Semmelweis – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Chiamate telefoniche – 8 https://www.carmillaonline.com/2020/06/03/chiamate-telefoniche-8/ Wed, 03 Jun 2020 21:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60612 di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il [...]]]> di Piero Cipriano

In fin dei conti era chiaro che il virus aveva contagiato, ma in un altro modo. Le persone otto su dieci non volevano credere che non esistesse più. Non solo che fosse scomparso, ma neppure che si era indebolito erano disposti a credere. Non bastava che Tarro o Montagnier ormai squalificati dalla scienza avessero sin dal principio profetato la sua scomparsa estiva, ora anche i medici integrati alla scienza, come il medico a cui Berlusconi aveva consegnato la sua longevità lo diceva, che il virus aveva concluso il suo mandato, aveva rassegnato le dimissioni, ma ecco che il ministro (senza) Speranza in persona, quel nano politico che il virus aveva trasformato in gigante e che giustamente temeva il rapido ritorno alla sua reale statura, repente lo smentisce dice è sbagliato affermare che il mio amato virus non esiste più, il popolo italiano si sa è un bambino quello poi si confonde e si leva la maschera di bocca sei un terrorista, Zangrillo, già eri sospetto perché volevi far vivere a tutti i costi oltremisura il nemico pubblico numero uno, ora invece lo vuoi far morire a tutti i costi il nemico pubblico numero uno ma chi ti capisce.

Insomma, ora vengono allo scoperto, a difesa della longevità del virus, tutti quei politici che sono stati dal virus trasformati da normali amministratori in piccoli despoti, potendo abusare di una inconcepibile sospensione della nostra amata Costituzione, la più bella del mondo, tanti capi di stato, feudatari, governatori, reucci, ducetti, viceré, ogni comune un sindaco che all’improvviso si è sentito plenipotenziario, la massima autorità sanitaria locale capace di minacciare TSO a chi non voleva farsi tamponare la gola, o di bloccare i confini in entrata e in uscita, eravamo ritornati all’epoca dei comuni. Gli esperti. Da Colao a scendere. Quelli, poi, hanno ognuno il suo interesse che l’emergenza duri il più a lungo possibile. I cittadini. I più. E non gli pare vero avere un alibi per non uscire non toccare non sorridere stare sottoterra come le talpe.

La situazione era questa, e io me ne stavo su una panchina nel parco dell’ospedale, avevo lavorato gli ultimi mesi marzo e aprile quelli in cui anche nel centro sud dell’Italia attendevamo la discesa del virus che chissà perché aveva deciso di rimanere solo in Lombardia, avevo lavorato ben diciotto ore in più, non solo, a volte, smontando dal turno, invece di mettermi in macchina a superare i posti di blocco spiegare al poliziotto che davvero ero un medico eroico e epico e abnegato nonostante i capelli sempre più lunghi da hippie perché non li taglio? sono forse aperti i barbieri? Aprano i barbieri invece delle librerie e io mi taglio i capelli, invece così con questi capelli lunghi da indiano al massimo vado a comprarmi un libro che libro?

Adottavo insomma questa tecnica, uscire dal nosocomio ma non uscire, stare un po’ sulle panchine dell’ospedale e poi andare nel vicino (qualche centinaio di metri) parco dell’ex manicomio di Roma Santa Maria della Pietà a telefonare ai morti, l’aria di Monte Mario d’altra parte è la migliore di Roma, è un po’ vicino all’ospedale mi si dirà, potrebbe essere ancora infestata dai vibrioni, ma da qualche anno mi era scomparsa inesorabilmente l’ipocondria, la compagna di una vita, che mi ero custodito per quarant’anni almeno nei miei complura viscera quae sunt in hypocondris ora, senza neppure un saluto un arrivederci o un addio, se n’era andata. Mi faceva comodo, mi avrebbe fatto comodo ora come ora un briciolo di ipocondria, non dico la maior almeno la minor invece niente non dico quella cum materia almeno quella sine materia invece niente, pare che di morire, da un anno a questa parte, non mi freghi quasi più niente, tutti si tappano ancora la bocca con maschere su maschere (c’è chi mette una sopra l’altra quella altruista con quella egoista credendo di fare la maschera intelligente invece fa solo fame d’aria) io niente, tergiversavo intorno al nosocomio, sembravo in servizio ma non ero a servizio, ero dentro ma ero fuori, ero stimbrato ma ragionavo come fossi timbrato.

Avevo una serie di morti che da un po’ volevo chiamare. Quale migliore occasione, se non ora che tutti avevano paura di diventare morti. I vivi d’altra parte dice quel morto di Kafka sono dei morti non ancora entrati in funzione. Infatti i morti che volevo chiamare erano gli scrittori, gli scrittori che avevo sempre considerato esseri superiori, una specie di telepati, provvisti di un cervello capace di scrutare il futuro, in questi mesi gli scrittori vivi li avevo indovinati quasi tutti (non posso dire tutti, ma i più) spaventati, avvolti nelle loro mascherine da scrittore, la mano da scrittore picchiettava stancamente, atterrita, sui tasti del computer, attraverso un guanto blu, lo scrittore in guanto blu era diventato un fumetto, un puffo, dove si erano nascosti gli scrittori vivi che temevano di morire e mettere fine alla propria carriera di scrittore?

Sandro Veronesi forse? Che nonostante tutto continuava a fare la psicanalisi dalla psicanalista lacaniana (se cade il mondo l’ora psicanalitica mica si ferma) e il giorno prima siccome sa che il giorno dopo è giorno di ora psicanalitica sogna e chi sogna? Un cenacolo, in cui non possono essere più di sei se no il settimo muore e la psicanalista esperta polisemica (mica per niente è lacaniana) gli fa notare che sei non è solo numero ma è verbo essere, essere morto, lo scrittore vivo che teme di essere morto, oppure Francesco Piccolo che raccoglie il testimone di Veronesi per questo scritto su Lettura e, fobico intabarrato, fa il giro dell’isolato non un metro di più dei duecento previsti dal decreto. O Emanuele Trevi che pure lui scrive cose davvero notevoli però ora non me ne ricordo nemmeno una forse non me le ricordo perché mi ricordo che pure lui è un adoratore del dio Prozac e una volta disse, correggendo Jung, non è vero che gli dei sono diventati malattie, gli dei sono diventati psicofarmaci, ma questo purtroppo è un vizio degli scrittori dal più grande (DFW) al più minuscolo, quello di affidarsi non più al mistero eleusino ma al doping di Big Pharma, ma da molto tempo ormai eh?

Mi ricordo di Patrizia Cavalli, che ora si becca il Campiello (ancora fanno il Campiello gli industriali del Veneto?) ma che tempo fa campeggiava una sua foto degli anni Ottanta, dove convengo che era proprio figa, dice ha avuto il cancro, è guarita ma si è depressa. Però coi farmaci ha sempre avuto un bon rapporto. Una sua poesia pare fosse Deniban, calmante maggiore. Dice che le medicine che le piacevano erano le anfetamine. Quelle, quando si trovavano, erano una meraviglia. “Quali altre medicine ci sono, se no, per scrivere poesie?” Elsa Morante, che nel 1968 l’accolse, e la fece poeta, evidentemente le passò pure il trucco di poetare meglio con le anfetamine. Ah cazzo, come faccio a togliere le pasticche al mondo se gli scrittori sono la migliore pubblicità per il manicomio chimico? Poi ci sono quelli come la Murgia che sono sempre su di giri di natura e lo capisci da lontano che gli antidepressivi non se li prendono e ciononostante pure straparlano lo stesso come quando, in una crisi di presenza, insulta Battiato lo insulta solo perché Battiato ha previsto anzitempo la fine e si è ritirato dal mondo a viaggiare in spazi cosmici con navi interstellari. Gli scrittori vivi erano diventati tutti, in queste settimane dove la morte era nell’aria, pressoché inutili, inservibili, perché tutti (anche quelli mezzi morti già da prima, come Houellebecq) erano stati ammutoliti dal virus. Balbettavano. Incespicavano. Il virus come gli avesse detto: scrittori vivi, non l’avete capito che voi siete scrittori morti non ancora entrati in funzione?

La prima chiamata, proprio come uno sciamano che sa stare sia nel mondo dei vivi sia nel mondo dei morti ma soprattutto sulla linea di confine, la faccio al cileno. D’altra parte, queste chiamate telepatiche sono una sua invenzione. Me le ha suggerite lui. L’ultima sua cosa che ho ri-letto proprio ieri, la parte finale di 2666, dove l’editore Bubis arruola Benno von Arcimboldi e lo interroga sul suo nome de plume, che è ovvio sia inventato, e gli chiede Benno sta per Benito Mussolini? E lui no, sta per Benito Juarez, e Arcimboldi sta per Giuseppe Arcimboldo ma perché von? Per dimostrare la tua germanicità? Al che Arcimboldi si alza e dice ridammi il manoscritto che me ne vado ma lui fa vai nell’altra stanza da mia moglie, a firmare il contratto. Guardo una foto a caso di Bolaño, prendo il telefono lo chiamo gli domando perché è morto. Morto presto, voglio dire. Avevi il Nobel da riscuotere. Trenta libri ancora, da scrivere dai cinquanta agli ottanta, e arrotondo per difetto, farmi compagnia, ogni tanto guardo la tua foto e penso che non sei morto, sarai di sicuro tornato in Cile a vivere senza fegato, senza fegato non si può più scrivere, non sei morto, magari ti sei semplicemente scordato come si scrive. Ma sento che con lui la chiamata sarebbe molto lunga e potrebbe non finire mai, ci sarebbe bisogno di un libro intero di 2666 pagine solo per una chiamata telefonica con Bolaño allora attacco, tanto lui non se la prende, lo sa come vanno queste cose.

Passo senza indugio a David Foster Wallace, DFW era un depresso. Io sono uno psichiatra. Che coppia saremmo stati, David. Voglio dire. Avrei saputo rimpinzarti ben bene di farmaci sì da non indurti al suicidio. Almeno credo. Tu in cambio mi avresti dato dei consigli di scrittura, consigli che io avrei fatto finta di ascoltare ma poi avrei dimenticato. Sicuramente non messo in pratica. Ci mancherebbe. Che io mi facessi contaminare da uno che si dopava con gli antidepressivi. Non dici niente eh? Ci credo, voglio proprio vedere come mi contraddici.

Ciao Philip (Philip Roth). Dicono che ti scopavi le fan. Magari è per questo che non ti hanno dato il Nobel per la letteratura. Invidia. E’ tutta invidia, senti a me. Sai, pure io ho qualche chance. Di non averlo, voglio dire, il Nobel. Io potrei non averlo per la medicina, intendo. Se pensi, d’altra parte, che l’unico Nobel dato a uno psichiatra l’ha preso Moniz, il lobotomizzatore, ne avrò più merito io, o no?

Giuseppe Berto. Peppino! Era da un po’ che te lo volevo dire. Mi sa che eri il più ganzo dei romanzieri italiani. Volevo solo salutarti. E scusarmi con te che per colpa del pregiudizio che avessi fatto un romanzo psicanalitico (sai io ce l’ho un po’ su con gli psicanalisti, dei montati di testa) non ho letto Il male oscuro, assoluto capolavoro, fino a due anni fa. Assurdo. Devo ringraziare Nicoletta Bidoia, la poetessa trevigiana della scena muta, se ti ho letto.

