando almeno a quanto sosteneva Samuel Beckett: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. F.C.)

 

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Il desiderio, l’immaginario e i fantasmi rimossi della lotta di classe https://www.carmillaonline.com/2020/05/06/il-desiderio-limmaginario-e-i-fantasmi-rimossi-della-lotta-di-classe/ Wed, 06 May 2020 21:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59659 di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma [...]]]> di Sandro Moiso

Annie Le Brun, L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile (a cura di Martina Guerrini), BFS Edizioni, Pisa 2020, pp. 188, 14,00 euro

Noi viviamo di domande fatte al mondo immaginario (Victor Hugo)

In una guerra sul mare, vi è una grande differenza tra l’osservarne la superficie attraverso un periscopio o dalla tolda di una nave. In fin dei conti, ce lo insegna (piaccia oppure no) la seconda guerra mondiale, durante la quale i vincitori furono coloro che impiegarono massicciamente navi e portaerei piuttosto che fare degli U-boot l’arma privilegiata. Questi ultimi, infatti, potevano inquadrare e colpire con sufficiente precisione singoli obiettivi, talvolta causando gravi perdite al nemico, ma chi puntò maggiormente sulle prime, potendo spaziare più lontano con lo sguardo, ebbe modo di colpire a distanza e in maggiore profondità.

La metafora della guerra sul mare potrebbe anche non piacere all’autrice, anarchica e antimilitarista, del libro qui recensito, ma può rivelarsi utile per guardare a due differenti approcci al problema del rovesciamento dei rapporti sociali e di produzione ancora vigenti.
Uno si accontenta di singoli, momentanei obiettivi (talvolta raggiunti, talvolta no), attraverso cui arrivare ad un cambiamento graduale, un passo dopo l’altro, destinato in realtà a non aver mai fine; mentre l’altro cerca uno scontro a tutto campo che allarghi la sua azione ad un orizzonte il più vasto possibile, per poter giungere ad una distruzione totale e definitiva dell’avversario. Questo secondo metodo può avere un margine momentaneo di errore un po’ più ampio, ma è sicuramente destinato a rivelarsi come l’unico possibile per una strategia di successo.

Anche la vita dei due equipaggi è in/comparabile: tristi, rinchiusi in un ambiente asfittico e buio i sommergibilisti, più baldanzosi e vivaci coloro che all’aria aperta su una tolda spazzata dal vento e dalle onde, ma illuminata dal sole, possono osservare l’orizzonte. Cogliendo con largo anticipo, anche ad occhio nudo, i mutamenti climatici e le mosse che potrebbero avvantaggiarli nella lotta contro il nemico. Senza parlare poi di quelli che possono librarsi in volo e spingersi a guardare con i loro occhi oltre l’orizzonte stesso. Anche al di là di quello temporale.

Annie Le Brun appartiene senza ombra di dubbio ai secondi, anzi ai terzi, in grado di volare oltre le miserie e le banalità del presente per provare a cogliere la gioia di vivere futura già in ogni istante del vissuto quotidiano. Nata nel 1942 a Rennes, è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria. Dopo aver incontrato André Breton a ventuno anni, prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 fino all’autodissoluzione del gruppo. E’ autrice di numerosi testi di cui soltanto due sono stati tradotti in italiano: Disertate! (il femminismo è morto), pubblicato da Arcana nel 1978 e quello qui recensito. Inoltre, nel 1996, ha curato la prefazione all’edizione francese del Manifesto di Unabomber, L’avvenire della società industriale.

Con il testo edito in Italia nel 1978, Annie aveva già suscitato un certo scalpore, proprio contrapponendo la vita all’ideologia, l’azione alla ripetizione formale di concetti provenienti da un esistenzialismo filosofico virato al femminile da Simone De Beauvoir, che del maggior rappresentante di quella corrente di pensiero (Jean-Paul Sartre) era stata compagna nella vita.

Qui, dove la perseveranza sta al posto dello slancio, e la ripetizione al posto della convinzione, eccoci ben lontani da tutte quelle lavandaie, battilana, brunitrici, calzolaie… della Comune di Parigi che ci hanno svelato le radici della rivolta femminile nel cuore stesso della vita, nel momento stesso in cui essa era più minacciata. Non che io voglia qui opporre l’azione alla riflessione. Voglio piuttosto opporre l’incontenibile esplosione di un’idea, alle ardite speculazioni più o meno interessate di cui essa diviene poco a poco il bersaglio e di cui non mancano mai di ridurre la portata. Quando si tenga bene a mente la tensione di queste donne della Comune prese nella invenzione appassionata del loro destino particolare e collettivo, la falsa obiettività universitaria del Secondo sesso diviene insopportabile, per il suo non essere altro che un artificio capace di ingannare le inquietudini di una personale devozione filosofica1.

Secondo l’autrice, infatti, mentre le femministe del XVIII e XIX secolo erano impegnate a cancellare l’illusoria differenza che investiva gli uomini di un potere reale sulle donne, il neo-femminismo si affannava e si affanna a stabilire la realtà di questa differenza per pretendere un potere illusorio, che spesso ha portato il movimento a sfociare nel carrierismo, nello psicanalismo più grossolano oppure in un prolisso rivendicazionismo. Nel denunciare tale impasse l’autrice fonde il suo stile con quello dei surrealisti e dei situazionisti, cui sarà sempre fedele, come anche nel testo recentemente curato da Martina Guerrini. Che, nell’Introduzione, può affermare:

Il mio incontro con il pensiero di Annie Le Brun è stato un lampo capace di aprire un orizzonte da troppo tempo oscurato. Il suo unico lavoro tradotto in italiano mi aspettava su una bancarella di libri, e mai come in quel momento è stato comprensibile quanto l’imprevisto fosse benvenuto. Da allora è stata una corsa forsennata ad approfondire, un’immersione in ampi spazi e in abissi profondi, accompagnati da una scrittura sensuale e ruvida allo stesso tempo, difficile, carica di negativo.
Questo testo non fa eccezione, né fa sconti alle sicurezze e ai rituali – teorici, politici, filosofici, artistici – e soprattutto evita accuratamente di dare indirizzi o soluzioni.
È la bellezza sconvolgente dell’autrice, che non si nasconde mai pur chiedendo ai lettori e alle lettrici di abbandonare i propri sentieri perché tutto sia chiaro, […] Vale la pena, certamente, faticare e scalare letteralmente la prima parte dell’Eccesso di realtà, per capire cosa è realmente un testo di critica radicale.
D’altra parte, inerpicarsi su alte vette e raggiungere orizzonti a pochi consentiti è infinitamente più affascinante che cercare e trovare ciò che nutre la noia dei pensieri battuti2.

E’ un percorso di analisi e riflessione ben preciso quello che il testo della Le Brun ci propone. Percorso che va dall’impoverimento del linguaggio contemporaneo, dovuto principalmente ad un abuso di tecnicismi e di vocaboli tratti da una terminologia che si vorrebbe scientifica e specialistica, all’inaridimento della poesia (e più in generale della letteratura), costretta ormai a ripetere soltanto cliché stilistici ed emozionali destinati a fare trionfare il principio di realtà all’interno di ogni discorso e di ogni riflessione. Si badi bene però, l’unica realtà possibile deve essere quella dell’esistente e non quella della sua negazione. Il principio di realtà dominante, derivato ed esaltato da quello degli specialisti, degli intellettuali e dei promotori del pensiero asservito può essere soltanto quello che nega la negazione del mondo che ci è imposto.

E’ questo l’eccesso di realtà di cui ci parla l’autrice. Una realtà che si confonde con il virtuale e che, attraverso la distorsione del linguaggio e della poesia, giunge a delimitare l’immaginario per mezzo della finzione di un certo grado di tolleranza e, ancora, a sradicare il desiderio, incanalandolo lungo una sorta di sistema binario in cui lo 0 e l’1 sono sempre definiti secondo le logiche della assuefazione sistemica al principio di massima soddisfazione possibile all’interno di ciò che già esiste, senza mai superarne i limiti.

