Sergio Sollima – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Modelli e topoi della donna pirata (8) https://www.carmillaonline.com/2021/08/28/modelli-e-topoi-della-donna-pirata-8/ Sat, 28 Aug 2021 20:40:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67880 di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

Le ultime filibustiere (dagli anni Settanta al nuovo Millennio)

 

In realtà negli anni Settanta il cinema d’avventura ‘classico’ sta ancora proponendo titoli egregi, basti pensare – proprio in tema salgariano – alle produzioni dirette da Sergio Sollima, con la migliore delle trasposizioni del ciclo indo-malese mai apparsa, cioè lo sceneggiato televisivo Sandokan, 1976 – donde vari seguiti più o meno concatenati[73] – e un apprezzabile Il Corsaro Nero, sempre del 1976: in entrambi i casi la protagonista [...]]]> di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

  1. Le ultime filibustiere (dagli anni Settanta al nuovo Millennio)

 

In realtà negli anni Settanta il cinema d’avventura ‘classico’ sta ancora proponendo titoli egregi, basti pensare – proprio in tema salgariano – alle produzioni dirette da Sergio Sollima, con la migliore delle trasposizioni del ciclo indo-malese mai apparsa, cioè lo sceneggiato televisivo Sandokan, 1976 – donde vari seguiti più o meno concatenati[73] – e un apprezzabile Il Corsaro Nero, sempre del 1976: in entrambi i casi la protagonista femminile è interpretata da un’incantevole Carole André. Ma se mai una versione di Jolanda viene presa in considerazione da Sollima, nei fatti il tema della piratessa non ha sviluppo: la stagione d’oro è ormai passata.

Come conferma in fondo la vicenda del più celebre dei film mancati di questo filone, progettato in Inghilterra agli inizi degli anni Settanta: sto parlando di Mistress of the Seas, in assoluto tra i titoli più noti di quel ricco fondo di pellicole irrealizzate dalla casa britannica Hammer di cui i cultori hanno pazientemente ricostruito la storia[74].

Il punto di partenza è l’omonimo novel di John Carlova sulla vita di Anne Bonny, da cui Val Guest riscrive nel 1972 una prima versione per lo schermo: la vicenda storica viene riletta liberamente (vi è immesso anche Barbanera, come del resto in Anne of the Indies) e si medita di affidare il ruolo principale a Raquel Welch. Michael Carreras della Hammer sarebbe il produttore, ma la Universal – che dovrebbe sostenere la casa britannica – rifiuta il progetto. Di cui restano almeno alcune locandine, a opera – come spesso per la Hammer – del grande illustratore Tom Chantrell, e che ci fanno rimpiangere il mancato varo. Una di esse – ne esistono due versioni quasi uguali – mostra una figura femminile un po’ discinta e armata su un corrusco sfondo rosseggiante, con uno scontro di navi lontane su cui garrisce enorme il Jolly Roger: il titolo Mistress of the Seas in grandi lettere a stampatello, ondulate come se fossero scritte sull’acqua, occupa tutta la metà inferiore del manifesto. Ma un altro, con lo strillo «The true story of Anne Bonney who slashed her way to fame and fortune alongside the most dreaded scourges of the Caribbean!», sembra più emblematico dei contenuti, mostrando oltre al solito titolo ondulato – più piccolo, in basso – una serie di bozzetti di scene del film. Certo solo virtuali, perché Chantrell lavora in anticipo sulle indicazioni offerte dalla casa produttrice, e anzi per attrarre interessi finanziari al progetto: ma che comunque suggeriscono almeno qualcosa della trama. Il primo piano – porzione destra – è occupato dalla figura eretta di Anne (riconoscibile la prevista interprete Raquel Welch), camicia annodata a coprire i seni, cinturone su una specie di perizoma, stivali ai piedi e armi nelle mani: e qui sembra fare irruzione nel cinema lo stereotipo provocante oggi tanto condiviso nell’immaginario popolare. In secondo piano nel manifesto ci sono i citati bozzetti: per cui vediamo, da sinistra, uno scontro navale, poi una figura femminile, plausibilmente Anne, trascinata al capestro, e la stessa Anne che sollevandosi nuda da un letto – ma velata dalle coperte che stringe – punta la pistola; seguono una scena di fustigazione da parte di Anne, un’immagine di pirati alle prese con un cannone, un viso maschile con benda sull’occhio (Barbanera?), e infine una figura nuda – forse ancora Anne – reclina su un’altra. La dimensione erotica è insomma abbastanza evidente.

Comunque Guest e Carreras non si arrendono, e nel 1979 riprendono in esame l’idea che sembra promettente: Anne dovrebbe essere interpretata stavolta da Caroline Munro, ma il crollo della Hammer blocca tutto.

Pochi anni dopo, nel 1982, si riparte. A riconsiderare il progetto – riscritto dallo stesso Guest, e reintitolato stavolta Pirate Annie – sono il produttore John Derek e la celebre, pettoruta moglie Bo candidata al ruolo principale, che effettuano un giro di perlustrazione di possibili set tra le isole greche. Per la parte di Rackham si pensa a Klinton Spilsbury, mentre finanziatrice sarebbe la cbs Theatrical: ma disaccordi sul budget – più che su divergenze artistiche, come comunicato – fermano ancora il film.

A riprendere in seguito l’idea è la Columbia, col produttore Jon Peters e il regista Paul Verhoeven: e stavolta si medita di girare il film proprio nei Caraibi. Si tratterebbe però di una versione R-rated, riscritta da Michael Christofer, e «as graphic as it can» – così Verhoeven, secondo cui il titolo dovrebbe suonare The Sexual Adventures and Erotic Escapades of Anne Bonney. Contenuto ‘caldo’ confermato dalle testimonianze della prevista protagonista, Geena Davis, che per la parte deve imparare a duellare, cavalcare, cavarsela in acqua. Dietro pressioni della Columbia, il progetto viene però ricalibrato su una storia più tradizionalmente d’amore, il classico triangolo tra Anne (ripensata come una sorta di Scarlett O’Hara in versione marinara) e un paio di figure di pirati; e visto che per uno dei ruoli è in lizza Harrison Ford, l’idea è di aumentare il peso del relativo personaggio a danno di quello della protagonista. Si prevede l’uscita nel 1994: ma poi le solite, diplomatiche divergenze artistiche sono annunciate a motivo prima dell’abbandono di Verhoeven, cui subentrerebbe per pressioni della protagonista l’allora marito Renny Harlin, poi dell’abbandono della medesima Davis (insoddisfatta del ridimensionamento della propria parte) con ritorno di Verhoeven. Il produttore Peters valuta allora le possibili sostitute: si parla di Jodie Foster, Laura Dern, Sharon Stone; e in ultimo la prescelta Michelle Pfeiffer, perplessa per la quantità di nudi richiesti, finisce col ritirarsi. Il progetto pare insomma affossato.

Eppure non è ancora finita: un breve script piratesco di Michael Frost Beckner e James Gorman raggiunge la Carolco Pictures e stavolta viene offerto proprio a Renny Harlin. Raynold Gideon e Bruce A. Evans lo riscrivono, Geena Davis ritorna al ruolo di piratessa – che le viene allargato apposta da Susan Shilliday – mentre per il partner maschile fioccano i rifiuti finché non accetterà Matthew Modine. Il set stavolta si sposta tra Malta, la Tailandia e gli inglesi Pinewood Studios; e il risultato è il divertente e un po’ vacuo Cutthroat Island (Corsari), 1995, una produzione Francia/Germania/Italia/usa che quasi sintetizza così sul fronte dei finanziamenti la storia delle produzioni sulle piratesse. A firmare la sceneggiatura sono Robert King (che in un mese deve ricostruire la storia allargando ancora un po’ la parte della protagonista) e Marc Norman; e pare venga pagato anche il pur uncredited Val Guest, a far supporre qualche parentela tematica con le sue originali scritture per la Hammer – «non per suggerire che Cutthroat Island sia una versione finale di Mistress of the Seas, ma che c’erano elementi di esso nel film uscito»[75]. Nei fatti però il regista sta soprattutto costruendo una storia su misura per sua moglie, la statuaria Geena Davis nei panni di Morgan Adams, figlia del pirata Black Harry (Harris Yulin).

Giamaica, 1668: dopo aver rischiato il patibolo in seguito a una notte d’amore con un tenente britannico deciso in realtà a consegnarla al Governatore – sorta di citazione di altre pellicole già citate – Morgan apprende che il padre è stato rapito dal pessimo fratello Dawg Brown (Frank Langella, l’ex-Dracula del film omonimo di John Badham, 1979), che minaccia di ucciderlo come ha già fatto con un altro congiunto. Il tutto per metter le mani sulla mappa di un tesoro spagnolo: Morgan tenterà dunque rocambolescamente di salvare il genitore, che però ferito a morte le lascia la propria nave Morning Star e relativo equipaggio, e si fa rasare la testa dove reca tatuata una parte della famosa mappa. Asportato lo scalpo, la nostra eroina scopre però dal letterato John Reed (Maury Chaykin), che viaggia con lei, che la mappa è redatta in latino: occorre trovare qualcuno in grado di tradurlo, e per questo si reca a Port Royal dove compra all’asta come schiavo – citazione da Capitan Blood – il belloccio ed erudito William Shaw (Matthew Modine), condannato a quella pena per furto. William è affascinato da Morgan, ma inizialmente non è vero il reciproco; comunque la traduzione è presto compiuta. Poi Morgan riesce a recuperare anche la seconda metà della mappa – il completamento dell’atlante del tesoro costituisce un altro topos del romanzo d’avventura – da un altro zio, Mordechai (George Murcell), prima che Dawg, che ha la terza parte, faccia fuori anche lui. Infine, raggiunta l’isola Cutthroat (nome parlante: “tagliagole”) indicata dalla mappa, tra infinite avventure e difficoltà Morgan otterrà l’oro spagnolo, ricambierà l’amore di William e riuscirà anche a cavarsela nell’ultimo scontro con Dawg, per l’occasione trascinatosi dietro la marina britannica. A questo punto,

 

[r]icordare La regina dei pirati è inevitabile: come capitan Provvidenza, Morgan è una donna pirata che opera nei Caraibi; come lei ha un rapporto di dipendenza o di parentela con un pirata «duro», zio o padre adottivo (Barbanera, nel film di Tourneur, e qui Dugw [sic] Brown). Tuttavia mentre in Tourneur motore dell’azione, pervasa da un afflato poetico di indubbia bellezza, era la sessualità, qui è soltanto un volgare scambio di ruoli: Geena Davis interpreta una parte che il cinema classico riservava agli uomini. […] E si inganna chi crede che questo sia un modo per diventare protagoniste del cinema d’avventura, da parte delle donne: qui si narra sempre la stessa storia, raccontata peggio, con l’unica differenza che Morgan è, per capriccio degli sceneggiatori, una donna, e per calcare il tono la si rende più litigiosa, audace, fanfarona e insolente di quanto non fossero gli uomini[76].

