self-made man – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 27 Apr 2025 22:01:12 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Alle radici della Rivoluzione industriale: la schiavitù https://www.carmillaonline.com/2024/03/06/alle-radici-della-rivoluzione-industriale-la-schiavitu/ Wed, 06 Mar 2024 21:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81300 di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua [...]]]> di Sandro Moiso

Eric Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, pp. 370, 24 euro

Eric Eustace Williams (Trinidad, 25 settembre 1911 – Trinidad, 29 marzo 1981) è stato professore di Scienze politiche e sociali presso l’Howard University di Washington D.C. Fondatore nel 1956 del partito “People’s National Movement” di Trinidad e Tobago, è considerato da alcuni come il “padre della nazione” dopo aver portato la colonia britannica all’indipendenza il 31 agosto 1962 e allo status di repubblica il 1º agosto 1976, divenendone anche Primo ministro, carica che ricoprì fino alla sua morte.

E’ considerato come uno dei più noti storici dei Caraibi, insieme a Cyril Lionel Robert James, soprattutto per il suo libro intitolato “Capitalismo e schiavitù”, appena pubblicato in Italia da Meltemi editore. Frutto di uno studio del 1944, la ricerca costituisce un’opera imprescindibile per la comprensione dello sviluppo e del successo dell’Impero britannico e della Rivoluzione industriale. Collegando la seconda alla tratta atlantica degli schiavi e ripercorrendone l’ascesa e la caduta, tra Settecento e Ottocento, e sostenendo che l’impiego di schiavi neri nell’Impero britannico – e, di conseguenza, il fenomeno del razzismo – abbia avuto inizio per ragioni di natura esclusivamente economica, ovvero promuovere il capitalismo industriale attraverso il reperimento di manodopera a basso costo, l’autore caraibico smonta e disvela la fasulla retorica liberale sull’umanitarismo che l’avvento del capitalismo e della rivoluzione industriale avrebbe portato con sé.

In Eric Williams l’impegno politico e l’attività di ricerca storica non andarono mai separate, come dimostra nella Premessa William Darity Jr.:

Fervente nazionalista trinidadiano, Williams mostrava verso i suoi concittadini un sentimento misto, tanto di profondo attaccamento quanto di alterigia. Negli anni immediatamente precedenti all’indipendenza, tra il 1955 e il 1962, egli si propose espressamente di portare la sua erudizione dentro al dibattito politico tenendo una serie di tortuose conferenze in una piazza del centro, nel cuore della capitale Port of Spain. I suoi discorsi contribuirono a rendere il luogo popolarmente noto come l’“Università di Woodford Square”. Eric Williams era l’insegnante e il suo uditorio riceveva delle vere e proprie lezioni accademiche di storia trinidadiana, caraibica e transatlantica, in particolare riguardo al commercio degli schiavi, alla schiavitù e al colonialismo europeo1.

Fu proprio su quella piazza che, il 15 gennaio 1956, Eric Williams lanciò il People’s National Movement (PNM), il partito politico di cui da lì in poi sarebbe stato alla guida per un quarto di secolo. Woodford Square, che prendeva il nome da un governatore coloniale razzista e corrotto dei primi dell’Ottocento, Sir Ralph James Woodford, fu ironicamente anche il luogo in cui si sarebbero radunati gli ideatori del movimento per il Black Power negli anni Settanta, trovandosi a discutere con lo stesso Eric Williams quando, durante il periodo della sua leadership, questi dovette affrontare lo status contraddittorio di essere a capo di un paese a predominanza nera sulla cui scena nazionale si stava imponendo l’attivismo del Potere Nero. Contraddizione che non fu mai risolta.

Tra il 1968 e il 1970, infatti, il movimento per il Black Power si era andato sviluppando a Trinidad e Tobago a partire dall’interno della Lega degli Studenti Universitari presso il Campus di Sant’Agostino dell’Università delle Indie Occidentali e si unì al sindacato dei lavoratori dei giacimenti petroliferi. In risposta alla sfida, lanciata dal Black Power durante il Carnevale dl 1970, Williams replicò con una trasmissione intitolata “Io sono per il Black Power” e introdusse un prelievo del 5% per finanziare la riduzione della disoccupazione e fondò la prima banca commerciale di proprietà locale. Tuttavia, questo intervento ebbe scarso impatto sulle proteste e il 3 aprile 1970 un manifestante fu ucciso dalla polizia. Il 18 aprile i lavoratori dello zucchero entrarono in sciopero e si parlò di uno sciopero generale. In risposta a ciò, Williams proclamò lo stato di emergenza il 21 aprile e arrestò 15 leader del Black Power.