Un processo di spersonalizzazione collettiva ottenuta per il tramite di moduli adeguati a soddisfare le più svariate formule identitarie, in cui il politically correct ha la funzione fondamentale di rimuovere l’individuo e le sue passioni, i suoi lati oscuri, la sua sessualità, veri motori di ogni rivolta. Che non può scaturire altrimenti che dall’incontro delle contraddizioni del reale con l’immaginario, non ancora massificato, prodotto da una psiche che affonda le sue radici nella carne e non nella realtà prodotta dal web e dai suoi master.

Ecco allora che «le parole di Shakespeare, Charles Bukowski o Emily Dickinson si trovano poste sullo stesso piano di quelle di Neruda e altri cantori stipendiati»3. Una poesia che non può e non deve contenere già il seme della rivolta, ma funzionare da antidepressivo in funzione della conservazione dell’esistente.

Bisogna forse ricordare che i totalitarismi del xx secolo si sono tutti distinti per un medesimo gusto inveterato per una cultura raggiante di felicità? Stalin e Hitler erano degli allegri buontemponi in materia culturale e su fino a Tito che, alla fine della sua vita, ha condannato tutto ciò che gli sembrava troppo tetro, per promuovere se non ordinare una letteratura e una musica “rosa”. Certo, le cose sono cambiate: la poesia è diventata l’antidepressivo che ci obbligano in ogni momento a ingurgitare…4

Per raggiunger l’obiettivo desiderato occorre far circolare “dizionari della contestazione” in cui:

in buona posizione troviamo premi Nobel, dal “molto politicamente corretto” Dario Fo allo sbirro stalinista Pablo Neruda, mentre non vi figurano, per esempio, i nomi di René Crevel e del poeta Benjamin Péret, disertore francese, condannato in tre paesi diversi, solo menzionato qua e là, in una frase, per la sua partecipazione a Dada, al surrealismo, o ancora per un poema “istericamente anticlericale” […] Ma ci si domanda se non sia meglio essere stati dimenticati piuttosto che figurare in una simile antologia, dove se Georges Bataille è citato come “scrittore francese”, Antonin Artaud è citato,proprio lui, come “scrittore dei limiti”.5

Scriveva Sigmund Freud in una lettera a Eric Jones del 17 maggio 1914: «Colui che permetterà all’umanità di liberarsi dall’imbarazzante sottomissione sessuale, qualsiasi stupidaggine scelga di dire, sarà considerato come un eroe»6.
Perché è proprio al punto di incontro tra impedimenti del reale, immaginario e sessualità che scaturisce il desiderio. Quel desiderio senza il quale non può esistere nemmeno il rovesciamento dell’esistente ovvero la rivoluzione. Perché solo dal desiderio più profondo può scaturire la passione.

Passione e possibilità di rivoluzione viaggiano l’una accanto all’altra. Minare la prima attraverso i percorsi di imposizione dell’unica realtà possibile significa, nella sostanza, minare e impedire la seconda. Impedendone anche soltanto il desiderio. Desiderio che per essere tale, vivo e provocatorio, può soltanto essere individuale, nato nel profondo di ognuno, ma che è destinato ad appassire e a morire ogni volta in cui è canonizzato in formule destinate a risistemarlo e impoverirlo. Per trasformarlo in una merce vendibile ad una maggioranza di consumatori passivi.

L’erotismo mercificato e fintamente liberato dalla cultura dominante odierna, si tratti della pruderie contenuta nelle pagine di noti scrittori invitati a scrivere racconti erotici per le riviste femminili o del voyeurismo mascherato nel discorso di tanti intellettuali e filosofi alla moda, oppure rimosso dal discorso neo-femminista, risponde in fin dei conti alla necessità di deerotizzare l’insorgenza, la ribellione spontanea, la rivoluzione. La fossilizzazione della quale avviene con un percorso lastricato da buone intenzioni, schemi e formule ripetute come mantra, buone per tutte le occasioni. Inutili e riduttive sempre, poiché destinate a rivitalizzare il conformismo dell’esistente.

Affinché la rivoluzione non sia patrimonio dei grigi burocrati e degli insoddisfatti petulanti, di ogni genere e convinzione, deve vivere di pulsioni e di passioni che non possono essere ridotte a formule, pena l’estinguersi ancora prima di essere entrata in scena. Come separarla infatti dalle giovani operaie pietroburghesi senza obblighi famigliari della rivoluzione del febbraio 1917? Come separarlo dalle donne della Comune e, infine, come separarla dall’irrefrenabile pulsione desiderante che animò la rivolta giovanile e operaia del ’68 e del ’77?

Oggi i linguaggi, i corpi, i desideri, le pulsioni devono essere codificati in una finzione di liberazione i cui promotori sono ben lontani, e non potrebbe essere altrimenti, da quella indicata, senza inutili pedagogismi, da Sade, Baudelaire, Rimbaud e dai surrealisti (cui oggi occorrerebbe anche aggiungere almeno un autore come James Ballard). Riscoprire tutto ciò, attraverso lo sguardo d’aquila e il cammino talvolta tortuoso della Le Brun, significa tornare alle origini della rivolta.

Quella che muove sempre da un moto individuale di rifiuto dell’esistente e delle sue leggi. Ciò che spesso non si sa come spiegare, ma che è immancabilmente destinato a diventare collettivo. Si tratti pure del manifesto di Unabomber o degli atti vandalici messi in atto dai giovani teppisti delle banlieue.
Farlo, significa tornare alla radici della negazione radicale, senza la quale non vi è cambiamento reale possibile. Liberando i fantasmi rimossi della lotta di classe dalle loro catene.


  1. A. Le Brun, Disertate!, Arcana 1978, pp. 10-11  

  2. M. Guerrini, Introduzione, A. Le Brun, L’eccesso di realtà, BFS Edizioni 2020, pp. 5-6  

  3. A. Le Brun, L’eccesso di realtà, op. cit. p.86  

  4. A. Le Brun, cit. p.86  

  5. Ibidem, pp. 94-95  

  6. Ivi, p.186  

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L’estate del 1964 (o giù di lì e oltre) – 3 https://www.carmillaonline.com/2016/01/28/lestate-del-64-o-giu-di-li-e-oltre-3/ Thu, 28 Jan 2016 22:10:02 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27941 di Sandro Moiso

bonasia 2Don’t think twice, it’s alright” (Bob Dylan)

Oggi le manifestazioni, prima e durante gi eventuali incidenti di piazza, sono rumorose. A tratti isteriche. Mentre di quegli anni ricordo le facce tese, i timori, il silenzio. Silenzio interrotto dalle sirene, dai botti dei lacrimogeni, delle molotov, degli spari di qualche agente e dagli ordini impartiti. Dall’una e dall’altra parte. Lo scalpiccio sulla strada durante la rincorsa per l’assalto o la fuga.

Ai passamontagna di seta affidavamo il nostro anonimato, la nostra protezione. Al compagno o alla compagna che ci stava a fianco affidavamo la nostra salvezza. Quanti [...]]]> di Sandro Moiso

bonasia 2Don’t think twice, it’s alright
(Bob Dylan)

Oggi le manifestazioni, prima e durante gi eventuali incidenti di piazza, sono rumorose. A tratti isteriche. Mentre di quegli anni ricordo le facce tese, i timori, il silenzio.
Silenzio interrotto dalle sirene, dai botti dei lacrimogeni, delle molotov, degli spari di qualche agente e dagli ordini impartiti. Dall’una e dall’altra parte.
Lo scalpiccio sulla strada durante la rincorsa per l’assalto o la fuga.

Ai passamontagna di seta affidavamo il nostro anonimato, la nostra protezione. Al compagno o alla compagna che ci stava a fianco affidavamo la nostra salvezza. Quanti mantennero la promessa, come fece Riccardo con me? E quanti la tradirono? E con le telecamere sparse in ogni angolo di città, basterebbe ancora coprirsi il volto soltanto prima dello scontro?

Cordoni, compagni!” ed occorreva tenerli. Per pochi minuti o pochi secondi, non importava. Per fermare l’urto o, almeno, rallentarlo.
Per permettere ad altri di allontanarsi o di posizionarsi diversamente
Era la guerra. La guerra di classe di quegli anni.
Era la nostra azione di classe. Alla fine il lavoro politico di massa sfociava lì.
Così ci vollero le organizzazioni, per poi smentirlo nei decenni successivi.
Perché i leader fallimentari di allora potessero poi dire che il loro intento era stato altro. Sì, questa è una certezza: furono i leader a fallire, non noi.