 

Nonostante venga così stroncato dalla critica, Cutthroat Island è un film divertente e veloce, giocosamente sontuoso e amabilmente prevedibile: un simpatico fumettone con due personaggi senza spessore psicologico ma belli di aspetto, e un allegro carnevale di inseguimenti, duelli, carognate e quant’altro si possa attendere da una storia popolare di caccia al tesoro. Dal punto di vista dell’evoluzione di un mito, può anche essere ravvisabile qualche intrigante eco salgariana: non solo Morgan ha per nome di battesimo quello che Jolanda porterà per cognome una volta sposata; non solo il nome del padre Black Harry trattiene la nerezza del Corsaro papà; ma c’è persino la presenza di un colore, il bruno, nel nome dello zio (Dawg Brown) come nei soprannomi degli zii di Jolanda (il Corsaro Rosso, il Corsaro Verde). D’altra parte ancora una volta la tenuta della piratessa – in  maniche di camicia, stavolta più plausibilmente stazzonata e sporca – rimanda sul piano visivo a un’intera serie di progenitrici su schermo: e il fatto che il costumista sia l’italiano Enrico Sabbatini, per una coproduzione che interessa anche il paese di Salgari, avalla credibilmente un nesso.

Certo, il rovinoso flop del film, definito quello con maggiori perdite della storia del cinema, travolgerà la Carolco Pictures: ma i guasti di una sconsiderata gestione economica (spese senza senso, per esempio, per i divi della troupe), e di una distribuzione infelice per i ritardi della post-produzione e l’uscita a Natale di «un blockbuster senza una corposa campagna di marketing [, il che] equivale a un suicidio commerciale»[77], problemi cioè di quella singola opera e non di un filone avventuroso in quanto tale, faranno in seguito guardare con sospetto dai produttori qualunque progetto di film analogo. Ostacolando all’inizio la stessa operazione Pirates of the Caribbean – poi invece tanto fortunata – e, forse, contribuendo a una rarefazione in quella saga della dimensione genuinamente ‘piratesca’ a vantaggio di una più libera componente fantastica.

Interessante peraltro un’altra motivazione offerta oggi da Harlin per spiegare il flop di un film cui pure resta affezionato, e la cui lavorazione era «andata liscia come l’olio»[78]. Spiega infatti che «al pubblico non piacque l’idea di un film di pirati con una protagonista femminile. […] non voglio negare i miei errori e credo che con un protagonista maschile il film avrebbe avuto maggiori chance di successo»[79]. È un’interpretazione corretta? Difficile dire, anche se è possibile che il pubblico delle famiglie delle grandi sale americane – quello in fondo cui deve soprattutto mirare Harlin con tale prodotto – nel 1995 non sia pronto per un simile modello.

Sarebbe però sbagliato immaginare che negli anni successivi a Cutthroat Island i pirati scompaiano: e merita citare almeno un esempio di piccola produzione sul tema. Joe D’Amato (al secolo Aristide Massaccesi) è certo più noto come regista di horror splatter, erotici e pornografici che non di avventura; eppure tra gli oltre duecento titoli della sua strabordante filmografia, e nell’anno stesso della sua morte, risulta anche un film di pirati: l’italiano I predatori delle Antille, 1999, prodotto da Gianfranco Romagnoli per Idra Music e girato a Budapest. Certo, nonostante la locandina con una bellona (s)vestita da piratessa, non si può definire propriamente tale la protagonista Elena Hamilton (Anita Rinaldi, come Anita Skultety o Skulteti), una lady britannica che, a dispetto del proprio rango, ingaggia un pirata partecipando alle sue azioni. Deve poi fronteggiare un Rackham (nell’elenco personaggi citato come Rachman: Henrik Pauer) omonimo del partner di Anne Bonny – salvo il fatto che si chiama George e non John; e comunque nella storia, in un ruolo minore, non mancano una donna pirata, Pilar (Venere Torti) e il solito tormentone del vestito.

L’amatissimo marito di Elena, Sir Francis Hamilton (Menyhért René Balog-Dutombé, riportato come Menyhert Dutombe), è un diplomatico con mandato da parte di Carlo II per trattare in Giamaica coi francesi in funzione antispagnola. Giunto nelle Antille, cade però in un agguato teso dal temuto Rackham, che stermina l’equipaggio e chiede un riscatto molto alto per il nobile prigioniero – così alto che la moglie non riuscirebbe a pagarlo, mentre il re non intende cedere al ricatto. Delusa, Elena contatta un capitano che conosce bene i Caraibi, tale Graham (Zoltán Kiss), e questi le fa il nome di Thomas Butler (Carlo De Palma), detto ‘il Pirata gentiluomo’, passato alla pirateria dopo un delitto e considerato l’unico che forse potrebbe aiutarla. Sulla nave di Graham, e con un lasciapassare per le colonie firmato dal re, Elena raggiunge così la Tortuga; e in una locale taverna, per attirare l’attenzione dell’abbrutito Butler, non esita a togliersi le mutandine e salire sul tavolo iniziando a danzare. Cercando di barcamenarsi tra il greve corteggiamento di Butler e la gelosia della sua amichetta Pilar, Elena arriva a promettersi al pirata pur di averne l’appoggio per recuperare il coniuge. Considerato il resto della produzione di D’Amato (qui accreditato come David Hills), i pochi minuti di scene di nudo, di sesso o anche solo ammiccanti come queste – e che hanno talora giustificato l’etichetta commerciale di «erotico» – appaiono curiosamente castigati.

Raggiunta Antigua, il covo di Rackham, Butler – che con lui ha un vecchio conto – scende sull’isola con un compagno e le due donne: e mentre loro stornano l’attenzione delle sentinelle, riesce ad apprendere che il diplomatico prigioniero è stato condotto a Maracaibo. Arruolata allora una squadra di specialisti – compreso un improbabile esperto orientale di arti marziali Kato (come quello dell’Ispettore Clouseau) – Butler punta sulla città, dove il governatore Don Diego de la Vega (come lo Zorro marca Disney[80]) non si è bevuto le giustificazioni fasulle addotte da Sir Francis circa lo scopo della sua missione, e ordina di torturarlo. Rackham arriva poco dopo, scopriamo che lavora per la Spagna, e incassa da Don Diego una cifra – in realtà minore dello sperato – per la cattura dell’inglese.

In un ultimo confronto con Elena, Pilar racconta di aver abbandonato a sedici anni famiglia e casa in Giamaica per seguire Butler: Elena chiarisce allora di essere interessata solo al proprio marito e le regala uno dei propri abiti. Poco dopo ‘il Pirata gentiluomo’ cattura un vascello olandese per avvicinarsi a Maracaibo senza dare nell’occhio; e durante l’arrembaggio anche Pilar combatte con ferocia a colpi di pistolone. Fingendosi olandesi, i nostri arrivano così in città dove sono ricevuti con apparente cortesia dal governatore – che però poi ne ordina l’arresto. Dopo vana resistenza i pirati (traditi da un membro della squadra) sono così incarcerati, salvo le due donne finite nelle grinfie di due vogliosi spagnoli.

Mentre però tra le mura e la nave pirata – dove Butler non è tornato nel tempo pattuito – si accende uno scambio di cannonate, Elena riesce a puntare un pugnale alla gola del lubrico Don Diego, costringendolo a liberare i prigionieri, compreso Sir Francis, e infine freddandolo con un colpo di pistola mentre tenta la fuga. Ma anche Pilar ha sparato al suo aggressore, e alla ritirata precipitosa del gruppo verso la nave segue l’esplosione del palazzo di Maracaibo, minato dall’artificiere della squadra. Pilar – vestita come una dama – ha ormai riconquistato l’amore di Butler, ed Elena (non più costretta a mantenere la promessa sessuale al capitano) ha salvato il marito. Se la sceneggiatura è di un candore fumettistico da adolescenti, il livello della recitazione praticamente amatoriale, il numero di comparse limitato e il ritmo a tratti soporifero, I predatori delle Antille suscita nondimeno un senso di sgarrupata simpatia per l’approccio artigianale con cui il tema è trattato.

Del 1999 è anche una fantasiosa ripresa italo-spagnola a cartoni animati del personaggio salgariano, Jolanda. La Figlia del Corsaro Nero, coprodotta da rai Fiction, Antena 3 Televisión e brb Internacional, in ventisei episodi[81], serie ideata da Claudio Biern Boyd, con musiche dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis, che sotto il nome Oliver Onions avevano già firmato le memorabili colonne sonore delle menzionate escursioni salgariane di Sollima.

