serie tv – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 27 Jan 2025 06:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Fallout: dallo schermo allo schermo. https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/fallout-dallo-schermo-allo-schermo/ Mon, 22 Jul 2024 22:01:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83291 di Walter Catalano

Impossibile non mettere a confronto Fallout con The Last of Us di HBO, di cui già abbiamo parlato a suo tempo. Entrambe le serie infatti si ispirano a franchise di videogiochi per consolle e dimostrano in questa scelta la piena crisi letteraria della fantascienza: in mancanza di libri interessanti le produzioni preferiscono attingere ad altre più vitali forme di narrazione. Con particolare fortuna, mi permetterei di aggiungere. Ai polpettoni fallimentari e noiosi derivati da classici, più o meno travisati, come Foundation (e, al cinema, non esiterei ad aggiungere anche il soporifero Dune), si contrappongono invece queste più [...]]]> di Walter Catalano

Impossibile non mettere a confronto Fallout con The Last of Us di HBO, di cui già abbiamo parlato a suo tempo. Entrambe le serie infatti si ispirano a franchise di videogiochi per consolle e dimostrano in questa scelta la piena crisi letteraria della fantascienza: in mancanza di libri interessanti le produzioni preferiscono attingere ad altre più vitali forme di narrazione. Con particolare fortuna, mi permetterei di aggiungere. Ai polpettoni fallimentari e noiosi derivati da classici, più o meno travisati, come Foundation (e, al cinema, non esiterei ad aggiungere anche il soporifero Dune), si contrappongono invece queste più originali e spigliate declinazioni di un immaginario SF ormai sedimentato nelle nostre menti e accettato come tale, humus visionario indifferenziato: una serie di ritagli pot-pourri, frammenti patchwork non riconducibili a nessun autore in particolare e a tutti contemporaneamente – un po’ Dick, un po’ Ballard, un po’ Asimov, o Bradbury, o Heinlein, per dire – fette di inconscio globalizzato, già messo in scena migliaia di volte sulle playstation delle universali moltitudini desideranti, da Abu Dabi a Los Angeles, da Singapore a Sidney. Una scommessa molto più sicura! E le moltitudini oggi desiderano l’Apocalisse: o forse, apotropaicamente, la evocano per esorcizzarla, come in un rituale medievale di fine millennio, perché sanno che è maledettamente vicina.

Così, se The Last of Us, la serie di Mazin e Druckmann, profilava la sua escatologia apocalittica lungo un copione già scritto e molto preciso, con personaggi e situazioni già dati, Fallout, show targato Prime Video e basato sul franchise creato da Black Isle e Tim Cain, realizzato da Interplay e in seguito passato nelle mani di Bethesda, può permettersi invece un margine di invenzione e innovazione, rispetto al videogioco, assai più vasto: scenario e atmosfera sono quelle del preciso universo videoludico – un’estetica retrofuturista che attinge tanto ai B-Movie postapocalittici degli anni ’60, quanto alla saga di Mad Max e allo Spaghetti Western – ma la storia è quasi inedita ed i personaggi diversi.

La serie TV di Prime Video è infatti ambientata nel 2296, esattamente a 9 anni di distanza dalle vicende raccontate in Fallout 4 che è l’episodio cronologicamente posteriore nel videogioco di Bethesda, i cui capitoli sono disposti in ordine temporale consequenziale, lasciando agli spin-off la possibilità di esplorare periodi antecedenti o alternativi: una consecutio temporum, che potrebbe rendere la versione TV del gioco il prototipo di una sorta di Fallout 5, possibile espansione del gioco, derivata questa volta, se venisse realizzata in futuro per consolle, dal prodotto filmato. Un effetto speculare che conferisce piena autonomia creativa a Jonathan Nolan e Graham Wagner, rispettivamente produttore e sceneggiatore del progetto, che pare siano entrambi videogiocatori affezionati alle varie generazioni di Fallout dal 1997 al 2015.

Jonathan Nolan, il fratello meno noto del Cristopher Nolan fresco di Oscar, già autore di una serie che non ho amato affatto e la cui visione ho interrotto piuttosto presto, Westworld, in compagnia della stessa sceneggiatrice Lisa Joy e della showrunner Geneva Robertson-Dworet (quella di Captain Marvel), sono gli autori di quest’inedita riscrittura di Fallout – Nolan è anche regista della puntata pilota –  cui conferiscono la struttura di un road movie corale ambientato nella California distopica del 2296 devastata dalla guerra nucleare. A differenza della troppo seriosa Westworld, Fallout si muove invece sul registro, molto più efficace, dell’umorismo nero, spaziando tra il comico, il cupo, e il grottesco, con abbondanza di sequenze estremamente splatter (un gusto che molto ricorda lo stile irriverente di The Boys) corredate, con evidente intento provocatorio, da una colonna sonora composta di classici musicali orecchiabili e briosi compresi tra gli anni ‘30 e i ’60, ad esempio, What a Difference A Day Made, It’s Just a Matter of Time, I’m Tickled Pink, I Don’t Want to See Tomorrow, We Three (My Echo, My Shadow and Me), titoli che acquistano, come nel videogioco, una risonanza del tutto particolare considerato il contesto. L’estetica anni ’50 dei flashback pre-bomba o quella vintage che caratterizza i Vault sotterranei nel presente diegetico, rendono memorabile la scenografia della serie, così come i set in esterno del panorama lunare e desertico di superficie, girati in location reali in Namibia e sulle montagne dello Utah.

Su questo scenario già noto ai gamers si muovono i nuovi protagonisti: Lucy (Ella Purnell, già vista in Yellowjackets), giovane nata e cresciuta nel Vault 33, una delle strutture antiatomiche apparentemente concepite per salvare una parte dell’umanità, che dopo un lavaggio del cervello durato vent’anni nelle strutture falsamente idilliache e protette della Vault-Tec, è costretta ad avventurarsi in superficie nella Zona Contaminata, alla ricerca del padre rapito (Kyle MacLachlan, attore iconico di David Lynch, protagonista di Dune, Blue Velvet e agente speciale Dale Cooper in Twin Peaks); Maximus (Aaron Moten), aspirante scudiero membro della Confraternita d’Acciaio, la setta militare di cavalieri meccanizzati ben nota ai videogiocatori, il personaggio probabilmente più stucchevole e meno riuscito; e il Ghoul cacciatore di taglie (Walton Goggins, già noto per Justified, o The Righteous Gemstones), ex attore in Western scadenti ad Hollywood, precedentemente noto come Cooper Howard, assai ben caratterizzato nell’audio in lingua originale dall’interpretazione in dialetto texano da vero cowboy. I ghoul, si situano da qualche parte nel continuum tra umani e zombie, in base al tempo passato dalla loro contaminazione e di quante medicine sono riusciti a rimediare: a Cooper Howard non è andata troppo male, perché è ancora vivo dopo due secoli, anno più, anno meno. Infatti il Ghoul è sopravvissuto alla guerra e al bombardamento atomico del 2077 che ha generato il mondo post-apocalittico, e proprio intorno alla sua esistenza pre e post-atomica si focalizzano i momenti narrativi forse più significativi e provocatori della serie: il mondo del 2077 è ancora alle prese con una prolungata Guerra Fredda caratterizzata da due diverse sfere d’influenza, una rappresentata dagli U.S.A. e l’altra dal blocco comunista dell’ancora esistente Unione Sovietica e dalla Cina. L’America, dal canto suo, è ancora immersa nella cultura e nell’estetica degli anni ’50 del ‘900, con le star di Hollywood impegnate a sponsorizzare le varie iniziative di propaganda anticomunista del governo. Come sanno bene tutti gli appassionati del gioco, l’apocalisse nucleare che ha cambiato per sempre le sorti del mondo di Fallout ha avuto inizio con una guerra tra U.S.A. e Cina, i cui governi si sono reciprocamente accusati di aver lanciato per primi l’attacco atomico. Il finale di stagione della serie Tv propone però una nuova prospettiva sugli eventi che hanno portato il mondo al collasso. Dietro il disastro, potrebbero infatti esserci le macchinazioni della Vault-Tec, società che ha prosperato con la progettazione e la vendita dei rifugi antiatomici. Un’eventualità suggerita dalla sequenza che vede Howard Cooper ascoltare i discorsi dei dirigenti della Vault-Tec, che auspicano una guerra nucleare come la più grande opportunità commerciale della storia: accrescerebbe la domanda di rifugi antiatomici, dei quali hanno ottenuto dal governo il monopolio. Un barlume quindi anche di vaga polemica politica, in una trama votata soprattutto ad un puro, per quanto cinico e perfido, divertissement.

Negli otto episodi che compongono questa prima stagione di Fallout, della durata di un’ora l’uno circa, la trama si dipana soprattutto intorno a questi tre personaggi, le cui vicende si vanno a intrecciare fino a un epilogo che incarna appieno l’atmosfera della serie in equilibrio fra comicità dissacrante (irresistibilmente sboccata e volgare, alla The Boys, come dicevamo) e drammaticità cupa e aggrottata. Fallout non delude neppure dal punto di vista tecnico e registico, essendo in grado di riprendere esattamente sia la palette cromatica tipica del gioco per quanto riguarda le ambientazioni, che i costumi indossati dai protagonisti e dalle bizzarre creature umane o meno che abitano la Zona Contaminata. Solo una licenza degli sceneggiatori ha disturbato alcuni fanatici appassionati del gioco. La città di Shady Sands, capitale della New California Republic (NCR), è considerata un punto fermo di tutti i capitoli del videogioco. Nella serie invece apprendiamo che Shady Sands è stata bombardata nel 2277, proprio dallo stesso Hank MacLean, il padre di Lucy, quando questa era solo una bambina. Al luogo è inoltre legato il personaggio di Maximus, che ha perso la famiglia nel bombardamento. Questa decisione di fissare la distruzione di Shady Sands nel 2277 della timeline ha scatenato un vero e proprio dibattito sulla legittimità della scelta, dal momento che sarebbe in contraddizione con gli eventi descritti in Fallout: New Vegas, ambientato nel 2281. Insomma ermeneutica e filologia non disertano nemmeno il canone dei videogame.

 

 

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Bodies: tra investigatori e macchine del tempo. https://www.carmillaonline.com/2024/03/11/bodies-tra-investigatori-e-macchine-del-tempo/ Sun, 10 Mar 2024 23:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81322 di Walter Catalano

Bodies, è una serie britannica – tratta dalla graphic novel omonima di Si Spencer edita nel 2015 da DC/Vertigo – realizzata da Netflix per la regia del tedesco Marco Kreutzpaintner nei primi quattro episodi e della cinese Haolu Wang, nei successivi quattro, e sceneggiata da Paul Tomalin, autore di vari episodi di Shameless, di Torchwood, nonché del poco riuscito The Frankenstein Chronicles.

La trama a prima vista potrebbe avere delle potenzialità: quattro epoche storiche in ognuna delle quali il protagonista è un diverso detective londinese alle prese con il caso misterioso di un cadavere – sempre [...]]]> di Walter Catalano

Bodies, è una serie britannica – tratta dalla graphic novel omonima di Si Spencer edita nel 2015 da DC/Vertigo – realizzata da Netflix per la regia del tedesco Marco Kreutzpaintner nei primi quattro episodi e della cinese Haolu Wang, nei successivi quattro, e sceneggiata da Paul Tomalin, autore di vari episodi di Shameless, di Torchwood, nonché del poco riuscito The Frankenstein Chronicles.

La trama a prima vista potrebbe avere delle potenzialità: quattro epoche storiche in ognuna delle quali il protagonista è un diverso detective londinese alle prese con il caso misterioso di un cadavere – sempre lo stesso, anche se all’inizio lo sa solo lo spettatore e non il singolo poliziotto – ritrovato nudo in un identico vicolo di Whitechapel. Nel 2023 tocca alla sergente di polizia Shahara Hasan (Amaka Okafor), mentre insegue un giovane in fuga durante una manifestazione di estrema destra, imbattersi nel cadavere di Longharvest Lane. Nel 1941, è invece il detective Whiteman (Jacob Fortune-Lloyd) che si aggira, perseguendo loschi traffici, nella Londra sotto i bombardamenti della Luftwaffe dopo una misteriosa chiamata che lo convoca in Longharvest Lane per un“prelievo”: lì troverà il solito cadavere. Nel 1890 il detective vittoriano Hillinghead (Kyle Soller) arriva a Longharvest Lane per analizzare la scena del crimine di un corpo appena rinvenuto, sempre quello – come scopriremo in seguito, appartenente allo scienziato Gabriel Defoe (Tom Mothersdale) –  stesso occhio cavato da una revolverata (ma all’interno del cranio, riveleranno le varie autopsie, nessun proiettile), stesso tatuaggio sul polso, stessa esatta posizione. Nel 2053 infine, in una Londra distopica controllata da un regime autocratico presieduto da un certo Elias Mannix (Stephen Graham), la detective Maplewood (Shira Haas) di nuovo ritrova il solito corpo di Longharvest Lane, ma questa volta la vittima è ancora viva.

Tutti i detective protagonisti hanno solo una cosa in comune: sono membri di una qualche minoranza. Hillinhead è omosessuale, ebreo Whiteman, disabile Maplewood e musulmana Hasan. Come il cadavere onnipresente poi, anche la presenza di un misterioso e capillare culto escatologico che unisce i vari indiziati e sospetti, con il suo enigmatico motto di riconoscimento – Know you are Loved , sappi che sei amato –  è una costante delle varie differenti epoche.

Piuttosto intrigante, si dirà. Solo all’apparenza in effetti. Perché la storia salta erraticamente tra il 2023, il 1890, il 1941 e il 2053 ogni pochi minuti e oltre all’intricata cronologia disorientante il tono e l’atmosfera cambiano troppo bruscamente da una scena all’altra. Come un Frankenstein televisivo, Bodies sembra un assemblaggio fatto di generi eterogenei, parti frammentate che non si vogliono saldare l’una con l’altra. Così seguiamo i nostri protagonisti in un percorso a zig-zag dove saltabecchiamo da una love story gay in costume fin de siècle; ad un noir anni ’40, tra le esplosioni dei Blitz aerei nazisti; ad un thriller contemporaneo sulla contro-terrorismo; ad un distopico sci-fi. Il tutto unito dal deus ex machina più trito: un wellsiano marchingegno che abolisce la soglia del tempo, creando paradossi in cui i personaggi vagano da un’epoca all’altra e da una situazione all’altra, andando e venendo tra la propria gioventù e vecchiaia, prima e dopo la propria morte, lasciandosi reciproci messaggi e appuntamenti attraverso una tortuosa e confusa cronologia. Manca inoltre un vero approfondimento dei personaggi che rende spesso i dialoghi un cliché. È vero che vi sono dettagli abbastanza accurati d’ambientazione nelle scenografie e nei costumi delle diverse epoche, ma il tutto sembra per la trama ingarbugliata e pretestuosa, una riscrittura della germanica Dark – che è però molto più noiosa, questo va detto – con sprazzi futuri di tipizzazione distopica che guardano, senza altrettanto mordente, alla Gilead di The Handmaid’s Tale.

Quanto allo stile e al ritmo, i salti di montaggio da un periodo all’altro – potremmo quasi dire da un film all’altro – sono introdotti nel tentativo di renderli più fluidi, dall’uso abbondante e reiterato dello split screen, un escamotage piuttosto stucchevole che rimanda ad un’interpunzione inattuale da cinema degli anni ’70, abbastanza fuorviante. Buone invece le interpretazioni di tutti gli attori fra i quali si stagliano in particolare un sempre intrigante Stephen Graham, villain problematico perfetto (l’Al Capone di Boardwalk Empire: lo si guardi, oltre che in Peaky Blinders e in This is England, anche in Boiling Point, forse la sua performance più geniale e straziante…) e Greta Scacchi – con amare considerazioni da parte di noi cinefili, sui danni del tempo: l’affascinante femme fatale degli anni ’80, qui e ora interpreta (bene come sempre) una matura casalinga sovrappeso, per niente sexy… sic transit gloria mundi.