Oggi forse non potrebbe più essere così.
Ora la violenza antagonista sembra scimmiottare un passato, forse, finito. Una violenza, anche solo difensiva, che sembra più preoccupata della propria autorappresentazione che della possibilità di dispiegarsi efficacemente.
Così assisto a marce e proteste pacifiche e ad arresti e fermi. Mentre la violenza dello Stato sempre uguale, sembra farsi sempre più cruda e senza limiti. Nemmeno di decenza.
Vedo assassini in divisa essere prosciolti da ogni colpa.
E vedo ancora processi in cui sono richieste pene terribili per atti di poco conto.

Ma devo chiedermi: i poteri hanno paura di una nuova esplosione di violenza o la vogliono causare? Vogliono ancora attirare in una trappola mortale i movimenti, come alla fine degli anni settanta?
D’altra parte se continuassi a credere che solo la nostra via era giusta, non rischierei di far come quei vecchi comunisti che, non riconoscendo nei movimenti che ho vissuto le stesse loro esperienze o le stesse loro iniziative, finirono col buttare il bambino con l’acqua sporca?

La scienza della Rivoluzione è una scienza di sistemi immobili oppure in movimento?
Dobbiamo rimanere ancorati per sempre ad un meccanicismo frutto del seicento e del positivismo oppure accettare il relativismo con cui la fisica cerca di fare i conti fin dall’inizio del Novecento?
Quante sono le variabili di cui i nostri predecessori non hanno tenuto conto?
Di cui noi, in passato, non abbiamo tenuto conto?

Lama 77Soltanto a partire dal movimento del ’77 si iniziò a ragionare in maniera diversa.
In termini di movimenti e non solo di classe.
Ma quella stagione fu troppo breve. Forse troppo pericolosa. Per tutti e per il PCI e il sindacato in particolare.
Che furono definitivamente, anche se per un breve periodo, esautorati. Come successe a Lama all’università di Roma.

La risata e lo sberleffo avevano costituito la cifra distintiva dei primi mesi di quell’anno.
L’anarchica e liberatoria risata destinata a seppellire burocrati e capitalismo sembrava aver preso il sopravvento insieme alla ricerca della felicità, senza limiti e senza remore.
Era stato ciò a spaventare inizialmente, più delle armi o degli slogan più truci.
Perché il riso corre spesso sulle labbra degli stolti, ma anche dei santi e dei pazzi.

Fummo un po’ tutto questo: illusi come gli stolti, limpidi come i santi e feroci come i pazzi. Ma tutto si legava.
Le nostre illusioni venivano dal sogno rivoluzionario che avevamo assorbito dalle generazioni precedenti; la nostra santità da Kerouac e dalla ricerca della vera felicità; la nostra pazzia dalla rabbia e dall’orrore per l’essenza di tutto quanto ci circondava ancora e dalla voglia di farla finita una volta per sempre con le differenze che ancora dividevano un mondo grigio ed infelice.

Di classe, genere, etnia, cultura e religione.
Cercando di superare un concetto limitato e, qui da noi, superato, come quello di classe operaia.
La comunità umana. La gemeinwesen del giovane Marx: ecco forse cosa cercavamo di realizzare. Un comunista francese1 la teorizzava già negli anni sessanta. Con la crescente proletarizzazione dell’esistente occorreva uscire dai recinti per comprendere la complessità. Così chi, oggi, punta soltanto sulle lotte operaie subirà una delusione.

Mentre chi usa le vecchie forme sindacali e politiche del movimento operaio come parametri per misurare l’efficacia delle lotte odierne o a venire, sicuramente, subirò ancora una sconfitta.
Scambiando ciò che non può più essere per ciò che dovrebbe essere.
Ma ciò che non è, è tale perché non è più adeguato.
L’Araba Fenice risorge per volare, se non lo fa e soltanto perché non può più farlo con quelle ali.

La storia, soprattutto quella delle lotte di classe, è un flusso.
La possiamo immobilizzare pirandellianamente in una forma soltanto nei libri. O nella retorica.
Ma nel farlo già la stiamo sovvertendo o falsificando. Per questo ho scelto questa scrittura disordinata. Il flusso di pensieri appartiene di più all’oralità che alla scrittura.
E più alla poesia che alla prosa.

sundance kid e butch cassidy Gli antichi, mentre emergevano dall’oralità pura, lo avevano capito.
Erano mica fessi. La prosa serviva a bloccare i dati contabili nei registri.
A fissare le leggi che dovevano dare stabilità ai regni. E al dominio di classe.
Ma la storia, gli dei e gli eroi dovevano essere cantati.
Cambiando l’interpretazione secondo la scelta di chi recitava, il pubblico che ascoltava o, ancora, la capacità mnemonica di chi ricordava. Creando, attraverso l’invenzione, la realtà del flusso della vita. E dei suoi infiniti cambiamenti.

Poi si stabilizzò tutto con un nome: Omero, mai esistito. E abbiamo continuato a fare così.
A fissare la varietà della produzione intellettuale in pochi grandi nomi.
Marx, senza le lotte che gli avevano permesso anche solo di pensare ad un altro mondo.
Shakespeare, senza le improvvisazioni teatrali delle compagnie girovaghe, copiate a loro volta dalle storie narrate per strada. O nelle sale segrete delle ricche dimore.

E poi gli orrori assoluti: i testi sacri, di qualsiasi religione.
Che fissavano nell’uomo l’erede di Dio e il dominatore della natura.
Che di per sé è indomabile. Che può essere distrutta e devastata, ma non domata.
Erano arrivati i testi della vendetta, divina ed umana.
I testi che sono diventati il modello per ogni nuova religione, politica o scientifica che sia.

I dieci comandamenti.
Della chiesa, degli stati, dei partiti, dell’economia basata sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e degli uomini.
Che stabilizzavano forme di schiavitù, vecchie o nuove, per poi fingere di combatterle.
Spazzando via le religioni animistiche e il riconoscimento materialistico delle forze reali che agitano il mondo.

Un altro comunista2, più vecchio, aveva teorizzato che il comunismo avrebbe riunito, con un arco millenario, le prime comunità umane, prive di proprietà e di stato, con quella del futuro.
Oggi mi sembra diventata fondamentale ogni lotta in cui la difesa degli interessi economici della maggioranza della specie umana si ricolleghi alla difesa del territorio, dell’ambiente e della salute. Ogni lotta che tenda a superare le differenze di genere ed etnia è oggi proiettata verso il futuro, se condotta a livello di massa, mentre, anche se la contraddizione tra lavoro e capitale resta essenziale, chiudersi nelle fabbriche e nei particolarismi, per rivendicare un lavoro che non c’è più, non porterà più da nessuna parte.

E che, ricordiamolo bene, imparammo fin dagli anni settanta a rifiutare.
Il lavoro salariato ha contraddistinto l’800 e il ‘900. Farne ancora un verbo per il XXI secolo sarebbe suicida. Non l’avevano capito solo l’autonomia o l’operaismo.
Già nel 1890, in una lettera indirizzata al Congresso della Socialdemocrazia tedesca di Halle, Antonio Labriola aveva scritto che non avremmo mai più dovuto rivendicare il diritto al lavoro, base di ogni cesarismo. Occorre saltare oltre la società basata sullo sfruttamento e l’accumulazione di profitti. E non sono convinto che lo si possa fare soltanto in nome della classe operaia.
Perché è la specie nella sua interezza a non poter più convivere con il capitale.

Scriveva un giovane Engels nel 1844-45: ”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. bonasia 3 Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere”.

Che dire oggi, quando la vita della maggioranza assoluta ha perso qualsiasi valore e dignità umana?
Quando i primi 85 Paperoni possiedono l’equivalente di ciò che possiedono gli ultimi tre miliardi e mezzo di donne e di uomini? Cos’è oggi la classe?
Quali sono le forme politiche ed organizzative in cui potrà esprimere meglio il suo progetto di liberazione?
La domanda resta aperta e, come sempre, sarà soltanto il divenire delle lotte a fornire le risposte più utili ed efficaci.