Devo trattenermi a questo punto dal chiamare Mario Tobino per dirgli in faccia che era senz’altro uno psichiatra che sapeva scrivere ma non sapeva fare lo psichiatra, non come lo intendo io, almeno, stava lì, un parassita del manicomio di Maggiano, a scrivere le povere donne, le povere donne, gne gne, invece di liberarle. Un pessimo esempio di uno psichiatra scrittore. Tutto ciò che uno psichiatra scrittore non deve essere. Infatti, non lo chiamo, non voglio trattarlo male. E’ pure morto, povero Tobino.

Invece, Franco Basaglia non era uno scrittore, ma era uno psichiatra che scriveva, stilisticamente male, perché se ne fregava del Nobel per la letteratura (poi gli piaceva Sartre, figurarsi il modello di scrittura) voleva distruggere il suo incubo, il suo incubo era il manicomio, il manicomio in cui mica lo sapeva dove si andava a cacciare, l’inferno in terra era e lui aveva fatto tredici: aveva vinto il posto di direttore dell’inferno. Non chiamo nemmeno Basaglia. Sarà lui a chiamare me, un giorno di questi. Vuoi vedere, che mi ha chiamato perfino Semmelweis e lui, proprio lui, non si fa vivo. Per così dire.

Chi c’è alla B dopo Berto e Basaglia che varrebbe proprio la pena di chiamare adesso come adesso? Un anarchico, chi c’è di scrittore anarchico? Non se ne trovano di scrittori anarchici manco a pagarli. Ah ma c’è Luciano Bianciardi, come ho fatto a non pensarci prima, la sua vita agra, lascia la provincia grossetana, si ficca in una stanza d’appartamento di Milano con Maria Jatosti che non era la moglie bensì l’amante, lui dettava lei batteva (a macchina, si capisce), poi arriva un giorno la moglie, e si divorziano, poi finisce a Rapallo, al sole, ma il freddo di Milano gli si è accumulato nelle ossa, ormai, e quello il freddo quando si ficca nelle ossa è difficile poi smuoverlo, come un inquilino rognoso che non vuol più lasciare la tua casa, e il vino nel fegato, e le sigarette, a milioni nei polmoni. E muore. Come tutti, d’altra parte. Non ti è riuscito, eh Luciano? di non morire. Eppure, Luciano, scommetto che a vent’anni mica ci pensavi, che saresti morto. Pensavi di mettere una bomba al torracchione, pensavi. Altro che morire. Ah si potesse tornare indietro, nella vita. Ma non è detto, sai Luciano? Secondo i teologi di Borges il tempo è circolare, magari a un certo punto si ricomincia tutti a girare. E tu ti ritroverai lì, col torracchione davanti e prima o poi ce la fai a fare il gran botto.

Borges lo chiamo un’altra volta, ora pure a lui non saprei che dire, troppo impegnativo, con lui come parli sbagli. Dopo la B viene la C, Canetti è troppo impegnativo quasi come Borges, e Calvino non mi pare il caso, passo alla D. Dice che Dante, il nostro poeta nazionale, è il punto più alto della poesia europea, delle due americhe, e di tutto il mondo. Che non c’è n’è per nessun altro, che sarebbe impossibile per chiunque aggiungerci qualcosa, ma non perché non lo sappiamo fare ma perché non c’è né movente né scopo. E fa l’esempio del fabbricatore di sedie, in un mondo pieno di sedie eterne, che fa? Le fabbrica comunque, giacché questo sa fare e gli piace farlo e non sa far altro, però siccome quelle sono indistruttibili e per di più inarrivabili comincia a farle a tre piedi poi senza piedi poi sgabelli senza schienale infine prende un pezzo di legna e lo chiama sedia. E dunque a maggior ragione le genti si servirebbero delle sedie vere, indistruttibili, eterne. Rodolfo Wilcock ha questa capacità di farti passare la voglia di fare sedie. Il problema è che Piccolo o gli scrittori afoni che il virus ha sgamato non leggono Wilcock e si ostinano a continuare a scrivere. Questo è il problema. Che siamo pieni di sedie senza piedi senza schienale senza seduta e senza paglia e senza legno e li chiamiamo i libri degli scrittori italiani che sono (ancora) vivi. Ecco cosa. A chi chiamo adesso a Dante o Wilcock?

Chiamo a Cechov. Si torna alla C. La C è una signora lettera. Cechov Céline e Cipriano, tre medici scrittori. Che differenza c’è tra loro tre? Vediamo chi indovina. Ma che io sono vivo e loro morti, questa l’unica differenza. Cechov disse che magari il nostro universo è la carie di un dente di un gigante. Un gigante che vive su un pianeta gigantesco e sovrappopolato di giganti. Giganti per di più abbastanza evoluti da aver inventato i dentisti. Un dentista gigante tra poco gli caverà il dente marcio, e la carie che c’è dentro, che corrisponde al nostro universo, collasserà. Questo sarà il contrario del big bang. E di Cechov, e pure di Wilcock (secondo cui un narratore non è un narratore vero se non conosce pure la teoria della relatività, oltre alla psicologia delle api, naturalmente, e alla psicopatologia dei virus, aggiungo io, che in questo campo sono un maestro, con modestia), per non dire di me stesso, non resterà nemmeno il ricordo.

Voglio restare un po’ su Wilcock, perché penso che Wilcock sia uno scrittore morto ma che essendo ancora vivo (come Bolaño, naturalmente) anzi più vivo di scrittori vivi biologicamente (ammesso di saperlo cosa significa, di sicuro gli scrittori vivi non lo sanno) ma morti in tutti gli altri sensi, sì, insomma, ne vedremo delle belle, ancora, con Wilcock, basta solo ricordarsi che Wilcock esiste. E stare lì ad ascoltarlo.
Lo stesso non riuscirò mai a dirlo per Gombrowicz. Lo so Bolaño che ci resti male, ma Witold è assurdo, e io non li resuscito mica gli assurdi. Ancora ti maledico, poeta cileno, per avermi istigato a comprare Ferdydurke e, non bastasse, vedi a che punto mi fidavo di te, pure le sette lezioni e mezza di filosofia ho comprato. Anzi no, Corso di filosofia in sei ore e un quarto. Ovviamente mi sono guardato bene dal leggerle. Maledetto Bolaño. Assurdo Gombrowicz.

Ovviamente il quarto d’ora finale (stavo scrivendo d’ira) del suo corso di filosofia fatto apposta alla moglie e a un amico per sopportare l’agonia degli ultimi mesi visto che i due si ostinavano a non volergli procurare né pistola né veleno, era dedicato a Marx. Che ridere. C’è ancora gente al mondo che cita Marx. Non sto dicendo Kropotkin. Ma Marx. Va be’. Probabilmente non ci ho capito niente di Ferdydurke, e del Gingio, questo Peter Pan che saremmo noialtri l’uomo moderno incapace di crescere e di prendersi le sue responsabilità, la responsabilità di stare nel mondo come dei morti non ancora entrati in funzione, e devo rileggere assolutamente Gombrowicz il paladino dell’anti-forma per capire entro che forma intesa come maschera comportamento stile sono come tutti gli altri del mio tempo condannato a recitare. Witold: a noi due!

Primo Levi vince il concorso letterario più idiota dell’anno. Lo indice un giornale la Repubblica che continuavo a comprare quasi tutti i giorni ma a tutto c’è un limite. Il limite è il concorso più idiota dell’anno. Un concorso dove possono accedere (senza avergli chiesto il consenso) solo i morti. Perché Primo Levi è morto. L’11 aprile 1987 Primo Levi si getta dalla tromba delle scale non perché non tollerava la vergogna d’essere sopravvissuto al campo di sterminio, figuriamoci, mi dice qui in questo manicomio al telefono uno dei pochi (gentilissimo) che mi ha risposto, per mia fortuna fui deportato ad Auschwitz solo nel 1944, sottolineo solo, sottolineo fortuna, perché Auschwitz è stato il dono, il lager è stato la cosa da scrivere. La fortuna, si dirà, è cieca. L’11 aprile 1987, dico a Primo Levi che (gentilissimo) mi ascolta dal suo mondo dei suicidi, correvo per la tromba delle scale di casa mia per andare al liceo, ultimo anno, l’anno dopo mi iscriverò a medicina, e dopo a psichiatria, e dopo, cioè ora, lo so che nel 1987 gli antidepressivi in commercio (siccome gli SSRI non sono ancora usciti) sono i triciclici che danno stipsi e disuria e se uno come Levi ha fatto l’intervento alla prostata li deve interrompere se no troppi i fastidi e se interrompi ex abrupto gli antidepressivi poi ti getti dalla tromba delle scale. Stesso motivo di David Foster Wallace. La sospensione dell’antidepressivo. La fortuna si dirà, è cieca.

Pensavo che la telefonata fosse finita ma lui aggiunge: il successo di uno scrittore è stocastico. Se non avessi avuto la fortuna di essere deportato ad Auschwitz solo nel 1944. Se nel 1954 non fosse stato pubblicato il Diario di Anna Franck. La fortuna, si dirà, è cieca.

Invece Basaglia andò non da prigioniero, in quel lager al confine tra est e ovest, attraversato dalla cortina di ferro, ma da direttore dello sterminio. La sua fu giocoforza una scrittura pragmatica, narrazione al servizio della rivoluzione. Niente riletture e riscrittura. Buona la prima, al massimo la seconda. Franca Ongaro ripassava, aggiustava la forma, le idee disordinate, e via. Il successo di uno psichiatra è stocastico. Se non avesse avuto la fortuna di essere deportato a Gorizia solo nel 1961. Ora avremmo un lager per ogni provincia d’Italia, ancora. E io non starei in questo ex manicomio a telefonare ai morti ma a internare i vivi. La fortuna, si dirà, è cieca.

A questo punto non so perché ma ho avuto la tentazione di telefonare a Carrère e chiedergli di Io sono vivo e voi siete morti, poi mi sono ricordato che non è ancora morto, Limonov sì ma lui no e non volevo certo portargli sfiga, lo chiamerò quando sarà trapassato, magari. Potrei chiamare a Philip K. Dick, ma non ora.

Quando aveva sedici anni Bolaño non andava a scuola, puntava delle librerie e rubava libri, questa è stata la sua scuola, maledizione, poter avere ancora sedici anni e non andare in quell’inutile liceo altirpino, e andare in libreria, e rubare libri, e diventare non medico non psichiatra ma subito poeta, ah. Purtroppo, sarebbe stato impossibile. Non c’erano librerie in quel paese. Ancora adesso non c’è una libreria. Ma vedi il vantaggio, che non essendoci una libreria, in queste settimane che le librerie sono state chiuse per lokdown la libreria del mio paese non ha potuto chiudere, perché non può chiudere una libreria che non c’è mai stata. Comunque, il miglior libro, o meglio il libro che lo tirò fuori dall’inferno e poi ce lo gettò di nuovo (a Bolaño intendo) fu La caduta, di Camus. Dopo aver saputo questa cosa ho letto anch’io La caduta, di Camus, però a me non mi ha gettato nell’inferno. Sarà che io dall’inferno non mi sono mai mosso.