Il vero problema di Bodies, comunque, oltre la frammentarietà e la confusione,  è la caduta banalizzante nel luogo comune, l’allinearsi a tutti gli stereotipi – tematici e visuali – sul viaggio nel tempo (con tanto di paradossi, tra raggi luminosi, esplosioni di lampadine e fumigazioni avvolgenti) e, nell’episodio futuro, sulla distopia totalitaria, diluendoli all’interno di quelli del racconto crime. Altrimenti non tutte le situazioni e i personaggi, se meglio approfonditi, sarebbero stati  così scontati: Shahara madre single musulmana, Whiteman poliziotto ebreo che sopravvive agli anni della Guerra con sotterfugi e relazioni al limite dell’illegalità, Hillinghead omosessuale represso che cerca di rinnegare la propria sessualità nella Londra bigotta di fine Ottocento, Maplewood sopravvissuta alla grande bomba del 2023 perdendo l’uso delle gambe e costretta per poter camminare ad impiantarsi nella schiena un dispositivo fornito dal governo totalitario che si assicura così la sua totale fedeltà e dipendenza, sono tutte figure problematiche, membri di minoranze in una Londra che – qualunque sia l’epoca di riferimento – si definisce progressista, ma è in realtà ancora satura di pregiudizi. Una musulmana, un ebreo, un omosessuale e una storpia saranno, loro malgrado, gli individui che risolveranno non solo un caso criminale ma riusciranno, passandosi la staffetta attraverso il tempo, a “correggere” la realtà. Sappi che sei amato, la formula, eco di codici massonici o rituali settari, in realtà specchia il comune bisogno di trovare conforto al dolore da parte del singolo individuo nel calore degli affetti, nell’appartenenza comune a qualcosa di più ampio. I quattro protagonisti della storia, chi per una ragione e chi per un’altra, sono soli al mondo, vittime degli eventi, senza controllo sul loro destino. Solo un personaggio attraversa indenne tutte le fasce temporali: Elias Mannix, l’uomo che domina il tempo e intende plasmarlo a suo vantaggio. Mannix compare in tutti e quattro gli archi temporali: nel 1890 è Sir Julian Harker, un facoltoso massone che regge le fila di una loggia molto particolare; nel 1941 è Sir Julian, ormai vecchio, sposato con Polly (Greta Scacchi) e prossimo alla morte; nel 2023 è un ragazzino di 15 anni (Gabriel Howell) impaurito e bisognoso d’affetto, nel 2053 è il Generale Mannix, il Capo dell’Inghilterra dittatoriale del futuro. Mannix è dunque il filo conduttore delle quattro linee temporali. Nell’intricato garbuglio troppe domande restano però aperte e non trovano una spiegazione esaustiva giunti alla conclusione: nulla si sa, ad esempio, del destino finale dello scienziato Defoe, il cadavere che sbalza da un’epoca all’altra ma che viene infine “fermato” prima dell’uccisione che determinerà gli altri passati/futuri; vaga resta la natura dell’organizzazione che è alle spalle di Mannix, chi ne siano i componenti, quali gli scopi reali, quale l’effettivo rapporto tra loro e Mannix o il ruolo della bomba atomica che deflagherà (o no) distruggendo Londra, nel creare il loop temporale di cui il protagonista si serve per restare in vita e abitare varie epoche. Anche il finale, la soluzione dell’enigma, l’elemento che metterà tutti in salvo cambiando per sempre il corso della storia, non è da ricercare in un unico evento risolutivo, ma nelle scelte e nella disposizione di persone capaci di cambiare, di tornare sui propri passi quando venga loro fornita una seconda possibilità. Mannix da minaccia diventa soluzione, da villain eroe, per dare senso allo slogan Sappi che sei amato, un’eterogenesi dei fini che inverte un processo e corregge un errore trasformando i propositi distruttivi nei presupposti per salvare il mondo. Possiamo evolverci, dunque, non solo involverci, imparare dagli errori del passato: bello forse, ma troppo didascalico.

Il fumetto di Spencer poi era completamente diverso da questo suo adattamento televisivo. Otto episodi per otto numeri pubblicati nel 2014-2015, affidati a quattro diversi disegnatori – Phil Winslade, Dean Ormston, Tula Lotay e Meghan Hetrick – uno per ogni epoca storica della narrazione (la frammentazione c’era già lì dunque). Nel fumetto le date sono 1890, 1940, 2014 (l’anno in cui l’albo uscì) e 2050, invece di 1890, 1941, 2023 (il “nostro” oggi) e 2053. Se nella serie televisiva il primo corpo viene trovato nel 2023, nel fumetto si parte dal 1890, ma come si scoprirà nel corso delle indagini, c’è anche un corpo molto più antico: un cadavere conservato in una torbiera per circa 3000 anni; un dipinto del XIV secolo dello stesso cadavere appeso al British Museum, con l’iscrizione “E così inizia il Lungo Raccolto”. Un percorso nel tempo molto più tortuoso dunque. Inoltre il personaggio di Whiteman nel fumetto manca totalmente della redenzione della sua controparte televisiva: sebbene condividano la stessa storia, questo Whiteman (in realtà l’ebreo Karl Weissman) è un gangster e un assassino impenitente che ha ucciso sua nipote Esther a sangue freddo (nella serie Esther non è suo nipote e lui cerca invece di salvarla). Che sia Elias Mannix o Julian Harker poi, il personaggio interpretato da Gabriel Howell e Stephen Graham che è al centro della trama dello show televisivo con il suo piano di riplasmare il mondo a sua immagine e somiglianza, è del tutto assente dal fumetto: c’è sì uno spiritista chiamato Henry Harker, ma non sono lo stesso personaggio. La Londra futura dove vive Iris Maplewood inoltre, non è stata ricostruita dopo  l’attacco nucleare del 2023 e non è governata dal Comandante Mannix: nel fumetto una misteriosa “onda d’impulso” ha reso la maggior parte della popolazione amnesica, il cielo è di una tonalità di giallo permanente e inquietante e non c’è alcuna dittatura.

Infine il dettaglio più importante. Anche se il meccanismo di funzionamento dei viaggi temporali nella serie TV è vago, sappiamo che ha a che fare con la “Particella di Deutsch”: Elias Mannix utilizza una macchina chiamata La Gola per viaggiare indietro nel tempo fino al 1889, dove ruba l’identità del defunto Julian Harker, conquista la madre di Harker facendosi credere il figlio  e inizia (in senso cronologico) il suo piano per cambiare il mondo, che alla fine si realizza quando il suo io più giovane farà esplodere una bomba atomica nel 2023. Nel fumetto invece il viaggio nel tempo in senso tradizionale non esiste affatto. L’unica persona che si muove su varie linee temporali è la misteriosa entità nota come “Frank”, il corpo che continua a comparire: non più dunque quello dello scienziato Gabriel Defoe che viaggia nel passato nel tentativo di impedire l’attacco nucleare di Mannix. Quando Maplewood (all’epoca ancora più o meno fedele al suo Comandante) gli spara in un occhio, il suo corpo viene frammentato nel tempo, mettendo in moto il mistero e la conseguente indagine. Il corpo nel Comic è invece quello di un essere soprannaturale che si fa chiamare “con molti nomi”, ma preferisce essere solo Frank. E’ lui che permette a Hillinghead di accettare la sua omosessualità, che consente a Maplewood di annullare gli effetti dell’onda d’impulso e che aiuta Hasan ad eliminare gruppi razzisti a Londra (ne resta traccia solo all’inizio della serie, la manifestazione di estremisti di destra durante la quale tutto comincia). Il cattivo Whiteman invece, al contrario del suo omologo televisivo, fa una brutta fine. Hillinghead tra l’altro, frequentando Whitechapel nel 1890, incontra ovviamente il serial killer più famigerato della Londra vittoriana alla fine del fumetto: Jack lo Squartatore è invece del tutto assente dalla serie televisiva. Peccato !

Conclusione: il fumetto Bodies è, a conti fatti, molto più strano e meno stereotipato dello show di Netflix, sarà un effetto dell’algoritmo ?

 

 

 

 

 

 

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Cavalieri erranti in un’apocalisse senza distopia https://www.carmillaonline.com/2023/06/14/cavalieri-erranti-in-unapocalisse-senza-distopia/ Wed, 14 Jun 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77717 di Paolo Lago

Già all’inizio degli anni Ottanta, Teresa De Lauretis, citando Foucault, scriveva che la fantascienza contemporanea si è ormai lasciata alle spalle il classico conflitto fra utopia e distopia, indirizzandosi invece verso l’eterotopia, verso la coesistenza di sistemi di significato fra loro apparentemente inconciliabili. Pochi anni dopo, il concetto è ribadito da Fredric Jameson secondo il quale, ciò che distingue la fantascienza contemporanea dalle sue versioni ottocentesche è che, invece di proporre scenari utopici (o distopici), rispecchia il nostro senso di straniamento di fronte alla rapidità dei cambiamenti in corso. Sotto [...]]]> di Paolo Lago

Già all’inizio degli anni Ottanta, Teresa De Lauretis, citando Foucault, scriveva che la fantascienza contemporanea si è ormai lasciata alle spalle il classico conflitto fra utopia e distopia, indirizzandosi invece verso l’eterotopia, verso la coesistenza di sistemi di significato fra loro apparentemente inconciliabili. Pochi anni dopo, il concetto è ribadito da Fredric Jameson secondo il quale, ciò che distingue la fantascienza contemporanea dalle sue versioni ottocentesche è che, invece di proporre scenari utopici (o distopici), rispecchia il nostro senso di straniamento di fronte alla rapidità dei cambiamenti in corso. Sotto il travestimento di futuri post-apocalittici, quindi, non vi è altro che la nostra difficile e contraddittoria contemporaneità. Penso che ciò possa valere anche per gran parte della fantascienza di oggi: dietro l’apparente distopia vi è invece l’eterotopia, uno “spazio altro” secondo la definizione di Foucault; una dimensione e un modo diversi per raccontare ciò che ci circonda. Quindi, la letteratura, il cinema, le serie TV, quando mettono in scena catastrofici scenari futuri, raccontano né più né meno che il mondo di oggi.

Ebbene, la post-apocalittica Corea del Sud del futuro raccontata in Black Knight (2023, sei episodi per una stagione), in onda su Netflix, non è altro il mondo di oggi, nel quale però vige un importante ribaltamento di prospettiva. Quello che nell’odierna società dei consumi è considerato come uno dei lavori più soggetti a sfruttamento e meno gratificanti, cioè il rider, il corriere (attività il cui ampio spettro racchiude sia l’immigrato sottopagato che consegna cibarie a domicilio in bicicletta o in motorino, sia il corriere che con il furgone si fa centinaia di chilometri al giorno sempre sotto stress per rispettare gli orari), nel futuro eterotopico di Black Knight si trasforma in un lavoro da eroe, da “cavaliere nero” (un termine che indica un personaggio ambiguo e misterioso e che rimanda all’immaginario del ciclo arturiano e, successivamente, alla ricezione romantica e gotica del Medioevo). I corrieri, infatti, garantiscono la sopravvivenza alle altre persone e si battono contro le ingiustizie sociali. A causa dell’impatto della Terra con una cometa, l’intera Corea del Sud si è trasformata in un immenso deserto e all’aperto c’è scarsità di ossigeno. I corrieri, al servizio della potente corporation Cheonmyeong Group, si spostano su enormi camion che solcano il deserto e consegnano a domicilio le scorte di ossigeno e viveri a una popolazione che ha trovato rifugio in veri e propri bunker, completamente separati dall’esterno. Fare il corriere vuol dire essere un salvatore dell’umanità, come il leggendario 5-8, una specie di vendicatore mascherato che, assieme a un gruppo ristretto di corrieri, cerca però di sabotare il sistema classista e discriminatorio della corporation. Quest’ultima appare assai più potente degli apparati di governo (lo strapotere delle corporation è molto presente nell’immaginario fantascientifico contemporaneo e ci è stato tramandato cinematograficamente da capolavori come Alien e Blade Runner, entrambi di Ridley Scott) e mantiene la società rigidamente separata in classi sociali. I più poveri sono i “rifugiati”, che vivono in baraccopoli improvvisate oppure all’aperto, costretti a portare una maschera di ossigeno, non possedendo neppure un codice QR che permette l’accesso ai più essenziali servizi sociali; poi ci sono i cittadini ‘normali’, rinchiusi nei loro bunker ‘a schiera’; infine, i ricchissimi, i più vicini alla Cheonmyeong Group, che conducono la loro vita in serre artificiali dove viene ricreata un’esistenza quasi normale, con tutti gli agi e i confort.

Sotto il travestimento distopico creato dalla serie TV intravediamo perciò un’eterotopia del nostro mondo e, soprattutto, della società contemporanea coreana, ma anche cinese o giapponese. Innanzitutto, il pervasivo e digitalizzato controllo sociale. Le classi abbienti possiedono tatuato sulla mano un codice QR che permette loro l’accesso a qualsiasi servizio. Se anche dalle nostre parti il controllo digitale dei cittadini sta aumentando sempre di più, sicuramente paesi come la Corea del Sud o la Cina possiedono livelli altissimi di digitalizzazione dell’esistenza quotidiana finalizzata a un controllo quasi invisibile. È quella che il filosofo Byung-Chul Han (non a caso, un altro sudcoreano) chiama “società della trasparenza”: un universo sociale in cui ognuno si consegna volontariamente al controllo tramite gli smartphone e le loro applicazioni; un universo che ha la peculiarità di eliminare l’Altro o l’Estraneo. L’alterità è negativa e disturba la piatta comunicazione dell’Uguale. Perciò, la corporation non trova niente di meglio che indire una gara per dare l’opportunità al vincitore di diventare un corriere, gara che serve in realtà per eliminare la popolazione più povera. Dal momento che alla competizione partecipa il giovane rifugiato Yoon Sa-wol, tutti i rifugiati fanno il tifo per lui e la potente azienda predispone dei maxischermi nelle zone delle baraccopoli con l’intento di riunire più persone possibile per ucciderle. Un altro sistema per eliminare i più poveri sono i vaccini: ai “rifugiati”, chiamati a raccolta – si direbbe oggi – negli “hub vaccinali”, viene inoculato un siero che dovrebbe proteggerli dalle malattie ma che in breve tempo li conduce alla morte. Capiamo subito allora che dietro allo scenario distopico raccontato nel film c’è ancora una volta la nostra società, con un preciso riferimento all’emergenza Covid. Maschere per l’ossigeno, vaccini, codici QR rimandano alle misure di controllo della popolazione allestite per arginare l’emergenza del virus. Ancora una volta, se guardiamo alla realtà di diversi paesi orientali, tra cui la Corea del Sud, capiamo subito come queste misure siano state più pervasive e digitalizzate di quanto sia avvenuto da noi. D’altra parte, non dobbiamo neanche dimenticare che si tratta di paesi in cui la pandemia ha colpito assai duramente. Non vengono risparmiati neppure i risvolti più complottisti della nostra contemporaneità: si scoprirà infatti che i macchinari del governo (cioè, ça va sans dire, della corporation) che dovrebbero diffondere ossigeno nell’aria contribuiscono invece all’inquinamento. Anzi, il presunto inquinamento dell’aria, per cui è necessario portare sempre la maschera per l’ossigeno, non sarà forse del tutto opera della potente e mefistofelica Cheonmyeong Group?

Dalla Corea del Sud arrivano perciò letture interessanti della nostra contemporaneità, sia da una prospettiva filosofica che da una più legata all’immaginario cinematografico. Possiamo ricordare anche Bong Joon-ho, regista di un film significativo come Parasite (2019), in cui la “trasparenza” si è diffusa ormai in tutte le fasce sociali, persino nelle più povere, per mezzo della pervasiva diffusione degli smartphone. Un altro importante film del regista sudcoreano (dal quale è stata tratta anche una serie TV) è poi The Snowpiercer (2013), in cui in un mondo futuro completamente ricoperto dai ghiacci (altra eterotopia della nostra contemporaneità), gli unici sopravvissuti vivono su un treno rigidamente diviso in classi sociali. Se negli ultimi vagoni incontriamo i più poveri, sottoposti ad angherie di ogni tipo, nella testa ci sono i ricchissimi, che trascorrono la loro esistenza in luoghi eleganti e sicuri. Non dovremmo dimenticare neppure Okja, del 2017, in cui una potente azienda alimentare incentiva l’allevamento di sensibilissimi “supermaiali” al solo scopo di confinarli in mattatoi (dipinti come lager) per poi trasformarli in cotolette e salsicce. A capo della corporation c’è Lucy Mirando, interpretata da Tilda Swinton, che presenta il suo progetto aziendale in una forma spettacolare e teatrale: lo spettacolo più gretto ed ostentato è ormai la forma privilegiata di comunicazione delle potenti lobby che controllano le economie degli stati. Ma anche questo ce lo aveva già insegnato un capolavoro degli anni Ottanta come Videodrome (1983) di David Cronenberg. Dalla Corea del Sud arriva anche la recente serie TV Squid Game (2021, 9 episodi per una stagione), in cui l’inferno dell’Uguale – come direbbe Byung-Chul Han – è dominato dal denaro, in nome del quale i più poveri e indebitati della società non esitano ad affrontarsi in giochi crudeli e mortali controllati dai più ricchi capi d’azienda del globo, nascosti dietro le quinte come macabri burattinai.

Pensare che quei mondi distopici, post-apocalittici, devastati da conflitti nucleari, da catastrofi naturali, che vediamo nei film e nelle serie TV di fantascienza contemporanee non sono altro che “eterotopie” per rappresentare il nostro mondo ci fa venire i brividi. Ma i brividi ci dovrebbero venire anche a vedere come è il nostro mondo, senza distopie o travestimenti: un mondo dominato dall’economia capitalistica più gretta e meschina, dalla guerra infinita (a sua volta intrecciata alla sfera economica), dalle discriminazioni, dai conflitti sociali, dall’inquinamento e dal cambiamento climatico, dalla distruzione selvaggia degli spazi naturali e dalla cementificazione incentivata dagli stessi governi e poteri, dalla pervasività del controllo digitale che irrompe anche nella sfera della medicina e della salute, dalle manipolazioni genetiche. La fantascienza e la distopia sono intorno a noi, basta guardare un qualsiasi telegiornale. Però, se abbiamo bisogno di un immaginario che possa funzionare anche come una resistenza (non solo passiva ma anche creativa) a questa distopia quotidiana, a questo lento affondare nell’irrealtà, affidiamoci allora alle eterotopie create dal cinema e dalle serie TV e, non da ultimo, a quella creata da questa interessante Black Knight.