L’unica cosa sicura è che non esistono verità e certezze assolute. D’altra parte anche le grandi verità storiche rischiano nel tempo di assumere la fissità della morte. Se la vita è cambiamento, e i movimenti reali ne hanno da sempre costituito la testimonianza, ogni ipostatizzazione formale degli avvenimenti che hanno di volta in volta trasformato e modificato, anche radicalmente, la realtà sociale non può che corrispondere ad una scelta conservatrice e, sostanzialmente, controrivoluzionaria. I regimi e le tirannidi, così come le sette, hanno sempre avuto bisogno di verità assolute, di continuità e tradizioni reinventate, la comunità umana in divenire no.

Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (Ideologia tedesca – Karl Marx e Friedrich Engels, 1846)

(Fine)


  1. Jaques Camatte, Il capitale totale, Dedalo 1976 e Verso la comunità umana, Jaca Book 1978  

  2. Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo socialeAmadeo Bordiga  

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La carica dei 600 https://www.carmillaonline.com/2014/03/06/13250/ Wed, 05 Mar 2014 23:10:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13250 di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla” di Sandro Moiso

balaclava 1

“A furia di incidenti, di guerre provocate ad arte, di primavere improbabili, come quella fasulla in Libia, o come in Egitto dove ora comandano i militari dopo un colpo di Stato nel silenzio più assoluto delle cosiddette democrazie, a furia di nazioni usate come terreno di scontro di interessi internazionali a colpi di bombe e di disinformazione, come in Siria, la situazione potrebbe sfuggire a tutti di mano. Potrebbe scoppiare un incendio che brucia la casa come può succedere a un bambino che gioca con i fiammiferi. Andò così nel 1914, Sarajevo fu solo una scintilla”1. Per una volta Beppe Grillo non ha postato soltanto un’ennesima boutade, ma si è avvicinato ai fatti con una certa precisione. Diamogliene atto. Anche se, dal punto di vista dell’antagonismo di classe, la questione rimane un po’ più complessa.

D’altra parte ciò che scrive sul suo blog era già stato precedentemente affermato qui, su Carmilla, proprio a proposito della Siria2. E oggi, come allora, lo scontro politico in Ucraina potrebbe sia fermarsi, e rimanere tale, sia svilupparsi in un conflitto più allargato. Ciò che conta però è la tendenza e questa rimane sicuramente, e soprattutto da parte statunitense, indirizzata verso una situazione di guerra diffusa, destinata a minare gli equilibri e gli interessi europei nel Mediterraneo e nell’Europa Orientale. Come le code di giovani nazionalisti ucraini pronti ad arruolarsi a Kiev, dopo la visita di Kerry, fanno purtroppo presagire.

Anche se qui da noi si fa a gara, nei mezzi di informazione, nel far vedere chi è più ignorante di cose ucraine3 e di tutto ciò che riguarda la storia recente e passata , dovrebbe essere chiaro che l’Ucraina e, in particolare, la penisola della Crimea costituiscono nei rapporti con la Russia un nodo sicuramente delicato, spinoso e pericoloso. Un autentico terreno minato per la politica, la diplomazia, la geopolitica e l’economia.

Qualsiasi studente che abbia terminato la quarta classe degli istituti superiori dovrebbe, infatti, sapere che uno dei conflitti più sanguinosi della metà dell’ottocento fu proprio quello che vide coinvolte Gran Bretagna, Francia e Impero Ottomano da un lato e Impero Zarista dall’altro per il controllo della penisola della Crimea e di Sebastopoli. Peccato che, troppo spesso, non si spieghi il perché di quella guerra che vide schierate su fronti opposti due potenze che dal congresso di Vienna in avanti avevano costituito il cuore politico e militare della Santa Alleanza ovvero Russia e Gran Bretagna.

Unite nella reazione e nella controrivoluzione, ma nemiche negli scopi di espansione imperiale. Unite nel reprimere qualsiasi sollevazione rivoluzionaria in Europa, ma nemiche giurate dal Caucaso all’Hindu Kush e dal Mare Mediterraneo agli oceani e ai mari del nord. Ma una domanda ancora più difficile sarebbe, per gran parte del giornalismo italiano e per gli insegnanti di storia, chiedere quali fossero, e ancora siano, i porti principali per le flotte russe e quale la loro dislocazione.

Sì, perché il rapporto della Russia, in ogni sua forma statuale (Impero, Sovietica o attuale), con il mare è stato da sempre problema di non poco conto. Impero o nazione dal territorio immenso, ma scarsamente dotato di sbocchi al mare o, per lo meno, di sbocchi al mare utili sia dal punto di vista commerciale che militare. Non per nulla fu proprio lo czar Pietro I detto il Grande a cercare di sviluppare una prima flotta russa a partire dalla fondazione di San Pietroburgo, che per quello czar avrebbe dovuto costituire lo sbocco verso il mare, e l’ammodernamento del paese, in chiave anti-svedese e di politica di potenza sul Baltico ed oltre.

Infatti uno dei motivi della cronica arretratezza dello sviluppo russo aveva, sicuramente, ed ha avuto, anche in epoca sovietica, origine nella scarsità di accessi al mare. Infatti da Atene a Roma, dal Portogallo alla Spagna e dall’Olanda alla Gran Bretagna fino agli Stati Uniti, la libertà di accesso al mare e agli oceani e il loro dominio ha sempre costituito non solo un motivo di potenza ma, anche, di sviluppo. Mentre la Russia, sicuramente imponente come potenza continentale, si è sempre vista invece relegata a pochi altri porti oltre a quelli sul Baltico, mare chiuso e talvolta gelato:

– Primi tra tutti i porti sul Mar Nero e, in particolare, oltre a quello di Odessa, in Crimea. Sostanzialmente chiusi in un mare il cui controllo sta però nelle mani della Turchia (da lì l’insanabile conflitto politico e militare tra le due nazioni di cui si è avvantaggiata da sempre la NATO), attraverso il Bosforo e poi attraverso i Dardanelli.

– Il porto di Vladivostock, in Siberia, nell’estremo oriente del paese, che costituisce il più importante (quasi unico) accesso diretto della Russia all’Oceano Pacifico, ma chiuso tra Cina, Corea del Nord e Mar del Giappone ed estremamente isolato dal resto del paese (come si dimostrò durante la guerra civile quando fu occupato da truppe canadesi, cecoslovacche, americane, giapponesi ed italiane), di cui costituisce la stazione finale della ferrovia transiberiana.

– Arcangelo, posto sul Mar Bianco e scelto nel 1693 dal solito Pietro il Grande come sede dei cantieri navali russi. Idea che fu poi superata dalla fondazione nel 1704 di San Pietroburgo poiché il porto di Arcangelo rimaneva bloccato dai ghiacci per almeno cinque mesi all’anno. Proprio questa impossibilità di navigare per lunghi periodi sul Mare di Barents e sui susseguenti Mar di Kara e sul Mar Glaciale Artico fino al Mare della Siberia Orientale e al Pacifico, spinse l’Unione Sovietica alla costruzione di navi rompighiaccio sempre più grandi e potenti, fino alle attuali a propulsione nucleare. Anche, se in anni recenti, il riscaldamento globale ha permesso alle navi russe di navigare lungo tutte le coste settentrionali fino all’Oceano per tutto l’inverno. E questo costituirà ben presto per gli americani un vero e proprio problema “ambientale”.

– A tutto ciò va poi aggiunto che se la più grande nazione del mondo è sostanzialmente sotto-popolata e la sua popolazione è principalmente concentrata nella Russia europea, ciò è dovuto alla scarsa abitabilità di un territorio, come quello siberiano, in cui la presenza del permafrost 4 impedisce la presenza di qualsiasi forma di agricoltura, con una densità media di popolazione di 2 abitanti per kmq.
BALACLAVA-2
Tutto ciò dovrebbe rendere chiaro che l’accanimento politico-mediatico e militare occidentale attuale nei confronti di territori strategici per la Russia (in Siria, è già stato precedentemente detto, vi è l’unica base navale russa nel Mare Mediterraneo), non potrà essere tollerata né da Putin né da qualsiasi altro gerarca russo (compreso quel vecchio ubriacone di Boris Eltsin cui l’Occidente poté chiedere qualsiasi cosa, ma che non avrebbe mai ceduto la Crimea).
Senza contare, poi, che l’Ucraina, oltre che importante per la sua posizione geo-strategica, è anche fondamentale per la sua produzione agricola, che ne ha fatto per secoli l’autentico granaio d’Europa e della Russia.