Mentre pensavo a Camus credo di essermi appisolato su questa panchina di manicomio. Credo di aver sognato (ma non sono sicuro). Mi sono svegliato dal breve pisolino e ecco che mi sovviene il più grande romanziere di questa città, di questo grandissimo bordello che in queste settimane s’è fatta mettere nel sacco dal virus, Aurelio Picca, una specie di Pasolini e Busi ma non omosessuale, che non scrive male, ma nemmeno bene, è un non scrivere bene, il suo, che diventa molto bene, è autobiografico senza rompere le palle, se leggi Arsenale di Roma distrutta per prima cosa ti viene voglia di andare come Maria per Roma, per seconda cosa ti viene voglia di scrivere di quello che combinavi a vent’anni a Roma, con chi scopavi o meglio con tutte quelle che non scopavi per timore di quel maledettissimo virus Hiv che poi tutti se ne sono dimenticati si sono dimenticati che ha fatto trentacinque milioni di morti e hanno ripreso a scopare senza timori finché è arrivato un virus molto più fesso ma che invece che dal sangue o dallo sperma invece che dai liquidi penetra per mezzo dell’aria, e tutti barricati in casa oddio oddio, nun t’avvicinare mettite la mascherina stamme a tre metri mò chiamo a Aurelio Picca e se pure lui mi dice che va in giro colla mascherina come Piccolo… ma diamine, non lo posso chiamare… perché manco lui è ancora morto.

Allora chiamo a Houellebecq. A lui sì. Houellebecq pare vivo ma è morto quindi si può fare. Adesso l’ha letto pure mia moglie, penso che dopo L’estensione del dominio della lotta non ne voglia più sapere del morto francese che cammina, e che scrive, e che fuma, e che perde i denti, e che perde i capelli, insomma una morte pezzo per pezzo, la sua, come cantava Gaber, è lo scrittore che muore a pezzi. Le ho detto (a mia moglie) leggiti L’avversario, di Carrére, almeno resti in tema di morti. L’ha letto, ha detto ora per un po’ basta co’ ‘sti due.

Kurt Vonnegut. E se fosse lui il prossimo autore morto da leggere? Dio la benedica, Dottor Kevorkian è un libretto dove s’è inventato una specie di interviste a uomini morti che incontra in un corridoio terreno franco prima dell’al di là, intervista Hitler, per dire. Ma non Napoleone. Napoleone è un altro che non ti viene voglia di intervistare. Ero andato alla Feltrinelli proprio il giorno prima che iniziasse il lokdown e è capitato un fatto strano davvero, su una colonna di libri basagliani c’erano ben tre diversi libri miei, e in tutta la libreria nemmeno un Vonnegut, qualcosa non quadrava, perché io sono vivo e lui è morto, dovrebbe essere il contrario, a quel punto, constatato ciò, sono rimasto un dieci minuti lì dentro come fossi un fantasma, avrei voluto dire a qualcuno che io ero l’autore morto di quei tre libri, che mi acquistassero, prima che andassero a ruba, e io poi non ne scrivo mica più.

Dopo però ho comprato Perle ai porci. In libreria vado alla V dello scaffale della Narrativa e al posto dove doveva esserci l’opera omnia di Vonnegut c’erano inopinatamente Volo e Veltroni. Chiedo al libraio come mai tra i Narratori trovo Volo e Veltroni ma non Vonnegut, lui fa una ricerca sul pc e dice perché lo abbiamo messo nello scaffale Fantasy. Ma è fantastico! Vonnegut scrittore di fantascienza e Volo e Veltroni narratori tout court, ma fantastico dico al libraio. E lui: perché i lettori comprano Volo e Veltroni, ecco perché li mettiamo lì. E aggiunge: perciò questo paese va come sta andando. Di lì a poco il virus millantatore, quello che si spacciava per angelo sterminatore, ha chiuso le librerie i premi letterari i festival le presentazioni le uscite di miliardi di libri destinati al macero o a non essere aperti dalle persone a cui vengono regalati o spediti in omaggio.

Ma basta parlare di libri parliamo adesso di morti, anzi di letteratura argentina dove sono tutti morti. Sono ancora nell’ex manicomio d’altronde. Bolaño divide la letteratura argentina, o meglio i morti della letteratura argentina, in tre correnti. La prima capeggiata dal romanziere minore Osvaldo Soriano. Che però vendeva. La seconda ha come frontman Roberto Artl, una specie di autodidatta che si ciba di robaccia mal tradotta scrive conseguente e muore presto intorno ai quaranta. Di lui non avremmo saputo niente se il suo San Paolo (così lo chiama Bolaño), ovvero Ricardo Piglia, non lo avesse resuscitato, in qualche modo. Segnalo che non ho letto mai né Soriano né Arlt e neppure Piglia, anche se ho in libreria un paio di libri di Arlt. Ma Bolaño accidenti mi ha fatto passare la voglia di leggerlo. Il terzo è, udite udite: Lamborghini, che doveva fare il killer o il becchino ma giammai il romanziere. Eppure, i suoi epigoni sono tutti suoi plagiatori, tutti, fuor che Cesar Aira. Di lui ho sul tavolino dello studio (mai aperto) Il pittore fulminato. Anche se bisognerebbe, esorta Bolaño, lasciarli perdere tutti e passare il tempo a rileggere (o a leggere) Borges. Quel reazionario anarchico. Fosse per Bolaño dovremmo leggere solo Borges. E Cortàzar, ovviamente.

Era dai tempi che lessi Jung che non mi scrivevo i sogni. Era il 1999, più o meno. Per scriverli te li devi ricordare. Per ricordarli li devi scrivere subito, appena sveglio. Se possibile mentre ancora dormi. Se riuscissi a mantenerti dormiente, sognante, prendere penna e scrivere, sarebbe l’ideale. Così ho fatto poco fa, dopo il secondo risveglio dal sonnellino sulla panchina del manicomio, ex manicomio di Roma. Ero a La Cruces, Cile, e don Nicanor Parra, ultracentenario, non era ancora morto. Siccome lo sapevo che non rilascia più interviste e a chi va a fargli la posta manda la sua serva (quella che peraltro lo tratta pure male) o esce lui stesso e dice di essere il maggiordomo di don Nicanor (che è occupato o non ha voglia) allora mi invento uno stratagemma. Non serve vino non serve pan de pascua, poi è vecchio, mi figuro che manco se lo può bere o mangiare. Allora mi metto a recitare a voce stentorea una poesia di Neruda, ma non lo chiamo Neruda, che lo sanno tutti essere uno pseudonimo, lo chiamo col suo nome anagrafico, lo chiamo Neftalì Reyes. Insomma sono lì davanti al cancello del più grande poeta di sempre del manicomio latino-americano (Nicanor Parra intendo, non Neruda) e dico: signori, ecco a voi la poesia del grande Reyes, il più grande, il tacchino, il più grande tacchino che mai abbia scritto poesie su questo continente perduto. Perché nel sogno so delle cose la prima è che Neruda lascia una figlia idrocefala morire, muore questa sua figlia di cui non ha voluto più interessarsi mi pare a nove anni basterebbe questo per squalificarlo ma nel sogno non voglio intristirmi e mi interesso di un’altra querelle più futile, perché so che quel furbone di don Nicanor aveva rotto i coglioni in tutti i modi a don Pablo, perfino prendendosi il suo nome anagrafico con cui ci voleva fare il suo pseudonimo, che sagoma, non s’è mai vista una cosa del genere. Come se Peppino Di Capri o Nicola Di Bari che si sono disfatti dei loro nomi si trovassero di fronte casa un matto che sguaiato canta Champagne o Stringi questa mano zingara dicendo di chiamarsi Giuseppe Faiella o Michele Scommegna, che detto tra noi sono molto meglio degli pseudonimi, così come sempre succede, così come Neftalì Reyes era molto ma molto ma molto meglio di Pablo Neruda. E giustamente quando Neruda a Parra gli ruppe i coglioni, perché Parra in America si era andato a prendere un tè con la moglie di Nixon (e bene fece, l’avrei fatto pure io, e quando ti ricapita un’occasione del genere) perché don Pablo era il poeta col mitra in mano e non poteva andare a merenda con il capitale, coi sovietici e i loro gulag sì, coi yenkee no, sia mai, don Nicanor gli disse, al petto di tacchino, sai che fa adesso questa zampa di gallo? Fa che siccome sono l’unico poeta del Cile senza pseudonimo, e siccome sono un antipoeta e non mi posso abbassare come voialtri che siete poeti a trovarmi uno pseudonimo, e siccome c’è un nome che prima era occupato poi è stato lasciato libero, ebbene lo occupo io: da adesso non sono più Nicanor Parra ma chiamatemi Neftalì Reyes. Neftalì Reyes, grido io (nel sogno), ascoltate (gli do del voi, alla maniera meridionale, non lo so perché, cose che succedono nei sogni) la poesia superba, magnifica, comunistissima, del più grande poeta di Las Cruces, e inizio a declamare una poesia di Neruda. Per tanto amore la mia vita si tinse di viola… Ha. Così impara. Infatti, eccolo che esce, testa leonina, quanti caspita di capelli, blancos, che tiene ancora addosso a quel cranio, d’altra parte ha scritto o non ha scritto Poesie contro la calvizie, il furbastro? Esce e dice niente pan de pascua tu? Niente vinello? No, don Nicanor, gli dico, lei non può bere (passo dal voi al lei, nel sogno, non so perché, forse perché prendo confidenza), se no il vino le tinge i capelli. Ascolti queste poesie comuniste fino al basso ventre. Due amanti felici fanno un solo pane, una sola goccia di luna nell’erba… Che mi dice? E’ o non è, il signor Neftalì Reyes il più grande poeta del Cile? E lui: il più grande non lo so. Sicuramente uno dei più grandi. Chi erano i quattro più grandi, don Nicanor, gli faccio io nel sogno, ben sapendo di tirargli un assist di cui mi sarà grato, e lui: erano tre. Fa una pausa: uno è Alonso de Ercilla e l’altro Rubén Darìo. Poi mi guarda, ride, e aggiunge: ora però sono rimasto solo io. E mi recita, mentre entriamo in casa, una poesia del più grande poeta col mitra in mano del sud America: Toglimi il pane se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso. Un tacchino, un tacchino grasso. E giù a ridere. A quel punto sono di casa e passo al tu.