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The Last of Us: un’apocalisse intimista https://www.carmillaonline.com/2023/05/01/the-last-of-us-unapocalisse-intimista/ Sun, 30 Apr 2023 22:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76853 di Walter Catalano

Non si contano ormai i film o le serie TV direttamente tratte o derivate da videogiochi. In linea di massima l’abusato meccanismo spettacolare consiste nel ricalcare pedissequamente scenari e personaggi videoludici per indurre i fan del gioco a consumare passivamente anche l’audiovisivo rivivendone, almeno in teoria, le emozioni (e lasciandoli di solito insoddisfatti, data la natura non interattiva della fruizione cinematografica o televisiva rispetto a quella della console) e, in parallelo, auspicando che gli spettatori casuali dello show diventino acquirenti anche del gioco. Un automatismo analogo a quello [...]]]> di Walter Catalano

Non si contano ormai i film o le serie TV direttamente tratte o derivate da videogiochi. In linea di massima l’abusato meccanismo spettacolare consiste nel ricalcare pedissequamente scenari e personaggi videoludici per indurre i fan del gioco a consumare passivamente anche l’audiovisivo rivivendone, almeno in teoria, le emozioni (e lasciandoli di solito insoddisfatti, data la natura non interattiva della fruizione cinematografica o televisiva rispetto a quella della console) e, in parallelo, auspicando che gli spettatori casuali dello show diventino acquirenti anche del gioco. Un automatismo analogo a quello che regge le produzioni dei film di super-eroi, ispirate ai fumetti ma impossibilitate a ricreare la libertà immaginativa di una dimensione disegnata e priva di spazio, e perciò inevitabilmente cristallizzate in uno sterile e monotono parossismo virtuosistico di effetti speciali. Spettacoli riservati – salvo rare eccezioni – a teen agers incolti o ad adulti mentalmente deprivati dove, per bene che vada, conta solo l’action fine a sé stessa e lo spara-spara più trucido.

Non sempre è così però. The Last of Us, videogioco adventure pluripremiato, sviluppato nel 2013 da Naughty Dog sotto la direzione creativa di Neil Druckmann e Bruce Straley, e pubblicato da Sony per varie piattaforme di playstation, infrangeva gran parte delle regole videoludiche più codificate centrandosi soprattutto sui personaggi, problematici e psicologicamente credibili, e sui loro rapporti; sull’empatia riguardo a coesione ed interazione fra individui, più che sulla velocità di reazione da parte del giocatore. Il successo unanime di un’avventura a suo modo intimista, in cui il delicato evolversi, nel corso di sanguinose peripezie vissute insieme, del rapporto padre-figlia fra due estranei, un adulto e una ragazzina, conta quanto, e forse addirittura di più, dello scenario apocalittico da survival-horror, dimostra che esiste un pubblico meno sprovveduto di quanto si vuole credere. C’era bisogno soprattutto, per ottenere questo risultato eccellente, di uno scrittore originale e coraggioso –  Neil Druckmann – di un’ineccepibile grafica iperrealistica che restituisse quasi fotograficamente i paesaggi – in rovina – di Boston, Lincoln, Pittsburgh, Jackson, il Colorado e Salt Lake City, località attraversate dai protagonisti nella loro odissea; e di una colonna sonora di grande impatto, centrata sull’emozione e non sull’orrore, come quella realizzata dal compositore argentino Gustavo Santaolalla.

Era ovvio che dopo un tale successo nel campo dei videogiochi seguisse la necessità di un adattamento seriale e nel corso del 2021 viene finalmente realizzata la serie TV distribuita da HBO, in nove puntate, girata interamente in Canada e dichiarata la più grande produzione televisiva nella storia canadese. Lo showrunner è Craig Mazin, creatore della miniserie Chernobyl, in collaborazione con lo stesso Neil Druckmann, direttore creativo del videogioco; anche la colonna sonora resta di competenza del già esperto Gustavo Santaolalla in coppia con David Fleming. I protagonisti sono incarnati rispettivamente da Pedro Pascal, già noto per il ruolo del principe Oberyn Martell di Dorne in Il Trono di Spade e per quello dell’ispettore Peña in Narcos, e la giovane Bella Ramsay che ha debuttato come Lyanna Mormont sempre in Il Trono di Spade e si è distinta come Angelica nella seconda stagione di His Dark Materials. La selezione del cast risulta particolarmente azzeccata anche rispetto ai personaggi del videogioco: è stata molto dibattuta, ad esempio, la scelta della Ramsay, Bella di nome ma, secondo il superficiale giudizio di alcuni, non di fatto; la figura non della solita lolita bambolesca ma di un’adolescente normale, addirittura bruttina – almeno secondo i criteri convenzionali – conferisce invece al personaggio uno straordinario carisma, assai superiore all’omologo originale. Senza nulla togliere alla grande efficacia di Pedro Pascal, è Bella che – con il suo cipiglio determinato capace tuttavia di sciogliersi in certi momenti in sorrisi di devastante dolcezza – emerge come la rivelazione e la vera star dello show.

La trama del serial resta molto fedele a quella del videogioco, a parte alcune importanti modifiche che approfondiremo via, via più avanti. Una storia che, a grandi linee, si colloca all’interno del genere fanta-horror apocalittico-survival, sicuramente ispirato allo zombie-movie nella tradizione di Romero (ma più quello dei Crazies de La città verrà distrutta all’alba che quello dei Ghouls del ciclo dei Living Dead); al The Walking Dead di Robert Kirkman (il cui apporto creativo al sottogenere si può ormai considerare definitivamente concluso visto la monotonia e la ripetitività senza sbocchi del fumetto e delle serie derivate, Fear The Walking Dead, ecc. Kirkman stesso è diventato uno zombie…); al classico di Richard Matheson I Am a Legend del 1954 con tutta la cospicua filmografia a questo ispirata, o ai suoi corrispettivi colti come The Road di Cormac McCarthy e il film omonimo che ne ha tratto John Hillcoat.

L’intuizione narrativa più notevole di Druckmann è il presupposto strettamente scientifico dato come causa dell’infezione pandemica che provoca il crollo dell’umanità, collocandola così in pieno campo sci-fi, più vicina, quanto a modelli fumettistici, a L’Eternauta che a The Walking Dead. Il fungo parassita Cordyceps – realmente esistente, chi è interessato può leggerne l’interessantissima descrizione botanica nel best-seller divulgativo L’ordine nascosto: la vita segreta dei funghi di Merlin Sheldrake – che infesta insetti, in particolare formiche, condizionandone il comportamento tramite sostanze psicotrope rilasciate nell’organismo e riempiendone il corpo con il proprio micelio fino a uccidere l’ospite e perforarne l’esoscheletro con ife capaci di liberare nuove spore in posizione favorevole per ricadere e germinare su altri artropodi, fa uno spillover a Giava nel 2013 (anno di uscita del gioco, che diventa 2003 nella serie, in modo che l’azione descritta, che si svolge vent’anni dopo il contagio globale, coincida con il 2023 quando lo show viene messo in onda). Il Cordyceps comincia ad attaccare gli uomini invece degli insetti trasformandoli in un incrocio fra i crazies e gli zombies romeriani, ma dai movimenti niente affatto rallentati, semmai accelerati, dalla forza e dalla capacità di incassare i colpi moltiplicata e con orribili infiorescenze fungiformi che fuoriescono da tutti gli orifizi corporei: il culmine è raggiunto nel Bloater, un infetto nel cui corpo il parassita ha proliferato per anni rendendo l’ospite una sorta di uomo-fungo gigante e potentissimo. Nel videogioco il contagio non avviene solo tramite il morso di persone infette o lo scambio di fluidi con esse, ma anche con l’inalazione delle spore del fungo che vengono disperse e possono permanere nell’aria. Nella serie invece si è preferito eliminare quest’ultimo aspetto per evitare che gli attori indossassero troppo spesso maschere antigas o simili, limitandone movimenti ed espressività. E’ stata invece aggiunta l’idea, assente nel gioco, della rete di comunicazione fungina tramite micelio che consente agli infetti di trasmettersi informazioni anche a grande distanza.

Le altre variazioni apportate non modificano sostanzialmente lo scenario fondamentale ma riguardano solo piccoli snodi della trama o personaggi minori. ll protagonista della storia resta Joel Miller, che ha perduto tragicamente la figlia teen ager nei primi giorni del contagio, vent’anni dopo è ormai un uomo assuefatto alla morte e alla violenza, in una civiltà decimata dall’infezione, e costretta a vivere in zone di quarantena sotto uno stretto regime poliziesco. Joel è un contrabbandiere nella ZQ, zona di quarantena di Boston, e assieme alla compagna Tess dà la caccia a Robert, un trafficante del mercato nero, per recuperare armi che ha loro sottratto. L’uomo ha però venduto il carico alle Luci (Fireflies nell’originale), una milizia ribelle che si oppone alle autorità della FEDRA, forza militare che controlla le zone di quarantena. Così Joel e Tess incontrano Marlene, capo delle Luci, che affida loro un compito: scortare la quattordicenne Ellie incolume, a un gruppo di suoi compagni nel palazzo del Governo, fuori dalla zona di quarantena. Ellie, si scoprirà, è così importante perché è stata morsa e non si è infettata, è presumibilmente immune al contagio del Cordyceps: studiandone l’organismo in un laboratorio attrezzato si potrà cercare di ottenere un prezioso vaccino. Giunti fortunosamente a destinazione i tre trovano però tutti morti e il palazzo del Governo pieno di infetti, Tess, morsa a sua volta, si sacrifica per permettere ai due sopravvissuti di mettersi in salvo. A questo punto non resta a Joel che intraprendere un disperato viaggio attraverso un’America devastata per ritrovare le Luci e Marlene, e consegnare loro Ellie, portando comunque a termine altrove la missione che potrebbe rappresentare la salvezza dell’umanità.

Non mi dilungo oltre sulla trama per non spoilerare eccessivamente. Da segnalare l’estrema compattezza figurativa della ricostruzione filmata che rispetta ed esalta i toni plumbei e deprimenti della grafica del gioco. Interessante lo scavalcamento di molti degli stereotipi del sottogenere che vengono non infranti o disattesi ma aggirati e riletti in chiave intimista e psicologistica. Si evita, pur nel ripetersi inevitabile di certe situazioni e personaggi chiave – il maggior pericolo, ormai lo sappiamo, sono gli uomini, molto più dei mostri, crazies, zombies o mezzi funghi che siano – di cadere nella noia mortale del meccanismo risaputo e prevedibile in cui languono da anni The Walking Dead e i suoi epigoni. La raffinatezza formale delle produzioni HBO emerge come sempre e il tono generale della serie è fortemente caratterizzato e peculiare. Molto equilibrato l’alternarsi di scene d’azione concitate e violente ad altre statiche e riflessive di dialogo o di significativi silenzi, così come il passaggio da descrizioni spietate – Joel realisticamente non si fa più scrupoli morali e, per proteggere Ellie o sé stesso, non esita ad uccidere a sangue freddo anche prigionieri inermi, feriti o disarmati – ad altre di tacita e velata ma profonda tenerezza. La storia alla fine è quella di un padre che ritrova la figlia perduta.

Interessante anche il modo non stereotipato in cui gli sceneggiatori affrontano il tema dell’omosessualità nella quinta e nella settima puntata. I personaggi di Bill e Frank, presentati come gay anche nel gioco, ma del tutto secondari, acquistano nell’episodio cinque profondità e spessore: il burbero Bill, isolato nel suo quasi inespugnabile rifugio, si ritrova per caso ad ospitare il gentile e leggiadro Frank e il loro temporaneo sodalizio si trasforma nella convivenza decennale di due coniugi; se Bill sembra all’inizio accettare le affettuosità di Frank solo per interrompere una troppo pesante solitudine in mancanza di donne disponibili, il rapporto fra i due si trasforma presto in una delicata e romantica storia d’amore con tanto di suicidio finale a due, in stile Tristano e Isotta o Giulietta e Romeo. Con la stessa mancanza di forzature si allude nell’episodio sette – ispirato a Left Behind, espansione prequel del gioco – al rapporto fra Ellie e l’amica Riley Abel, un gioco di bambine dalle soffuse sfumature omoerotiche in un grande magazzino abbandonato: l’idillio è bruscamente interrotto da un infetto che le attacca mordendole entrambe; Ellie scoprirà così la propria immunità ma sarà costretta a uccidere l’amica non altrettanto fortunata.

Sull’immunità di Ellie, in preparazione della seconda stagione già annunciata, viene fornita una spiegazione assente nel gioco, aggiungendo un episodio inedito finale che permette, tra l’altro, di dare un ruolo nello show ad attori che avevano prestato voci e fattezze ad altri personaggi sulla console: la madre di Ellie, incinta, viene morsa da un infetto e partorisce poco dopo. L’amica Marlene, futuro capo delle Luci, dovrà ucciderla promettendo però di prendersi cura della bambina appena nata.

In conclusione dunque un grosso lavoro di riscrittura e rielaborazione del testo che lo reinventa e lo riadatta ad un altro linguaggio, in encomiabile autonomia, tracciando un percorso inedito nella storia non sempre entusiasmante delle trasposizioni dalla console allo schermo. The Last of Us, pur facendo parte del sottogenere forse più abusato di questi anni pandemici in cui lo zombie-apocalypse sembra l’unica prospettiva concreta del genere umano – un’iperstizione per dirlo come gli accelerazionisti – riesce ancora ad emozionare e a coinvolgere. Forse nelle peripezie di Joel ed Ellie anticipiamo catarticamente la visione distorta di quanto ci tiene in serbo il nostro imminente futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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The Peripheral: Monna Aelita Cyberpunk https://www.carmillaonline.com/2023/02/10/the-peripheral-monna-aelita-cyberpunk/ Thu, 09 Feb 2023 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75838 di Walter Catalano

Non mi ero predisposto alla visione con particolare attenzione verso The Peripheral, in italiano Inverso: la serie televisiva statunitense creata e prodotta per Amazon Studios e Warner Bros Television in collaborazione con Kilter Films, da Scott B. Smith insieme a Jonathan Nolan e Lisa Joy, e basata sull’omonimo romanzo di William Gibson. L’immaginario cyberpunk gibsoniamo, fatto di realtà virtuali, computer, periferiche di input e output, mi pareva ormai inguaribilmente datato in senso visuale: un affastellamento di residuati e protesi tecnologiche intese a mantenere o [...]]]> di Walter Catalano

Non mi ero predisposto alla visione con particolare attenzione verso The Peripheral, in italiano Inverso: la serie televisiva statunitense creata e prodotta per Amazon Studios e Warner Bros Television in collaborazione con Kilter Films, da Scott B. Smith insieme a Jonathan Nolan e Lisa Joy, e basata sull’omonimo romanzo di William Gibson. L’immaginario cyberpunk gibsoniamo, fatto di realtà virtuali, computer, periferiche di input e output, mi pareva ormai inguaribilmente datato in senso visuale: un affastellamento di residuati e protesi tecnologiche intese a mantenere o resuscitare un’epica degli anni ’80/’90 sostanzialmente fasulla, rispetto a una deriva informatica che ha ormai imboccato ben altri percorsi. Inoltre non essendo mai stato particolarmente affezionato a Westworld, che ho abbandonato senza rimpianti alla seconda stagione, non mi facevo nessuna illusione sul nuovo progetto degli stessi ideatori e produttori. Devo riconoscere invece che, superata l’iniziale perplessità, la serie mi è apparsa decisamente superiore alla precedente. Là dove spesso Westworld si inceppava diventando astrattamente noiosa e pretestuosa, qui, grazie anche al sottotesto intricato ma nitido offerto dal romanzo di Gibson – uscito nel 2014 e a cui è seguito nel 2020 il secondo volume del ciclo, Agency – il ritmo resta più incalzante e i personaggi mantengono la loro coerenza.