Ma a cambiare davvero le cose sarà l’uscita nel 2003 di Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl (La maledizione della prima luna), rafforzata da una serie divertente di sequelDead Man’s Chest (La maledizione del forziere fantasma), 2006; At World’s End (Ai confini del mondo), 2007; On Stranger Tides (Oltre i confini del mare), 2011; Dead Men Tell No Tales (altresì noto come Salazar’s Revenge, La vendetta di Salazar), 2017[82] – che riproporranno robustamente i pirati all’immaginario collettivo anche in termini di marketing, ridando spazio, sia pure in forme molto libere, alla figura della donna pirata. Tornano così anche le nostre due eroine: Anne Bonny (interpretata da Clara Paget) compare per esempio nella vivace serie televisiva americana Black Sails, prima stagione 2014 (le successive tre 2015-2017), ambientata a New Providence e pensata come prequel alle vicende del romanzo stevensoniano Treasure Island; mentre con l’amica Mary è presente nel lungometraggio d’animazione giapponese Meitantei Konan – Konpeki no Jorī Rojā (Detective Conan: L’isola mortale), 2007, con il Jolly Roger già evocato nel sottotitolo originale («Jorī Rojā»), e nel videogioco Assassin’s Creed IV: Black Flag, pubblicato nel 2013. Per non parlare di citazioni dirette attraverso canali diversi di entertainment, si pensi alla Anne Bonny dei giochi di ruolo Atlantica Online, o in testi musicali come la canzone Anne Bonny degli statunitensi Death Grips (nell’album Government Plates, 2013); o persino di liberissime riletture come nel personaggio di Jewelry Bonney dell’anime One Piece derivato dall’omonimo manga – l’uno e l’altro felicemente in corso. Quanto al documentario televisivo americano True Caribbean Pirates (Pirati dei Caraibi – La vera storia) di Tim Prokop, 2006, che ricostruisce con interviste a storici e scene da docufiction l’epopea di alcuni tra i pirati più noti al grande pubblico, non manca una parte su Mary & Anne – interpretate rispettivamente da Kimberly Adair e Michelle Michaels. Fresca di realizzazione è poi la docuserie The Lost Pirate Kingdom di Netflix, sceneggiata da David McNab e Patrick Dickinson, diretta da Stan Griffin, Justin Rickett e dallo stesso Dickinson, 2021, con Derek Jacobi come narratore, che, partendo dal 1715, sviluppa una storia della pirateria. Mia Tomlinson vi interpreta Anne Bonny, e Jack Waldouck è Rackham.

Per venire a un film molto diverso, la commedia inglese St Trinian’s 2: The Legend of Fritton’s Gold (St. Trinian’s 2 – La leggenda del tesoro segreto), 2009, per la regia di Oliver Parker e Barnaby Thompson. Al termine, le scatenate studentesse della più improbabile istituzione scolastica britannica appaiono in galeone sul Tamigi, a strappare al villain l’unico manoscritto esistente di Queen Lear – presunta ultima opera shakespeariana, che dimostrerebbe non solo una coincidenza dell’identità del Bardo con il pirata Fritton, antenato della proprietaria, ma soprattutto il fatto che fosse una donna: e a loro volta sono vestite da piratesse. A traghettare idealmente all’epoca nostra quel modello delle Defenders of Anarchy (così il titolo di uno dei due singoli registrati dal gruppo pop Girls Aloud per la colonna sonora del precedente St Trinian’s, 2007) che Mary e Anne avevano in qualche modo vagheggiato d’incarnare.

 

 

Conclusione. E quelle che vanno per mare

 

Per gli anni successivi alle Temerarie Due, i dati in nostro possesso riportano anzitutto un altro paio di casi di donne in equipaggi di navi pirata, entrambi in Virginia: Mary Harvey (o Harley, o Farlee), processata nel 1726, ma a differenza dei compagni mandata poi libera, e Mary Crickett (o Crichett), spedita alla forca nel 1729:

 

Non è dato sapere se queste due donne si fossero travestite per diventare pirata, né se siano state indotte a ciò dai racconti su Anne Bonny e Mary Read. Comunque, la presenza delle quattro donne tra i pirati è venuta alla luce solo perché le loro navi sono state catturate. È possibile quindi che sulle navi pirata le donne abbiano avuto più spazio di quanto ne trovassero, all’epoca, sui mercantili o sui vascelli militari. In ogni caso, tale spazio, benché modesto, è esistito solo perché creato da un’attiva ribellione femminile[83].

 

Gli annali riportano poi i nomi di Flora Burn, attiva verso la metà del secolo sulla costa orientale del Nord America; e di Rachel Wall, piratessa negli anni 1781-82, finita sulla forca nel 1789 (sarà anzi l’ultima donna giustiziata in Massachusetts). Nel XIX secolo, l’elenco – ma si tratta solo dei casi più noti – prosegue coi nomi dell’ultima piratessa svedese, Johanna Hård, delle australiane Charlotte Badger e Catherine Hagerty, di Margaret Croke (tutte dei primi decenni del secolo), e dell’americana Sadie Farrell, conosciuta come Sadie the Goat (1869); mentre nel XX secolo la parte del leone (o della leonessa) se la conquistano le disinvolte signore cinesi già citate. Gli studi – specie sulle dinamiche sociali sottostanti il fenomeno – ovviamente continuano[84].

Ma accanto a questi profili storici ne fioriscono infiniti altri tra leggenda e fiction, come la plausibilmente immaginaria Charlotte de Berry (nata – si dice – nel 1636, ma menzionata per la prima volta nel penny dreadful di Edward Lloyd History of the Pirates, 1836) e quella Geraldine ‘Gunpowder Gertie’ Stubbs (inglese, nata in ipotesi nel 1879) emersa per un pesce d’aprile in un giornale canadese, poi portata sulle scene teatrali e a volte creduta un personaggio storico. C’è poi naturalmente tutta la lunga serie di predatrici immaginarie che popola i più vari tipi di storie, comprese – abbiamo visto – quelle trame di videogiochi o di giochi di ruolo dove le stesse Mary & Anne garantiscono qualche presenza.

In effetti la figura della piratessa sedimenta ormai una certa varietà di spunti simbolici, dalle provocazioni feticistiche della donna che si fa uomo – ma non troppo – fino a una più generale scelta controculturale. Qualcosa che da un lato attiene a una maschera mitica, un archetipo che può facilmente volgere in stereotipo: e da questo versante, come abbiamo visto, la sincretizzazione grazie al cinema di due diversi modelli di donna pirata, quello picaresco di Mary & Anne e quello romantico di Salgari, conduce in ultimo ai citati bozzetti di DeviantArt. Si tratti di declinazioni più intriganti o invece più volgari, tale maschera può comunque vantare un certo impatto sul nostro immaginario.

Ma d’altro canto, proprio attraverso il paradosso di scelte controcorrente, fuori da qualunque sistema (persino quello piratesco, che in generale interdiceva alle donne l’accesso alle navi), le singole figure di women in piracy mantengono un più interessante livello di provocazione. In società grevemente androcentriche, queste donne sono figure di un’esplorazione – in termini liberissimi e variegati, sia pure con alcune costanti – di vie alternative a quelle prefissate da un destino sociale. Lo sono Mary, Anne e le loro colleghe meno note, che hanno spesso pagato care le proprie scelte; ma lo è in fondo, in termini più morbidi, la stessa immaginaria Jolanda. Che, aggregandosi alla feccia dei mari, ricorda ai giovani lettori di un’Italia ormai unita – e già intampata tra scandali, trasformismi e crolli d’ideali – le trasgressioni delle eroine risorgimentali e i loro sogni di libertà: un punto virtuale per ripartire, e mettere magari sotto assedio in vista di un futuro diverso le Panama in cui ci tocca campare.

 

[73] La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa!, 1977 (film); Il ritorno di Sandokan, 1996 (sceneggiato); Il figlio di Sandokan, 1998 (miniserie).

[74] Mi appoggio qui al fondamentale testo di Glen Davies (compiled by), Last Bus To Bray: The Unfilmed Hammer, 2 voll., Des Moines, Little Shoppe of Horrors, 2010, e in particolare al vol. II (Decline, Fall & Rebirth – 1970-2010), pp. 25-28.

[75] Davies (compiled by), Last Bus To Bray, vol. II, cit., p. 28.

[76] Latorre, Avventura in cento film, cit., p. 340.

[77] Così il regista nell’«intervista-carriera» rilasciata nel 2013 a Neuchâtel a Manlio Gomarasca (Renny Harlin the king of action, “Nocturno”, dicembre 2013, pp. 86-93, in particolare p. 91).

[78] Ibidem.

[79] Ibidem.

[80] In un altro punto del film si presenta però come Don Edoardo de la Vega, forse per una dimenticanza dello sceneggiatore.

[81] Per gli anni successivi va segnalato anche lo sceneggiato radiofonico Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, in onda dal 27 marzo al 28 aprile 2006 su rai Radio 2, a cura di Emma Caggiano, diretto da Arturo Villone, scritto da Giovanna Gra e Veronica Pivetti, quest’ultima anche interprete del ruolo principale.

[82] Per le voci su probabili seguiti, ci limitiamo a quanto già detto all’inizio.

[83] Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., p. 121.

[84] Basti citare il testo di John C. Appleby, Women and English Piracy, 1540-1720: Partners and Victims of Crime, Woodbridge (Suffolk)-Rochester (ny), Boydell Press, 2013.