Devo assolutamente trovare il quaderno dove mi appuntai il sogno che feci quando leggevo Jung. Era il 1999, circa, l’anno prima avevo fatto il servizio civile in ricusazione del militare. Un centro diurno psichiatrico di Montevarchi. Jung mi aveva quasi convinto. Era meglio di Freud. Non c’era partita. Dei quattro grandi indagatori dell’inconscio tra Ottocento e Novecento, tutti erano meglio di Freud. Pure Adler, poi saccheggiato da Nietzsche (o era lui ad aver saccheggiato Nietzsche? Devo controllare). Pure Janet, saccheggiato da altri. Ma il più pazzo era Jung. I quattro grandi esploratori dell’inconscio erano tre: Adler e Janet. Jung era il più pazzo, però.
La scrittura, ho detto poco fa a mia moglie, dopo essere tornato dal manicomio (non le ho detto che ho fatto telefonate, alcune anonime, a un sacco di morti) è una forma di esilio. Non c’è bisogno, a noialtri, che ci facciano il lockdown. Io protesto, faccio finta di protestare, rivendico il diritto di correre, passeggiare, bicicletta, ma lo faccio per gli altri, a me in realtà non mi frega niente. Mi fanno solo un favore, a me, se non mi fanno uscire per il resto della vita. E mi sono ficcato nello studio, al buio, senza aria condizionata, mentre lei è in salone ha le luci tutte accese e pure l’aria condizionata (abbiamo appena pulito i filtri). Pure la follia è un esilio. Dovrei smettere di lavorare. Di fare lo psichiatra. E andarmene per sempre in esilio.


P.S.
Con questa si concludono le chiamate telefoniche, ringrazio Valerio Evangelisti e Gioacchino Toni per avermi generosamente ospitato per otto volte su Carmilla.
Aggiungo che tutto quanto è stato scritto in queste otto chiamate, salvo due o tre cose, è fiction, tutto inventato signori, come la pandemia di cui narra, d’altra parte, pure lei è stata fiction, salvo due o tre cose.

Tutte le chiamate telefoniche

 

 

 

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Chiamate telefoniche – 6 https://www.carmillaonline.com/2020/05/18/chiamate-telefoniche-6/ Mon, 18 May 2020 21:00:35 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60142 di Piero Cipriano

Lo dico subito, così chi non ama i complottisti può interrompere subito la lettura: questa sesta chiamata telefonica è una chiamata complottista, super complottista, terribilmente complottista. Perché? Perché io ammiro i complottisti, ammiro i complottisti quasi come ammiro i paranoici. Voi direte che tutti i complottisti sono paranoici. Che complottismo = paranoia. E io non sono d’accordo. I complottisti, alcuni, non tutti, sono dei formidabili inventori di storie con una capacità di avvicinarsi quasi con precisione millimetrica al futuro, ma che per un motivo o per l’altra non ce la fanno a essere Philip K. Dick. Gli manca [...]]]> di Piero Cipriano

Lo dico subito, così chi non ama i complottisti può interrompere subito la lettura: questa sesta chiamata telefonica è una chiamata complottista, super complottista, terribilmente complottista. Perché? Perché io ammiro i complottisti, ammiro i complottisti quasi come ammiro i paranoici. Voi direte che tutti i complottisti sono paranoici. Che complottismo = paranoia. E io non sono d’accordo. I complottisti, alcuni, non tutti, sono dei formidabili inventori di storie con una capacità di avvicinarsi quasi con precisione millimetrica al futuro, ma che per un motivo o per l’altra non ce la fanno a essere Philip K. Dick. Gli manca quel quid di prosa o anfetamine o vattelappesca. Dico pure che se non leggerete questa sesta chiamata perché siete prevenuti sui complottisti poi ve ne restano solo due (non complottiste, in compenso, ma non è detto, perché una volta che uno dichiara la stima per il mondo complottista ne viene irreparabilmente assimilato), perché l’epidemia sta per finire (con sommo sconforto dei virologi-con-l’agente quelli che si prendono da duemila euro in su a intervista un po’ come le puttane solo che le puttane siccome sono delle gran signore non vendono la scienza ma il proprio corpo) e pure le chiamate finiranno, non mi resta che una settima chiamata dove il protagonista indiscusso è il virus e l’ottava, e ultima, dove i protagonisti sono i morti, ma ciò è pleonastico perché i morti sono sempre i protagonisti, solo chi non ha fatto i conti con la morte non l’ha ancora capito, ed è per questo che si barrica in casa e si barrica la bocca, perché pensa che dalla bocca entri la morte. Invece no: dalla bocca esce la vita. E non è proprio la stessa cosa.

Ma dicevo dei complottisti, ormai, appena leggo o sento qualcuno che ne parla male mi viene da mettere mano alla pistola poi mi ricordo che non ho una pistola e soprattutto che questa (mettere mano alla pistola) è una brutta espressione che mutuiamo da una brutta persona, per cui mi limito a proporre di abolire la parola complottista, come in passato ho proposto di abolire la parola empatia, non significa più niente ormai ripetere a pappagallo complottista, complottista, complottista, oppure, visto che non è il massimo abolire parole, sa troppo da neolingua orwelliana, propongo di mettere un limite al numero di volte che in uno scritto si può usare la parola complottista, non più di due, massimo tre, alla terza scatta la multa (quattrocento euro, la multa per chi andava in giro senza mascherina), anche perché chi usa troppo spesso la parola complottista tradisce di essere egli stesso un complottista, esatto, uno affascinato dal complotto, il complotto di mettere a tacere le capacità narrative del complottista, e poter sostituire la narrazione (mille volte più interessante) del complottista con la sua sterile e prevedibile e conforme narrazione di anti-complottista che legge Repubblica o Corriere. Dimenticando che l’anti-complottismo dell’anti-complottista è esso stesso complottismo, inconscio complottismo ai danni del vessato complottista.

Non so se si è capito ma io i complottisti vorrei difenderli dalle ingiurie di complottismo con la stessa passione con cui mi viene sempre da difendere le persone che subiscono l’accusa di essere schizofrenici. Le persone più insospettabili ci sono cadute, nell’offesa agli schizofrenici. Umberto Eco, una volta, per chiedere le dimissioni di Silvio Berlusconi, disse che doveva dimettersi non per il suo eccesso di satiriasi, ma per il suo eccesso di schizofrenia. E’ schizofrenia, puntualizzò, se uno non si ricorda il giovedì ciò che ha detto il mercoledì. Come si può essere governati da uno schizofrenico? Eco non sapeva cos’è (io nemmeno, ma lui molto meno di me, eppure era Eco) la schizofrenia, e sempre Eco è il colpevole di aver dato la stura all’offesa del complottista. In quel libro palloso che è Il pendolo di Foucault, mi pare, è lui che inizia la presa per il culo dei complottisti. Piergiorgio Odifreddi è un altro, era a una trasmissione di Piero Chiambretti, irritato dal mago Otelma (quanto mi sta simpatico il mago Otelma, secondo me è abbastanza complottista pure lui), lo metteva a tacere zitto tu, anzi, zitto lei, che è uno schizofrenico. Proprio così diceva. Il tono voleva essere quello di chi dice lei è un cialtrone, o lei è un buffone, o lei è un mitomane, o lei è un millantatore, o lei è un venditore di fumo, o lei è un guitto; invece disse lei è uno schizofrenico. Gli intellettuali del cazzo che adoperano le categorie psichiatriche, o mediche, per offendere. Un tempo si diceva zitto che sei un mongoloide, o zitto che sei un deficiente, oggi dicono zitto che sei uno schizofrenico oppure dicono zitto che sei un complottista.

Tutto ‘sto preambolo per dire: w i complottisti (fossero anco terrapiattisti, quando vuoi dire che uno è complottista ma di quelli terra terra allora dici che è terrrapiattista, i terrapiattisti sono i più sfigati dei complottisti, e infatti sono quelli che mi sono i più simpatici di tutti) abbasso i burionisti.

*

Complottista secondo me era pure Dario Musso ragazzo drammatico e teatrale di Ravanusa che il lockdown (‘sto cazzo di lockdown non vedo l’ora di dimenticare questa parola) come a tutti gli aveva spezzato la pazienza e inizia a fare video inquietanti in cui si punta un cacciavite alla tempia e incita alla rivolta e pochi giorni prima viene fermato da un carabiniere che assiste allibito a lui che contrattacca gli dice che fare il carabiniere di questi tempi a fermare persone innocenti è una merda e brucia la sua carta d’identità e il giorno del fermo sanitario è in giro nella sua auto con un megafono che incita alla disobbedienza a non abboccare alle favole governative non c’è nessun virus dice, togliete le mascherine riaprite i negozi, uscite… (ora confessate di non averlo pensato almeno una volta pure voi tutto ciò) lo circondano carabinieri e agenti municipali, lui fa un video in diretta in cui prova a mantenere la calma, scende, resta calmo, bravo Dario così si fa, ma non basta perché arrivano tre sanitari uno dei quali ha una siringa, il sanitario non gli va incontro davanti per parlargli no, lo aggira gli punta la siringa, vuol siringarlo da dietro con tutti i pantaloni, stato di necessità diranno poi nel processo che si farà perché si farà ma io dico, dalle immagini, non c’era nessuno stato di necessità, legittima difesa dite? nemmeno, eppure un carabiniere lo prende per le gambe e lo atterra, il sanitario col camice e la siringa lo infila, la donna che fa il video grida atterrita in siciliano lo stanno sedando lo stanno sedando. Finisce il video inizia l’audio, il fratello di Dario, avvocato, prova per giorni a chiamare all’ospedale di Canicattì, al reparto psichiatrico dove Dario è ricoverato in TSO sedato legato cateterizzato ma la dottoressa balbetta, dice non possiamo dare notizie lui richiama e lei dice suo fratello dorme lui richiama lei dice non abbiamo il cordless lui richiama lei dice ho un’urgenza ho un ricovero ora non posso parlare, sono imbarazzato per lei, per questa poverina che senza dignità né etica si schermisce. Dopo cinque sei giorni tali le pressioni, le lettere, le telefonate, ai medici e al sindaco, tra queste quella di Gisella Trincas dell’UNASAM (associazione dii famigliari dei pazienti) o del garante nazionale dei detenuti o di me stesso che provo a parlare invano con la dottoressa che ha sempre un’urgenza e non può rispondere, insomma Dario viene (altrettanto selvaggiamente) dimesso e per fortuna non fa la fine di Franco Mastrogiovanni o Giuseppe Casu o Elena Casetto. Dimesso però con una non diagnosi: Disturbo della personalità non altrimenti specificata. La più inutile e fessa e vaga e debole delle diagnosi psichiatrica. La stessa diagnosi che potrei avere io, o voi, o tutti i complottisti del mondo.

Mi chiama Nicola, il mio amico delle Iene, una iena gentile, Pieruzzo, esordisce col suo accento siciliano, che ne pensi del TSO di quel ragazzo di Ravanusa?