Niente da eccepire anche sulla performance dei protagonisti, efficaci e ben caratterizzati sotto la regia, prevalentemente, dell’italo-canadese Vincenzo Natali: Jack Reynor, già visto nei panni dello scienziato-stregone John Whiteside Parsons nella purtroppo interrotta serie CBS Strange Angel, e la giovane ed eterea Chloë Grace Moretz, che interpretano le figure di Burton Fisher, ex marine in congedo con impianti neurali – una connessione neurale “aptica” sotto pelle che gli permette di condividere i sensi con i commilitoni del suo plotone –  installati durante il servizio attivo nelle forze armate nel corso della guerra contro il Texas secessionista; della candida ma intraprendente sorella minore Flynne – “tutta unicorni e arcobaleni” dirà di lei un personaggio – che lavora in un negozio di stampe 3D ed ha uno spiccato talento nei giochi di simulazione virtuale; e della madre Ella (Melinda Page Hamilton), malata terminale per un raro tumore; che sopravvivono, siamo nel 2032, nel contesto rurale, molto hillibilly, e socialmente degradato di un’area semiselvaggia nel Blue Ridge del North Carolina, dove spadroneggia la cricca del gangster Corbell Pickett (Louis Herthum) – gli Appalachi si confermano anche in quest’occasione un’area iconica per il cinema americano: si pensi a Un tranquillo weekend di paura (Deliverance, John Boorman, 1972) e Il cacciatore (The Deer Hunter, Michael Cimino, 1978). I due fratelli arrotondano la magra pensione di invalidità dell’esercito come sperimentatori di prototipi di giochi online, e questo secondo lavoro sarà l’occasione che avvierà la vicenda. La possibilità di testare una nuova simulazione ambientata in una Londra del 2099, solo apparentemente virtuale, sbalza i protagonisti 70 anni avanti, come riluttanti pedine di una guerra di intelligence condotta attraverso le “periferiche” del titolo, ovvero organismi robotici in grado di ospitare la coscienza del soggetto permettendo di viaggiare nel tempo, per interposta persona, tramite un flusso di particelle quantistiche che trasportano informazioni e permettono al viaggiatore di “abitare” un avatar sintetico. Gli eventi si dipanano attraverso linee temporali parallele – chiamate “stub”, tronconi, frammenti – che si creano (e si distruggono) ad ogni possibile biforcazione divergente nella linea del tempo, sorta di rami che diventano secchi a seguito di divaricazioni contraddittorie nel tempo quantistico, eliminando così qualsiasi possibile paradosso temporale e, nel caso specifico, sotto la minaccia dell’evento apocalittico – chiamato Jackpot – che incombe sul “troncone” da cui provengono i fratelli Fisher e sta all’origine di quello londinese in cui si muove Aelita West (Charlotte Riley), il personaggio più sfuggente e carismatico che li ha convocati e che lotta a fianco del gruppo dei Neoprimitivi per sovvertire l’ordine sociale mondiale, instaurato dopo il Jackpot, sotto il controllo di multinazionali e oligarchi russi. Il rimando traslato ad Aelita, il romanzo di Aleksej Nikolaevič Tolstoj, pubblicato nel 1922 nella Russia appena divenuta Urss e al successivo film omonimo realizzato dal regista Jakov Protazanov nel 1924, primo kolossal sovietico di fantascienza, non si limita evidentemente per Gibson solo ad un’onorifica citazione nel nome di uno dei personaggi principali, ma assume una valenza ben più evocativa ed ellitticamente tematica.

Rispetto al libro, però, la serie va comunque considerata una rivisitazione più che un adattamento fedele. La cornice è identica, i personaggi sostanzialmente gli stessi, così come anche molte scene e i principali snodi di trama. Tuttavia, la storia televisiva ha tinte più nette, più manichee e tende a virare le varie tonalità di grigio dell’ambiguità morale di gran parte dei personaggi gibsoniani nel bianco o nero di polarità opposte e definite. Nonostante la sua profonda influenza, Gibson non ha avuto finora troppa fortuna quando il suo lavoro è stato trasposto sullo schermo – Johnny Mnemonic di Robert Longo (1995) e New Rose Hotel di Abel Ferrara (1998), sono film solo in parte riusciti con la parziale eccezione dell’interpretazione di Keanu Reeves in Johnny Mnemonic – pur avendo lo scrittore lavorato per qualche anno ad Hollywood e scritto un Alien 3 che non è stato mai realizzato. La sua forte critica alle sovrastrutture finanziarie e tecnologiche del mondo contemporaneo, che da Neuromante in poi ha prefigurato ed estremizzato le derive che abbiamo sotto gli occhi – basti pensare alle follie futuristiche miliardarie di Jeff Bezos – rischia spesso di passare sotto tono, annacquata ed edulcorata, dalla letteratura ad altri linguaggi più massificati come cinema e tv. Il personaggio di Wilf Netherton (Gary Carr), figura speculare a Flynne nel tempo futuro, ad esempio, è nel romanzo di Gibson nettamente più complesso del suo corrispettivo televisivo, così come l’intera trama a suo riguardo, decisamente più articolata, mentre nella serie ci si concentra solo e unicamente sul suo rapporto con Lev Zubov (JJ Feild), oligarca della Klept, organizzazione commerciale mafiosa che regge le finanze del mondo dopo il Jackpot, con strategie geopolitiche criminali semplificate e banalizzate eccessivamente nel serial. Aggirando tutte le sottigliezze del romanzo lo show snellisce il contrasto: alla violenza sistemica del capitalismo predatorio delle corporation e delle zaibatsu, Flynne e i suoi accoliti reagiranno scatenando una guerriglia individualista, anarchica e imprevedibile.

Dal punto di vista concettuale e nella labirintica struttura tematica comunque la serie non fa troppo torto al romanzo. In molti vi hanno trovato affinità stilistiche notevoli, oltre che ovviamente con Westworld (che comunque, come già ho detto, resta uno show assai meno nitido e focalizzato di questa nuova produzione), anche con Fringe e soprattutto con la notevolissima Counterpart (purtroppo, come molte serie troppo sofisticate, cancellata dopo la seconda stagione), anch’essa basata su due realtà parallele e confinanti, con ognuno dei personaggi che aveva una controparte dall’altro lato. Sul piano iconografico invece ci si rifà ad una visualità anni ’90, forse esplicito rimando all’epoca d’oro del cyberpunk, a cominciare dal tema musicale e dalla sigla dei titoli di apertura quasi da Space Opera – un po’ The Expanse, ottima, un po’ Foundation, penosa – come a volersi accattivare un pattern identificativo di genere. Così infatti, inseguendo la stessa riconoscibilità, sia lo scenario americano teso ad un realismo redneck fin troppo ostentato, che gli estraniati e metafisici paesaggi londinesi costellati di svettanti e mastodontiche statue neoclassiche, confermano una visualità da videogioco – dato il tema in fondo giustificata – che risulta suggestiva ma decisamente abusata.

Per quanto i fan più intransigenti di William Gibson possano restare inevitabilmente delusi, bisogna dare atto alla serie tv di aver mantenuto, a grandi linee, una certa coerenza nell’affrontare tematiche attuali quali lo stato di sorveglianza, la minaccia rappresentata dalla cleptocrazia, la difficile situazione dell’America rurale, il trattamento dei veterani di guerra, l’aumento dei costi di assistenza sanitaria e i disordini politici negli Stati Uniti. Forse in modo superficiale, ma un certo, almeno formale, impegno, è stato mantenuto: in fondo di un prodotto d’intrattenimento si tratta e da Gibson si è preso, comprensibilmente, più l’aspetto thriller ed action che la riflessione sociologica.  La lotta tra il controllo sociale da una parte e l’autonomia individuale dall’altra, così come l’interazione e la compenetrazione tra Physis, e quindi Sòma, e Tèchne, che sono un po’ i temi cardinali di Gibson e del cyberpunk in generale, restano comunque intatti. Non è poco.

Insomma, per concludere, molti pregi e molti difetti. Per ora tiriamo avanti e stiamo a vedere cosa ci riserverà la seconda stagione.

 

 

 

 

 

 

 

 

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The Sandman: sacrilegio o consacrazione ? https://www.carmillaonline.com/2022/08/31/the-sandman-sacrilegio-o-consacrazione/ Tue, 30 Aug 2022 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73502 di Walter Catalano

In varie interviste di diversi anni fa Neil Gaiman sosteneva con convinzione che The Sandman, l’epocale saga a fumetti da lui composta per la Vertigo, sotto etichetta “adulta” della DC Comics, non avrebbe mai potuto né dovuto diventare un film: in quel caso l’autore avrebbe preferito non essere coinvolto a nessun titolo nella realizzazione. I decenni sono passati e i termini della questione stravolti: il sogno o l’incubo dei molti lettori si è avverato e The Sandman, è finalmente diventato non un [...]]]> di Walter Catalano

In varie interviste di diversi anni fa Neil Gaiman sosteneva con convinzione che The Sandman, l’epocale saga a fumetti da lui composta per la Vertigo, sotto etichetta “adulta” della DC Comics, non avrebbe mai potuto né dovuto diventare un film: in quel caso l’autore avrebbe preferito non essere coinvolto a nessun titolo nella realizzazione. I decenni sono passati e i termini della questione stravolti: il sogno o l’incubo dei molti lettori si è avverato e The Sandman, è finalmente diventato non un film ma una serie televisiva di cui proprio Gaiman è sceneggiatore e produttore esecutivo.  Distribuita da Netflix, si avvale, oltre che dello scrittore britannico, di altri due showrunner come lui legati al fumetto: David S. Goyer – collega sceneggiatore per la Marvel e la DC e in seguito collaboratore di Cristopher Nolan per vari Batman e per altri film di super-eroi – e Allan Heinberg –già autore Marvel e DC, sceneggiatore del film Wonder Woman di Zack Snyder e di serie tv come Sex and the City e Grey’s Anatomy. La prima stagione, appena uscita, va a coprire i primi albi della lunga epopea: quelli inclusi in Preludi&Notturni e Casa di bambola. Alla luce di queste premesse, una domanda si impone: si è trattato di un sacrilegio o di una consacrazione ? Un po’ una cosa, un po’ l’altra, è lecito rispondere mantenendosi equilibrati. Ma facciamo un passo indietro e, per chi non lo sapesse, vediamo meglio cosa sia stato il fumetto The Sandman.

Non ho usato a caso l’aggettivo “epocale” a proposito di un comic che va ad unire la cultura pop dei supereroi DC e quella alta delle mitologie e mitografie comparate e della narrativa horror, weird e fantastica. Uscito tra il 1989 e il 1996, è profondamente segnato, in termini tematici e figurativi, dall’immaginario di quegli anni: i riferimenti culturali, iconografici e musicali esprimono al massimo il neodecadentismo gothic e la subcultura Emo, dalla quale lo stesso – ancora giovane – Gaiman proveniva. Il protagonista, Sandman, Morfeo, il Signore dei sogni, è un sosia di Robert Smith, il cantante dei Cure; la sorella maggiore Death, la morte, avrebbe dovuto assomigliare a Nico, la ex cantante dei Velvet Underground come appariva sulla copertina del suo primo LP solo, Chelsea Girl, ma il disegnatore Mike Dringenberg propose uno schizzo che ritraeva una sua amica, quasi uguale a Siouxsie Sioux, Susan Janet Ballion, front-girl dei Siouxsie and the Banshees, e la si preferì; perfino Lucifero ricorda il David Bowie di Low e Delirio, altro membro della famiglia degli Eterni, ha il volto della cantautrice americana Tori Amos (amica intima di Gaiman che restituì l’omaggio menzionando Neil nei suoi primi tre dischi: “Little Earthquakes”, “Under The Pink” e “Boys For Pele”). Tutti questi riferimenti, musicali ed estetici, non sono neutri ma essenziali per comprendere e collocare l’opera nel giusto contesto.

Gaiman aveva realizzato già per la DC un paio di progetti di successo e ricevette l’incarico di rivitalizzare vecchi personaggi dimenticati dal pubblico: pensò così al n.47 di Justice League of America, dove, davanti alla minaccia dell’Uomo Antimateria, a fianco di Batman, Atom e Lanterna Verde si schierava anche un certo Wesley Dodds, in arte Sandman, sfoggiando un lungo impermeabile, una maschera antigas, un cappello e una pistola di gas soporifero (il personaggio è stato in seguito ripreso da Matt Wagner nella serie Vertigo Sandman Mystery Theatre: è uscito anche un cross-over tra il Sandman gaimaniano e quello wagneriano). Non resta niente di quel Sandman se non il nome, piuttosto la reminescenza gotica del Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann, L’uomo della sabbia che spargendo granelli di una sabbia magica sugli occhi dei bambini li fa addormentare e sognare: Sandman diventa dunque il dio del sonno: Morfeo, Oneiros.

L’ispirazione mitografica di Gaiman procede da qui: i suoi protagonisti non sono supereoi ma “dei” di un pantheon caotico in cui convivono e coesistono tutte le mitologie di ogni tempo e di ogni luogo. Gli dei di Gaiman non sono onnipotenti né immortali: esistono solo finchè gli uomini credono in loro, quando la fede dei mortali nei loro confronti si affievolisce anche il dio decade, si spegne e infine muore. Spesso lo scrittore si compiace di accennare alla parabola discendente di una divinità decaduta che per sopravvivere deve adattarsi a fare lavori di bassa lega derivati dalla sua specialità divina (ad esempio un dio dell’Ade può ritrovarsi a fare sulla terra l’impresario di pompe funebri, una dea dell’amore la spogliarellista o la call-girl). L’idea deve forse qualcosa al romanzo di Jean Ray Malpertuis (1943) e Gaiman la riprende in seguito anche nei suoi romanzi principali, American Gods (2001) e, con meno efficacia, Anansi Boys (2005).

Sandman non è però solo: appartiene ad una famiglia di sette dei, The Endless – gli Eterni, che, come i Neter dell’Antico Egitto, incarnano e sovrintendono ciascuno a un particolare aspetto dell’esistenza umana: nell’originale inglese il nome di ognuno di loro inizia per D. In ordine di anzianità: Destiny, Death, Dream, Destruction, Desire, Despair, Delirium. Ma gli Eterni non sono nomi bensì funzioni: sono quindi superiori agli stessi dei, perché incarnando e nutrendosi di sentimenti, atti e passioni comuni a tutti gli esseri senzienti e praticamente infiniti, esistono da prima che l’uomo potesse concepire l’idea stessa di divinità. Si delinea una precisa cosmogonia: Destino (Destiny), è nato appena prima che il primo essere vivente venisse al mondo, in quanto il destino di un individuo è già scritto prima che egli nasca; alla comparsa del primo essere vivente nasce anche Morte (Death). L’essere appena nato inizia a sognare, ed ecco Sogno (Dream), ma il sogno provoca cambiamento, per cui Distruzione (Destruction) di ciò che era prima, che si manifesta in Desiderio (Desire), e quindi Disperazione (Despair) per non poter avere la cosa voluta, ed infine Delirio (Delirium), che una volta era Delizia, o Piacere.

Desiderio e Disperazione sono gemelle. Ma più importanza di loro ha Death, Morte, la sorella prediletta di Sandman: non minaccioso scheletro con la falce, ma gentile e graziosa ragazzina punk, vestita di nero e con al collo un ciondolo raffigurante una croce ansata o Ankh, antico simbolo usato dagli Egizi per rappresentare la vita eterna. Compie sempre il suo sgradevole dovere con comprensione e affetto, accoglie il deceduto con un sorriso, lo abbraccia cercando di rassicurarlo e se lo porta via tenendolo per mano. Death ha avuto un successo parallelo a quello del fratello minore, tanto da guadagnarsi l’onore di alcuni albi indipendenti dalla saga di Sandman: Death the High Cost of Living (1993), Death: The Time of Your Life (1996) e il manga scritto e disegnato da Jill Thompson, Death: At Death’s Door (2003), oltre a varie comparsate in numerose serie Vertigo e DC Comics.

Il personaggio di Sandman – e questo è uno dei motivi della sua originalità – è sia protagonista della saga sia, molto spesso, semplice comparsa di vicende collaterali delle quali costituisce insieme il filo conduttore: è il tessitore di storie, il plasmatore, perché il sogno è l’archivio universale di tutte le storie possibili. Complesso lo scenario sullo sfondo: il regno di Sogno, The Dreaming, non-luogo dove Morfeo può fare qualsiasi cosa desideri attingendo alle idee e alla forza di tutti i sognatori terrestri. Gli abitanti permanenti del regno – visitato temporaneamente da ognuno di noi, ogni notte, – sono oltre ai sogni e agli incubi, esseri mitici come la viverna, il grifone e l’ippogrifo che fanno la guardia alla porta del palazzo; Mervin uno spaventapasseri con la testa a forma di zucca; i biblici Caino e Abele in eterno litigio tra di loro; Matthew, il corvo di sogno, che in precedenza era un uomo, e contrappone spesso una visione del mondo pratica e disincantata alle astratte elucubrazioni di Morfeo; il bibliotecario Lucien che sovrintende alla biblioteca del sogno in cui sono presenti tutti i libri che gli uomini hanno sognato o immaginato di scrivere e tutti i romanzi che non si sono mai concretizzati nella realtà.