 

 

 

 

 

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They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992 Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è [...]]]> ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992
Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è un film truffa! I soldi spesi si vedono e forse, sulla carta, a livello di soggetto e sceneggiatura, questa satira del mondo della tivù poteva anche sembrare un progetto sensato. Poteva. Il fatto è che ne è venuto fuori un film girato coi piedi da uno che regista non è, senza alcun controllo su copione e attori, volgare e ipocrita in modo accecante: sono volgari le facce, i costumi, i dialoghi, la fotografia fuori controllo, gli zoom continui e sgraziati, le scenografie, i gesti, la musica, la messa in scena generale. E’ il classico caso in cui la rappresentazione diventa più grottesca dell’oggetto rappresentato, e – mi sbilancio – ciò accade perché c’è una collusione indistricabile. A dir la verità ci sono anche due momenti in cui ho però vacillato (ché in fondo sarebbe meglio vedere un film decente che una porcata, eddài) e mi son detto: sta a vedere che il D’Agostino (quello dell’edonismo reaganiano o del sublime Il peggio di Novella 2000, con Arbore) piazza la zampata di genio, la scintilla di fosforo che potrebbe comunque autorizzare questo sciupio. Il primo lampo è la scena almodovariana di seduzione di Eva Grimaldi nei confronti di un giovanissimo Raoul Bova, sulle note di Io tu e le rose. L’altro è quando le protagoniste si rivolgono direttamente alla cinepresa, un momento surreale inaspettato. Ma sono purtroppo fuochi di paglia perché le intuizioni finiscono in vacca in pochi secondi. E le dichiarazioni delle attrici in camera diventano farneticazioni dove si rivendica l’importanza di darla via, che è l’unico modo per farcela (sfogliando la margherita: “Gliela do o non gliela do? Tanto gliela do lo stesso!”), asserendo che, anzi, sputtanarsi è una dimostrazione femminista di potere. Ecco, questa presunta satira del maschilismo del mondo dello spettacolo non sarà maschilismo tout court? l film prevede l’intreccio di tre vicende esilissime: la conduttrice tivù (Monica Guerritore) disposta a tutto che vuole passare da un programma della mattina alla prima serata; l’aspirante attrice (Grimaldi) che si vedrà soffiare il posto dalla mai più sentita Barbara Kero (in una sorta di Eva contro Eva Grimaldi); la valletta (Deborah Calì, vedasi la pregevole pagina Wiki con i seminari frequentati) che – spinta da una zia arrivista – vuole impalmare un dirigente tivù. Finirà tutto in gloria durante una festa drammatica alla Hollywood Party, con come sottofondo L’italiano di Toto Cutugno, accostamento che vorrebbe essere grottesco mentre è perfettamente azzeccato. Citando Zabriskie Point esplodono tette mentre mutande e lingerie volano nel cielo… Il film m’è parso sinceramente emetico ed allucinante: uno di quei casi maldestri in cui si vuole fare satira e non ci si rende conto che il mondo satireggiato è esattamente quello che può produrre questo cinema non-cinema sbracato e presuntuoso. Facciamo un po’ di Dagospia? Nel cast di amici e correi ci sono: la Guerritore di cui si dice che se li sceglie solo potenti; la suina e burrosa Grimaldi, un’altra che le malelingue dicono essersi sistemata ben bene; Sergio Vastano con le guance vaiolose come “Faccia d’Ananas” Noriega; il comico Dario Cassini 150 chili fa; un finto Sgarbi, pressoché identico (a quello vero D’Agostino ha lasciato 5 dita sulla faccia in una storica trasmissione tivù di Giuliano Ferrara); un finto Brass (che grida “Viva il culo”) e un vero Busi che il culo lo mostra tutto contento. Film visto mentre è scoppiato il caso dei lauti compensi concessi da Sandro Bondi a una sconosciuta attrice bulgara venuta in Italia a spese nostre con folta compagnia, per un film che nessuno vedrà mai (oltre a incarichi a compagna, figlio dell’ex moglie e cose così…): Bondi per la Cultura è come Saddam per il Kurdistan. (Dvd; 27/10/10)

ddv7202800 – Zombie for dummies? Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez, USA 2007
Film che ha apparentemente un solo, semplice messaggio: “divertiti come un dodicenne”. Una marea di archetipi del cinema horror, exploitation e non solo, sono presi e potenziati visivamente e narrativamente, tralasciando i contenuti occulti che caratterizzavano gli originali, perlomeno esplicitamente, perché la metafora è ormai evidente, sempre, quando si parla di zombie. Ci si perde parecchia intelligenza (rispetto a un Romero, per dire), ma si guadagnano un po’ di cheap thrills e non sarò io a lamentarmi, perché – accettando il patto – la messa in scena è superba. E poi c’è l’infezione virale, la proliferazione e l’assalto degli zombie, il gruppo di sopravvissuti in fuga, i militari subdoli e, ovviamente, come da Ombre rosse in poi, l’eroe delinquente e l’eroina che vuol farla finita con la sua vita da poco di buono. Tra le cose rubacchiate qui e là c’è anche l’elicottero finale di Zombi, anche se l’aggiornamento dell’utilizzo fa sghignazzare. Rodriguez mette su un baraccone coloratissimo che gioca con lo spettatore, la sua memoria e le manie degli americani: il sesso, il cibo, la violenza. Tra cameo imprevedibili (tra cui Tarantino a cui cascano letteralmente i coglioni) musiche tirate, cromatismi e gag riuscite (“la ricetta per la miglior salsa barbecue del Texas”), viene fuori un festival di liquidi organici che schizzano e membra corporee che si spappolano allegramente. Come in un blues d’altri tempi, alla fine, la salvezza è south of the border… a Tulum! (Chissà se c’è dell’ironia; io a Tulum, fra rovine secolari, avrei fatto volentieri una strage di turisti panzoni yankee, a torso nudo e birra in mano che pensavano di essere in un parco giochi). Ad ogni modo: Barbara irritata, io ottusamente divertito. Ma molto! (Dvd; 30/10/10)

ddv7203801 – L’agghiacciante The Pacific di Aa.Vv., USA 2010
Che uno dice: ma non potevano lasciarle perdere queste isolacce di merda dell’oceano Pacifico, che ogni volta ci perdevano una marea di uomini? Non potevano puntare direttamente sul bersaglio grosso e portargli la guerra in casa, gli americani ai giapponesi? Poi vedi come andavano le cose contro pochi soldati e capisci che pensare di combattere contro un popolo intero, invadendo la loro terra, sarebbe stato un suicidio, l’ennesimo ma su scala macrospica. The Pacific – prodotto da Steven Spielberg e Tom Hanks – è allucinante: senza alcun compiacimento estetico, senti la fatica, la disperazione, la fame, la sete, la mancanza di sonno, come se ci fossi anche tu, spiaggiato sotto il fuoco nemico, di un nemico che non si arrende manco per niente, che non cede di un millimetro, che piuttosto che arrendersi si fa bruciare vivo. E che poi passerà attraverso l’olocausto atomico, in una insensatezza senza limiti. I protagonisti sono il giornalista Bob Leckie (che sopravvive grazie anche alla scrittura e al distacco intellettuale); il valoroso John Basilone (eroe a Guadalcanal, poi mandato a raccogliere soldi e infine, dopo un fugace amore, di nuovo in trincea); il ricco sudista Eugene Sledge (che non vuole rimanere a casa per un soffio al cuore e che scopre l’orrore rimanendone traumatizzato); senza dimenticare, tra i personaggi secondari, l’eccezionale e allucinato Snafu. Sceneggiato ossessivo, agghiacciante e infine commovente, quando sui titoli di coda attribuisci delle facce vere a queste storie che sembrano inventate tanto sono disumane e bestiali. Meno “divertente” di Band of Brothers, anche The Pacific si concentra sugli uomini, senza interrogarsi sulle cause e sugli esiti della guerra, ma già così c’è fin troppo dolore. (Dvd; dicembre 2010 e gennaio 2011)

ddv7204802 – Fare il papà è veramente pericoloso: Winx Club 3D – Magica Avventura di Iginio Straffi, Italia 2010
Prendo posto con Sofia nella sala semivuota e alle mie spalle sento chiaramente una mamma che commenta con la figlia: “Guarda che sfigato quel papà! Lo devono aver costretto!”. In effetti, sì, porco Giuda: ho perso una riffa micidiale con Barbara e nel cinema siamo giusto in tre uomini di genere maschile, attorniati da bimbe rincitrullite (tra cui mia figlia) e mamme anch’esse ricattate se non citrulle e volontarie massacratrici dell’immaginario della figliolanza. Perché questa film vomitorio è un vero e proprio attentato reazionario e maschilista all’universo fantastico cui fanno riferimento i bimbi. È un incubo rosa confetto dove la trama è presto detta: ci sono i buoni contro i cattivi. E i buoni sono buoni perché sono buoni e fighetti. E i cattivi son cattivi perché cattivi. Amen: non c’è motivazione, sviluppo, evoluzione, lezioni da imparare o messaggi da comunicare. Anzi, sì, qualche messaggio c’è ed è unicamente la promozione pubblicitaria di tutto quanto sia firmato Winx. Insomma, se incontro Iginio Straffi – che ho visto sfilare sciarpettato alla Festa del cinema di Roma con la sicumera del tycoon de noartri –  rischia veramente di finire a schifìo. Insaporito da musiche per bimbominkia orrende, la pellicola (“film” sarebbe sinceramente troppo) è un inno alla volgarità televisiva: le donne sono rappresentate come delle ninfette sciampiste dagli zigomi tirati, col pancino scoperto, le lunghissime gambe stivalate e l’intelligenza di una gallina petulante. Le vediamo armeggiare coi cellulari, laccarsi le unghie e vagheggiare shopping o romantiche storie d’amore. Poi quando si tratta di lavare i piatti, ovviamente tocca a loro, mica ai maschietti della vicenda, degli pseudo tronisti muscolati con facce inespressive. Ma forse questo è anche dovuto al livello dell’animazione: sembra di vedere un videogioco di 10 anni fa, coi movimenti ancora rigidi, le articolazioni bloccate e le espressioni esaltate dal botulino. Del resto anche la vicenda procede per schemi, come un elementare videogioco. La seconda parte, per onestà, è migliore e in crescita, ma si rimane comunque in una piattezza devastante, senza alcuna minima profondità, senza un pizzico di humour, figuriamoci poi d’ironia. Io sono profondamente offeso da questa roba e voglio fare una class action contro Straffi assieme ad altri genitori indignati. Scorrono i titoli di coda e scopro l’estrema beffa: questa cosa qui ha avuto il riconoscimento dell’“interesse culturale senza contributo”. In una repubblica seria, l’autore di siffatta barbarie andrebbe punito e dovrebbe pagare lui i danni alla comunità. E bisognerebbe costringere Bondi a vedersela sui ceci, questa cagata pazzesca. Magari a Pompei, a fianco di una parete pericolante, così, per avere almeno un po’ di suspense. (Cinema Ducale, Milano; 13/11/10)