*

Ma io in questo pezzo dovevo occuparmi di complottisti e anti-complottisti, non di TSO illeciti e selvaggi. Per cui cominciamo col primo campione del complottismo mondiale che gira intorno al virus. Lui è quello che aveva in tasca l’Hiv e Gallo (poi stato sostituito da Fauci, il virologo che ora Trump vede come il fumo negli occhi) glielo rubò. Lui è quello che nel 2008 prende il Nobel. Lui è quello che ora è perculato dai medici duri e puri perché ha detto che l’acqua c’ha la memoria (figuriamoci, ridono, gli scienziati, la memoria, l’acqua, e mica c’ha il cervello l’acqua per averci la memoria!) e porta al papa la papaya (la papaya, al papa, e che è, un calembour dello scienziato senex?). Perculato più di Tarro, si capisce, perché almeno Tarro non l’ha vinto il Nobel lui sì e una ventina, o erano trenta?, super scienziati fecero pure una petizione, per fargli revocare il Nobel, ma gli svedesi so’ di parola, se lo danno il super premio è per sempre, poi non lo levano. Eh sì, gli svedesi so’ di parola, se dicono che l’epidemia si affronta senza lockdown, vanno fino in fondo. Oggi mi chiama una fattucchiera dal Molise una che mi ha conosciuto vedendomi nell’olio che galleggia nel fondo di un piatto, dice siccome pure io stavo con l’orecchio pizzato al suolo per sentire da dove arriva la fine del mondo ho incrociato i tuoi pensieri che provenivano dal tuo orecchio adagiato sul pavimento del tuo reparto allora ho pensato che devi assolutamente sentire cosa dice quest’uomo. Attacca il suo telefono a manovella al pc per farmi sentire la voce tradotta di Montagnier.

Non posso vederlo in faccia, quindi non vedo i sui capelli colorati di marrone biondo che un po’ gli fanno perdere la credibilità di scienziato premio Nobel, ma tant’è, l’ha già persa ormai, è bastata la papaya e l’acqua con la memoria, e poi c’avrà uno scienziato il diritto di farsi la tinta oppure no?, o valutiamo uno scienziato sulla base della tinta?, ma a questo punto pure Giuseppe Conte va be’ che non è uno scienziato perde credibilità, se ci basiamo sulla tinta, vero è che la tinta di Conte è più credibile della tinta di Montagnier che dice c’è stata una manipolazione su questo virus, così esordisce l’ottantottenne tinto ormai con un piede fuori dalla scienza, il piede fuori dalla scienza è il piede che ha calato nella fossa, cioè nel mondo dei morti, è per questo che Montagnier, come Tarro, non ha bisogno più di queste sciocchezze tipo le pubblicazioni o i numeri o l’h-index, perché chi è con un piede nel mondo dei morti non crede più né nelle pubblicazioni né nei numeri e l’unico libro che legge ormai è il Bardo Thödröl ovvero il Libro tibetano dei morti perché i morti sono superiori alle pubblicazioni scientifiche e ai numeri che le accompagnano, chi glielo ha detto a Montagnier?, glielo ha detto Cartesio, che dal mondo dei morti gli ha confessato: scherzai quattro secoli or sono, con questa cosa dei numeri, era tutto uno scherzo, e voi ancora ci state credendo. E’ vero, continua il francese, che questo virus deriva dal salto di specie, dal pipistrello, ok ok, ma ci hanno aggiunto un pezzo di sequenza genomica del virus dell’Hiv, il virus dell’AIDS per cui mi hanno dato il Nobel, il Nobel che non m’importa di averlo però è ancora mio, chi ce l’ha aggiunto questo pezzo di genoma? E che ne so. Biologi molecolari. Che minuziosamente, come fossero degli orologiai puntigliosi, hanno fatto questa chimera, perché questo è il coronavirus una chimera, avete presente uno scoiattolo con le zampe di leone? Ecco, una cosa del genere, un virus del raffreddore con l’artiglio dell’Hiv, perché? Chissà, magari volevano fare un vaccino contro l’AIDS, per cui hanno preso piccole sequenze di virus Hiv e le hanno installate nella sequenza genica più grande del coronavirus, dove una catena di RNA ha piccole sequenze di Hiv.

Ma le prove? Gli domandano, le prove? E lui (che con un piede nel mondo dei morti sa che non ha più bisogno di prove) mena il can per l’aia, un gruppo di ricercatori indiani aveva pubblicato le prove, ma gli hanno annullato la pubblicazione. Su 30.000 basi del coronavirus, 1.000 sono di Hiv. Un modo per modificare la sequenza del coronavirus, per farlo riconoscere come Hiv e dunque trovare il vaccino. Molti gruppi hanno fatto la stessa cosa, dice il Nobel quasi morto scomunicato dai colleghi vivi della scienza. Ma come ha fatto a uscire da un laboratorio? I virus a RNA hanno mutazioni continue. Cambiano continuamente. Sanno attraversare le porte, come i fantasmi. Non c’è mascherina o muro che tenga. Ma queste sequenze, alcuni dicono che sono troppo corte, e la sovrapposizione con il RNA dell’Hiv potrebbe essere casuale. Ma sono segmenti importanti, obietta il Nobel tinto come la morte, di quelli che portano informazioni genetiche. La versione della Cina è che viene dal mercato del pesce di Wuhan. E io dico che non è vero, ribatte il vecchio scienziato idolatrato dai complottisti e stimato da quelli che sono i morti. E la versione dell’OMS? Hanno tutti interesse a nascondere la verità, ma vogliamo raccontare chi è l’attuale capo dell’OMS? L’OMS, ora come ora, non mi pare più un organismo super partes, mi sa che non serve più a niente dire ogni volta l’ha detto l’OMS l’ha detto l’OMS, basta vedere come il capo dell’OMS, l’etiope Ghebreyesus si arruffiana col leader cinese Xi Jinping. A gennaio si è addirittura complimentato con la trasparenza del governo cinese, trasparenza! Ma ti rendi conto? Una beffa, per il povero Li Wenliang il medico morto di covid-19, minacciato di non parlare dell’epidemia, o per l’altro medica Ai Fen, che aveva accusato il regime cinese di censurare l’epidemia ritardando le misure, pure lei fatta sparire per settimane. Perché l’OMS non è super partes? Perché nel 2017 si giocò una guerra tra il candidato cinese (l’etiope Ghebreyesus, già legato a Pechino sin da quando era ministro della sanità per il governo etiope) contro il candidato americano. Vince l’etiope, e da allora è al servizio della Cina. Ciò per dire che ormai quel che consiglia l’OMS, a parte le cose ovvie ovvero che camminare è più sano che poltrire e abboffarsi, non è più oro colato. Potremmo pure aggiungere che l’OMS è pagato dal Bill Gates, anzi: è Bill Gates ma… non possiamo, perché se no gli anti-complottisti ridono di noi, e noi non vogliamo che gli anti-complottisti ridano perché ridere fa bene alla salute e gli faremmo solo un favore, un favore alla loro perfidia.

E l’omertà degli stati? In biologia molecolare si possono fare (è sempre Montagnier che parla), attualmente, tutte le costruzioni di virus che si vogliono. Gli USA sono al corrente, ma sono loro che hanno finanziato parte delle ricerche fatte nei laboratori di Wuhan, per cui non è più un affare solo cinese. La natura (è ancora il francese ottantottenne) non accetta qualsiasi cosa. Una costruzione artificiale, chimerica, ha poche possibilità di sopravvivere. La natura ama le cose armoniose. Questo è un virus Frankenstein, che non durerà a lungo. Negli USA ci sono altre mutazioni del coronavirus, sta cambiando il suo codice genetico, ci sono delle delezioni, il tratto che porta la sequenza di Hiv è quello che muta più velocemente degli altri, inevitabilmente andrà incontro a delezioni, un’apoptosi, una auto amputazione genica. Non trovate che sia meraviglioso ciò? Se il potere patogeno di questo virus è legato all’introduzione di queste sequenze Hiv nel coronavirus, e esse stanno staccandosi, non trovate che sia una bella speranza? Bisogna seguire il sequenziamento genetico, ci saranno sempre più virus mutanti inattivi, la gravità dell’infezione si attenuerà, si annullerà.

Ecco perché l’isolamento domestico non è un rimedio. Bravi gli svedesi. E non solo perché non si riprendono il mio Nobel. Che detto tra di noi, non mi potrebbe fregare una ceppa, del Nobel. Sa quando tra poco andrò di là, nel mondo dei morti, del Nobel quanto gliene potrà importare? Di una sola cosa gli potrà importare, ai morti: sei stato un bravo medico oppure no? Sa quanti sono i bravi medici da diecimila anni a questa parte? Una decina, Cristo, Semmelweis, Basaglia, mica sono tanti… i medici, quasi tutti, non sono mai eroi, sono sempre colpevoli… se vuoi essere innocente non devi fare il medico… va be’, per concludere, io credo che il virus si distruggerà da solo. Ma ripeto: è stato un errore etico associare il Covid all’Hiv. Non lo ammetteranno mai, ma è avvenuto questo.

*

La fattucchiera molisana mi dice ti sento scettico dottore, non t’ha convinto forse Montagnier? Mi meraviglia che nemmeno tu abbia capito che quello che ci ammazza non è il virus ma il terrorismo mediatico a cui siamo sottoposti. La paura di morire viene somatizzata dai polmoni. L’informazione, reiterata ossessivamente, si incista nell’inconscio e (un po’ come negli anni 90 avere il test Hiv positivo equivaleva a una sentenza di morte) oggi un tampone positivo al covid-19 (che non significa niente) su una persona asintomatica o con una piccola sintomatologia influenzale, mettiamo che è uno molto impressionabile, attiva il contrario dell’effetto placebo, l’effetto nocebo, tu mi insegni che esso atterrisce tutto l’organismo, che si predispone a morire. E’ su questo principio d’altronde che noi fattucchiere molisane tiriamo il malocchio ai malandanti, e funziona, quanto più il malandante è un tipo impressionabile, tanto più facilmente si ammala. Le difese immunitarie crollano, i polmoni collassano e trattengono liquidi (ecco la polmonite interstiziale). Ecco perché bisogna spegnere televisione e smart phone e non leggere nemmeno i giornali. Per fare il vuoto nella testa, eliminare questa reiterata informazione tossica, essa sì immunodepressiva. E trasgredire assolutamente (fai bene tu dottore a correre, mica sei fesso) il lockdown, in tutti i modi, uscire, prendere il sole, respirare aria pulita, fare esercizio fisico. Ciononostante, dottore, non basterà, perché prima o poi, tutti, compreso Bill Gates, dovremo pur morire.

*

Mi chiama Jack, il virologo dissenziente, il triste figuro, lo vogliono ricoverare. Per tutto il lockdown il servizio psichiatrico si era scordato di lui. E lui si era scordato di loro. Si erano reciprocamente scordati. E vivevano bene così. Finito il lockdown, superato il 4 maggio, i servizi si sono ricordati di fare l’appello dei pazienti in carico, dei collaborativi e dei riluttanti. Ce l’ho mi manca ce l’ho mi manca. Jack mancava all’appello. Pronto siamo la psichiatria, deve fare il depot. Non voglio fare il depot. Allora c’è il ricovero.