La saga inizia con un Sandman prigioniero per 70 anni di un occultista inglese molto simile ad Aleister Crowley, tal Roderick Burgess, che, tentando attraverso un complesso rituale magico di imprigionare Death per divenire immortale, aveva catturato invece il fratello minore. Sandman riesce però a liberarsi, si vendica del mago e dei suoi discendenti, trova il suo regno in rovina e i suoi servitori dispersi. Per restaurare il suo pieno controllo deve recuperare i tre oggetti del potere che gli sono stati sottratti: il sacchetto che contiene la sabbia del sogno, il suo elmo e il rubino che racchiude parte del suo essere. Per far ciò deve confrontarsi con Lucifero e le sue legioni infernali (tra cui il demone crowleyano Choronzon). Nella storia fanno la loro apparizione diversi personaggi dell’universo DC come John Constantine (protagonista della serie Hellblazer), Scott Free (il Mister Miracle di Jack Kirby) e J’onn J’onzz (il Martian Manhunter, da noi Il Segugio di Marte) e viene presentata per la prima volta Death. Morfeo (curiosa caratteristica grafica del personaggio: i suoi baloons non sono bianchi, come quelli di tutti gli altri ma neri con lettering in bianco) inizia a ricostruire il regno del sogno che, dopo decenni di abbandono da parte del suo creatore, è alla deriva. Deve recuperare inoltre tutti i sogni e gli incubi che sono fuggiti, alcuni dei quali si sono rifugiati sulla terra assumendo forma umana. Per far ciò sarà costretto a infrangere l’illusione di una donna, Hippolyta Hall, e si troverà coinvolto in una convention di serial killer.

Iniziano qui le storie collaterali alla principale (spesso sono le più belle): la leggenda di una antica tribù africana e della loro regina, Nada, così come viene tramandata di padre in figlio. Gaiman inserisce Sogno all’interno della leggenda con la narrazione del tormentato love-affair fra Sandman e la bella mortale. Poi la vicenda di Robert Gadling a cui Morte ha concesso, un po’ per divertimento e un po’ per insegnare a Sogno il senso della vita terrena, di non morire. Ogni 100 anni lui e Morfeo hanno appuntamento in un bar e tra loro nasce una sorta di amicizia travagliata. Il volume successivo, il terzo (Dream Country), sarà composto da quattro storie indipendenti tra loro in cui Sogno non è il protagonista ma ha una presenza quasi marginale. La prima storia ha come protagonista la musa Calliope (musa della poesia epica e ispiratrice di Omero) tenuta prigioniera da uno scrittore senza talento che ne abusa sessualmente e la costringe a dargli ispirazione letteraria rendendolo immeritatamente ricco e famoso. Calliope è stata nell’antichità amante di Sogno e da lui ha avuto un figlio, Orfeo. Sarà proprio il signore dei sogni ad aiutarla a fuggire. La seconda storia ha per protagonisti i gatti: Gaiman, che è un grande amante di questi animali, ci spiega cosa sognano e sperano i felini. La terza storia, vincitrice del World Fantasy Award del 1991 nella categoria racconti brevi (in seguito sono stati introdotti nuovi regolamenti per impedire a un fumetto di entrare in classifica), racconta della prima della commedia Sogno di una notte di mezza estate messa in scena da Shakespeare in persona e dalla sua compagnia, in onore di Morfeo e dei suoi insoliti ospiti: gli stessi Titania, Oberon, Puck, e la loro corte fatata. L’ultima vicenda ha come protagonista una donna i cui superpoteri rappresentano una dannazione: proprio grazie ad essi non riesce a togliersi la vita come vorrebbe. Interverrà Death ad aiutarla.

Il quarto volume, Season of Mists è forse l’albo più bello di tutta la serie: vi si intrecciano due storie, la discesa all’Inferno di Sandman che, pentito dopo un travagliato consulto con i suoi fratelli Eterni, intende liberare il suo vecchio amore Nada (già conosciuta in Doll’s House) che ha condannato spietatamente ad essere relegata all’eterno tormento diecimila anni prima; e quella di Lucifero, stanco e nauseato del ruolo di Maledetto e di Nemico, che si dimette dalle sue sgradevoli mansioni, lasciando il suo regno infernale vuoto e abbandonato e consegnandone le chiavi allo stesso Morfeo. Quasi tutti gli dei di pantheon reali e immaginari si precipitano nel regno di Sandman reclamando l’eredità di Lucifero (che, personaggio affascinante e filosoficamente nietzschiano, diverrà protagonista di una collana indipendente per la DC Comics: Lucifer, per l’appunto, che racconta delle sue avventure sulla terra come “pensionato” e che ispirerà a sua volta una mediocre serie tv omonima). Alla fine i designati saranno due angeli, Remiel e Duma, che accetteranno con dolore e rimpianto di precipitare come il loro predecessore per subentrare a svolgerne le funzioni. Sandman riesce però a liberare l’anima di Nada che era stata portata come riscatto dal demone Azazel. Pentito per averla punita solo perché lei lo aveva rifiutato, le propone di diventare la regina del suo regno, ma anche questa volta lei rifiuta. Preferisce l’alternativa della reincarnazione e rinasce sulla Terra, immemore di tutto ciò che ha vissuto.

In A Game of You, quinto volume, si contrappongono i personaggi immaginari del mondo del sogno infantile di Barbie, una ragazza che vive a New York, e i vicini di casa del suo mondo reale adulto, le due lesbiche Hazel e Foxglove, il travestito Wanda, la misteriosa strega Thessaly e il cupo George. Anche Fables&Reflections, sesto volume, contiene storie indipendenti in cui Sandman è solo un personaggio collaterale e in cui si affiancano protagonisti fantastici ma anche reali come Joshua A. Norton, primo e autoproclamato Imperatore degli Stati Uniti d’America; i rivoluzionari Saint Just, Robespierre e Thomas Paine; l’imperatore Augusto e il suo nano Licio; Marco Polo e Rustichello da Pisa; Hārūn al-Rashīd, quinto califfo della dinastia abasside; oltre ai mitologici Orfeo e Euridice ed Ade e Persefone, e ai biblici Caino e Abele ed Eva. Orfeo ricompare nel successivo Brief Lives insieme alla dea babilonese Ishtar, ex amante di uno degli Eterni, Distruzione, conduttore di questa vicenda.

World’s End contiene ancora storie indipendenti e, forse, una possibile analogia tematica con Jean Ray e i suoi Les Derniers Contes de Canterbury (1944): due ragazzi, durante un lungo viaggio in macchina, vengono bloccati da una bufera di neve. Trovano riparo all’interno di una locanda chiamata “La fine dei mondi”. Al suo interno incontrano personaggi provenienti da tempi e dimensioni differenti che per divertimento si raccontano delle storie: al di fuori della locanda infuria una “tempesta di realtà” e l’unica alternativa è aspettare che passi. In The Kindly Ones i rimandi colti alla tragedia classica divengono più evidenti: Daniel, il figlio che Hippolyta Hall ha concepito nel sogno, viene rapito. La madre, sconvolta, incolpa ingiustamente Sandman, reo di averle distrutto la vita infrangendo le sue illusioni. Il bambino in realtà è stato preso dal dio Loki che Morfeo aveva liberato dalla sua prigionia in Season of Mists. Hippolyta, impazzita per la perdita del figlio, intraprende una sorta di viaggio spirituale che la porterà ad incontrare molte creature fantastiche tra cui Steno e Euriale. Le due gorgoni le offrono senza successo di prendere il posto della loro defunta sorella Medusa. Con l’aiuto della strega Thessaly (già apparsa in A Game of You) Hippolyta riesce a contattare le Eumenidi (o Erinni) che la sostengono nei suoi propositi di vendetta contro Morfeo (colpevole, a loro giudizio, della morte del figlio Orfeo). Gli eventi innescati non possono più essere fermati e le Furie distruggono il reame del sogno alla ricerca di Sandman che, in uno struggente dialogo finale con la sorella Death, in una sorta di catarsi classica, sceglie di porre fine alla sua esistenza. Un’incarnazione del sogno deve però continuare ad esistere e sarà proprio il piccolo Daniel a sostituirlo, diventando così la nuova personificazione dell’Eterno. Una personificazione, però, del tutto differente dal suo predecessore (un giovane non più dark-gothic ma albino e completamente vestito di bianco) e forse meno ieratica e più umana. Nell’ultimo episodio, The Wake, assistiamo alla cerimonia funebre di Morfeo alla fine della quale Daniel assumerà il suo nuovo ruolo.

Pur da un sommario riassunto come il mio, emerge la complessità labirintica dell’opera, la pirotecnia dell’immaginazione, la profondità dei personaggi e, assolutamente inusuale in un fumetto, la delicata evoluzione psicologica del protagonista. Sogno non è sempre uguale a sé stesso: nel corso dei millenni il contatto con gli uomini lo espone sempre più alle loro passioni, rendendolo finalmente un essere capace di provare sofferenza e pietà. Il tema portante dell’intera epopea è la crescita, l’evoluzione, lo sviluppo: un bildungsroman metafisico. La formazione del protagonista non può chiaramente essere intesa come maturazione fisica, trattandosi di un essere immortale, e neanche come un passaggio attraverso nuove esperienze, visto che Sogno sussiste nel corso delle ere. Si tratta piuttosto di un’espansione morale che permette a Sandman di correggere situazioni ed eventi che lui stesso aveva contribuito a creare o che aveva favorito con le sue omissioni. Essere divino o quantomeno trascendentale, sceglie di sottomettersi alla legge del Karma e di non sottrarsi alla catena di eventi che lui stesso ha messo in moto. In qualche modo si rende umano fino a morire e, catarticamente, si rigenera in Daniel la sua prosecuzione e inversione, il suo “viraggio” al bianco. Sandman redime la sua millenaria impermeabilità alle emozioni: per le donne con le quali ha avuto relazioni, Thessaly, Calliope, Nada; per l’unico amico umano, Hob Gadling, che incontra solo una volta ogni secolo. Si apre finalmente alla riconciliazione definitiva con la finitudine e la fragilità delle creature che non lo servono ma che – come gli spiega Death – lui deve servire.

Cosa resta di tutto questo nella serie tv ? Poco, in verità, almeno a giudicare dalla prima stagione che si arresta alle prime fasi della saga, fino a Casa di bambola, come si è già detto. Ma poco non vuol dire nulla. Si perdono ovviamente la contestualizzazione culturale ed i riferimenti musicali, l’immaginario Emo/Gothic (ridotto a mero décor), lo spirito anni ‘80/’90, l’“epocalità” quindi, ma non poteva essere altrimenti. Si perdono tutti i collegamenti ai personaggi del mondo DC comics: per motivi di diritti e di costi possono essere utilizzati solo quelli creati da Neil Gaiman, tutti gli altri scompaiono o vengono modificati, come il John Constantine di Alan Moore, protagonista di Hellblazer e comprimario in Swamp Thing, che cambia sesso e caratteristiche diventando, nella serie, Johanna Constantine. Si perde un po’ dell’asprezza ieratica e dell’altero riserbo del protagonista, Morfeo, che incarnato da Tom Sturridge, diventa fin troppo piacione e civettuolo evocando, più che il dark mood dei Cure, il merluzzo surgelato di Capitan Findus. Molte linee narrative vengono cambiate – non sempre felicemente – e molte altre restano assolutamente fedeli (riportando testualmente addirittura le stesse battute di dialogo del fumetto).

Infastidisce particolarmente il cedimento al politicamente corretto televisivo con le quote imposte o prescritte di personaggi afroamericani, gender, LGBT, ecc.  Quelli necessari c’erano già nel fumetto, la serie li ha moltiplicati senza giustificati motivi narrativi: così il bibliotecario Lucien, diventa Lucienne, donna e nera; Lucifero diventa Lucifera, seppur incarnato nella bellezza mascolina di Gwendoline Christie (la Brienne di Games of Thrones); Johanna Constantine è donna, bianca e lesbica; l’incubo istigatore di serial killer Corinzio è omosessuale; perfino Death non assomiglia più a Siouxie Sioux ma, al limite, a Whitney Houston, perché, unica dei sette fratelli della famiglia degli Eterni, è nera: e la cosa fa proprio ridere, come quando nel Macbeth di Joel Cohen abbiamo visto la Scozia medievale popolata da una larga minoranza africana e lo stesso usurpatore più intonato al paesaggio di Kinshasa che a quello di Dunsinane. Ugualmente fanno ridere, con un tocco di amarezza in più, le coppie interraziali, frequentissime e del tutto naturali, solo in televisione però, molto meno per le strade dell’America di oggi. Pura ipocrisia.

A parte queste cadute di gusto, lo show complessivamente si difende. Se però il fumetto era assolutamente rivoluzionario e innovativo nel contesto dell’epoca, la serie non lo è affatto. E’ una serie come tante, professionale, ben fatta, assolutamente uniformata agli standard medio-alti dell’offerta televisiva. Un prodotto di qualità, ma senza più magia. Speriamo che avvenga a The Sandman il contrario di quanto è successo all’altra serie tratta da opere di Neil Gaiman: American Gods, iniziata in modo strepitoso (decisamente superiore a questa), dopo la prima, brillante, stagione perde lo showrunner, la brillantezza e la direzione e si trascina, senza convinzione né stile, fino alla terza quando viene pietosamente interrotta ex abrupto. Auguriamo invece a The Sandman, iniziata senza infamia e senza lode, di acquisire carisma nel corso delle stagioni fino a non sfigurare troppo di fronte al glorioso fumetto.

POSTILLA. Ad una decina di giorni dall’uscita dei primi 10 episodi della serie, ne viene aggiunto un undicesimo come bonus. E’diviso in due parti tratte da due delle storie autoconcluse del terzo volume: Dream Country. Ne parlo per questo in appendice al resto. Il primo racconto riprende A Dream of A Thousand Cats, una delle short-stories parallele e indipendenti rispetto alla trama principale in cui Sandman non appare nemmeno, o meglio appare come “gatto dei sogni”, essendo i felini i protagonisti assoluti della narrazione. L’episodio, affidato all’animatore olandese Hisko Hulsing, viene realizzato come splendido cartoon in 3D e, fedelissimo al testo originale del fumetto, rappresenta probabilmente uno dei momenti migliori di tutto lo show (è in questa direzione che, speriamo, il corso delle prossime stagioni dovrebbe indirizzarsi). Il secondo è invece Calliope che non differisce in niente dal resto della serie e conferma anzi la tendenza, che già ho segnalato, a depotenziare ed edulcorare l’impatto originario del comic. La storia della dea della poesia epica imprigionata con un incantesimo da uno scrittore fallito e svenduta poi come una schiava ad un altro scrittore a corto di idee che la sfrutta per farsi ispirare e non la libera finchè Sandman non interviene draconianamente a salvarla, è decisamente forte e crudele, riferendosi esplicitamente all’abuso sessuale, nella versione disegnata. Il film censura invece completamente ogni tensione sadica, ogni scena di stupro, ogni sensualità morbosa, e la nudità della dea viene sempre pudicamente ricoperta dal candido peplo che, nelle intenzioni, dovrebbe evocare l’immaginario ellenico: un testo di ben altre suggestioni viene così ridotto a fiaba mitologica per bambini. In questo singolo episodio si rivela ancora più evidente la debolezza di un po’ tutta la serie: voler ad ogni costo smorzare le asperità, accontentare tutti, essere più mainstream possibile.

Decisamente, quanto a trasposizioni televisive tratte da fumetti, alla compassata costumatezza di The Sandman preferisco di gran lunga la scorrettezza politica, la violenza splatter e le oscenità volgari di The Boys, la serie capolavoro, giunta ormai alla terza stagione, tratta dal grande fumetto di supereroi – anzi contro i supereroi – scritto da Garth Ennis e disegnato da Darick Robertson, che la DC Comics, alla sua uscita, affossò dopo soli sei episodi. Ne riparleremo, spero, prossimamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Archive 81: Podcast lovecraftiani e Found Footage apocrifi. https://www.carmillaonline.com/2022/04/25/archive-81-podcast-lovecraftiani-e-foud-footage-apocrifi-2/ Sun, 24 Apr 2022 22:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71478 di Walter Catalano

La serie Archive 81, che l’edizione italiana correda di un sottotitolo non proprio originalissimo Universi alternativi, è uno show in 8 episodi disponibile sulla piattaforma Netflix. Prodotta insieme dalla Atomic Monster di James Wan e Michael Clear (Saw, The Conjuring, Malignant) con la showrunner Rebecca Sonnenshine (The Boys, The Vampire Diaries), e diretta da registi così diversi come Rebecca Thomas (Stranger Things, Limetown), Haifaa Al-Mansour (La bicicletta verde, Mary Shelley – Un amore immortale, La candidata ideale) e i disneyani e marveliani Justin Benson e Aaron Moorhead (The Endless). Si distacca dall’ordinaria banalità di gran parte dei thriller [...]]]> di Walter Catalano

La serie Archive 81, che l’edizione italiana correda di un sottotitolo non proprio originalissimo Universi alternativi, è uno show in 8 episodi disponibile sulla piattaforma Netflix. Prodotta insieme dalla Atomic Monster di James Wan e Michael Clear (Saw, The Conjuring, Malignant) con la showrunner Rebecca Sonnenshine (The Boys, The Vampire Diaries), e diretta da registi così diversi come Rebecca Thomas (Stranger Things, Limetown), Haifaa Al-Mansour (La bicicletta verde, Mary Shelley – Un amore immortale, La candidata ideale) e i disneyani e marveliani Justin Benson e Aaron Moorhead (The Endless). Si distacca dall’ordinaria banalità di gran parte dei thriller soprannaturali in circolazione per la natura originalmente metalinguistica della sua trama.