ddv7205803 – Lo stupefacente La città incantata di Hayao Miyazaki, Giappone 2001
Lo propone Barbara, che lo vede lì da secoli, nella pila di Dvd acquistati bulimicamente. E io che faccio, rifiuto? Macché, colgo l’occasione al volo, tanto più che vivo da anni il senso di colpa di non essermi mai cimentato abbastanza col maestro dell’animazione nipponica. E vengo catapultato in un mondo abitato da rospetti, uccellini panzuti, suini giganteschi, bimbi obesi, esseri polipeschi, ravanelli gonfi, spiriti neri, nuvolette di fuliggine e palle di melma cagosa. La piccola Chihiro sta traslocando coi genitori ma, lungo il percorso verso la nuova casa, imbocca un tunnel misterioso e finisce in un parco abbandonato dove si trova un bagno termale per spiriti (!): mamma e papà diventano due maialoni e lei affronta mille prove per liberarli dall’incantesimo seguendo i consigli del bellissimo maestro Haku o relazionandosi con la temibile Yubaba che sembra una Lina Volonghi agromegalica. Alla fine uscirà dal tunnel e da questo sogno popolato da incubi come se si fosse persa per un attimo solo, anche se lei sa e noi sappiamo che il tempo è passato sul serio. Barbara e io abbiamo assistito attoniti, come due pungiball. Tutti mi avevano detto: “è un capolavoro, credimi” e io che francamente queste cose non le capisco proprio e mi sembrano inafferrabili come la partita doppia in contabilità o le regole del baseball, beh, sarà per la bellezza delle immagini, per la dolcezza del racconto stralunato, passin passetto son stato conquistato da questo mondo fantastico che al confronto Dalì era un impiegato del catasto e Bosch un ragioniere. Per cui non so se sia una capolavoro (e poi chi sono io per dare questa patente?) e non so se vedrò altri di film di Miyazaki, però La città incantata mi ha lasciato un piacevole senso di inquieta e malinconica serenità. Devo averlo capito poco, ma m’è istintivamente piaciuto molto. (Dvd: 17/11/10)

ddv7206804 – La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! del sempre compagno Sergio Sollima, Italia 1977
Secondo episodio (stavolta cinematografico) non granché ma che Sofia gradisce comunque. Sandokan s’è ritirato nella giungla del Bengala, Yanez s’è sposato e a Mompracem regna un nuovo rajah, un panzone libidinoso con un fracco di mogli. Ma la guerriera Jamilah (interpretata da Teresa Ann Savoy) non ci sta (“Gli europei in Asia o sono in uniforme o sfruttano il popolo!”) e mette su la resistenza, aiutata dall’infido greco Teokritis che si rivelerà poi un traditore. Solite manfrine, duelli, battaglie, avventure e anche un po’ di commedia, con l’umorismo affidato a Yanez (a un certo punto si finge consigliere militare prussiano, tanto di cappello nero col teschio come le SS). Musiche dei fratelli De Angelis con un tema scopiazzato da Impressioni di settembre della PFM; luci non al meglio, certe volte accecanti, altre da “effetto notte”, con risultati decisamente stranianti. Il tigrotto Kammamuri è Sal Borgese, visto mille volte in tutto il cinema di genere italiano degli anni Settanta e ti aspetti che nelle scene di combattimento saltino fuori Bud Spencer e Terence Hill. Mah! (Dvd; 28/11/10)

ddv7207806 – Molto carino, dài, School of Rock di Richard Linklater, USA 2003
Premetto che a me Jack Black non ha mai fatto ridere: ha la faccia da cazzo ed è simpatico come un gancio da macellaio su per il culo. Si agita, fa le faccine e ballonzola, con gli occhi stanchi, piccoli e inespressivi, eppure è considerato un fenomeno della commedia USA, anche in ragione di questo School of Rock. Amici fidati mi dicono: se vuoi una bella favola musicale per Sofia, questo è il film che fa per te. Oltre tutto Linklater è un regista interessante, mai banale. Proviamo. Trama all’osso: un rocker fallito si finge supplente e insegna a una classe di tappetti di dieci anni a suonare il rock. Ragazzi: “bimbi + rock = eureka”, è una formula perfetta, anche se del rock si prendono i più vieti luoghi comuni, l’ipocrita ribellione a buon mercato e l’estetica più dozzinale. Ma siccome il rock è e deve essere dozzinale, alla fine questo trattatello musicale per pigmei funziona eccome, diverte e, alla fine, commuove pure. Nessuno scarto da una trama abbastanza telefonata e assecondata con mestiere, una classica scena finale ricattatoria perfetta cui non puoi sfuggire, bambini che recitano benissimo, titoli di testa intelligenti e musiche – ma sbagliare sarebbe stato impossibile – azzeccate. Sentiamo Led Zeppelin, Ac/Dc, Kiss, Cream, Deep Purple, Who e anche Stevie Nicks, passionaccia della rigida preside della scuola, che quando la ascolta si smolla anche un po’ (attrice comica bravissima, lei, tra l’altro). Non avrei mai visto School of Rock, non fosse stato per la varicella dell’entusiasta Sofia: tutto sommato m’è andata bene. (Dvd; 2/12/10)

ddv7208807 – Fish Tank di una ciarlatana, Gran Bretagna 2009
Siamo a Genova per tre veri giorni di vacanza come non ne capitavano da un anno intero. La prima sera, dai miei, il babbo giulivo produce un Dvd che annuncia come un gran film, osannato dalla critica, vincitore di premi e quant’altro. Siccome sono una merda, comincio a fare polemica: e chi l’ha detto? Ma siamo sicuri? Vabbeh, proviamo. Il film parte e lo squallore invade lo schermo: casermoni popolari, tivù sempre accesa, alcol come se fosse acqua; mamma è sola e le piacciono i maschiacci, la primogenita Mia ama ballare l’hip hop e la sorellina di dodici anni fuma e parla come un portuale. Alé, sembra la famiglia di Cristina Parodi. Mia – faccia torva – continua a gironzolare intorno a una cavalla che vuole liberare, ai margini della periferia. Perché cavalla uguale libertà, io vuole ballare, io beve perché disperata. Ma cara la mia regista (tale Andrea Arnold): un bel vaffanculo non te lo ha mai gridato nessuno? E a voi critici radical chic che a queste porcate abboccate per senso di colpa? Dopo trenta affettati minuti di questo quadro devastante di abbrutimento, assassinato in più da un doppiaggio da far rizzare i capelli, con voci sbagliate come età e come adesione alla recitazione, penso che sia meglio un qualunque scabeccio Disney di Sofia che un film d’autore di successo a Cannes (premio della giuria! Ma cosa s’erano calati?). Lo faccio notare ad alta voce (in realtà rompo le balle fin dai titoli di testa, commentando ogni cosa) e allora papà innervosito esibisce con sicurezza un po’ incrinata le recensioni di non so quanti quotidiani e riviste di cinema. Non mi trattengo: “Ancora Cineforum, leggi?”, e qui lui ha un travaso di bile e alza la voce, stufo. Barbara – che intanto dormiva beata – si sveglia, sente una battuta atroce dallo schermo e prorompe in un tempistico: “E questo cosa cazzo è?”. Papà è in piena crisi isterica, sudato e paonazzo: temo gli venga un infarto e decido di lasciarlo in pace, avendogli già ampiamente rovinato la serata. Il film lo vedo finire in originale, da solo, il giorno dopo. E le cose sinceramente sembrano migliorare. Ma neanche troppo, nel senso che – è vero – ci son delle belle facce e la regia e il montaggio sono nervosi il giusto. Però prevale una messa in scena fredda, senza alcuna compassione e neanche rabbia, dove la bruttura altrui è fotografata con compiacimento. E poi la trama, scusate: mamma ha un nuovo uomo, il simpatico rossocrinito Connor (Michael Fassbender). Sesso e birrazza e Mia che scruta da dietro la porta e si scopre incuriosita dall’irlandese. Il quale dà qualche lezione di vita e incoraggia Mia nella sua passione per la danza. Lei – che nel frattempo ha un sincero flirtino con Bobby, il ragazzo che tiene il cavallo di cui si diceva – intravede una via di fuga in un concorso per ballare in un locale, Connor la sprona e poi – ma chi l’avrebbe mai detto! – alla mamma sfatta e ‘mbriaca preferisce la carne fresca della quindicenne. Alla prima occasione, zac, todo dentro! Viene in un minuto e si pente in 30 secondi. Ovviamente quella cosa là, che senza precauzioni si rimane incinta, da quelle parti deve essere ritenuta leggenda, ma non stiamo a sottilizzare. Connor molla tutto e scappa, ma Mia non ci sta e scopre che il bel tomo tiene pure famiglia e allora rapisce sua figlia (!) e in un comprensibilissimo moto di nervosismo la getta nella foce del Tamigi (!!!). Però poi la recupera e la riporta a casa, beccandosi giusto un ceffone, ché in Gran Bretagna non hanno Chi l’ha visto, evidentemente, e la scomparsa di una bimba viene vista come pura sbadataggine. E poi, siccome Fish Tank non è Flashdance (ma magari, porca Eva, magari!) l’audizione è per ballerine da night scosciate e possibilmente zoccole e Mia rinuncia. Va a cercare la cavalla ma Bobby ammette che l’hanno soppressa. Per cui Mia si fa un bel piantino e decide di andare in Galles con Bobby stesso. Prima, però, ballo finale a casa, con mamma e sorellina. E poi via!, che a Cardiff ci si deve divertire veramente un mondo. E mentre la macchina parte, un palloncino a forma di cuore vola via. Il palloncino a forma di cuore… non ci posso credere. Salutata come erede di Ken Loach, a mio modesto avviso questa regista non si merita altro che una scarica di nerbate con bambù fresco sulla schiena, altroché. (Dvd; 27/12/10)