Williams fece poi ancora altri tre discorsi in cui cercò di identificarsi con gli obiettivi del movimento Black Power, rimescolando il suo gabinetto e rimuovendo tre ministri e tre senatori, ma proponendo anche un disegno di legge sull’ordine pubblico che avrebbe limitato le libertà civili nel tentativo di controllare le marce di protesta. Disegno di legge che, però, dopo l’opposizione pubblica fu ritirato.

Anche se Eric William, una volta al governo, mostrò probabilmente i limiti e le contraddizioni di un cambiamento politico che non era seguito a una radicale rivoluzione nei confronti del dominio coloniale, lo stesso può essere considerato come uno dei più lucidi e spietati critici di quel “paternalismo” umanitario di cui il capitalismo britannico aveva voluto indossare i panni per giustificare con il “progresso” la propria secolare politica di rapina e oppressione che non era certo finita con la fase dell’accumulazione primaria. In cui pirati, come Sir Francis Drake, e schiavisti si erano contraddistinti e messi in bella mostra; tanto da far dire ad Adam Smith che è “il gentiluomo di ventura” (ovvero il corsaro descritto in termini più gentili) a rappresentare il primo e vero self-made man della tradizione individualista liberale.

La sua moderna critica del sistema di produzione che aveva sfruttato la manodopera schiava per incrementare il proprio sviluppo e i propri profitti non fu ben vista negli ambienti dell’Università di Oxford dove l’autore aveva studiato con ottimi risultati e soltanto con il ritorno oltre Atlantico, dove riuscì a ottenere un incarico come professore di Scienza politica e sociale presso la Howard University, che mantenne dal 1938 al 1948, riuscì a completare e a pubblicare le sue ricerche, iniziati già in Gran Bretagna con una tesi intitolata The Economic Aspects of the Abolition of the West Indian Slave Trade and Slavery – un po’ macchinoso rispetto alla precisa definizione di Capitalism and Slavery.

Prima di tornare nelle Indie occidentali, Williams aveva provato senza successo – con sei case editrici – a pubblicare la sua dissertazione del 1938 per l’Università di Oxford, e non era riuscito a ottenere un incarico accademico in nessuna università britannica. Questi ostacoli emersero nonostante Williams si fosse laureato con la lode, avesse difeso con successo la sua tesi davanti a una commissione formata dai più celebri storici dell’imperialismo di Oxford e malgrado si fosse classificato come il miglior studente del dottorato di ricerca in Storia della stessa università2.

Fu così che la ricerca, con il titolo con cui è diventata nota e con cui è stata pubblicata anche qui da noi, fu pubblicata nel 1944 dalla University of North Carolina Press. Evidentemente, una Università americana che, sarcasticamente Williams definiva come la “Oxford dei nei”, poteva allora permettersi di pubblicare un lavoro all’epoca troppo scomodo per il cuore degli studi imperiali inglesi, anche se anche all’Università di Howard i corsi fossero ancora « dominati da una premessa esplicita secondo cui la civiltà era il prodotto della razza bianca del mondo occidentale».

Ecco, proprio contro questa premessa, tutt’altro che soltanto sottintesa, o perlomeno contro l’apporto umanitario e civilizzatore degli imperi occidentali nei confronti del resto del mondo e dei popoli non bianchi, si rivolgeva l’analisi di Eric Williamsa. Così, in primo luogo, la sua tesi

si impegnava a sostenere, in modo dettagliato e ricco di evidenze, che l’abolizione britannica del commercio degli schiavi nelle Indie occidentali – ed eventualmente anche l’emancipazione delle persone in stato di schiavitù nei medesimi territori – era stata il frutto di un calcolato egoismo economico e strategico da parte dei funzionari inglesi. Williams si schierava così contro la scuola di pensiero che vedeva la causa primaria dell’abolizione e dell’emancipazione in un mutamento della moralità, in un travolgente sentimento umanitario nazionale3.

In secondo luogo, l’autore sostiene « come sia stata la schiavitù a produrre il razzismo, non viceversa». Sostenendo che il razzismo è un’ideologia emersa per fornire una potente razionalizzazione a una pratica assolutamente immorale ma economicamente profittevole.