Dice mi stanno venendo a prendere. Prima che mi prendano per ricoverarmi mi ascolti. Un amico che non vuol rivelarsi ma che lei conosce molto bene (Cafiero jr) mi dice di raccontarle questa storia qua, lui non la chiama di persona perché si scoccia che lei poi nella chiamata telefonica che senz’altro scriverà lo faccia apparire come il paranoico complottista della situazione, mi dice pure di dirle che lo sa pure lui che il complottismo è un genere letterario che ora va per la maggiore, ma mi dice pure di dirle che questo genere letterario da due secoli almeno poi inevitabilmente ci prende, insomma la storia è questa poi veda un po’ lei, ne faccia l’uso che vuole, tuttavia mi domando perché lei senta il bisogno di questa penosa mise en abyme (per evocare Gide che lei immagino non abbia mai avuto il buon senso di leggere, vero?) per raccontare tutto quanto, seppur in pochi purtroppo, cominciano a pensare o pensano già da tempo. Non mi pare che qui siamo tutti paranoici o, almeno finora, non tutti (io sì ma molti altri no) abbiamo una cartella psichiatrica nel cassetto che comprovi ciò. È che qui ci facciamo delle domande, ci interroghiamo, cerchiamo di capire che dove ci sono in gioco montagne di soldi e interessi economici non può esserci imparzialità nel fare informazione, né tantomeno numeri statistici… Il grande sonno non è solo il titolo di un romanzo di Chandler ma è quello che quasi tutti gli italiani stanno vivendo adesso, obnubilati dalle onde elettromagnetiche delle paraboliche delle emittenti televisive.

Mi dispiace che quelli che non si adeguano o obbediscono vengano etichettati come paranoici, psichiatrici o compagni di merende dei terrapiattisti.
Fatto questo preambolo vengo al dunque.

Il mio amico dice che Trump sta facendo cose grosse, mai fatte da nessun presidente prima (forse iniziate da JFK). Da noi non ne parla nessuno. La situazione mondiale è questa. La divisione oggi non è più tra razze, non è più tra nazioni o stati, ma solo tra i due Cappelli, o se vogliamo tra due fronti massonici che si stanno facendo la guerra con la scusa di questo coronavirus a cui credono ormai solo gli allocchi. Tutte le notizie del mio amico sono direttamente consultabili, quindi prima di classificarle e bollarle nella categoria delle cospirazioni fantasiose, si tolga lo sfizio di leggere il New York Times, il Washington Post, il Wall Street Journal; oppure ascolti i tg americani più recenti, cosa verrà a sapere, anche lei per la prima volta visto che la stampa italiana è zitta e muta su questo fronte, verrà a sapere di arresti di medici dell’università di Harvard, perché? Per aver fatto sfuggire a settembre il virus da un laboratorio americano, virus che solo in un secondo momento per una serie intricatissima di fughe che non sto a dire anche perché non lo sa nessuno nemmeno il virus c’è da scommetterci che se lo ricorda, anche perché nel frattempo è mutato mille volte e come lei sa i virus non hanno memoria se no che virus sono? Insomma, il virus in un modo o nell’altro sarebbe arrivato a Wuhan. Charles Lieber, chimico di Harvard esperto di nanomateriali e sviluppo di applicazioni in medicina e biologia, è stato arrestato il 28 gennaio. L’accusa a Lieber è di aver ricevuto centinaia di migliaia di dollari dalla Wuhan University of Technology e accettato di gestire un laboratorio per essa.

Quindi ricapitoliamo: qui dottore ci sono due fronti massonici che si stanno contrapponendo e presto o tardi ci toccherà decidere con chi stare a meno che lei non voglia dimettersi dal suo inutile lavoro che è tutta una copertura lo sappiamo non abbocca più nessuno ormai di noialtri scrutatori di complotti, he he, a meno che dico lei non voglia dimettersi passare in clandestinità e organizzare la resistenza anarchica planetaria, voglio dire un terzo minuscolo ma significativo fronte, altrimenti dovrà scegliere se stare coi Cappelli Bianchi che rispondono al movimento conosciuto come Q, tra le cui fila troviamo Putin, Xi, Trump, il defunto Kennedy, suo nipote Robert Kennedy jr ma pure Bob Dylan e udisca udisca Giuseppe Conte l’avvocato de noartri, insieme a tanta altra bella gente. E questi pensi un po’ sarebbero i buoni, perché i cattivi sono la fronda nota come Cabala o Deep State di cui Shiva è stato uno dei pochi a parlare (ecco, si potrebbe mettere con Shiva a organizzare la resistenza, lui sarebbe la mente e lei il braccio, insieme sareste perfetti). Insomma, questa fazione, i cattivoni, sono inclini a fare cose molto molto brutte bruttissime che per telefono è meglio non dire dato che senz’altro il suo telefono da qualche tempo è sotto controllo io infatti non la chiamerò più qui al telefono dell’ospedale se lo tenga bene a mente.

Comunque i mammasantissima del deep state sono ovviamente i Rothschild, i Williamsburg, i Rockfeller, ma pure i Clinton, e i Bush ma perché no Obama, e ecco che arriviamo a Bill Gates e consorte che tanto hanno a cuore la vaccinazione planetaria e il loro minuscolo tatuaggio quantico, e gente celebre come Tom Hanks e cantanti per niente mistiche nonostante il nome come Madonna e mi fermo qui perché sento la sirena dell’ambulanza che sta per arrivare a prendermi e devo scappare dalla porta di servizio che dà sul parco dell’Insugherata. Questa è gente che controlla Hollywood e tutta la produzione filmica mondiale e tutte le televisioni del pianeta e tutta l’informazione, ecco perché pure in Italia non c’è Fazio non c’è Mentana non c’è fino all’ultimo giornalista del giornalino parrocchiale che si possa permettere anche solo di accennare a queste cose perché sarebbe sommerso dal coro: complottista! Ma oltre alla società dello spettacolo e dell’informazione fanno parte dei cattivoni pure le banche centrali che ricattano bellamente gli stati vedi FED e BCE, ma ecco che il nostro eroe Trump che ti fa? Nazionalizza la FED alcune settimane fa liberando gli americani dal cappio al collo di questi strozzini! Ma lo vede allora che ha ragione quel lacaniano con la tosse di Slavoj Žižek quando dice che il virus per eterogenesi dei fini ci regala un nuovo comunismo? E chi se lo poteva immaginare che Trump facesse scelte comuniste? E come mai secondo lei i nostri tg non riportano queste notizie? E come mai secondo lei i nostri tg non hanno parlato degli arresti che stanno avvenendo in America in merito all’affare coronavirus? Perché i tg appartengono al deep state! Ecco perché. E perciò ai tg non fanno piacere certi arresti. Perché secondo lei adesso fanno la nuova normativa anti fake news? Secondo lei le sue chiamate telefoniche su Carmilla contro informative e in odor di complottismo dureranno ancora a lungo? No. Appena sarà in vigore la normativa anti-fake lei sarà oscurato al pari dell’ultimo terrapiattista con un blog di quattro lettori.

La narrativa è questa: il deep state ha sguinzagliato il virus, scatenando una campagna terroristica sulle televisioni e sugli smart phone per mettere in ginocchio i servizi sanitari, chiudere le persone due mesi agli arresti, scioccarle insomma, se la ricorda la teoria di Noemi Klein sul dottor choc? Lo psichiatra che elettroscioccava i pazienti per un mese per poi ricostruirne la personalità? Ebbene è proprio ciò che è stato fatto su base planetaria, ci hanno fatto l’elettrochoc per due mesi, spaventati, tolto memoria delle libertà, di modo che dopo saremo cittadini mansueti e proni a ogni loro decisione, e quali saranno i prossimi atti? Ma la vaccinazione di massa, obbligare il pianeta a vaccinarsi per ridurre la demografia planetaria. Si ricorda il pallino di Malthus: e mica possiamo far accomodare tutta l’umanità alla mensa dei ricchi? No. Chi è ricco mangia chi è povero è giusto che crepi per fare spazio a una umanità ridotta all’essenziale, un’umanità dei migliori. Ma pensi, non piacerebbe anche a lei abitare un pianeta senza avere tra le palle un miliardo di indiani un miliardo di cinesi e africani e altri miserabili che credono in dei assurdi e nell’oltre vita? Bene, pensi allora uno ricco sfondato come Bill Gates quanto gli scoccia dividere il pianeta con lei con me con l’africano che si imbarca per affogare con il cinese che si mangia i cani con l’indiano che si inchina alle vacche col mussulmano che vela o infibula sua moglie eccetera, potrebbe abitare questo pianetino meraviglioso come duemila anni fa insieme solo agli eletti, a qualche milione di persone ben distribuite tra i continenti senza fare assembramento, senza folla, ah che spazio finalmente, la solitudine, la solitudine di dio, a questo aspirano. Ecco perché la demolizione demografica tramite vaccino è sempre stato un loro pallino. Per cui da una parte cattivoni con delirio di immortalità del deep state dall’altra i meno cattivoni ma comunque non proprio degli stinchi di santo dei cappelli bianchi, che da sessant’anni lottano per riprendere il potere che con la morte di JFK hanno perduto.

Questo per darle un assaggio ora infilo l’ultimo gettone per dirle addio, non so se sarò ancora in grado di telefonarle. Ci pensi. Si informi. Decida se appoggiare i cappelli bianchi oppure iniziare la resistenza anarchica planetaria. Cazzo stanno sfondando la porta. Scappo. Addio.


[Chiamate telefoniche precedenti]

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Chiamate telefoniche – 3 https://www.carmillaonline.com/2020/04/11/chiamate-telefoniche-3/ Sat, 11 Apr 2020 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59355 di Piero Cipriano

[Chiamate telefoniche precedenti] Questo scritto ha per oggetto… ok l’incipit s’è capito, il riferimento a Bolaño pure, ieri mi rileggevo le sue Chiamate telefoniche, che avrebbe scritto, il cileno, della pandemia? La pandemia aveva ormai raggiunto il picco, o almeno il primo dei picchi, che nessuno lo sapeva quanti picchi ci sarebbero stati, si iniziava a respirare, ma non fuori casa, sempre dentro casa, perché la libera uscita era posticipata a maggio, forse a giugno, o a settembre. Ritorno graduale alla normalità. Prima apriamo le fabbriche, dopo, molto dopo, apriamo i parchi. Prima la catena [...]]]> di Piero Cipriano

[Chiamate telefoniche precedenti] Questo scritto ha per oggetto… ok l’incipit s’è capito, il riferimento a Bolaño pure, ieri mi rileggevo le sue Chiamate telefoniche, che avrebbe scritto, il cileno, della pandemia? La pandemia aveva ormai raggiunto il picco, o almeno il primo dei picchi, che nessuno lo sapeva quanti picchi ci sarebbero stati, si iniziava a respirare, ma non fuori casa, sempre dentro casa, perché la libera uscita era posticipata a maggio, forse a giugno, o a settembre. Ritorno graduale alla normalità. Prima apriamo le fabbriche, dopo, molto dopo, apriamo i parchi. Prima la catena di montaggio, poi la passeggiatina.