(Continua – 72)

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Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 71 https://www.carmillaonline.com/2015/05/14/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-71/ Thu, 14 May 2015 21:00:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22211 di Dziga Cacace

So join the struggle while you may, the revolution is just a t-shirt away

ddv7101788 – Grandissimo Sandokan del compagno Sergio Sollima, Italia/Francia/Gran Bretagna/ Repubblica Federale Tedesca, 1976 Presa per mano Sofia coi suoi cinque anni, a Sandokan ci arriviamo passin passetto. Innanzi tutto vediamo la prima puntata di Gian Burrasca, del 1964, per la regia della Wertmuller, con protagonista la diciottenne Rita Pavone che dovrebbe essere Giannino Stoppani di anni dieci. Vabbeh. Ma il vero problema è che lo sceneggiato è letteralmente insopportabile, un cacamento di cazzo teatrale, lentissimo, zeppo di dialoghi verbosi e ripetitivi, con [...]]]> di Dziga Cacace

So join the struggle while you may, the revolution is just a t-shirt away

ddv7101788 – Grandissimo Sandokan del compagno Sergio Sollima, Italia/Francia/Gran Bretagna/ Repubblica Federale Tedesca, 1976
Presa per mano Sofia coi suoi cinque anni, a Sandokan ci arriviamo passin passetto. Innanzi tutto vediamo la prima puntata di Gian Burrasca, del 1964, per la regia della Wertmuller, con protagonista la diciottenne Rita Pavone che dovrebbe essere Giannino Stoppani di anni dieci. Vabbeh. Ma il vero problema è che lo sceneggiato è letteralmente insopportabile, un cacamento di cazzo teatrale, lentissimo, zeppo di dialoghi verbosi e ripetitivi, con messe a fuoco precarie e montaggio inesistente: teatro filmato, ma di quello peggiore (se mai ne esiste uno buono, eh?). E poi la Pavone – quella che ritiene di essere stata citata dai Pink Floyd – canta (continuamente) con le “O” e le “E” chiuse come se venisse dal basso Piemonte. A fine puntata ci guardiamo negli occhi, Sofia ed io, e decidiamo che no, vaffanculo, no. E allora lei mi chiede, con falsa noncuranza, com’è la storia invece di “quel Sandokan là”, se si tratta di quello famoso che “sale e scende la marea, Sandokan ha la diarrea…” e che poi “Marianna, con piacere, gli pulisce il…”. La fermo e mi chiedo come sappia già queste cose: evidentemente il mito ha travalicato le generazioni. O avrò canticchiato io l’azzeccatissima sigla dei fratelli De Angelis, cioè gli Oliver Onions (con clavinet bassissimo e sitar che sferraglia). Fatto sta che le propino il primo episodio e le piace (e non è il migliore). Siccome è figlia mia le viene subito la scimmia e puntata dopo puntata conosciamo uno dopo l’altro il cattivissimo Brooke (dalla piacevole ambiguità), l’astuto Yanez, il ciccione Sambigliong, i compari Giro Batol e Ragno di mare, la virginale e curiosa Marianna, l’elegante colonnello Fitzgerald (con pantaloni così attillati che gli si vede il pitone, manco fosse Mick Jagger) e ovviamente, lui, la Tigre, Sandokan. Che viene subito tradito da un infame e, ferito gravemente, casca in mare. Recuperato a riva ridotto come uno straccio finisce nella casa del ricco commerciante Lord Guillonk, dove passa per essere un nobile locale d’alto rango cui si devono ospitalità e cure. Se ne occupa la giovane Marianna che è turbata dal bel manzo, riconosciuto dalla servitù che non lo tradisce.
Festa dei 18 anni di Marianna e caccia alla tigre, alé. Tremal Naik ne fa secca una, ma quando ne arriva un’altra ancora si fa sotto il recuperato Sandokan. Tremal Naik ammette sportivamente: “Conosco solo due persone che affrontano una tigre corpo a corpo. Una sono io, l’altra è la Tigre della Malesia!”. Baci e abbracci e Sandokan, in volo, apre una bella cerniera addominale al felino. Ma caccia un verso che Tarzan al confronto è un principiante e Sir William Fitzgerald, non di gran cervello ma di udito fine, esclama: “Ti ho riconosciuto dall’urlo!”, manco girasse con Shazam sul cellulare. La Tigre – il magnetico Kabir Bedi – riesce a scappare, imbarcando seco Marianna e siccome i 18 anni sono giusto dell’altro ieri, le rifà la festa, ma sotto coperta. È amore grande, al punto che incappati in mare aperto in Brooke – la sfiga! – Sandokan, per salvare la sua bella, che bella in effetti è (Carole André), pronuncia la fatidica frase: “La Tigre si arrende!”.
ddv1001bPerò nell’anello ha una polverina bianca – avantissimo! – che dà la morte apparente e dopo tre ore, non un minuto prima né uno dopo, chi se l’è pippata si risveglia. Per cui la Perla pretende da Brooke (il maestoso Adolfo Celi) il funerale vichingo esattamente tre ore dopo, non un minuto prima né uno dopo, e quando il malese cala in acqua in un sudario, riesce a liberarsi e a scappare un’altra volta. Torna a Labuan, rapisce Marianna, Yanez (il beffardo Philippe Leroy) li sposa su un praho e i due vanno a vivere felici e contenti a Mompracem. Qui avviene la definitiva maturazione politica della sposa che, a fianco del suo Che (da notare come la fascia intorno ai capelli della Tigre assuma sempre le sembianze di un basco a incorniciare il capello zozzo e lo sguardo fiammeggiante), comprende e appoggia la lotta contro l’imperialismo britannico, prodigandosi a insegnare agli abitanti di Mompracem a leggere e scrivere perché l’emancipazione passa attraverso la consapevolezza, cribbio. Ma il Capitale gioca sporco e l’isolotto subisce una vigliacca epidemia di colera, l’agente arancione de noartri, e poi l’invasione a base di esercito, dayachi tagliatori di teste e navy seals – giuro – che fan gran strage di donne, vecchi e bambini. Sandokan, Yanez e fedelissimi scappano e Marianna ci rimane secca. Lacrimuccia di Sofia. Infine i superstiti prendono il mare, sconfitti e disperati. Ma il popolo ha capito e gli va incontro da tutto il Sud est asiatico sollevato. S’alza la bandiera rossa e Sandokan promette: “La Tigre è ancora viva!”. GRANDISSIMO e Sofia in estasi. Sceneggiato agile, comprensibile da tutti, con sottotesto politico puntuale ed evidente (a guerra del Vietnam appena conclusa: peccato non fosse già portavoce Capezzone, perché si sarebbe scagliato anche contro Sollima) e con buona alternanza di azione e riflessione, aiutato da efficaci ellissi narrative e sostenuto da recitazioni congrue, con un po’ di humour (Yanez) e tanta epica (Sandokan). Mettiamoci poi una musica in cui senti la vanga ma che tutto incornicia perfettamente e alla fine ottieni un capolavoro. Popolare, ma capolavoro. Giuro. (Dvd; agosto 2010)

ddv7102Rock al bacio
Siamo tutti cresciuti coi dischi dei nostri genitori e io sono stato fortunato. Pochi vinili, ma buoni, dall’aulico al burino, ma di qualità: Santana, Creedence, Deep Purple, Emerson Lake & Palmer, Grand Funk, Battisti e Beatles. La mia primogenita, Sofia, ha 5 anni e l’imbarazzo della scelta tra circa 3000 titoli in Cd. Chiaro che allora la copertina di un album diventi il primo indizio per decidere cosa assaggiare e quando ha potuto non ha mostrato dubbi: “Voglio ascoltare quello!”. Quello con le facce truccate dei Kiss, cioè. A 2 anni, del resto, chiedeva insistentemente di vedere i video dell’omo nudo, cioè dell’esibizionista Freddie Mercury. Ora, in un singolare percorso di maturazione musicale mi fa sciroppare i Dvd dei Kiss a rullo (e volete mettere rispetto alla trentesima visione de La sirenetta?). E anche in macchina, solo Kiss. Macchina galeotta dalla quale, quest’estate, ha adocchiato un cartello che annunciava le Kissexy in concerto a Lesa, sul Lago Maggiore. Per Sofia real thing o tribute band non fa differenza (anche per Gene Simmons, si direbbe) e alle 21.30, munita di tappi e previa dormita pomeridiana forzata, la porto al campo sportivo dove Barbara, Sara, Elena e Sergio (la chitarra solista rimane privilegio maschile) porgono il loro omaggio al femminile alla band di Paul Stanley e compagnia dipinta. Le Kissexy se la cavano amabilmente, con repertorio classico, make up fedele, voglia di divertirsi e una bassista linguacciuta che sputa sangue com’è d’obbligo. L’accento lombardo e la bonomia ben poco macha della bella leader danno un sapore casereccio al concerto, ma la messa in scena funziona. Sofia non è l’unica bambina, anzi: di bimbi, sul prato e sulle transenne, è pieno e alcuni hanno anche 50 anni. È chiaro perché i Kiss continueranno ad avere successo: la loro musica è un innocente e pagano ritorno alla nostra infanzia edenica. Imbattibile, specie quando si conclude un gig urlando a squarciagola I-I-I Wanna Rock’n’roll Aaall Night…And Party Every Day! Sofia è contenta e io ripenso al mio primo concerto: già dodicenne, vidi Franco Battiato bedduzzo mio, rimasto poi pietra angolare del credo musicale che informa tutti i miei scritti (e a chi storce il naso ricordo che con Franco c’era la chitarra rovente di Alberto Radius). Sofia ha esordito così, coi Kiss o il loro sembiante, e son sicuro che crescendo non si farà infinocchiare da qualche poser o da una boy band messa su dal marketing di una major. O perlomeno spero. E prego. (Agosto 2010)