Chi spinge, oggi, in direzione della secessione sta cercando la guerra economica e mediatica oppure, domani, guerreggiata oppure, ancora, la semplice sottomissione della Russia alle pretese americane di dominio. Non vi sono altre scuse. Dimenticando, però, che la Russia di Putin sembra poco propensa a piegarsi ai voleri della NATO e dell’Occidente, così come ha già dimostrato in Siria e col sorprendente recupero di posizionamento politico in Egitto.

Certo, la Russia può essere vista come un gigante militare dai piedi economici d’argilla, come è provato ancora in questi giorni dalle difficoltà del rublo e della borsa russa, ma il controllo dei rifornimenti di gas, dai suoi enormi giacimenti verso l’Europa, concede ai suoi governanti un significativo potere di contrattazione, anche se la crisi economica mondiale ha finito col pesare sul valore delle sue riserve di materie prime. Ma la crisi pesa anche sugli Stati Uniti che, nonostante la fasulla retorica obamiana, hanno ben poco da proporre (un miliardo di dollari di aiuti all’Ucraina quando questa ha bisogno di decine di miliardi) se non lo spettro delle sanzioni economiche e militari. Di fatto le stesse modalità operative rimaste nelle mani del leader del Cremlino.

Chi scrive sicuramente non parteggia per la Russia di Putin e, tanto meno, ha mai parteggiato per la retorica “socialista” della Russia staliniana o brezneviana, ma le scuse addotte oggi per un possibile intervento ricordano troppo il pianto sui luoghi santi non rispettati dai russi che gli inglesi usarono in preparazione della guerra di Crimea. Oggi sostituito dal solito cordoglio per la solita generica libertà offesa, dalla lotta all’omofobia o dal sabotaggio delle Olimpiadi di Sochi e del G8 ivi convocato e dal pianto di Papa Francesco per i poveri ucraini.

Come nei riti feciali dell’antica Roma, la colpevolizzazione del nemico diventa allo stesso tempo rituale e fondamentale nella preparazione della guerra. “Attraverso una vera e propria «litis contestatio», alla quale veniva chiamato, come testimone tutto il creato (dei, piante, animali, uomini, magari passanti ignari) […] e segna un momento essenziale nella vicenda di rottura tra tempo di pace e tempo di guerra5 .

Oltre a tutto ciò va ricordato che l’Ucraina ha una lunga, drammatica e contraddittoria storia: sede della prima Rus’ nel medio Evo vichingo; parte della presenza svedese in Russia in età moderna; residuo parziale (proprio in Crimea) del khanato dell’Orda d’oro; protagonista della resistenza anarchica alle truppe bianche e rosse durante la guerra civile; testimone della più grande carestia europea del ‘900 durante gli anni trenta, di grandi massacri di popolazione ebraica durante l’avanzata nazista e dei trasferimenti forzati di molti suoi abitanti di origine tedesca e tatara verso la Siberia dopo il secondo conflitto mondiale.

Ma oggi tutto questo ha poco a che fare con le rivolte e gli interventi militari. Al massimo ne costituisce lo sfondo confuso da cui è possibile trarre ogni tipo di giustificazione. Per l’uno e l’altro fronte. Quello che conta davvero è che la Crimea per la Russia è irrinunciabile e qualsiasi tentativo di strapparla alla stessa (dalla guerra del 1853 e degli anni seguenti fino alla guerra civile, quando fu sede delle armate bianche di Denikin e Wrangel) è di fatto considerato da quella nazione come una minaccia alla propria sicurezza..

Certo, la rivolta di Kiev affonda le sue radici nella corruzione dell’esecutivo e nella crisi economica e Viktor Yanukovich non ha nessun carattere in grado di suscitare la minima simpatia o giustificazione per il suo operato, ma lì i gruppi di sinistra sono stati malmenati, minacciati e costantemente allontanati dalle piazze dagli appartenenti ai gruppi paramilitari di estrema destra. Proprio là dove, come tutti ricorderanno, la “Rivoluzione arancione” di Yulia Tymoshenko aveva già costituito il modello per tutte quelle che sarebbero state le rivoluzioni telecomandate via social network che sarebbero poi diversamente esplose sulle sponde del Mediterraneo, con i risultati che tutti, oggi, possono avere facilmente sotto gli occhi. Là dove i rivoltosi di Kiev, anche quando armati di fucili di precisione sono stati compianti come vittime quasi inermi, mentre qui, in Italia, chi incendia una betoniera è accusato di terrorismo. No, c’è qualcosa che non funziona…c’è del marcio in Danimarca6 .
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L’assenza di precisi riferimenti di classe e la presenza “importante” sulla piazza di un partito di estrema destra come l’Unione Pan-Ucraina “Libertà”, meglio conosciuto come Svoboda, e il fatto che questo abbia superato nelle elezioni del 2012 il 10% dei voti, non fa presagire niente di buono e fa intravedere risvolti e collegamenti politici internazionali certamente inquietanti. E non può bastare a giustificare ciò il fatto che per decenni l’ideologia del potere nell’URSS, prima del suo disfacimento, fosse stata quella del socialismo di stato.

Si tratta forse di dover parteggiare per la Russia? Ancora, dopo l’esperienza dello stalinismo e dell’espansionismo di stampo sovietico? Sicuramente no, ma non va accettata la retorica con cui si paragona la presenza militare russa in quella penisola con le invasioni dell’Ungheria, della Cecoslovacchia o delle altre nazioni europee definite all’epoca, da Stalin e dai suoi successori, come repubbliche sorelle.

Quelle invasioni rappresentavano la sostanziale continuità politica con la Santa Alleanza ottocentesca. Solo che, dopo Yalta, gli Stati Uniti avevano sostituito la Gran Bretagna nel gioco imperiale europeo e avevano comunque visto di buon occhio, e senza muovere un dito, la repressione violentissima delle rivolte operaie di Berlino Est del 1953, di Budapest del 1956 e dei successivi moti cecoslovacchi e polacchi. Là dove occorreva schiacciare l’iniziativa autonoma di classe erano le due super-potenze ad essere davvero sorelle.

Il conflitto rimaneva e rimane sui mari e sugli altri territori, esattamente come nell’ottocento. Ma la crisi, oggi, su uno sfondo in cui la Cina si va affermando come prima potenza economica, spinge i vecchi antagonisti della guerra fredda a bluffare in maniera sempre più pericolosa, creando una situazione di tensione, cui potrebbe bastare un nonnulla per trasformarsi in un autentico conflitto. Che per gli americani risolverebbe non pochi problemi economici, soprattutto se combattuto, ancora una volta, fuori dai propri confini e, magari, nelle vesti di una guerra civile appoggiata dall’esterno. Esattamente come successe nei Balcani a partire dal 1991.

Obama ha promesso pochi giorni or sono di voler ridurre la spesa militare a quella che era prima del secondo conflitto mondiale per destinare risorse allo sviluppo della società; peccato, però, che da più di un secolo per l’economia statunitense sviluppo e guerra coincidano perfettamente. Un conflitto alle porte dell’Europa e con la Russia, o anche solo la minaccia di una sua eventualità, avrebbe come risultato immediato quello di irrigidire e precarizzare i rapporti economici tra Russia ed Europa e tra Russia e Germania, in particolare, e finirebbe con l’indebolire ulteriormente la fragile economia europea e la sua inconsistente unione politica. Tutto a vantaggio del dollaro e delle imprese americane.

Non a caso, mentre la Francia , proprio come nell’ottocento, si è schierata da subito contro la Russia, Italia e Germania tentennano. Soprattutto l’Italia che, dalla rivolta anti- Mubarak in poi, ha perso terreno in Egitto (dove era il secondo partner economico), in Libia (dove era il primo beneficiario del petrolio e del gas libico) e ora in Ucraina ( dove, ancora una volta, è il secondo partner economico). Anche se, come sempre, la classe politica più vile del mondo occidentale alla fine si schiererà con chi saprà fare la voce più grossa.