La terza ipotesi che domina ampie sezioni di Capitalismo e schiavitù è l’argomento secondo cui il commercio degli schiavi africani e lo schiavismo nei Caraibi hanno alimentato lo sviluppo industriale britannico, facendo della schiavitù il fondamento storico del capitalismo inglese. Williams sostiene che la tratta e lo schiavismo sono stati cruciali per lo sviluppo economico britannico lungo tutto il XIX secolo, e che una volta affermatosi il progetto del “ciclo manifatturiero” essi hanno visto anch’essi declinare la loro importanza4.

Quest’ultima ipotesi è quella che lo avvicina di più a Marx, anche se è difficile capire se vi fu su di lui un’influenza diretta del pensatore tedesco, magari per il tramite di Cyril L. R. James (Port of Spain, 1901– Londra, 1989) di cui fu allievo, oppure, come si sostiene nella premessa:

È più probabile che – sempre che di influenza di Marx su Capitalismo e schiavitù si possa parlare – essa sia provenuta indirettamente dall’approccio di storia economica della Howard University, e in particolare da quello dell’economista Abram Harris.
Harris aveva anticipato l’analisi di Williams sulla relazione tra schiavitù nelle Americhe e industria britannica nel seguente pregnante passaggio di una sua pubblicazione del 1936, The Negro as Capitalist:

“Nella coltivazione della terra e nell’estrazione delle materie prime del Nuovo Mondo fu utilizzato dapprima il lavoro degli indiani e dei bianchi. Alla fine quello dei neri africani ebbe la precedenza su tutti gli altri e prese a esser visto come la fonte di un’offerta di forza lavoro quasi inesauribile e a basso costo. L’Africa ha rifornito il mondo occidentale non solo di lavoro ma anche di molto dell’oro necessario all’economia monetaria delle nazioni dell’Europa occidentale. In sintesi, l’introduzione del lavoro africano nelle Indie occidentali britanniche e i profitti ottenuti dal traffico di questa forza lavoro e dei suoi prodotti, oltre che dallo sfruttamento del continente africano per l’oro nei secoli XV e XVI, sono stati fondamentali per quell’accumulazione di capitale sulla cui base è stato costruito il sistema industriale inglese nel corso del Settecento. Analogamente, negli Stati Uniti, i profitti che il traffico degli schiavi ha portato al New England sono stati un fattore importante nella crescita dell’industria marittima e, al contempo, una fonte di surplus di ricchezza per l’industrialismo americano”5.

Nel capitolo XXXI del primo volume del Capitale, Marx aveva esplicitamente sostenuto che la schiavitù del “Nuovo Mondo” aveva costituito il pilastro cruciale dell’ascesa dell’industria britannica, motivo per cui “la schiavitù velata degli operai salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phrase del Nuovo Mondo”, sostanzialmente in piena sintonia con la terza ipotesi di Capitalismo e schiavitù. Ma il Moro di Treviri aveva trattato ancora il tema della schiavitù e del suo ruolo nel mantenimento della potenza dell’industria britannica anche nel corso della guerra civile americana quando, insieme al sodale Engels, aveva sostenuto la causa del Nord e di Lincoln, invitando gli operai ad arruolarsi nelle file dell’esercito federale, non per motivi “umanitari” ma per colpire, abolendo la schiavitù e il sistema delle grandi piantagioni del Sud degli Stati Uniti, una importantissima fonte di materie prime a basso costo che ancora alimentavano l’industria britannica e il suo colonialismo, diretto e indiretto.

Ecco allora che le riflessioni di Williams manifestano tutta la loro potenza ancora oggi, non soltanto nei confronti di un modo di produzione odioso che vuole, invece, fingersi sempre come il più umano e il più giusto possibile, ma anche di quella cancel culture che del primo è ancora succube, poiché soffermandosi sulla cancellazione delle “ingiustizie” non coglie lo stretto rapporto che intercorre tra queste e il sistema di produzione e riproduzione della vita che lo ha fondato e tutt’ora lo fonda, accontentandosi, troppo spesso e come sottolinea ancora William Darity nella sua premessa, di chiedere riparazioni e rimborsi per i torti subiti dagli antenati. Un risoluzione monetaria di crimini e oppressioni di cui proprio lo scambio mercantile e monetario hanno costituito, da sempre, la premessa.