Per cominciare non deriva dall’adattamento di un libro, un fumetto o un videogame ma da un omonimo podcast: una forma di espressione massmediale che utilizzando le possibilità date dall’agilità del web come evoluzione tecnologica del linguaggio radiofonico, si è imposta dopo il boom di massa del true crime statunitense Serial del 2014, come nuova frontiera dello story telling. Un esempio nostrano è Veleno di Pablo Trincia, podcast divenuto in seguito libro e serie tv di successo. Il podcast originario Archive 81 è invece la docuserie thriller/scifi creata nel 2015 da Daniel Powell e Marc Sollinger, due podcaster indipendenti in caccia di casi irrisolti e fenomeni inspiegabili.

La storia – non direttamente tratta da alcuna di quelle del podcast – racconta dell’archivista Dan Turner (Mamoudou Athie), restauratore di nastri, cassette e pellicole per il Museo delle Immagini in Movimento, un orfano reduce da un esaurimento nervoso la cui famiglia, tranne il cane, è scomparsa in un incendio, che accetta l’incarico di restaurare una collezione di videocassette VHS danneggiate in un altro incendio nel 1994, utili per motivi processuali. Chi lo ingaggia è una strana e irrintracciabile società gestita da un misterioso imprenditore miliardario, Virgil Davenport (Martin Donovan), che gli offre la spropositata cifra di 100mila dollari. Il lavoro si svolgerà in un luogo isolato in mezzo ai boschi in un’enorme casa fuori New York, perché le cassette non vanno assolutamente spostate né portate in giro. Ovviamente scoprirà presto che la residenza di proprietà della multinazionale di Davenport, per quanto confortevole, è piuttosto inquietante: il cellulare lì prende poco, non c’è internet e, soprattutto, la casa sembra nascondere più di un segreto. Le cassette che Dan pazientemente visiona e restaura costituiscono la tesi di laurea filmata della documentarista laureanda in studi umanistici Melody Pendras (Dina Shihabi) che nel 1994 ha preso alloggio nel condominio Visser, nell’East Village di New York, per intervistarne gli inquilini e tracciare una specie di descrizione filmata di un ecosistema urbano in miniatura. Come Dan scoprirà presto l’edificio distrutto nell’incendio da cui le cassette sono state recuperate è proprio il condominio Visser: c’è un filo che collega quel rogo al suo datore di lavoro e, soprattutto, quel filo collega anche Melody a lui.

A questo punto interrompiamo il riassunto dicendo solo che la progressiva immersione di Dan nel found footage, lo introdurrà ad un mondo di culti apocalittici, entità demoniache aliene e orrore cosmico in pieno stile Lovecraft, sviluppato però attraverso due diversi piani temporali che si intrecciano: non semplicemente collegando due trame separate – procedimento tipico del flashback – ma lungo un’unica linea narrativa che si biforca e si flette come un nastro di Moebius.

Una New York sinistra che molto ricorda figurativamente quella del polanskiano Rosemary’s Baby è solo apparentemente lo scenario di un mockumentary sulla scia di quelli degli anni ’90 e 2000, dopo il successo di The Blair Witch Project, quando l’horror si dibatteva tra la narrazione tradizionale in terza persona, e la simulazione della realtà in soggettiva. Archive 81 si avvale di un passaggio fluido dall’una all’altra: la soggettiva della videocamera di Melody, con la sua qualità sgranata da video analogico anni ’90, è la soglia del tempo, il campo il cui controcampo, divenuto esterno e oggettivo, ci porta nel passato. Da principio il risultato è spiazzante. Lo spettatore pensa di trovarsi di fronte a un racconto sviluppato su un’unica linea temporale in cui Dan visiona i nastri di Melody, e invece viene risucchiato su una seconda linea temporale di fronte alla “vera” Melody. Due tempi diversi su un’unica linea narrativa. La videocassetta è un viaggio nel tempo: cifra stilistica e messaggio teorico e metatestuale che si alimenta dell’ambiguità e polisemia del proprio oggetto. In sostanza un superamento e una negazione del found footage: scavalcando il discorso filmico costruito sui materiali audiovisivi recuperati, sui ritagli e gli scarti veicolo della visione, se ne disconosce la funzione veritativa.

Il found footage visionato da Dan si trasforma quindi in girato classico, e lunghi tratti narrativi restano nel passato, a seguire gli eventi nell’edificio Visser prima dell’incendio. Permane il possibile equivoco tra ciò che Dan ha potuto scoprire dalle cassette e ciò che invece lo spettatore conosce solo grazie al punto di vista di Melody: non tutto quel che l’uomo apprende viene oggettivamente registrato dalla ragazza (che filma spesso, ma non sempre).

La narrazione resta comunque strettamente legata agli elementi multimediali che determinano la trama: videotape, schermi, videocamere di sorveglianza, fotografie, perfino il rumore bianco che accompagna intere sequenze, non sono solo elementi atmosferici e stilistici ma parti costituenti dell’intreccio. La tecnologia è il portale del “soprannaturale”, delle “forze estranee”, dell’”oltre” (si pensi non solo al filone mockumentary derivato dal già citato The Blair Witch Project, ma anche a The Ring e affini): filmati difettosi e sgranati finiscono sugli schermi di ultima generazione di Dan; il “recupero” dell’archivista mediatico è il punto di unione dei mondi: i dagherrotipi della fotografia spiritica vittoriana diventano gli occhi elettronici delle telecamere di sorveglianza, a conquistarsi grazie al progresso tecnologico, sempre maggiori frammenti di invisibile.

Anche l’operazione nostalgia di Netflix – il cui culmine è Stranger Things – con l’occhieggiare al cinema degli anni 80/90, è contemporaneamente affermata e negata da Archive 81. Non a caso la storyline di Dan è ambientata ai giorni nostri, mentre quella di Melody a metà anni Novanta, in stretta relazione alle rispettive tecnologie disponibili: in senso più o meno metaforico il terrore viene dal passato, le pratiche stregonesche, i culti innominabili, sono fantasmi di arcaismi rimossi, specchi del terrore di un ritorno al passato, a pratiche primitive, rituali, in altre parole analogiche. Invece di evocare facili nostalgie e mistificazioni feticistiche, Archive 81 utilizza il vintage per “demonizzarlo”. Se ambivalente è il rapporto col tempo e la tecnologia, ambivalente è anche l’entità (para-lovecraftiana) chiamata Kaelego che da questi elementi riemerge: un dio e un demone a un tempo, dal cui culto si sono originate due diverse sette in lotta tra loro, entrambe pericolose nonostante le linee di pensiero in contrapposizione. Metafore fantastiche delle diverse possibilità di indagare le proprietà spettrali delle immagini analogiche e digitali dietro lo schermo, di approfondire gli effetti delle infestazioni che affliggono lo sguardo dello spettatore (cosa si sta guardando/chi sta guardando), di interrogarsi sull’impatto con cui la metamorfosi mediatica – ancora in atto nella nostra società – abbia cambiato drasticamente e continui a modificare le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci in senso antropologico e culturale.

L’aspetto più riuscito della trasposizione televisiva di Archive 81, è l’approccio postmoderno alla narrazione, allusivo, multistratificato, metalinguistico e intertestuale. Un meccanismo che mescola una lettura “presente” (guardare ciò che dice/mostra la serie) a un’azione “memoriale” (riconoscere il già detto/già visto), l’archivio del titolo diventa inclusione del passato nel presente, diventa quindi anche archivio di citazioni cinematografiche e letterarie, più o meno esplicite, sparse lungo il corso dei vari episodi: un catalogo di film fantastici, Shining, The Night of the Living Dead, Rosemary’s Baby, Solaris, i film a cui Dan è appassionato, il podcast presentato dall’amico Mark che ripropone gli audioracconti e i libri di fantascienza degli anni Cinquanta, fino alla passione di Melody per il cartone animato Brisby e il segreto dei Nimh, famoso soprattutto negli Stati Uniti, e le insistite panoramiche sulle librerie dei personaggi occupate principalmente dai libri di Stephen King.

Alcuni critici hanno rinfacciato alla serie una certa lentezza nella prima parte. In realtà i lunghi dettagli sulle manipolazioni delle cassette in VHS per il restauro sapientemente operato da Dan, rispecchiano quel feticismo – materico in questo caso – per le tecnologie del passato di cui già si è detto: un elemento importante che costituisce proprio il fascino e la particolarità dello show. A mio parere è proprio tutta la prima parte la più affascinante, anche per questi tempi dilatati e inusuali (in certi momenti fanno quasi pensare ad una versione più pulp di David Lynch). E’, nel caso, la parte finale che rientra su tempi tecnici e binari narrativi assai più canonici. Se le domande iniziali sono inquietanti, le risposte finali rimandano alla comfort zone abituale del pubblico di horror, l’enigma perde di fascino e forza e persino il leitmotiv delle videocassette da restaurare diventa sempre più marginale. La storyline del passato di Melody, da un certo punto in poi, predomina sul presente, sbilanciando il racconto e interrompendo quella dialettica cronologica e narrativa che costituiva l’originalità della serie.

Arrivati all’ultimo episodio, mentre la televisione annuncia la morte di Kurt Cobain, siamo ormai sbalzati, con i due protagonisti ora riuniti, nel passato dell’incendio: smarriti nell’ennesimo loop temporale, aspettiamo la seconda stagione augurandoci che riprenda più gli aspetti atipici che quelli classici di questa, complessivamente notevole, prima stagione.

 

 

 

 

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Lo sguardo di David Fincher. Figure femminili e assenze paterne, natura e forme del male, realtà e manipolazione https://www.carmillaonline.com/2022/04/23/lo-sguardo-di-david-fincher-figure-femminili-e-assenze-paterne-natura-e-forme-del-male-realta-e-manipolazione/ Sat, 23 Apr 2022 20:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71509 di Gioacchino Toni

Il regista statunitense David Fincher ha ottenuto fama interazionale grazie ad opere cinematografiche e serie televisive di indubbio successo: Alien³ (1992); Seven (1995); The Game – Nessuna regola (The Game) (1997); Fight Club (1999); Panic Room (2002); Zodiac (2007); Il curioso caso di Benjamin Button (The Curious Case of Benjamin Button) (2008); The Social Network (2010); Millennium – Uomini che odiano le donne (The Girl with the Dragon Tattoo) (2011); L’amore bugiardo – Gone Girl (Gone Girl) (2014); Mank (2020); House of Cards – Gli intrighi del potere (House of Cards) – serie TV (2013); Mindhunter – serie [...]]]> di Gioacchino Toni

Il regista statunitense David Fincher ha ottenuto fama interazionale grazie ad opere cinematografiche e serie televisive di indubbio successo: Alien³ (1992); Seven (1995); The Game – Nessuna regola (The Game) (1997); Fight Club (1999); Panic Room (2002); Zodiac (2007); Il curioso caso di Benjamin Button (The Curious Case of Benjamin Button) (2008); The Social Network (2010); Millennium – Uomini che odiano le donne (The Girl with the Dragon Tattoo) (2011); L’amore bugiardo – Gone Girl (Gone Girl) (2014); Mank (2020); House of Cards – Gli intrighi del potere (House of Cards) – serie TV (2013); Mindhunter – serie TV (2017-2019).

Essendo ravvisabili in queste opere – pur di “qualità variabile” – elementi di continuità sia linguistico-espressiva che di generale visione della realtà, viene spontaneo parlare di “produzione autoriale”. Occorre però domandarsi, suggerisce Antonio Pettierre, curatore del volume David Fincher. La polisemia dello sguardo (Mimesis, 2021), come si possa definire un “autore” nel cinema contemporaneo. «Ha ancora senso in quest’epoca storica dove l’elemento industriale ha un impatto determinante per la riuscita, distribuzione e conseguente visibilità di un film?». Di certo le opere di Fincher «mostrano una pluralità di segni, significati e strategie di significazione, sia nei contenuti espressi sia negli elementi simbolici ricorrenti, determinando un mondo autoriale identificabile e riconoscibile».

La frequentazione adolescenziale delle sale cinematografiche di Fincher coincide con l’esplosione del fenomeno New Hollywood e la fascinazione per tale produzione lo porta, non appena conseguito il diploma, a gettarsi a capofitto nel mondo del cinema senza passare dai corsi accademici. Dopo quattro anni trascorsi presso la Industrial Light & Magic, la “fabbrica degli effetti speciali” di George Lucas, decide di passare alla macchina da presa, inizialmente in ambito pubblicitario.

Se a prima vista l’opera di Fincher può sembrare focalizzata esclusivamente su un punto di vista maschile, in realtà, sostiene Pettierre, le cose sono più complesse. Innanzitutto si tratta di figure maschili dotate di caratteristiche psicologiche particolari: «l’irrequietezza, l’ossessione, la sconfitta personale nella ricerca di un effimero successo, la solitudine. Uomini che più che odiare le donne si confrontano con loro in una posizione spesso di debolezza data dal loro malessere interiore».

A proposito delle figure femminili dei suoi film, occorre dire che anche quando rivestono ruoli apparentemente secondari, risultano determinanti nello sviluppo narrativo. Esse, sostiene Pettierre, si rivelano «non solo come controparti maschili, ma soprattutto come soggetti totalmente supplenti, o controcorrente e attive, oppure come elementi iconici che riportano alla realtà, da un lato, o la disgregano, dall’altro».

Il tenente Ripley e Meg Altman, ad esempio, si trovano a doversi arrangiare nel confrontarsi rispettivamente con il mondo maschile di Alien³ e con i dei malviventi in Panic Room. «Se nel primo caso la protagonista si sacrifica per fermare l’orrore interiore, nel secondo deve tornare a uno stato selvaggio per proteggersi e salvare la prole da un terrore esteriore».

Per certi versi tanto le figure femminili quanto quelle maschili proposte da Fincher possono essere disturbanti e disturbati a riprova di come i suoi personaggi tendano ad incarnare l’individuo al di là del genere: «i personaggi femminili e maschili sono alla fine intercambiabili e intercomunicanti, agiscono sia come soggetti attivi sia come oggetti passivi in una realtà deformata e deformante. E il tema che riveste il cinema fincheriano, esplicito o sottotraccia, resta sempre guidato dai peccati capitali alla base del male di essere, di esistere, di vivere».

In Fight Club Marla Singer ha il duplice ruolo destabilizzante e riconciliante nei confronti del Narratore, Lisbeth Salander subisce continue violenze in Millennium e ciò ha finito per tramutarla «in un individuo solitario, silenzioso, che vive e padroneggia il dark web [, in] una guerriera, un’indiana metropolitana che segue le tracce per catturare le prede (o liberarle)». La stessa Amy, in Gone Girl, è alle prese con un confronto-scontro di genere con il marito. Si tratta di donne forti e determinate nel combattere per loro affermazione. Anche le figure femminili secondarie esprimono in realtà un ruolo determinante. «Nel mondo in disgregazione, dove il falso, il caos e l’instabilità psicofisica sono una costante, la donna diventa una guida, un punto di riferimento, la vera bussola da seguire».

Per quanto riguarda il male, per Fincher questo può nascere ove non ci se lo aspetta, rilevarsi capace di infiltrarsi ovunque e di esprimersi nelle forme più inattese.

La visione di Fincher è quella di un pessimismo senza possibilità di redenzione, in cui il male si esprime attraverso le azioni dei protagonisti. Non è un caso se la figura del serial killer è presente in tre pellicole: John Doe, demiurgo che appare solo nel finale di Seven; la presenza in absentia di Zodiac nell’omonimo film, convitato di pietra che si rende visibile negli omicidi messi in scena, nelle lettere spedite al giornale e nei pensieri ossessivi di Graysmith; e Martin Vanger di Millennium – Uomini che odiano le donne, presente dall’inizio, visibile e allo stesso tempo sconosciuto fino al climax finale.

Se in Alien³ il male ha le fattezze dell’alieno che Ripley porta in grembo, in Seven invece si trova all’interno della società ed il serial killer di turno, con la sua messa in scena dei sette peccati capitali, non fa che palesare ciò che l’umanità persegue nella quotidianità. Il male si manifesta anche come branco, come nel caso del gruppo di assassini e stupratori della colonia penale di Alien³ o in quello del trio di criminali in Panic Room. Lo ritroviamo, inoltre, sotto forma di «società consumistica dove tutto è merce in Fight Club oppure nel capitalismo cinico dell’industria del cinema in Mank», così come nei rapporti di coppia di Gone Girl.