Infine, una guerra, guerreggiata o anche solo pesantemente minacciata, servirebbe ancora una volta a dividere le società europee ed i lavoratori delle stesse attraverso il peggior sciovinismo nazionalista. Per questo occorre non cadere nella trappola dello schierarsi con le forze e le potenze in campo. Tutte egualmente ambigue.
Il capitale, di qualsiasi e colore e tendenza, è nemico non solo dei lavoratori ma di tutta la specie umana, come le recenti statistiche della rivista scientifica americana Lancet, sull’aumento del 43% della mortalità infantile in Grecia dovuto alle manovre e ai tagli dettati dall’austerità europea, ben dimostrano.

Nostra patria è il mondo intero, ma il capitale ci è nemico ovunque, comunque e soprattutto in casa nostra. Perché, nonostante le convinzioni dei pacifisti integrali, il capitale significa guerra e la società capitalistica è una società costantemente in guerra: tra le imprese, le nazioni, gli imperi e, last but not least, le classi. Per questo non possiamo far altro che augurargli la fine della brigata di cavalleria leggera inglese a Balaklava, la carica dei seicento7 appunto, durante la guerra di Crimea. Fu distrutta. Amen e così sia.


  1. 1914 Sarajevo – 2014 Sebastopoli, Il blog di Beppe Grillo, 01/03/2014  

  2. War! editoriale del 10 settembre 2013  

  3. Basti pensare che Maidan Nezhaleznosti ovvero Piazza Indipendenza è ripetutamente nominata dai nostri media come Piazza Maidan, là dove “maidan” in Ucraina già significa “piazza”  

  4. Un terreno gelato tutto l’anno anche fino a 1500 metri di profondità  

  5. Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, Feltrinelli 1966, 1970 e 1988, pag.40  

  6. William Shakespeare, Amleto, atto I, scena IV  

  7. Celebrata in un bellissimo film antimilitarista di Tony Richardson del 1968, I seicento di Balaklava e in un album di folk rock antimilitarista dei Pearls Before Swine di Tom Rapp, sempre del 1968, intitolato Balaklava  

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Shut up and tax my money https://www.carmillaonline.com/2013/09/08/shut-up-and-tax-my-money/ Sun, 08 Sep 2013 21:01:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9087 di Alessandra Daniele

Shut-up-and-take-my-moneyLa notizia c’è stata comunicata come se dovessimo esserne entusiasti: l’IMU è stata rinominata, e spostata in un’altra cartella. Si chiamerà Service Tax, e alla fine l’erario ci guadagnerà. L’IVA, omonima della Zanicchi, sarà attualizzata e ribattezzata GAGA. Un’altra idea dei brillanti Mr. Tars, Sognatori di Tasse, i designer fiscali finora dimostratisi così creativi. Il superlavoro però potrebbe esaurire i loro poteri. Perché non pensare anche a qualcos’altro per raccogliere soldi? L’Italia è un paese da fumetto, da cartone animato, abbiamo un parlamento eletto col Porcellum, e una parlamentare [...]]]> di Alessandra Daniele

Shut-up-and-take-my-moneyLa notizia c’è stata comunicata come se dovessimo esserne entusiasti: l’IMU è stata rinominata, e spostata in un’altra cartella. Si chiamerà Service Tax, e alla fine l’erario ci guadagnerà. L’IVA, omonima della Zanicchi, sarà attualizzata e ribattezzata GAGA.
Un’altra idea dei brillanti Mr. Tars, Sognatori di Tasse, i designer fiscali finora dimostratisi così creativi. Il superlavoro però potrebbe esaurire i loro poteri. Perché non pensare anche a qualcos’altro per raccogliere soldi?
L’Italia è un paese da fumetto, da cartone animato, abbiamo un parlamento eletto col Porcellum, e una parlamentare che si autodefinisce la Pitonessa. Ecco quindi alcune idee per il merchandising di gadget:

Le Berbie
Bamboline tipo Barbie delle amazzoni berlusconiane: Santanchè, Gelmini, Carfagna, Biancofiore e le altre, con relativo guardaroba, e nome di battaglia zoologico. La Pitonessa, la Gattamorta, la Topolona, l’Ocagiuliva. Un ottimo esempio dell’immagine della donna in Italia. In aggiunta fra gli accessori, su modello di Ken, il bambolotto Alfano, scoglionato come l’originale.

Il Grillo antistress
Un Beppe di peluche che strizzato sbraita insulti pittoreschi, e minacce iperboliche, ma che in realtà è sostanzialmente innocuo, e perfetto per sfogare la rabbia degli elettori senza danno per i centri nervosi, e i centri del potere politico economico che decidono il governo.

Trasformerenzi
L’ex robottino rottamatore adesso raccoglie come un magnete tutta la ferraglia del suo partito, anche la più arrugginita, continuando però a insultarla davanti alle telecamere. «I dirigenti del PD perdevano anche le elezioni di condominio» ha detto ieri, lui che ha perso le primarie contro uno di loro. Adesso saltano sul suo carro del presunto vincitore mentre si trasforma in un camper, in un SUV, in un jet, in uno yacht, e in qualsiasi altra cosa pur di seguire il vento.

Cluedoni
Tutti sanno dall’inizio chi è il colpevole, lo scopo del gioco è impedire che la magistratura lo condanni, e che la condanna venga eseguita. Sulle carte, invece delle faccine, culi. Secondo Capezzone, Berlusconi sarebbe al di sopra della legge perché votato e acclamato da milioni di persone. Se le condanne penali dipendessero dalla popolarità, Capezzone prenderebbe la sedia elettrica.

Rosiko
C’è chi è felice solo in tempo di guerra, e in tempo di pace rosica. Il perché lo spiega bene Riccardo III:
«io, che in sì bella forma son tagliato, defraudato d’ogni armonia di tratti, monco, deforme, calato anzitempo in mezzo a questo mondo che respira; io, che sono sbozzato per metà, e una metà sì sgraziata e sbilenca che m’abbaiano i cani quando passo; io, dico, in questa nostra neghittosa e zufolante stagione di pace, altro svago non ho, altro trastullo da consentirmi di passare il tempo, fuor che sbirciare la mia ombra al sole e intonar col pensiero, in vari toni, variazioni sul mio stato deforme».
Giocando a Rosiko si potrà impersonare Giuliano Ferrara.

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Gettare Martin Heidegger giù dalla torre? https://www.carmillaonline.com/2013/08/12/gettare-martin-heidegger-giu-dalla-torre/ Mon, 12 Aug 2013 21:55:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8197 di Girolamo De MicheleHeideggerSS.jpg

[Nella foto, Martin Heidegger è il primo seduto in basso a destra]

Nel 1944, parlando con un’allieva della guerra in corso, Martin Heidegger confessò alla studentessa di credere ormai sconfitta la Germania: «ma per carità», aggiunse, «non ne faccia parola con mia moglie!» Questo aneddoto (del quale sono debitore a Emil Cioran) dà la cifra morale e umana di un pensatore che pretendeva di meditare in modo autentico questioni come la verità e il destino dell’occidente, ma non trova il coraggio dell’autenticità in una banale conversazione privata con la moglie, fervente nazista.

Negli stessi anni, per restare nel [...]]]> di Girolamo De MicheleHeideggerSS.jpg

[Nella foto, Martin Heidegger è il primo seduto in basso a destra]

Nel 1944, parlando con un’allieva della guerra in corso, Martin Heidegger confessò alla studentessa di credere ormai sconfitta la Germania: «ma per carità», aggiunse, «non ne faccia parola con mia moglie!» Questo aneddoto (del quale sono debitore a Emil Cioran) dà la cifra morale e umana di un pensatore che pretendeva di meditare in modo autentico questioni come la verità e il destino dell’occidente, ma non trova il coraggio dell’autenticità in una banale conversazione privata con la moglie, fervente nazista.