In questo caso, occorre poi ancora sottolineare che, come afferma Williams in altra parte del testo, la progressiva abolizione della schiavitù non è dovuta a una nuova morale o a una progressiva perdita di convenienza economica della stessa, ma anche alla lotta vittoriosa degli ex-schiavi che, proprio nelle Antille, ad Haiti, avevano sconfitto militarmente sia le armate francesi, anche nella loro versione rivoluzionaria, che quelle inglesi inviate per sostituirle approfittando della debolezza della Francia già impegnata su troppi fronti. In questo caso è sicuramente da rilevare l’influenza di C. L. R. James e della sua opera: prima Toussaint L’Ouverture, pubblicata nel 1936, e successivamente The Black Jacobins: Toussaint L’Ouverture and the San Domingo Revolution, del 19386.

Riconosciuto come “il punto di partenza per una nuova generazioni di studi”, Capitalismo e schiavitù resta ancora oggi una lettura essenziale per chi voglia comprendere la modernità e il mondo post-coloniale.


  1. W. A. Darity Jr., Premessa a E. Williams, Capitalismo e schiavitù. Il colonialismo come motore della Rivoluzione industriale, Meltemi editore, Milano 2024, p. 9.  

  2. W. A. Darity Jr., op. cit., p. 11.  

  3. Ibidem, p. 12.  

  4. Ibid, pp. 13-14.  

  5. Ibid, pp. 14-15 

  6. trad. franc.: Les Jacobins noirs. Toussaint Louverture et la Révolution de Saint-Domingue, trad. di Pierre Naville, Parigi, Gallimard, 1949 e successivamente, in italiano, I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco, Milano, Feltrinelli, 1968.  

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Il caos… a combustione lenta https://www.carmillaonline.com/2017/12/06/il-caos-a-combustione-lenta/ Tue, 05 Dec 2017 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41729 di Gioacchino Toni

Al botto di Wall Street l’America arriva di corsa e con i paraocchi, tanto che, soltanto pochi mesi prima Herbert Hoover, durante il Congresso repubblicano, vaneggia sull’avvicinarsi del paese, con l’immancabile aiuto di Dio, al trionfo sulla povertà. Negli anni Venti una parte rilevante dell’America che pende dalle labbra di Henry Ford, ama raccontarsi di un procedere a tutto gas, a braccetto con l’industria dell’automobile, verso una crescita illimitata dei consumi. Sono gli anni in cui si celebra l’eroe Charles Lindbergh, capace, grazie ai prodigi della tecnologia, di volare in [...]]]> di Gioacchino Toni

Al botto di Wall Street l’America arriva di corsa e con i paraocchi, tanto che, soltanto pochi mesi prima Herbert Hoover, durante il Congresso repubblicano, vaneggia sull’avvicinarsi del paese, con l’immancabile aiuto di Dio, al trionfo sulla povertà. Negli anni Venti una parte rilevante dell’America che pende dalle labbra di Henry Ford, ama raccontarsi di un procedere a tutto gas, a braccetto con l’industria dell’automobile, verso una crescita illimitata dei consumi. Sono gli anni in cui si celebra l’eroe Charles Lindbergh, capace, grazie ai prodigi della tecnologia, di volare in solitaria oltre oceano ed il mito del self-made man pare non aver perso il suo potere seduttivo. Il successo individuale, il benessere economico e la celebrità vengono raccontati ancora come alla portata di tutti.

Gli anni Venti sono però anche il decennio in cui il mito sbandierato ai piedi della Statua della Libertà, che vuole l’America capace di concedere la felicità anche ai poveri immigrati che mettono piede nel paese, viene oscurato da una serie di leggi che sanciscono la necessità di ridurre sempre di più la ricezione di stranieri. Al timore per il comunismo si aggiunge dunque quello per lo straniero, come ricorda emblematicamente la storia di Sacco e Vanzetti spediti sulla sedia elettrica nell’estate del 1927. La costruzione di un immaginario capace di arginare le sirene della rivolta sociale diviene indispensabile; all’utopia del socialismo si risponde con l’utopia di una prosperità economica alle porte capace di portare ricchezza e felicità nelle case di tutti.

Nel 1929, pochi mesi prima del crack di Wall Street, esce nei cinema americani Big Business (Grandi affari, 1929) di James W. Horne, opera che congeda Stan Laurel e Oliver Hardy dalla gloriosa stagione della slapstick comedy e, allo stesso tempo, rappresenta il preludio a quella che sarà la loro altrettanto importante produzione sonora. É a questo indimenticabile film che Gabriele Gimmelli dedica il saggio Grandi affari, (Big Business, James W. Horne, 1929) Laurel & Hardy e l’invenzione della lentezza, (Mimesis, 2017).