Il fenomeno delle chiamate iniziò a preoccuparmi quando pure nei sogni il telefono squillava senza tregua, però nei sogni lo squillo non era una suoneria di smart phone o di cercapersone ospedaliero, era il trillo di un telefono a gettoni. Si assottigliava il mio meritato riposo. Ma perché devo rispondere a tutti io? Ma perché non chiamate Andreoli o al limite Recalcati? D’accordo è un filosofo non uno psichiatra non vi saprà dare (come me) quei bei farmaci contro la claustrofobia, ma vi parlerà del ritorno a casa, di come si sta bene a Itaca. Vuoi mettere? Sarà perché facevo la notte nel dedalo, e mi sono addormentato tardi. Una donna venuta in pronto soccorso ho dovuto convincerla a tornare a casa ma lei non voleva tornare a casa, dice almeno così ho la scusa per uscire. Non avevo sonno erano le tre e ho non dico riletto perché l’avevo già letto due volte e un po’ volevo dormire, ma ho sbirciato qua e là il libretto di Céline, che poi era la sua tesi di laurea in medicina, perché uno se lo dimentica che Céline, il vituperato Céline, prima di essere l’autore della Trilogia del Nord o di Bagatelle per un massacro (che, detto tra noi, non ho mai letto) era stato il dottor Destoushes, cioè un medico coi contro coglioni. Cosa avrebbe scritto, Céline, della pandemia? Cosa avrebbe detto di questo virus o di questi virologi? Insomma, Céline scrive la storia di Ignazio Filippo Semmelweis, medico che nasce a Budapest con un grave difetto, così mi dice per telefono, nel sogno, e sì, Semmelweiss mi parla lui proprio direttamente nel sogno ma ha la voce majakowskijana di Pierpaolo Capovilla, per cui subito me lo sento molto amico, mi dice ascolta, Piero, dice Piero con quel tono con cui inizia le telefonate Pierpaolo Capovilla, dice sai, sono sempre stato brutale in tutto ma soprattutto con me stesso, non so se pure per te sia stato così, ma io mi diressi verso la medicina con assoluta naturalezza, finché, arrivò un giorno, che seguii un’autopsia in un sotterraneo, là, in quei luoghi dove la scienza interroga i cadaveri con un coltello. Come è come non è, divento allievo del grande medico dell’epoca, Skoda, un dottore di fama clamorosa! Ma un altro medico, meno famoso, fu cruciale per arricchire il mio pensiero: si chiamava Rokitansky, era l’anatomopatologo dell’università di Vienna. Due padiglioni per il parto, nel 1846, s’innalzavano nell’ospizio generale di Vienna. Uno era diretto dal professor Klin, l’altro dal professor Bartch. Presto mi fu chiaro che se i rischi di febbre puerperale erano considerevoli nel padiglione di Bartch, in quello di Klin il rischio di morte equivaleva a certezza.

Il fatto è che da Klin partorivano, perlopiù, ragazze madri, senza soldi. E più del novanta per cento morivano.
Insomma: si moriva più da Klin che da Bartch. Mi segui? Ok, vado avanti.
Altro dato: da Klin l’esplorazione (le mani nel fondo della vagina, per capirci) la facevano gli studenti, da Bartch le levatrici.
Un giorno decisi di provare a invertire gli esploratori. Le levatrici, che facevano il tirocinio da Bartch, passarono da Klin, gli studenti li spostai da Klin a Bartch.
La morte li seguì.
Capisci che significava? Erano gli studenti! Ma Klin sosteneva che erano sì gli studenti, ma erano quelli stranieri che portavano la morte, e ne fece espellere una ventina, ne rimasero la metà. Eppure, la mortalità non cambiò.
Ma sai cosa notai, che ancora di più mi fece fare due più due? Che se una gravida, colta di sorpresa, partoriva per strada, e arriva da Klin solo dopo il parto, veniva risparmiata, non moriva di febbre puerperale.
A quel punto decisi di far semplicemente lavare le mani agli studenti (ancora non lo sapevo il perché, era solo un’intuizione, non avevo microscopi per vedere quegli esseri microscopici) prima di visitare le donne incinte. Feci disporre dei lavabi. Klin si oppose. Non solo: mi fece revocare l’incarico di assistente.
Un giorno Kolletchka, il professore di anatomia, in seguito a una puntura che si era procurato mentre dissezionava un cadavere, si ammalò e morì. Era chiaro, c’era una relazione tra la malattia che aveva ucciso Kolletchka, con l’infezione puerperale di cui morivano le ricoverate.
Un giorno ebbi l’intuizione, ma quando ormai nessuno più, forse nemmeno io, pensava all’impurità cadaverica: era “l’oblio dell’impurità cadaverica” l’origine delle epidemie di sepsi puerperale nelle cliniche. Quale selvaggio, mi domandavo, quale ostetrico selvaggio avrebbe mai osato toccare una puerpera con le mani fresche del contatto con un morto? Solo l’ostetricia europea del secolo più illuminato e raffinato era stata capace di elevarsi a tanto.
Siccome Kolletchka era morto per una puntura cadaverica, era chiaro come il sole: gli essudati prelevati sui cadaveri erano i responsabili del contagio. Le dita degli studenti trasportavano le particelle cadaveriche nel collo dell’utero delle donne incinte.
Feci un’ultima prova. Gli studenti di Klin passarono da Bartch, al posto delle levatrici. L’aumento della mortalità, li seguì.
A quel punto introdussi una soluzione di cloruro di calce con cui ogni studente, dopo aver sezionato i cadaveri, prima di visitare le donne incinte, si doveva detergere. La mortalità, si annullò.
Caro Piero, ora ti domando, e lo so che la mia storia tu già la conosci, è già sedimentata nei tuoi ricordi, ma te lo ripeto: la ragione più elementare non vorrebbe che l’umanità, guidata da dotti chiaroveggenti, si fosse per sempre sbarazzata di tutte le infezioni che la tormentano, o perlomeno della febbre puerperale, sin da quel mese di giugno del 1848?
Invece no! All’umanità ottusa occorreranno quarant’anni, e Pasteur, perché la mia scoperta fosse accettata.
Tutte le Cliniche delle migliori università europee disprezzarono la mia scoperta, dichiararono che i miei risultati non erano conformi coi loro. I medici si dichiararono stufi e umiliati dei malsani lavaggi a base di cloruro di calce.
Per la seconda volta, mi fu revocato l’incarico presso l’ospedale di Vienna.
Tornai in Ungheria, mentre era in corso la rivoluzione, vi presi parte. Mi dimenticai, quasi, della medicina. Mi dimenticai, in certi momenti, di essere stato un medico. Gli incidenti fecero il resto. Sette anni, restai chiuso in una stanza, isolato.
Poi, pian piano, ricominciai. Impiegai quattro anni, per scrivere dettagliatamente L’eziologia della febbre puerperale. Inviai questa tesi all’Accademia di medicina di Parigi. La inviai alla Scienza quella con la S maiuscola. Nemmeno mi risposero. Scrissi una Lettera aperta a tutti i professori di ostetricia, in cui li chiamavo assassini. “Non sono le sale da parto che bisogna chiudere per far cessare i disastri, ma sono gli ostetrici che conviene far uscire, perché sono loro a comportarsi come vere e proprie epidemie”.
Ma nemmeno nel mio stesso ospedale, ormai, si osservano le mie prescrizioni, anzi, alcune puerpere venivano deliberatamente infettate per la soddisfazione di darmi torto.
Un giorno di aprile del 1865 entrai, urlando, nella facoltà di medicina, mi impossessai di un cadavere che attendeva d’essere dissezionato, lo ridussi in brandelli, mi tagliai, e, com’era capitato a Kolletchka, m’infettai a morte. Fu un suicidio il mio? Fu il gesto estremo di protesta di un martire?
Mi portarono in manicomio, il 16 agosto del 1865, a soli quarantasette anni, dopo un’agonia di tre settimane, lasciai la vita agli altri.
Solo cinquant’anni dopo Pasteur ridiede luce alla verità, alla mia buona fede di medico, e al mio cuore di uomo.
Rimase in silenzio. Un rantolo. Poi riprese. Ma tu continui a chiederti perché ti ho raggiunto nel tuo sogno?
Per dirti che la storia si ripete sempre due volte, la prima è tragedia, la seconda è un film dell’orrore. Furono loro, fu il Patto trasversale per la scienza che mi mandò al manicomio e a morte. Ora ritornano, ma adesso, all’ottocentesco Patto per la scienza, mi piace credere, non gli crederà più nessuno.

*

Mi sveglia una telefonata sul telefonino. Guardo l’orologio sono le sette. Chi diavolo è che mi sveglia alle sette del mattino mentre faccio la notte in ospedale, d’accordo non lo può sapere che sto lavorando, o meglio che sto dormendo sul posto di lavoro, o meglio che sognavo e forse mi stava per dire il meglio, ma le sette sono sempre le sette.
Dottore chiamo da Senigallia, ho appena letto sul giornale di Senigallia che il professor Guido Silvestri, senigalliese e docente alla Emory University di Atlanta e tra i fondatori del Patto per la Scienza, ha fatto il punto sullo stato di conoscenza del tremendo virus.
Scrive un post, breve perché è un venerdì notte e lui è stanco di lavoro. Era in trincea? Era in corsia? E’ uno di quelli che lavora? No, perché a quanto pare questi si dividono in due: i vati che pontificano e quelli che vanno in trincea e muoiono.
Ma le dicevo di Guido Silvestri, a proposito, ma lo sa che costui ha lo stesso cognome di un’attrice porno del libro di Bolaño, proprio Chiamate telefoniche che ispira la sua rubrica? Non le pare una inesorabile coincidenza? Quella si chiama Joanna Silvestri, però, ha trentasette anni ed è prostrata nella clinica Les Trapèzes. Perché è prostrata? Forse perché ha conosciuto cose abominevoli nella sua vita e chissà che non le abbia conosciute ancor più abominevoli il suo quasi omonimo Guido Silvestri, chissà che tutti i virologi ma perfino tutti i medici (incluso lei) non siano venuti a conoscenza di cose abominevoli di cui non ci diranno mai. Ma torno alla dichiarazione del professor Silvestri.
Dice questo virus, non ha NESSUNA SPERANZA, lo scrive proprio così come glielo grido io, a caratteri cubitali, nessuna speranza contro la nostra scienza. Contro il Patto per la scienza, sottintende.
Perché non ha speranza? Ma perché lui non è niente, tra i virus, che lo sappia, non è un campione, non è niente confronto all’Hiv, egli sì, è stato un nemico enormemente più insidioso che in trent’anni ha fatto 35 dico 35 milioni di morti, altro che qualche migliaio che nemmeno l’influenza, e mò che faranno bene i conti lo sgameranno. Questo virus è incapace di nascondersi, non sa integrarsi nel genoma dell’ospite cioè di noialtri gli umani, è pure scarsetto a mutare, quindi rimane molto più vulnerabile alla risposta immune dell’ospite e al nostro vaccino, quando, IL VACCINO, impietoso e inesorabile arriverà (perché arriverà) (e lo farete tutti, haha, ora il TSO è #stare-a-casa, dopo il TSO sarà #fate-il-vaccino). Per cui, prosegue il Silvestri, se è purtroppo inevitabile che questo virus da quattro soldi farà ancora molti morti nei prossimi mesi, è ancora più chiaro che presto sarà SCONFITTO dalla nostra capacità di studiarlo e neutralizzarlo. Sono le sue reali parole, dottore, per farle capire il tono bellico del virologo numero due del Patto per la scienza.
Lo ripete come un disco rotto: la presenza della SCIENZA è la vera, grande differenza tra oggi ed il 1348 della morte nera, o il 1630 della peste manzoniana, o il 1918 della influenza spagnola. La presenza della SCIENZA è il motivo fondamentale per cui questo è un virus senza speranza.
Capito dottor Cipriano? Se lo ricordi. La SCIENZA. Non la scienza. Lei e tutti i dubbiosi gli scettici i dialettici i relativisti siete la scienza, loro e quelli del Patto per la scienza sono LA SCIENZA!
Tengo spento il telefono per il resto del giorno. Dico all’assistente sociale di non passarmi più chiamate. Mi sa che chiudo con questa rubrica. Ricovero un altro che pensava di avere, anzi, di essere il virus. Torno a casa. Ci dormo sopra.