Negli stessi anni, per restare nel campo dell’esistenzialismo, Sartre teneva all’Università corsi il cui contenuto avrebbe potuto costargli la vita (come accadde per Marc Bloch), Camus scriveva sulla rivista partigiana “Combat”, Lévinas e Primo Levi erano in campo di concentramento, Pareyson partecipava alle riunioni clandestine di Giustizia e Libertà, Pietro Chiodi evadeva dalla prigionia, tornava in Italia e riprendeva la via della montagna partigiana, Beckett, che pure era irlandese, si arruolava nella resistenza francese.

Mi è sempre rimasto il dubbio di come il vile Martin abbia annunciato alla consorte teutonica la capitolazione di Berlino e la morte di Hitler: posso immaginarlo uscire di casa in punta di piedi lasciando la radio accesa, e rifugiarsi in quell’angolo dove un contadino dagli occhi (ci mancherebbe!) azzurri, riposandosi con la pipa in bocca, se lo vedeva arrivare ogni giorno, anch’esso armato di pipa e tabacco.heidegger2.jpg Heidegger riteneva che in quei frangenti si raggiungesse la più autentica comunicazione fumando silenziosamente in compagnia: avrà il contadino, sfinito dal lavoro dei campi, pensato lo stesso di quel buffo omino tanto simile a quello della birra Moretti, vestito con assurdi calzoni alla zuava e giacche di taglio settecentesco? Eppure Martin Heidegger è considerato un gigante della filosofia. Intendiamoci: Essere e tempo è un grande libro, soprattutto là dove compie una ricca analisi della condizione umana (nel suo complicato linguaggio: del Dasein, dell’esser-ci) gettata nell’inautenticità, nell’alienazione, nella perdita di senso. Ma quando Jean-Paul Sartre dichiarò, nella conferenza L’esistenzialismo è un umanesimo, di considerarsi allievo dell’Heidegger di quelle pagine, Heidegger stesso gli rispose sprezzantemente rinfacciandogli l’interesse per l’uomo invece che per l’essere in quanto Essere. Il fatto è che ad Heidegger dell’uomo, delle sue sofferenze, del suo corpo, della fatica del lavoro, della differenza tra uomo e donna, in una parola della “condizione umana” per un verso non importava alcunché — come non gli importava nulla del destino degli ebrei e delle altre vittime dei Lager nazisti (l’unico suo accenno alla guerra è in favore dei prigionieri di guerra tedeschi). E per altro verso, il suo pensiero non s’è mai arrischiato in un vero confronto con la realtà. Il suo mondo iniziava e finiva nella sua baita nella Foresta Nera, immersa nel silenzio della tormenta di neve che «tutto nasconde»: è solo in queste condizioni che «l’interrogarsi del filosofo può farsi essenziale».

Cinico e pavido, Heidegger ha trovato la quadra in una forma di scrittura ed elocuzione filosofica che sempre Cioran, col dono della battuta che gli era proprio, definì «un’escroquerie philosophique»: Heidegger1.jpgogni volta che il suo pensiero tocca qualche punto essenziale, Heidegger se ne esce ingarbugliando il linguaggio. Con Heidegger l’insincerità truffaldina del linguaggio raggiunge livelli che solo Shakespeare aveva saputo toccare col suo Iago (personaggio che peraltro condivide con Heidegger il disprezzo per i “negri”). Facendo strame della sintassi e della filologia, Heidegger mette insieme espressioni la cui apparente profondità è l’effetto prodotto (per parafrasare il suo stesso linguaggio) dal «non-capirci-un’acca come la sua dimensione più propria»: Heidegger non si rivolge a interlocutori, ma ad ascoltatori che davanti al grado zero della significazione (cosa vorrà mai dire che «il niente nientifica»?) sgranano gli occhi, spalancano la bocca e, dopo aver cercato di cavare inutilmente il ragno dal buco, annuiscono gravemente per timore di passare per scemi. Il linguaggio di Heidegger è assertivo, oracolare, mistico: non potrebbe interessargli meno il linguaggio dell’operaio (ricordate il contadino che stava zitto e fumava la pipa?), l’analisi degli atti linguistici quotidiani, gli effetti che si producono nel mondo dando ordini o stipulando convenzioni. Wittgenstein si interrogò sul perché lui, che era architetto, non riusciva a comunicare con gli operai che gli costruivano la casa: si interrogò sui diversi giochi linguistici che denotano diverse condizioni sociali; Heidegger liquida il linguaggio quotidiano come «chiacchiera insignificante». Ma quando Carnap gli svela il giochino, sottoponendo ad analisi logica le sue affermazioni e chiedendogli perché mai «il niente nientifica» dovrebbe avere un senso filosofico e «la pioggia piove» no, Heidegger risponde accusando i neo-positivisti e i logici tutti di «stretta ed intima connessione col comunismo russo», roba che neanche Gasparri!

martin heidegger rundweg.jpg Il linguaggio è «la casa dell’Essere», diceva ad ogni piè sospinto: ma a condizione di accettare il fatto che per parlare dell’Essere ci manca il linguaggio, e dunque possiamo parlarne solo a condizione di non parlarne. La prova? Il fatto che lui stesso non ha terminato di scrivere Essere e tempo per la mancanza di un linguaggio adeguato all’Essere. E se il linguaggio viene meno a lui, non ci sono che due possibilità: o è l’Essere stesso che «si nasconde» (dove? Ma dietro se stesso, che diamine! Che sia il-giocare-a-nascondino la dimensione più autentica dell’Essere?), o è Heidegger che ha mal impostato l’analisi e non ha i mezzi per arrivarci. E allora perché larga parte della filosofia non ha, semplicemente, relegato ai banchi del rigattiere più vicino i libri di Heidegger? Perché l’heideggerismo è un ottimo pretesto per continuare a fare quello che i filosofi, tranne che per una breve parentesi e in modo minoritario, hanno sempre cercato di fare: studiare il mondo invece di impegnarsi a cambiarlo. Heidegger pone problemi seri: l’uomo è sopraffatto dal dominio della tecnica, disorientato dalla crisi della ragione, alienato. Possiamo uscirne? No: la crisi dell’uomo del Novecento è l’esito di qualcosa che è in marcia almeno da tre secoli. La questione della tecnica è in relazione con lo sviluppo della rivoluzione industriale, con quella che un marxista chiamerebbe sussunzione della società sotto il capitale? Per carità!, è tutta colpa di Socrate e Platone, che hanno dato avvio all’oblio della distinzione tra l’Essere e l’essere dell’ente come caratteristica del modo tecnico di pensare. E così, davanti alla crisi degli alloggi che affliggeva la Germania nel dopoguerra, Heidegger si poneva forse il problema della ricostruzione, dell’edilizia popolare, degli sfollati, delle politiche sociali? No: la crisi degli alloggi è solo una manifestazione di una più radicale crisi, quella del «non-sentirsi-a-casa-propria» come la dimensione più autentica dell’esser-ci. L’alienazione non ha una causa storica, sociale (come pensa un marxista), o individuale (come pensa la psicoanalisi): è una dimensione quasi eterna, contro la quale non c’è che da sperare che «dove massimo è il pericolo, là dimora ciò che salva». Cosa vuol dire questa frase? Heidegger non lo sa, ma l’ha detta Friedrich Hölderlin, che è un poeta, e quindi dev’essere sicuramente vera (e chissà cosa avrebbe pensato Hölderlin dei suoi versi usati come bigliettini dei Baci Perugina: non è anche questo un modo tecnico di pensare?). Una volta l’ha ripetuta in parlamento anche Buttiglione: il bello di queste frasi di cui non si capisce il senso è che le si può buttare lì, a caso, come il jolly a scala reale. Del resto siamo nell’età del dominio della tecnica, e «la tecnica non pensa» (come pure non pensano le penne stilografiche, il fiasco del Monopoli e lo stesso Buttiglione: ma questa è un’altra storia, direbbe l’indimenticabile Moustache). Dire che la tecnica non pensa è un ottimo modo per uscire dall’impasse intellettuale di chi non conosce la distinzione tra tecnica e tecnologia, tra tecnica e scienza, e in definitiva crede di sapere tutto delle pretese della tecnica e della scienza, ma poi chiama l’elettricista per farsi cambiar la lampadina.