Altro elemento ricorrente nelle opere è l’assenza del padre che può palesarsi nel non essere contemplato, come in Alien³, Fight Club, The Social Network, Millennium, o nella sua «presenza negativa o liminare», come in Seven. Oppure, ancora,

in Panic Room Stephen Altman è padre presente solo finanziariamente […] per poi apparire nel finale per essere oggetto di una punizione fisica brutale, una traslazione dell’odio della moglie attraverso le azioni dei rapinatori; o Thomas Button che abbandona il figlio Benjamin sulla soglia di una casa di riposo; o lo stesso Graysmith, che ossessionato dalla ricerca di Zodiac, diventa sempre più distante dai propri figli fino ad abbandonare la famiglia per la sua follia; o i genitori di Amy, moglie di Nick Dunne, in L’amore bugiardo – Gone Girl, figure di fondo per una figlia che non comprendono appieno e a cui interessa solo l’apparenza sociale.

È però in The Game e Mank che, sottolinea Pettierre, tutto diviene più esplicito: il primo è incentrato sul dolore per la mancanza di amore paterno di un ricco, solitario e malinconico personaggio in preda al tormentato ricordo del padre austero e assente suicidatosi davanti a lui quando era bambino, mentre il secondo film rappresenta una sorta di omaggio metacinematografico al padre del regista, «autore della sceneggiatura, assente nella narrazione ma presente nella sua struttura come un fantasma».

Anche le scelte spaziali del regista meritano di essere indagate. L’opera di Fincher è formata da spazi essenzialmente chiusi e oppressivi; si tratta di un cinema di luoghi metropolitani ricostruiti e labirintici in cui i personaggi si muovono difendendosi dal caos esterno che però non manca di infiltrarsi ed invadere l’interno.

La metropoli diviene una sorta di astrazione che propone allo spettatore la visione di un mondo ostile, uno spazio che rivela come tutto sia per certi versi mera finzione. «Ciò che è visibile è solo una minima porzione della realtà, di una società metropolitana che è una prigione non solo dei corpi ma anche di anime […] Lo spazio urbano diventa così la metafora principale delle tenebre che avvolgono i protagonisti del cinema del regista americano».

La produzione fincheriana risente, oltre che della biografia personale, delle evoluzioni tecnologiche che, soprattutto alla luce delle possibilità offerte dal digitale, permettono al regista di operare «ripetute osmosi tra pubblicità, videoclip, televisione e sala cinematografica». Fincher «utilizza il digitale come un filtro, uno strumento di perfezionamento della realtà registrata con la macchina da presa tradizionale».

Sempre restando sullo spazio scenico possiamo citare l’impiego del digitale per riprodurre nei minimi dettagli la San Francisco degli anni ’60 in Zodiac, compiendo un lavoro filologico da una parte, ma dall’altra riportando in vita i ricordi di Fincher bambino per rendere visibile allo spettatore quel periodo da lui vissuto in prima persona. In questo senso, Fincher effettua un intervento di rifrazione dello sguardo in un modo tale per cui la messa in crisi della sua egemonia rispetto agli altri sensi, ci porta a una cartografia aggiornata in cui aspetti culturali e sociali si incontrano per dare forma a un’immagine composita, un’immagine che sa restituire la complessità della nostra attuale composizione. […] Fincher compie, dunque, un’ibridazione della realtà attraverso l’imposizione del suo sguardo dove “tutto è reversibile e manipolabile, modellando un rapporto allo stesso tempo fondato sulla semplicità degli eventi e la loro disseminazione reticolare” all’interno del corpo filmico di cui lui ha un completo controllo. […] In Fincher l’immagine cinematografica riproduce una realtà adattata e mutata dal suo sguardo.

Se il digitale permette al regista di modificare la realtà in base ai suoi desideri, la fotografia

diventa non solo un elemento profilmico all’interno dello spazio scenico, ma un elemento estetico-simbolico che, da un lato, produce indizi e senso interno – per i personaggi – ed esterno – per il pubblico, in una mise en abyme visuale; dall’altro, riproduce un mondo passato e personale, quasi referenziale per il regista stesso, il cui significato più profondo è “stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza, e quindi di potere”. […] Fincher, in questo modo, si (ri)appropria della realtà da dietro la macchina da presa, la falsifica, la plasma, la modifica. […] L’immagine, dunque, diventa il campo su cui testare le potenzialità espressive di rappresentazione del mondo, delle sue angosce, dell’orrore quotidiano.

Il volume curato da Antonio Pettierre contiene numerosi saggi che approfondiscono qualche aspetto di un un’opera di Fincher. Su alcuni di questi scritti occorrerà tornare prossimamente,  nel frattempo vale la pena almeno elencarli: “Nouvelle vogue”: la origin story di David Fincher di Matteo Zucchi; “Into the basement”: l’abietto del/nel cinema di David Fincher, o dell’inevitabilità di Alien³ di Matteo Zucchi; Seven. Rappresentazione di una società corrosa dal male di Marcello Perucca; La posta in gioco. The Game – Nessuna regola di Filippo Zoratti; Fight Club ovvero psicopatologia del consumatore (im)permanente di Antonio Pettierre; Panic Room: la crisi dell’abitare nell’America di inizio millennio di Eugenio Radin; Sotto il segno di Zodiac. Semiotica di un serial thriller di Rudi Capra; Tradimenti e promesse mancate ne Il curioso caso di Benjamin Button: confronti tra letteratura e cinema di Rita Ricucci; Gli spazi virtuali della società di massa: messa in scena di una nuova rivoluzione antropologica in The Social Network di Antonio Pettierre; Millennium – Uomini che odiano le donne. Falso remake che indaga il lato oscuro della società scandinava di Marcello Perucca; L’amore bugiardo – Gone Girl. Vittime e carnefici nel rapporto di coppia di Marcello Perucca; Il curioso caso di David Fincher e Netflix di Giuseppe Gangi; The touch of Welles: Mank, tra metatestualità e falsificazione di Giuseppe Gangi.

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“The 100”, riusciranno gli adolescenti a salvare il mondo? https://www.carmillaonline.com/2022/03/23/the-100-riusciranno-gli-adolescenti-a-salvare-il-mondo/ Wed, 23 Mar 2022 22:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71142 di Paolo Lago

Delle sette stagioni della serie tv di fantascienza post-apocalittica The 100, dilatatasi fra il 2014 e il 2020, quelle più interessanti sono sicuramente le prime due o tre. Poi, a partire circa dalla quarta stagione il racconto diventa un po’ scialbo, ripetitivo e si ha l’impressione che metta troppa carne al fuoco, cercando di riallacciarsi a temi fin troppo abusati (che si allontanano da quelli iniziali) come, ad esempio, la colonizzazione di altri pianeti da parte dei terrestri.

I primi momenti narrativi sono incentrati sulla vita a bordo dell’“Arca”, una stazione [...]]]> di Paolo Lago

Delle sette stagioni della serie tv di fantascienza post-apocalittica The 100, dilatatasi fra il 2014 e il 2020, quelle più interessanti sono sicuramente le prime due o tre. Poi, a partire circa dalla quarta stagione il racconto diventa un po’ scialbo, ripetitivo e si ha l’impressione che metta troppa carne al fuoco, cercando di riallacciarsi a temi fin troppo abusati (che si allontanano da quelli iniziali) come, ad esempio, la colonizzazione di altri pianeti da parte dei terrestri.

I primi momenti narrativi sono incentrati sulla vita a bordo dell’“Arca”, una stazione spaziale sulla quale si sono rifugiati gli unici terrestri sopravvissuti a una guerra nucleare, avvenuta molti anni prima. I governanti dell’Arca decidono di inviare sulla Terra cento detenuti minorenni per testare le condizioni di vita sul pianeta e capire se è ritornato abitabile dopo le devastazioni atomiche. Come già accennato, le prime stagioni della serie, tratta dai romanzi di Kass Morgan, propongono alcune tematiche interessanti. Innanzitutto, l’idea che gli unici a poter salvare la Terra possano essere degli adolescenti. In uno scenario post-apocalittico e eco-distopico, i boschi e la natura selvaggia si sono riappropriati delle vecchie città umane, ridotte a cumuli di macerie o di edifici abbandonati. In tali spazi si muovono i cento adolescenti provenienti dall’Arca e dovranno vedersela, oltre che con una natura ostile a loro totalmente estranea (essendo nati e cresciuti nello spazio), con una popolazione terrestre che ha ricolonizzato il pianeta; scopriranno quindi di non essere gli unici sopravvissuti. Mentre gli adulti restano nello spazio, gli adolescenti si muovono e agiscono nell’ambientazione terrestre: ad essi è infatti demandata una speranza di salvezza e di sopravvivenza della specie umana. Non è un caso che, nella realtà, ad attuare le più significative lotte contro il cambiamento climatico, per una sopravvivenza futura, siano proprio i giovanissimi e gli adolescenti. Come scrive Carla Benedetti nel suo pamphlet La letteratura ci salverà dall’estinzione, “i giovanissimi, che rinnovano oggi la preoccupazione per la vita futura sulla Terra e ricominciano a lottare per una giustizia climatica, e per tutto ciò che può cambiare il corso delle cose, non hanno ancora sviluppato quella indifferenza che talvolta la frustrazione e il senso di impotenza inducono negli adulti, e che, come un analgesico, permette loro di accettare, magari con amaro realismo, quello che non si ritiene di poter cambiare”1. Gli adolescenti sono capaci, secondo la studiosa, di farsi “acrobati del tempo”, cioè di riuscire a immedesimarsi nella vita dei figli dei propri figli, senza pensare egoisticamente solo alla propria generazione.

Del resto, quello dell’egoismo è un altro dei temi problematizzati dalla serie. Nel corso della narrazione incontriamo diversi gruppi sociali che si fanno la guerra tra di loro. A questa dinamica non sfuggono neppure i “cento” provenienti dall’Arca e quelli che si configureranno come i loro leader, Clarke e Bellamy, dovranno più di una volta affrontare l’angosciosa decisione su ‘chi salvare’. Fare il bene solo della “propria gente” o riuscire a salvare tutti quanti, anche coloro che appartengono a tribù e gruppi diversi? È questo uno dei dilemmi lancinanti che attraversano soprattutto le prime due stagioni. E poi c’è il tema della guerra, del conflitto, dello scontro fra clan, un tema che percorre ossessivamente tutte le stagioni della serie. Clarke e Bellamy si battono per cercare di evitare la guerra fra la loro gente (nel frattempo anche gli adulti sono riusciti a raggiungere la Terra) e le altre popolazioni di terrestri. Ognuno, di fronte a una problematica e a una nuova catastrofe, cerca infatti di salvare se stesso o il proprio gruppo sociale. Mors tua, vita mea: è questo il refrain che percorre come un brivido l’intero impianto narrativo di The 100. Pur dilaniati dalle loro angosciose scelte, che spesso possono non essere quelle giuste, gli adolescenti sapranno però rimediare là dove gli adulti hanno fallito nel crudele governo dell’Arca, in cui per un crimine anche di poco conto gli abitanti potevano venire condannati ad essere eiettati nello spazio. La guerra appare come un gioco terribile al quale desiderano lasciarsi andare comandanti e sovrani cupi e assetati di vendetta, intenti soltanto a salvaguardare i propri loschi giochi di potere.

E le guerre, nell’ambientazione post-apocalittica di The 100 (ma anche nella realtà) possono avere esiti terribili e fatali, come quelli di annientare gli unici spazi abitabili rimasti sul pianeta. Come scrive Susan Sontag, con un riferimento ad alcuni classici cinematografici, “i film di fantascienza sono intensamente moralistici. Il messaggio tipico concerne un’utilizzazione giusta, o umana, della scienza, contrapposta all’uso folle e ossessivo che di essa può farsi”2. Un messaggio che – continua la studiosa – i film di fantascienza “hanno in comune con i classici dell’orrore degli anni Trenta come Frankenstein, The Mummy, Island of Lost Souls, Dr. Jekyll and Mr. Hyde3. Diverse situazioni di The 100 mostrano un uso abnorme e ‘mostruoso’ della scienza: ad esempio, gli abitanti di Mount Weather, non potendosi esporre all’aria aperta a causa dell’ipersensibilità della loro pelle, all’interno del bunker nel quale sono condannati a vivere, appaiono intenti a utilizzare il midollo osseo di altri terrestri catturati nonché di alcuni del gruppo dei “cento” per curare le ferite da radiazioni che i loro corpi ricevono quando sono esposti. Anche questi terribili esperimenti, che possono far pensare a quelli attuati dai nazisti nei campi di sterminio, sono volti unicamente a preservare il proprio gruppo sociale.

La grande apocalisse, quella che ha spazzato via la vita sulla Terra un centinaio di anni prima delle vicende raccontate nella serie, è stata provocata da un computer che, per risolvere il problema del sovraffollamento terrestre, ha dato il via a un bombardamento nucleare. Il disastro atomico originario, perciò, non appare scatenato da una guerra umana ma da una realtà virtuale computerizzata che ha trasformato quella che era una semplice simulazione in una vera e propria guerra reale (con modalità simili, per certi aspetti, a quelle narrate in Wargames – Giochi di guerra, 1983, di John Badham, in cui una simulazione al computer è sull’orlo di scatenare una guerra nucleare fra Stati Uniti e Unione Sovietica negli anni della Guerra Fredda). L’inconsistenza digitale, la virtualità, lo spettacolo fine a se stesso – elementi che nella nostra realtà caratterizzano i mezzi di informazione televisivi e della Rete, capaci anche di trasformare in una sorta di crudele videogioco il conflitto in corso in Ucraina – hanno provocato una vera e propria catastrofe atomica. La distruzione della Terra raccontata dalla serie sembra essere avvenuta come l’estrema conseguenza di una realtà virtuale, connotata da disinformazione o informazioni alterate, pervasivamente espansa fin negli interstizi della percezione umana.

La catastrofe ha lasciato dietro di sé panorami post-apocalittici nei quali, come dolorosi lasciti di un tempo che non esiste più, frammenti di un passato crudele, svettano le poche vestigia umane rimaste, come la torre della città di Polis, un grattacielo ormai semidistrutto. Dietro la rappresentazione di queste vestigia – non troppo diverse dai ruderi della Statua della Libertà che alla fine de Il Pianeta delle Scimmie (The Planet of the Apes, 1968) di Franklin J. Schaffner emergono dalla sabbia – c’è una vera e propria “estetica della distruzione” che, secondo Sontag, rappresenta le “particolari bellezze che si possono reperire nella catastrofe e nel caos”4. In mezzo alle lande devastate e ai boschi che si sono riappropriati della Terra dopo la catastrofe, l’umanità superstite è preda di una vera e propria regressione tecnologica. Non ci sono più i veloci mezzi di trasporto che permettevano spostamenti in breve tempo da una parte all’altra del globo. Nel futuro narrato da The 100, lo spazio si è rivestito nuovamente di tutta la sua distanza, ogni viaggio diventa un percorso lento e avventuroso. La contemporaneità è infatti sottoposta a un pervasivo “inquinamento delle distanze”, per utilizzare un’espressione di Paul Virilio. Secondo lo studioso francese, quella attuale è un’epoca in cui, al pari di certe “sostanze”, anche le stesse “distanze” sono inquinanti: queste ultime, tramite gli iperveloci mezzi di spostamento contemporanei, vengono sottoposte ad una drastica contrazione la quale degrada l’estensione del nostro habitat5. I mezzi che solcano gli scenari futuri delle narrazioni distopiche e post-apocalittiche, spesso, non sono caratterizzati da una ‘velocizzazione’ ulteriore rispetto a quelli attuali, ma da una maggiore lentezza, dovuta a inarrestabili processi di regressione tecnologica. La stessa discesa dei “cento” dall’Arca e, successivamente, degli adulti, viene effettuata su capsule e razzi allestiti come una sorta di mezzi di fortuna, lenti e disastrati: siamo ben lontani dal vedere le scintillanti e avveniristiche astronavi di molti film di fantascienza. La stessa Arca, costituita dall’unione di vecchie stazioni orbitanti, ha un aspetto dimesso, intriso di un’estetica riconducibile per certi aspetti allo steampunk. Altri spazi mostrano interessanti commistioni fra ‘arcaico’ e moderno, con rimandi non solo al genere fantasy ma anche al mondo classico (ad esempio, verrà ricreata un’arena per i giochi gladiatori di fronte al giudizio della crudele “Blodreina”, la quale appare spesso intenta a leggere le Metamorfosi di Ovidio). La stessa lingua parlata dai clan terrestri, costituita da parole a base inglese, appare come una curiosa via di mezzo fra un pidgin e un creolo.

The 100 è quindi interessante soprattutto perché, lungi dal proporre facili soluzioni venate di melensi buoni sentimenti, come fanno molti film o serie tv confezionati appositamente per il pubblico medio statunitense, sfodera sempre nuove problematiche, nuovi conflitti che lacerano le coscienze e le decisioni dei personaggi. Come già accennato, le scelte che questi ultimi devono affrontare non sono per niente facili ed entrano in gioco problemi e lacerazioni più ampie: come agire per evitare i conflitti e le guerre? Salvare solo la “propria gente” o anche tutti gli altri? E soluzioni facili non ce ne saranno: i fanatismi, l’esasperazione, la follia, nella fantascienza come nella nostra realtà, sono sempre dietro l’angolo.