ddv7103789 – Lo strepitoso Anvil! The Story of Anvil di Sacha Gervasi, USA 2008
Gli Anvil sono una band canadese di heavy metal dei primi anni Ottanta. Rock zarro, urlato e fracassone, con testi insensati, zuppo di sudore ma suonato con l’anima. Trent’anni fa hanno assaggiato il successo, finendo immediatamente in una spirale discendente che li ha portati ad affrontare tour disastrosi e umiliazioni continue. Anvil! racconta la calata agli inferi e la resurrezione, grazie all’impegno, la testardaggine e anche l’ingenuità di chi, passati i cinquant’anni, non vuole arrendersi e abdicare al suo sogno rock and roll. Il film è splendido, commovente, intenso e vive di due straordinari protagonisti: il primo è il chitarrista Lips, cocciuto cuore d’oro incapace di arrendersi e pronto a ricominciare dopo ogni clamorosa batosta (e nel film se ne vedono di tremende, come suonare davanti a cinque persone, tra l’altro disinteressate), coinvolgendo familiari e amici; e poi c’è Robbo, il batterista malinconico e cinico che fuma un joint dopo l’altro e dipinge improbabili nature morte, inseparabile da Lips. Ne viene fuori una storia che racconta la miseria del business, ma anche la grandezza del sogno e la forza della volontà a dispetto di ogni evidenza. Il documentario è costruito drammaturgicamente da dio (sospetto rifacimenti e accordi, ma chi se ne frega) e si arriva al finale col cuore in gola: ce la faranno, stavolta? L’ho visto – assente Barbara – con la cugina Alessandra, che s’è fidata di me ma che ha anche vacillato alle prime battute: rock durissimo in documenti sgranati d’epoca e testimonianze di Lemmy (Motorhead), Lars Ulrich (Metallica) e Slash (Guns n’Roses). Ma ci vuole poco a comprendere che non conta il genere musicale e che non si tratta di un documentario per appassionati metallari: questo capolavoro di Sacha Gervasi (il colpevole di The Terminal: chi l’avrebbe mai detto?) è un film per tutti perché racconta una storia universale. L’heavy metal è solo il contesto e, anzi, dà più sapore. Come l’impagabile, improvvisata e improbabile manager veneta che accompagna la band: non sa l’inglese, non saprebbe fare il suo mestiere neanche parlando italiano e bestemmia tutto il tempo come un carrettiere. E come puoi non voler bene anche a lei? (Dvd; 30/8/10)

ddv7104790 – L’abisso e l’estasi di Man on Wire di James Marsh, USA/Gran Bretagna 2008
Il sogno e la follia di camminare sospesi per aria, di volare dove nessun altro uomo è in grado di farlo. Questo l’obiettivo di Philippe Petit, il funambolo che il 7 agosto 1974 ha tirato un cavo tra le due torri gemelle di New York, non ancora inaugurate, e poi ha fatto avanti e indietro per 45 minuti, con la polizia in attesa che si stufasse per poterlo arrestare. Oggi lo seccherebbero con una fucilata dopo 5 minuti. Ma anche il fatto che “oggi” le torri non esistano più dà un sapore diverso al documentario e soprattutto una dimensione metafisica alla stravagante impresa, misto di ambizione suprema, visionarietà, egocentrismo e coraggio al limite della stupidità. Per dimostrare cosa, poi? Il film di Marsh investiga sia la psicologia del protagonista (affetto da sicuro delirio d’onnipotenza) che dei suoi compagni d’avventura, gente di cui all’epoca non si seppe più nulla e dei quali invece oggi vediamo le conseguenze a livello umano. Petit trascinò gli amici più cari (tutti disgraziati, che spariscono di fronte alla sua personalità debordante) e tutti si misero a disposizione, rischiando in proprio per lui: c’è chi andò via, chi continuò ad appoggiarlo in sfide assurde (ma mai come questa), chi ancora oggi piange a ripensarci. Per cui Man On Wire racconta anche di potere, forza di persuasione e tradimento, con Petit diventato ricco e famoso e tutti gli altri caduti nel dimenticatoio. Il racconto è teso come il filo su cui Philippe cammina, costruito in maniera intelligente, con materiali originali splendidi (e incredibili: ‘sto qua lavorava alla costruzione del mito di se stesso già prima dell’esibizione definitiva) e da ricostruzioni che non disturbano, ma legano meglio il racconto quando mancano i raccordi originali. E poi siamo sospesi nella musica di Erik Satie a 450 metri di altezza o baldanzosi nel farci 110 piani a piedi incalzati da quella di Michael Nyman. Un film bellissimo e anche se sai fin dal manifesto/spoiler del film come andrà a finire, continui a dirti: no, è impossibile, non ce la farà mai. E invece. Pazzesco. (Dvd; 31/8/10)

ddv7105792 – ‘Na pallata La storia infinita di Wolfgang Petersen, Repubblica Federale Tedesca/USA/Gran Bretagna 1984
Dunque: a 13 anni lo avevo schifato e avevo già ragione da vendere; ovviamente a Sofia è piaciuto moltissimo mentre io ho rantolato per buona parte della pellicola. Dal romanzo di Michael Ende (che non ho letto né mai lo farò) è venuto fuori un film evocativo, lento, con l’eroe – alter ego del piccolo Bastian che sta leggendo un libro magico – che affronta diverse prove non particolarmente memorabili o tese, a dir la verità, per fermare il Nulla che sta invadendo il regno di Fantàsia. Sento la consueta mano pesante tedesca e a parte il protagonista – che però non sa recitare – i bambini hanno facce orrende. I mostri da combattere, in compenso, non possiedono alcun fascino e sfiorano il ridicolo (un cane-drago che sembra un peluche, un uomo di pietra che pare uscito da una parodia, cose così). L’improbabile Limahl (dei Kajagoogoo) sottolinea il tutto con una canzonaccia che solo a nominarla poi ti rimane in testa per una settimana. Ecco, infatti. Mah. Era un film per bambini, per cui avrebbe dovuto scriverne direttamente Sofia, però ho ragione io. (Dvd; 5/9/10)

ddv7106793 – Telefonato ma perdonabile: Le concert di Radu Mihaileanu, Francia 2009
Trappolone emotivo inevitabile! Era un grande direttore d’orchestra, Andrey, ma il compagno che sbagliava Brezhnev lo ha rovinato e ancora oggi è costretto a pulire i cessi del Bolshoi per vivere. Grazie a un sotterfugio s’imbarca in un’operazione impossibile: riprendere a Parigi il concerto interrotto 30 anni prima a Mosca, con la vecchia orchestra e una giovane, nuova, violinista (Mélanie Laurent, sono ufficialmente innamorato). Si ride e ci si commuove per un finale preparato a puntino, che più ricattatorio non potrebbe essere, accompagnati da un Čajkovskij ineludibile. Il concerto un film caruccio, furbo, ma anche – nella sua svagatezza e nei suoi eccessi sparsi qui e là – ben fatto. Io l’ho visto in francese ma per curiosità ho rivisto alcune parti in italiano, con una resa linguistica che definire allucinante è un eufemismo. I russi – ma neanche tutti! – parluano cuosì, come in brutto film della guerra fredda. Senza parole, ma del resto abbiamo i migliori doppiatori del mondo. Come gli arbitri e i portieri, insomma. (Dvd; 5/9/10)