*

Sveglio. Sono di nuovo in tangenziale est deserta che vado su e giù casa ospedale. Mi ferma una pattuglia. Dove va? A salvare le persone dal terrorismo psichico dell’attuale stato di polizia. Ah, buon lavoro, mi fa. Grazie. Sia più clemente, gli dico, con le persone. Poco prima di arrivare al nosocomio, che un tempo era un sanatorio per tubercolotici sopra Monte Mario dove c’è l’aria buona e a un tiro di schioppo aveva il gigantesco Santa Maria della Pietà che pure a loro, agli internati, l’aria buona faceva bene, alle infezioni psichiche e alle infezioni dei polmoni ha sempre giovato l’aria buona, poco prima di entrare nel parcheggio semideserto mi viene in mente Paul Feyerabend. L’allievo dissenziente di Popper, l’amico scapestrato di Kuhn e Lakatos. Lo scienziato, nel suo lavoro reale, è un opportunista, così amava ripetere, usa quello che gli serve e se ne libera quando non gli serve più. La ricerca scientifica non deve aspirare a creare teorie vere, ma teorie efficaci. Lo slogan del suo anarchismo metodologico è anything goes, qualsiasi cosa va bene, tutto fa brodo. Ma se qualsiasi cosa può andar bene, allora lo scienziato è autorizzato a utilizzare tutto ciò che gli conviene: idee scientifiche del passato abbandonate, scartate dalla scienza ufficiale, miti, dogmi della teologia, elementi metafisici. Perché, anche all’interno della scienza la ragione non può, non dovrebbe, dominare tutto. Il peso della scienza, nella nostra società, dovrebbe essere ridimensionato, se per secoli si è combattuto per separare stato e chiesa, oggi bisogna separare stato e scienza. Alcune tribù primitive hanno classificazioni di piante e animali più particolareggiate di quelle della botanica e della zoologia scientifiche, e adottano sistemi di medicina non scientifica che risultano più efficaci di quelli scientifici, chi lo dice? Lo dice Feyerabend. E a chi ti fa venire in mente, oggi? A Burioni forse? O a uno sciamano amazzonico? Ecco, vorrei proprio sapere uno sciamano amazzonico che ne pensa del virus. Ma chi c’è, nel mondo della scienza, oggi, che più somiglia a uno sciamano? Chi è l’incarnazione dello scienziato epistemologicamente anarchico di cui vagheggia Feyerabend, il cui pensiero divergente ci può salvare, sia dal virus che dalla scienza di Burioni?

Timbro, mi faccio misurare la febbre come da nuovo protocollo (se è più di 37.5 non si lavora, è solo 36.2). Mi convinco a chiamare il professor Didier Raoult. Trovo il numero dell’istituto Mediterraneo marsigliese e me lo faccio passare. Chi lo vuole mi scusi? Ovviamente comunichiamo in francese e siccome ho fatto ben tre anni di francese alle medie e ero fortissimo, soprattutto nell’uso di beaucoup, riesco a farmi capire alla grande, sono Piero Cipriano, sono uno psichiatra italiano e sono uno dei pochi psichiatri epistemologicamente anarchici, ha presente Feyerabend? Ecco, ora come ora non ho la possibilità (che ha Raoult adesso) di incidere sull’epidemia, ma vedrà, che pure in questo scorcio di pandemia, il mio anarchismo alla lunga tornerà buono, insomma, vengo al dunque, siccome mi ha chiamato Semmelweis in sogno per dirmi come stanno le cose, mi ha messo il tarlo, e così ho iniziato a chiedermi chi è, oggi, il nuovo Semmelweis, e mi sono ricordato di Didier Raoult, che ormai tutti conoscono come il guru della clorochina, o meglio dell’idrossiclorochina che è più potente, ma lo chiamano guru per denigrarlo, che non lo so forse? Un microbiologo e infettivologo con le palle altro che, uno che ha le palle, sì, le palle di sbilanciarsi, ben sapendo che puntare tutto sulla idroclorochina potrebbe sputtanarlo per sempre e altro che Nobel, ammesso che uno come lui se ne freghi qualcosa del Nobel, il Nobel mi pare fatto per uomini grigi, lui di grigio c’ha solo la capigliatura, insomma con tutto quanto Big Pharma ha in canna per uccidere il virus del secolo lui che fa?, punta su un medicinale tra i più noti al mondo, in giro da settant’anni almeno, un farmaco straconosciuto per curare la malaria, malaria di cui, diciamolo, non se n’è mai fottuto nessuno visto che è una malattia da morti di fame, embè lui che dice? Dice che il farmaco antimalarico che non costa niente (infatti nemmeno si trova in giro e Trump pare già che voglia ordinare tutto quello che è disponibile al mondo, e ha fatto infuriare i suoi consiglieri scientifici amici di Big Pharma) lui è stato il primo a dire che è capace di stecchire il coronavirus, il fantomatico virus che ci tiene in casa e che fa la gioia degli autocrati alla Orban o alla De Luca che non gli pare vero di fare gli sceriffi adesso, visto che tutti hanno la fifa blu di morire. Insomma, signora, capisce che dopo il sogno di Semmelweis io non ho potuto fare altro che pensare al genio di Raoult, chi altri somiglia a Semmelweis di questi tempi? me ne dica uno, avanti, ci pensi. Non le viene in mente? Se Semmelweis disse lavatevi le mani, Raoult dice prendetevi questo farmaco che esiste già, non impazzitevi a fare vaccini (che cazzata!, dice Raoult) o a fare il super-farmaco, e però ecco che come a Semmelweis, gli scienziati ottocenteschi alla Burioni in un primo momento (salvo poco dopo ricredersi, ma pure con Semmelweis all’inizio si ricredettero, salvo poi affossarlo) gli dicono che è come minimo un ciarlatano, perché i suoi metodi sono poco rigorosi e non scientifici. A parte il fatto che dovremmo metterci d’accordo su cosa vogliamo intendere per scienza, e pure chiarire che la medicina seppure si giova della scienza è un’arte. E come tutti gli artisti i medici veri, non i parolai la cui più grande impresa curricolare è essere ospite fisso da Fabio Fazio, i medici veri sono intuitivi, sono più artisti che scienziati, anzi, diciamola tutta, i medici veri sono sciamani, perché sono in contatto con il mondo dei morti, prova ne sia l’anello con la testa di morto che Raoult ha incastonato nel dito mignolo, e sono i morti a suggerire ai medici veri come fare, per salvare, ancora per qualche decennio, la vita degli umani. Tutto qui è il trucco: il vero medico è uno sciamano che è andato a parlare con la morte. E Burioni e Silvestri e simili nell’Ottocento sarebbero stati dalla parte del Patto della scienza, dalla parte di tutti gli eminenti medici convinti che le mani di un gentiluomo non hanno bisogno di essere lavate, perché sono sempre pulite.

Raoult, lo si capisce dall’inizio della sua storia, non era nato per fare il conformista. Quanti anni ha adesso? 68? Pensavo di meno. Nasce a Dakar, giusto? In Senegal, dove suo padre era medico militare e sua madre infermiera. Cresce a Marsiglia, o sbaglio? Dove, pensi un po’ che scavezzacollo, oggi direbbero iperattivo, o borderline, lascia gli studi, ma poi ci ripensa, e va a fare la maturità classica da privatista, pensi signora che insofferenza alle regole, pensi quanto se ne può fottere uno come Raoult del Patto per la scienza, ci scatarra sopra al Patto per la scienza, direbbe Manuel Agnelli. Insomma, prende rocambolescamente il diploma e si iscrive a medicina. E come medico se la cava bene, le sue scoperte le fa, mica no, aspettiamo ancora che Burioni in Italia scopra qualche cosa, Raoult scopre cose significative, mi scusi signora ma ora non mi ricordo cosa, ah sì, individua il genoma del batterio che causa la malattia di Whipple, conosce le rickettsie come nessun altro, queste me le ricordo, ricordo che mi fece la domanda a microbiologia sulle rickettsie, e presi 28 pensi un po’, e volevo fare il virologo, pensi che folle, poi scelsi psichiatria, se no adesso mi ritrovavo a essere uno dei dieci venti trenta virologi italiani che non ci capiscono una ceppa sul virus con la corona, e ci confondono le idee, e ci chiudono dentro. Appena inizia l’epidemia, a Marsiglia, all’Istituto ospedaliero universitario Mediterraneo, Raoult testa con successo soli ventiquattro pazienti affetti da Covid-19. Dico bene? A fine febbraio su YouTube pubblica un video, dove appare con quella faccia da druido e dice “Coronavirus: game over!”, proprio così dice, assicurando al mondo che la cura c’è e non vale la pena di fare ‘sta cagnara, non c’è bisogno di tenere la gente in casa fino a ottobre che esce il vaccino, la cura c’è e si chiama idro-clorochina. Giustamente tutti erano già belli pronti per andare in guerra, ora se ne arriva fresco questo e ti dice che la guerra è rinviata a un altro virus, i vari manovratori si stizziscono, il ministro della salute francese subito, come un automa (mettiamo Speranza, o una Lorenzin, o quella di prima, la grillina medica che non aveva mai esercitato miracolata e messa a dirigere la sanità italiana, come si chiamava quella? cavolo, non me la ricordo proprio, non ha lasciato traccia, la Lorenzin almeno qualche sciocchezza la diceva, quella niente, il vuoto pneumatico) ha detto che la terapia di Raoult puzzava di fake news, ma cazzo, ministro, ma pensa prima di parlare, fai due più due, non è che uno debba per forza aprir bocca tanto per darle fiato. Ma non è stato solo lo Speranza di Francia a bollare il farmaco antimalarico del druido, no, hanno tuonato quasi tutti i medici di Francia, “La medicina non si fa con un solo test su 24 pazienti”, ha detto uno. Dopo, però, il ministro della Salute, Olivier Véran, s’è ricreduto. E ha accettato l’appello del druido riguardo l’efficacia del suo cocktail farmacologico, che nel frattempo si è evoluto, perché ora abbina l’idroclorochina a un antibiotico che io, signora, più volte ho preso, quando ho avuto la bronchite e pure una volta cinque anni fa che presi la polmonite: l’azitromicina, commercialmente meglio conosciuto come Zitromax, è una bomba, le assicuro. E così, quel paraculo di Raoult, ha pure ringraziato il ministro Olivier Véran per avergli creduto, dopo l’iniziale titubanza. Insomma, signora, non è che possa tenermi qui al telefono a sentirmi raccontare tutta la storia di Raoult, me lo passa un attimo, il druido con l’anello testa di morto al dito mignolo? Me lo passa o non me lo passa?

[Chiamate telefoniche – qua le chiamate precedenti]

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