  1. C. Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi, Torino, 2021, pp. 101-102. 

  2. S. Sontag, Immagini del disastro, in Ead., Contro l’interpretazione, trad. it. Mondadori, Milano, 1998, p. 325. 

  3. Ibid

  4. Ivi, p. 320. 

  5. Cfr. P. Virilio, Velocità di liberazione, trad. it. a cura di U. Fadini e T. Villani, Mimesis, Milano, 2000, p. 81 e seguenti. 

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Le più brutte del reame… serie TV fallite o quasi https://www.carmillaonline.com/2021/12/07/le-piu-brutte-del-reame-serie-tv-fallite-o-quasi/ Mon, 06 Dec 2021 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69545 di Walter Catalano

Anche questa volta avrei dovuto, come di consueto, scegliere una serie TV di argomento fantastico o fantascientifico, guardarla e scriverne. Inaspettatamente e con qualche imbarazzo, negli ultimi mesi, non sono riuscito, con tutta la mia buona volontà, a trovarne nessuna che meritasse un minimo di attenzione. Molte invece ne ho scoperte una più brutta dell’altra. Ho deciso quindi di infrangere il canone abituale e, invece di soffermarmi sui pregi di una serie “bella”, di compilare una breve classifica di serie “brutte e bruttissime”, serie da evitare [...]]]> di Walter Catalano

Anche questa volta avrei dovuto, come di consueto, scegliere una serie TV di argomento fantastico o fantascientifico, guardarla e scriverne. Inaspettatamente e con qualche imbarazzo, negli ultimi mesi, non sono riuscito, con tutta la mia buona volontà, a trovarne nessuna che meritasse un minimo di attenzione. Molte invece ne ho scoperte una più brutta dell’altra. Ho deciso quindi di infrangere il canone abituale e, invece di soffermarmi sui pregi di una serie “bella”, di compilare una breve classifica di serie “brutte e bruttissime”, serie da evitare prudenzialmente o da frequentare a proprio rischio e pericolo. Una sorta di cartello indicatore come quello affisso nei mercati e nelle botteghe dell’antica Roma dove si leggeva: Caveat Emptor, “Stia in guardia l’acquirente”.

Consapevole del fatto che un’impostazione così categorica sia foriera di polemiche e discussioni senza fine, convengo preventivamente che – tanto per insistere con le citazioni classiche – de gustibus non est disputandum e pertanto ciò che è brutto per me potrebbe essere, non dico bello, ma comunque meno brutto per un altro. In ogni caso, oltre un certo margine soggettivo, sono ugualmente convinto che si possa sempre, a grandi linee, convergere se non sulle sfumature almeno sull’essenza della questione: con volgarissima metafora (dato il tema prendiamo due attori, maschi, per sicurezza…), nessuno mai sosterrebbe che Woody Allen è un adone, né che Brad Pitt è un cesso; i gradi intermedi sono, per fortuna, infiniti.

Seconda puntualizzazione: ho un pessimo carattere, non ho tempo né pazienza, quando mi è capitato – per fortuna non spesso – di selezionare racconti per qualche antologia, la lettura di quelli che avrei scartato non andava mai, ad essere generosi, oltre la prima pagina. Come diceva Julio Cortàzar, grande appassionato di boxe, in letteratura non è possibile vincere ai punti ma solo per knock out: non esiste una seconda possibilità. Così, a maggior ragione, è raro che di una serie “brutta” abbia visto più di una puntata (il cosiddetto pilot), al massimo due: errare umanum, perseverare diabolicum (a questo punto sdiamoci coi latinismi…).

” Non basta per giudicare…” contesterà allora a gran voce l’inviperito lettore. Basta e avanza invece, rispondo io, se non hai tempo né pazienza.

Cominciamo dunque la promenade delle più brutte (serie TV) del Reame.

Al primo posto, sovrana e ineguagliata, la tanto attesa e in proporzione altrettanto catastroficamente deludente Foundation. Tratta dall’epopea forse più amata della fantascienza tutta, l’unica ben nota, con il suo autore Isaac Asimov, anche ad un pubblico generalista di non seguaci del genere. Prodotta da David S. Goyer per Apple TV+ e interpretata da attori anche bravi come Jared Harris (memorabile in Mad Men, The Expanse, The Terror, Chernobyl), la saga viene però cucinata come un polpettone immangiabile, tematicamente semplificata e banalizzata all’eccesso sottraendo tutta la complessità e la stratificazione dell’opera asimoviana, e figurativamente ridotta ad una serie di luoghi comuni abusati fino alla nausea: le solite città del futuro, le solite astronavi, i soliti costumini attillati e luccicanti o scafandri-cimiero minacciosi, i soliti pianeti orbitanti con la musichetta (per fortuna almeno non più An der schönen blauen Donau)… Che palle! (lasciatemelo dire…). La scrittura è farraginosa e involuta, i dialoghi banali, il ritmo esasperante. Insignificanti anche gli attori – perfino il povero Harris mal diretto – e idem la regia, insignificante tutto. Con supremo sadismo la produzione minaccia ben 80 episodi del pastrocchio, io ne reggo a fatica uno solo, il pilot, e ci metto, senza se e senza ma, una pietra sopra.

Al secondo posto un’altra serie prodotta da Apple TV+ che si aggiudica in questo modo la palma, anzi la sola, d’oro della peggiore casa di produzione-distribuzione dell’etere: ribattezziamola “tutto fumo e niente arrosto”. Sto parlando di Invasion, incautamente realizzata da Simon Kinberg e David Weil che nell’illusione di riscattarsi dai vari film degli X-Men sceneggiati dal primo e da brutture come la serie Amazon Hunters (dove perfino Al Pacino sembrava un guitto) realizzata dall’altro, si abbandonano ad un vuoto florilegio compensativo di velleità autoriali e pretese intellettuali. Il bugiardino Apple definisce la serie “travolgente”, ma l’unica cosa che travolge davvero l’improvvido spettatore è solo la noia, assoluta e mortale. Supero infatti io stesso ogni record e non riesco a finire nemmeno il pilot: ho già capito tutto fin dalle prime scene, quando arrivano l’austronautessa giapponese sottotitolata in inglese, la storiella romantica con le lesbiche, la moglie – siriana ma colta – in lacrime mentre guarda dalla finestra il marito che si ingroppa un’altra… Aiuto !  Invasione? E di che? Dopo la scena iniziale nel deserto mi aspettavo, come minimo, Cthulhu. E invece ? Storielline di corna, di amori infranti, di studenti londinesi epilettici e bullizzati, di iperpalestrati soldati afroamericani in crisi d’identità in Afghanistan. Ok, ma non c’erano gli alieni ?  A parte la banalità dei personaggi e delle situazioni – presuntamente esistenziali e colte, a base di immancabili ingredienti come lesbiche innamorate, mercenari burberi benefici, mogli traumatizzate dal compagno fedifrago e, magari chissà, aspirante femminicida, adolescenti fragili alla deriva – cosa c’entra la cornice fantascientifica ? Perché vendere una merce per un’altra, spacciare una soap opera per un fantahorror ? Narrativa di genere per ellissi: sarebbe davvero sofisticata se non mancasse sia il soggetto che il predicato. Già l’inner space ballardiano raccontava l’alienità del nostro mondo, la deriva cosmica del qui e ora, ma senza mai tradire i presupposti dell’immaginario speculativo e soprattutto senza la minima concessione a facili e mielosi sentimentalismi. Una fantascienza priva dei luoghi comuni della fantascienza: qui al contrario restano i luoghi comuni e manca la fantascienza. Budget molto ricco, tra l’altro, ottima fotografia, belle scene, una mega produzione: soldi sprecati.

Al terzo posto ma con un livore particolare da parte mia, perché sono dovuto arrivare all’ultimo episodio – sì confesso: questa l’ho vista tutta – per rendermi conto di che schifezza fosse, Midnight Mass realizzata per Netflix dal turpe Mike Flanagan. Dico turpe perché il regista in genere parte, in molte delle sue opere, sul piede giusto, fa ben sperare e poi inverte la rotta e rovina tutto. Chi mi legge ricorderà forse che avevo parlato positivamente, qualche tempo fa, della sua trasposizione di Hill House, ispirato al capolavoro di Shirley Jackson. In effetti, a parte il finale buonista che snatura completamente lo spleen jacksoniano, mi era sembrata una versione del tutto infedele ma in sostanza rispettosa e tutt’altro che spregevole (certo ben poca cosa in confronto al grande film di Robert Wise Gli invasati, ma un vero capolavoro in confronto al film porcheria, The Haunting-Presenze con Liam Neeson, inutile fare il nome del regista per questioni igieniche): un lavoro complessivamente equilibrato nella destrutturazione di un classico da affrontare sempre con soggezione. Ugualmente mi era piaciuto Il gioco di Gerald, tratto da un romanzo minore di Stephen King tutt’altro che facile da mettere in scena. Se forti dubbi su Flanagan si erano però già prospettati nel finale di The Haunting of Hill House, la seconda stagione The Haunting of Bly Manor, che violenta un iperclassico come Il giro di vite di Henry James, non ha fatto che confermarli e esasperarli. Se Hill House quantomeno conteneva, insieme a una certa dose di paccottiglia, anche momenti validi, una tensione costante e una serie di jump scare notevoli, Bly Manor sprofondava invece nel sentimentalismo trito e nella magniloquenza ampollosa: una storiellina romantica con qualche fantasma, zero paura, zero tensione, zero idee. Il romanzo The Turn of the Screw conta, per di più, una gloriosa e impegnativa tradizione di versioni cinematografiche – fedeli e no – ragguardevoli o comunque interessanti: dal capolavoro di Jack Clayton The Innocents (1961) con un’eccelsa Deborah Kerr, all’insolito prequel The Nightcomers (1971) di Michael Winner con Marlon Brando, fino alla recentissima e a mio giudizio ottima produzione canadese The Turning (2020) di Floria Sigismondi (già video clipper di Marilyn Manson), caratterizzata da una regia e un’interpretazione da parte di attori tutti giovanissimi, di eccezionale qualità – il “caruccio” di Stranger Things Finn Wolfhard, nel ruolo di Miles, l’adorabile Mackenzie Davis già in Black Mirror, come istitutrice, ecc. – e da un’ambientazione contemporanea che, una volta tanto, non stride con il contenuto. Il Bly Manor di Flanagan precipita ovviamente all’ultimo posto: strampalato melò spiritico più che gotico morboso. Henry James e Shirley Jackson sono sommi maestri dell’ambiguità: nel momento in cui si danno i loro fantasmi per “veri”, esterni e non interni, oggettivi e non soggettivi, si è già persa in partenza la scommessa col testo.

A differenza dell’obbrobrio pseudojamesiano invece, Midnight Mass all’inizio prometteva bene: tratto dall’omonimo romanzo del 1990 dello scrittore di fantascienza e horror F. Paul Wilson, ambientato in una piccola isola del nord degli USA, una specie di Nantucket senza memorie baleniere né turisti, e centrato sull’accostamento speculare tra cristianesimo e vampirismo uniti dalla pratica letterale dell’eucaristia e della resurrezione, il testo sembrava aperto a suggestioni molto stimolanti. Tutta la prima parte funziona e incuriosisce, il prete vampirizzato che fa della sua chiesa il centro di diffusione del nuovo culto in cui le promesse del cristianesimo vengono effettivamente realizzate e si risorge non metaforicamente ma dopo essere morti per davvero, rendono accettabili e perfino quasi interessanti, gli abituali chilometrici sproloqui con velleità filosofiche in area esistenzialista cui sarà avvezzo chiunque abbia la discutibile abitudine di frequentare gli esercizi finzionali di Flanagan. Se resta poco credibile che, per quanto su un territorio molto ridotto, l’intera popolazione – tutta Wasp a quanto appare, a parte il simpatico sbirro islamico sia integralmente cattolica e non esistano in zona chiese di differente osservanza (sono tutti di discendenza irlandese?), la descrizione di un microcosmo provinciale ed asfittico, beghino e perbenista (pur se non alla maniera puritana di Hawthorne), rende in modo soddisfacente, mentre i progressivi slittamenti macabri con le ambiguità del sacerdote, le meschinità della perpetua malefica e i rapporti conflittuali tra i personaggi principali, promettono svolte originali. Ma le promesse non vengono mantenute e invece più si procede, più la storia perde colpi e si sfilaccia tra dialoghi sovrabbondanti e noiosi e scene troppo esplicite e truculente che minano l’atmosfera e la coesione dell’insieme. L’ultima puntata è davvero inguardabile e rasenta il ridicolo: tra coretti polifonici e canti catechistici, retorica comunitaria e melassa di buoni sentimenti, palingenetica strage dei reprobi – con remissione dei peccati – e assoluzione dei puri di spirito, la messa di mezzanotte sprofonda definitivamente nella propria ridondanza enfatica e prolissa. Un’occasione sprecata, perché le premesse per tentare un discorso assai più originale e provocatorio, potenzialmente sull’orlo della polemica blasfema, c’erano tutte: sia come – nelle velleitarie intenzioni dell’autore – racconto morale, sia come semplice horror, la storia è un totale fallimento. Poiché, frustrando sempre le mie aspettative, mi ha ingannato per troppe volte, ho un conto aperto con Flanagan: non credo proprio che da ora in poi sprecherò mai più tempo con lui.

In chiusura dedichiamo qualche riga anche a quelle serie che, partite in grande stile pochi anni fa – e ne abbiamo parlato in termini entusiastici anche su queste pagine – si sono poi, di stagione in stagione, spente ed eclissate con esiti più che deludenti.

La prima e più eclatante è American Gods, dal romanzo omonimo di Neil Gaiman, prodotta da Starz: dopo una fulgida prima stagione che ci strappò parole di sperticata lode, perduti per strada gli showrunner originali Bryan Fuller e Michael Green oltre che l’attrice di punta Gillian Anderson, è precipitata come nave senza nocchiero nell’anomia della seconda stagione, per finire ignominiosamente, recuperato un tal Charles “Chic” Eglee come showrunner nella terza stagione, troncata ex abrupto con un finale posticcio, che poco ha a che vedere col libro e con lo spirito, provocatorio, sarcastico e iconoclasta delle prime dieci puntate, messo lì a casaccio tanto per chiudere in qualche modo uno spreco di soldi, di noiose tergiversazioni e di giri viziosi senza capo né coda. Gaiman deve essersi incavolato parecchio che un progetto tanto promettente sia finito così male. La cosa più bella resta comunque la sigla dei titoli d’apertura: un profluvio psichedelico.

La seconda grande delusione è stata The Handmaid’s Tale: pur potendo contare su una base solida come i romanzi di Margaret Atwood (Il racconto dell’ancella del 1985 e il seguito del 2019, I testamenti) e sull’interpretazione di un’attrice straordinaria come Elisabeth Moss, la serie – dopo la prima eccellente stagione – non è decollata e si è attestata sulla fioca ripetizione delle stesse situazioni e degli stessi elementi visivi. Dopo aver fatto parlare di sé, ricevuto premi, influenzato l’opinione pubblica, è finita in soffitta, ripiombata nell’anonimato, giungendo in sordina alla quarta stagione: per quel che mi riguarda non ricordo se ho interrotto la visione alla fine della seconda stagione o se ho visto anche la terza, il che è già commento sufficiente.

Ovviamente mi sono soffermato solo sui casi più clamorosi della shit-parade trascurando gli esempi minori per non annoiare il lettore con elenchi troppo lunghi. Difficile dedurre una teoria generale della serie brutta. In linea di massima potremmo forse azzardarci a sostenere che i difetti si rivelino già in fase di scrittura: un progetto nasce male, con un numero troppo esiguo di idee per reggere il lungo respiro di più stagioni intere (The Handmaid’s Tale); un altro si prefigge un compito troppo ambizioso e non ha i mezzi narrativi né figurativi per ottemperarlo degnamente (Foundation), oppure ce li ha per un tempo limitato ma li perde o li spreca mancando di una personalità creativa forte che dia una coerente indicazione stilistica (American Gods); oppure ancora è viziato dalle velleità “autoriali” di personalità troppo narcisiste che perdono il senso della misura e delle proporzioni perseguendo una visione solipsista al servizio del proprio ego e non della storia che si vorrebbe raccontare (Invasion, Midnight Mass). In più, spesso, a queste mancanze si aggiungono le scelte sbagliate sul piano della scenografia e del casting (Foundation), oppure se queste risorse ci sono, non bastano a compensare le falle di regia e di sceneggiatura (American Gods, Invasion), o ancora rinserrano asfitticamente la storia in un cul de sac (Midnight Mass, The Handmaid’s Tale).

 Evidentemente l’attuale non è un buon periodo per la fantascienza e il fantastico, almeno in televisione. Non che, in altri generi almeno, manchino cose notevoli in cui gli ingredienti non vanno sprecati e la ricetta funziona: segnalo in particolare The North Water, produzione avventurosa inglese a base di velieri tra i ghiacci e di baleneria ottocentesca in stile Moby Dick, tratta dal bel romanzo di Ian McGuire Le acque del nord. Sul giallo-noir invece The Serpent, ispirato ad un caso criminale realmente accaduto negli anni ’70. Almeno qui, buona visione…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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