ddv7107794 – Il lacerante Videocracy di Erik Gandini, Svezia 2009
Non un documentario, un horror. E un film a tesi, ahimé, e scrivo ahimé perché a tanto siamo dovuti arrivare per raccontare la genesi e l’ascesa del regime berlusconiano, alimentato da dosi massicce di nudo femminile in tivù. Ora, chi vuol chiamarsi fuori offeso (leggi Antonio Ricci) fa le pulci a Videocracy e sottolinea i tanti errorini storici, che però non sono sostanziali. È inutile dire “non ho cominciato io”, il problema è che tu hai proseguito, caro mio, altro che satira dell’allora presente. E il problema non è soltanto la mercificazione della donna ma tutta la televisizzazione della società e pensare (perché è questo l’inganno in cui spesso si cade) che la televisione metta in scena solo la realtà, mentre purtroppo la produce e riprendendola la amplifica, in un loop mortale. Il monito o la constatazione serve e servirà, ma per fortuna non è ancora solo così (credo, spero), ma questo è quello che appare e anche Gandini sembra cascare nell’equivoco che la rappresentazione sia la realtà. Però questi son discorsi che non so affrontare, dài. Penso che una sana prospettiva storica dovrebbe ricordare come nel fermento di fine anni Settanta fosse cominciata un’esibizione del corpo femminile che per alcuni era liberazione, per altri trasgressione, per altri ancora provocazione e per i più furbi semplice sfruttamento di un’onda lunga inizialmente sincera e libertaria. Poi ha vinto la linea marpiona, ma non credo si possa leggere dietro un complotto berlusconiano preciso, mi sembra invece una naturale evoluzione capitalistica: vado dove si fa denaro. E il sesso – sinché il portafogli lo gestisce il maschio – produce denaro, molto. E consenso, ipocrita ma palpabile. Simple as that. Berlusconi non è la causa (o la sola causa), ma piuttosto lo strumento, l’espressione, l’interprete perfetto (e l’effetto) di questa Italietta che non impara mai, che perde la testa davanti a una tetta e si corrompe non appena circolano un po’ di soldi. E che preferisce apparire che essere, tanto che la messa in scena è arrivata al governo e spadroneggia da 15 anni. Ci siamo americanizzati al peggio, senza quelle due o tre regolette etico-morali fondamentali cui gli americani tengono molto, ipocritamente, ma molto. Nella carrellata di mostri, oltre al ducetto che sappiamo, anche Lele Mora (agente di spettacolo e veicolatore di monnezza) e Fabrizio Corona, paparazzo e orchestratore di gossip nonché protagonista in proprio di vita da divo gossipabile. E Corona che si sgrulla l’uccello per farlo sembrare più grosso e lungo è la sintesi perfetta dell’italiano di oggi: uno sfigato che si mena il belino per sentirsi superdotato e non ha letteralmente più un cazzo, se non l’apparenza. In questo senso è volutamente emblematica la clamorosa scena finale delle aspiranti veline che ballano indipendentemente, come se fosse la volata finale di tappa, ognuna impegnata a dare il meglio (e il peggio) di se stessa, senza neanche ascoltare la musica, una contro le altre, per l’occhio del selezionatore. Diventare visibili, prendere vita nella rappresentazione catodica. Un momento di televisione che diventa cinema altissimo. Film bello, non risolto e anche impreciso ma lacerante e che rivisto tra trent’anni ci farà chiedere quale (ulteriore) sorta di ipnosi avesse soggiogato il Belpaese. (Dvd; 8/9/10)

ddv7108795 – L’orrendissimo Sojux 111 Terrore su Venere di Kurt Maetzig, Repubblica Democratica Tedesca/Polonia, 1960
C’è l’Alessandra a cena e dopo esserci saziati con una pastasciuttina da urlo condita con un sughetto surgelato misto mare probabilmente velenoso ma efficacissimo, procedo al consueto rosario di film per la serata. Le due cugine mi schifano tutto, specialmente la mia collezione di oldies but goldies elegantemente in black and white e non avendo nulla di moderno (non contemporaneo, proprio moderno, cioè dai Settanta in poi) allora andiamo sull’originale: fantascienza della Germania Est. Alé: giubilo per l’originale trovata! Pensa domani, in ufficio: “Ieri sera ho visto un film della Repubblica Democratica Tedesca!”. E bastano pochi secondi di titoli di testa per capire che invece abbiamo fatto una vaccata siderale. La vicenda è squallidissima e scopertamente propagandistica: i paesi fratelli del Patto di Varsavia organizzano una spedizione alla volta di Venere per scoprire che l’olocausto nucleare ha annientato i venusiani, monito a tutti popoli a non rifarlo sulla Terra; ma soprattutto il concetto esplicito è: mi sto rivolgendo a te, pezzo di merda americano che sei già stato responsabile di Hiroshima (nome ripetuto nel film almeno 4 volte dalla figlia di una sopravvissuta all’atomica). L’equipaggio della missione è un misto di razze e popoli per dimostrare l’ecumenismo socialista, mica come noi capitalisti razzisti (e in effetti io un astronauta negro non l’ho visto ancora, se non in Capricorn One). L’ambientazione è nel futuro 1982 e son tutti vestiti come negli anni Cinquanta, e vestiti male, come ci si poteva conciare allora in un paese comunista (di quel comunismo lì, intendo). Le divise spaziali, in compenso, anticipano brillantemente quelle dei Teletubbies. Il doppiaggio regala qualche furbata, come la previsione della diplomazia del ping pong del 1972 tra Nixon e Mao (era Chou En Lai: stai a vedere che ‘sti qui ci hanno quasi azzeccato, 12 anni prima… ma no, non è possibile, dài). Gli attori sono di una staticità commovente e con delle facce tristissime, da alimentazione precaria: dentature sconnesse o rade, occhi sporgenti o incavati, e tutti o calvi o con ciuffi assurdi. Ma la vera mazzata è data dallo script, di una lentezza esasperante, senza tensione, ritmo o almeno qualche invenzione futuribile (ah sì, c’è l’incredibile freno a mano dell’astronave, utilizzato mentre s’incappa in una tempesta di meteoriti!) e piagata da dialoghi ridicoli con cifre ed elementi chimici buttati lì, che fanno tanto fantascienza, tipo (invento):“Hai visto la reazione gamma del biofloruro di Izbenio 58?”, “No, dottore, la temperatura pentatonica era ormai prossima alla sublimazione H”, supercazzole così. Insomma, ‘sto Sojux 111 è una tavanata realmente galattica, dal fascino visivo naif e orbo di qualsivoglia drammaturgia. Ispirato al romanzo Il pianeta morto di Stanislav  Lem, che non volle avere niente a che fare, giustamente, con questa stronzata spaziale. Come qualche criticonzo possa parlarne come di un capolavoro è emblematico della ragione mercantile della professione. (Dvd; 18/9/10)

ddv7109Popa Chubby: the Blues is Alright!
Se BB King vi sembra grasso, non avete mai visto Popa Chubby. E se credete che il blues sia un genere vecchio, significa che non lo avete neppure ascoltato. E Popa su disco è una cosa (generalmente buona, molto buona) e dal vivo un’altra, buonissima: sudore e lacrime, rabbia e dolcezza, sigaretta e caffè. Fraseggio fluido, innesti soul, rock e hip hop sulla tradizione, tono Fender inarrivabile. Un autentico bluesman urbano di questi tempi, che commenta ciò che accade sulla terra e non la manda a dire, e suona come se ogni concerto fosse l’ultimo. Ebreo newyorchese con nonni italiani, non è educato, non è elegante, Popa, ma ha una sua tifoseria precisa che ne apprezza la schiettezza e l’irruenza musicale verace. Siccome passa da Milano per un omaggio hendrixiano ricco di ospiti (tra cui Tolo Marton e Vic Vergeat di cui il vostro scribacchino vi ha già parlato in passato), approfitto. Ci dobbiamo incontrare a pranzo ma quando sono in prossimità del suo albergo mi arriva una telefonata: Popa è fuori combattimento, è stato male in nottata. Rinvio a dopo il soundcheck, ma a mezz’ora dall’intervista la vetusta Ka rossa mi molla sotto casa. La mente gira a mille e siccome sono affilato come un bisturi penso: ruote! Prendo la bici che non uso mai e affronto il traffico stocastico di Milano riducendomi il culo come quello di un babbuino, e non solo cromaticamente. Assisto a delle prove dove s’improvvisano assoli celestiali e poi intervisto il bluesman di New York mentre monta le corde della chitarra. Popa ha la faccia tenera da bambinone cresciuto a dolciumi. Ha una voce scartavetrata splendida ed è umile e puntuto, non dice mai una cazzata. In passato si è apertamente schierato contro Bush con testi espliciti e diversi vaffanculo col dito medio (tra l’altro – dopo centomila morti gratuiti in Iraq – perché il tribunale dell’Aia non lo processa, Bush?) e oggi è molto deluso da Obama. È indignato per lo stato della sanità statunitense e tante altre cose che non riescono a cambiare. Azzardo, come Fantozzi col megadirettore: ma sarai mica… comunista? Ride: no, dice di essere un convinto capitalista, dove però non vince uno solo, ma un po’ tutti… “Forse”, aggiunge, “sono un po’ socialista”. Al netto della confusione ideologica e del classico pragmatismo yankee, gli chiedo se ne scriverà e mi risponde che lui cerca solo “un buon riff e una rima che funzioni”. Da buon papà sta imparando dai figli e parla con ammirazione di Dr. Dre e Snoop Dogg, confermandomi che il progetto di fondere blues e hip hop potrebbe avere un futuro. Poi, serata buona ma pubblico milanese un po’ freddo di fronte alla sua chitarra incandescente. Tornerà ancora da queste parti: oh, ci vediamo sotto il palco, ragazzi. (Teatro Ciak, Milano; 22/10/10)

ddv7110798 – Il Labyrinth in cui s’è perso Jim Henson, USA/Gran Bretagna 1986
Film da grandi, Barbara e io, non riusciamo a vederne più, per cui finisce che un Labyrinth evitato accuratamente da adolescente diventi qualcosa da vedere oggi, papà ultraquarantenne, assieme a Sofia. Con grande nocumento, perché questo fantasy infantile, tra ingenui effetti col blue back, pupazzoni da Muppet Show (di cui effettivamente Henson era il creatore) e numeri musicali eterni, è una menata di cazzo labirintica ed estenuante. Dopo un ¼ d’ora ero già scoglionato, sorpreso dalla recitazione urlata e dall’apparizione di un Bowie pettinato a metà strada tra Tina Turner e Solange. Certo, Jennifer Connelly era incantevole anche nei suoi paffutelli quindici anni e c’è pure qualche bella invenzione scenografica (il pozzo di mani o i battiporta parlanti), però, no, io queste cose non le capisco, non ci arrivo. Sofia, ovviamente, ha apprezzato molto. Dopo un clamoroso flop all’uscita, Labyrinth è diventato col tempo un film di culto. Non chiedetemi come e perché. (Dvd; 23/10/10)

(Continua – 71)

Il Cacace mette i dischi su Twitter @DzigaCacace

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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