In realtà un accenno a ciò che può salvarci Heidegger l’ha fatto trapelare: ormai, dice nell’ultima intervista, «solo un dio ci può salvare». «Un» dio, non «il» dio: forse ce ne sono molti? Possiamo, nel caso, scegliere tra il mitico Thor, Osiride o Zeus? Non è dato saperlo. Ma un filosofo che si affida a un dio non sta tradendo il proprio sapere? Se non è possibile operare per cambiare il mondo, tanto vale, invece di arrischiare la fatica del pensiero, andare in pellegrinaggio a Lourdes o a Pietralcina, o dal mago Otelma — o farsi dire cosa pensare dall’heideggeriano Ratzinger e dalla sua schiera di zelanti ripetitori (che, come la tecnica e il fiasco del Monopoli, non pensano: ascoltano, annuiscono ed eseguono). Se l’autenticità ci è negata per colpa di Platone, che vale condurre una vita autentica, o più modestamente sincera, ma scomoda, in luogo di una vita ipocrita, ma comoda e rassicurante? heidegger.jpg Cosa credete che abbia fatto Heidegger quando dovette scegliere tra l’amore per l’allieva Hannah Arendt e la moglie che non amava, ma alla quale era sposato? Credete che abbia corso il rischio della sincerità verso le proprie passioni? Se il linguaggio non è in grado di rendere conto delle proprie asserzioni e di rispondere delle proprie menzogne, allora sarà lo stesso scrivere bianco piuttosto che nero: cosa molto utile, per un filosofo che dopo essersi esposto «disertando nella prassi» (così disse Heidegger, distintivo nazista al bavero, al disertore Günther Anders) cerca di accreditarsi verso ambienti più moderati, dai quali avere una cattedra, un posto in una rivista, un invito a un convegno. Per prostituirsi intellettualmente con i circoli più reazionari dell’Accademia italiana, magari a ore alterne per salvarsi la coscienza. Heidegger è stato un perfetto trampolino per quei filosofi che in piena Restaurazione, dopo aver millantato di voler cambiare il mondo, sono tornati nello splendido isolamento delle proprie cattedre, per quei nostalgici dello storicismo che avevano tanta voglia di sentirsi dire che se non la Storia o la Provvidenza, ci pensa la storia dell’Essere, insomma il destino, a far sì che il mondo sia come sia, che il mondo non può essere diverso da come già-da-sempre è: al massimo lo si può amministrare un po’ meglio, non criticarlo. Se solo un dio può salvarci, che bisogno c’è di alzarsi alle 4 del mattino per andare a volantinare davanti a una fabbrica? Se la comprensione dell’esser-ci è negata dal nascondimento dell’Essere, perché preoccuparci del fatto che il da del Dasein, cioè banalmente il mondo in cui viviamo, è il mondo costruito dai Signori per lo sfruttamento dei Servi? Perché chiedersi cosa del nostro corpo — la determinazione sessuata, le passioni, i flussi di libido, i desideri, la pluralità delle ragioni, il conflitto permanente tra cuore e ragione — increspa la placida serenità di un pensiero che non si confronta mai col reale e resta sempre a fare il gioco dello specchio con se stesso? Se siamo tutti alienati e non c’è differenza tra la condizione maschile e quella femminile, tra il lavoro e l’ozio, tra il nord e il sud del mondo, perché uscire dai salotti e sporcarsi le mani col mondo?
L’heideggerismo è una sorte di élitaria torre d’avorio i cui occupanti passano il tempo a nientificare il niente, ossia a parlare del nulla: dopo tutto, perché buttarli giù dalla torre? C’è il rischio di ritrovarceli, noi della razza di chi rimane a terra (razza rude e pagana, beninteso), ancora tra i piedi.

Note

(*) Sono debitore, per il titolo, al saggio postumo di Luciano Parinetto Gettare Heidegger.
(**) Dopo la pubblicazione, su Liberazione del 14 agosto 2008, di questo testo, Roberta De Monticelli, che ringrazio per le parole di apprezzamento, mi ha segnalato il suo Contro Heidegger, liberamente scaricabile qui: www.unisr.it/docenti/ricerca/demonticelli/Contro_Heidegger.doc.

Questo testo è stato già pubblicato su Carmilla il 22 settembre 2008

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La coscienza dei soldati https://www.carmillaonline.com/2012/03/08/la-coscienza-dei-soldati/ Thu, 08 Mar 2012 07:37:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4222 di Alessandra Daniele

sharon_boomer_valerii.jpgDall’articolo di Lorenza Ghinelli La pedagogia disarmante di Paulo Freire

“Vedo in Marco Bruno, come nel poliziotto, due facce della medesima medaglia, una medaglia che ha uno scopo preciso, far tornare i conti ai potenti. I poliziotti, così come i No Tav, assumono su se stessi ruoli prestabiliti da altri. Senza divertimento alcuno e senza consapevolezza”.

Dal quarto atto dell’Enrico V di Shakespeare, tre soldati discutono se l’essere coscritti al servizio del re li sollevi dalla responsabilità morale delle loro azioni, facendo ricadere solo su di lui le loro colpe:

“Ne sappiamo abbastanza se sappiamo che siamo [...]]]> di Alessandra Daniele

sharon_boomer_valerii.jpgDall’articolo di Lorenza Ghinelli La pedagogia disarmante di Paulo Freire

“Vedo in Marco Bruno, come nel poliziotto, due facce della medesima medaglia, una medaglia che ha uno scopo preciso, far tornare i conti ai potenti. I poliziotti, così come i No Tav, assumono su se stessi ruoli prestabiliti da altri. Senza divertimento alcuno e senza consapevolezza”.

Dal quarto atto dell’Enrico V di Shakespeare, tre soldati discutono se l’essere coscritti al servizio del re li sollevi dalla responsabilità morale delle loro azioni, facendo ricadere solo su di lui le loro colpe:

“Ne sappiamo abbastanza se sappiamo che siamo sudditi del re; se la sua causa è ingiusta, l’obbedienza che dobbiamo al re ci toglie ogni responsabilità per i suoi atti”.

Enrico V, fra loro in incognito, li avverte però che la responsabilità morale è personale, e che se moriranno con la coscienza nera andranno all’inferno e pagheranno personalmente per le loro malefatte, a prescindere dal loro status di coscritti:

“Ogni suddito deve obbedienza al re, ma l’anima di ciascun suddito è affare tutto suo”.

Enrico V rischia così di rendere i suoi uomini dei soldati “meno efficienti”, perché responsabilizzati, e quindi non più predisposti all’obbedienza pronta, cieca, e assoluta, se può costargli l’anima. Soldati “peggiori”, ma uomini migliori. Esseri umani, e non macchine: il dubbio che tormenta l’agente Rick Deckard, cacciatore di androidi, è quello d’essere anch’egli una macchina, e questo doloroso interrogarsi sulla propria coscienza ne dimostra l’umanità.
Il monito di Enrico V è il contrario di ciò che Nicolas Eymerich promette sempre ai soldati al servizio dell’Inquisizione, prima d’una strage di eretici, o ebrei, o musulmani: assoluzione preventiva e plenaria per ogni atrocità commessa ai suoi ordini.
“Stavo solo eseguendo degli ordini” era la linea di difesa di Eichmann.
E non ha funzionato.

Se un soldato spacca la testa a una contadina sessantenne, o ammazza un pescatore a fucilate, o insegue un ragazzo su un traliccio finché il ragazzo sbaglia la presa e cade fulminato, la colpa non è solo del re.
Si accusa spesso la cultura antagonista di disumanizzare gli uomini in divisa vedendoli solo come ciechi strumenti del potere, in realtà io ci tengo a fare esattamente il contrario, riconoscerli come esseri umani dotati del bene più prezioso dell’universo: una coscienza indipendente. Capaci di discernere gli ordini che li portano a combattere le mafie, da quelli che li mandano a presidiare i cantieri controllati dalle mafie. Anche Roberto Saviano avverte:

“l’Alta velocità è diventata uno strumento per la diffusione della corruzione e della criminalità organizzata (…) Il tracciato della Lione-Torino si può sovrapporre alla mappa delle famiglie mafiose e dei loro affari”.

Una coscienza indipendente ti mette in grado di decidere se condividere le idee e le colpe del re e delle mafie, oppure no. Se essere migliore come soldato, o come essere umano.

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