Oltre che come opera liminale tra le gag mute e la fase sonora delle produzioni della celebre coppia, il film viene analizzato dallo studioso come «uno degli esempi più alti di un tratto specifico della comicità di Laurel e Hardy. La coppia porta infatti nella slapstick comedy dei ritmi nuovi, basati più sull’attesa e la durata che sull’azione e la sorpresa. È quello che si suole chiamare slow burn, alla lettera “combustione lenta”: la distruzione condotta con rigore e metodo, ma lentamente, senza fretta alcuna. Una “invenzione della lentezza”, che rimane il lascito più importante dei due attori al cinema comico americano (e non solo)» (p. 8).

Big Business è però anche un film politico, visto che in una ventina di minuti, sostiene Gimmelli, «riesce a condensare, con spietata efficacia e senza alcun didascalismo, paure e nevrosi più o meno occulte della piccola borghesia americana, colta nel passaggio dagli euforici anni Venti del Novecento ai ben più cupi anni Trenta» (p. 8). Del cittadino medio americano dell’epoca Laurel e Hardy mettono in scena quanto ha di più caro: la casa e l’automobile. «E così facendo, scardinano al tempo stesso la narrazione hollywoodiana classica, che dell’ideologia borghese si fa portatrice, facendola collassare fragorosamente sotto il lento stillicidio delle loro gag» (pp. 8-9).

La storia narrata dalla pellicola è di per sé semplice: due piazzisti attraversano su una vecchia Ford, nel dicembre del 1928, i sobborghi di Los Angeles, tentando, maldestramente, di vendere alberi natalizi porta a porta… fino a quando si innesca uno scontro con un potenziale cliente che conduce inevitabilmente al disastro annunciato.

Fino al termine degli anni Venti la forma di comicità prevalente nella cinematografia statunitense è quella del genere slapstick che spesso mette in scena un’integrazione fallita attraverso il racconto delle peripezie di un individuo solitario incapace di adattarsi alla società in cui vive. Le produzioni a cavallo tra la fine degli anni Dieci e l’inizio del decennio successivo sono sostanzialmente in mano alla Keystone Pictures, che produce cortometraggi comici che narrano di «un’America ancora sospesa fra arcaismo e modernità, fra città e campagna. Quasi a voler rispecchiare la vertiginosa evoluzione della società, l’azione regna sovrana nelle comiche [del regista e produttore Mack Sennett]. Non è un caso che proprio l’automobile assurga ben presto a oggetto-simbolo della commedia di quegli anni» (pp. 23-24).

Tra i divi del comico dell’epoca, Buster Keaton è sicuramente colui che più di ogni altro ha assegnato ai congegni meccanici un ruolo centrale. Nel corso degli anni Venti, nei film, alle macchine si aggiunge anche un paesaggio metropolitano costellato da grattacieli e a questi edifici si legano in particolare le gag di Harold Lloyd che lo vedono, dopo mille peripezie capaci di tenere il pubblico col fiato in sospeso, giungere all’happy ending. «Il ragazzo qualunque che, grazie alla buona volontà, al coraggio e a un pizzico di fortuna riesce a raggiungere le vette non solo metaforiche del successo appare perfettamente in linea con la sensibilità dell’epoca» (p. 26). Charlie Chaplin, invece, alla vita metropolitana della West Coast e alla cronaca preferisce i sobborghi del Vecchio Mondo, i silenzi del Grande Nord e la letteratura d’appendice ottocentesca.

L’arrivo del parlato, agli sgoccioli degli anni Venti, comporta una trasformazione del cinema a cui le tre star del comico rispondono diversamente: Chaplin tende a ripiegare su un cinema introspettivo che indaga il ruolo dell’attore e il suo rapporto col pubblico, mentre Keaton e Lloyd si congedano rispettivamente con un film ricco di citazioni cinematografiche e polemico nei confronti delle Majors, il primo, e con una pellicola incentrata sul tentativo di salvare dal ritiro l’ultimo tram a cavalli di New York, il secondo, probabilmente «una metaforica rivincita dell’ormai obsoleto cinema muto nei confronti del sonoro» (p. 28).

Quando ormai il vecchio modo di fare film pare destinato all’estinzione, sembra resistere ancora per qualche tempo il produttore Hal Roach che, attorno alla metà degli anni Venti, intreccia la sua strada con quelle dell’inglese Stan Laurel (Arthur Stanley Jefferson) e dell’americano Oliver Hardy. Se i due attori indossano per la prima volta “la divisa”, che li avrebbe poi resi celebri, nel 1927, è soltanto nell’anno successivo che i caratteri salienti della coppia cominciano a delinearsi in modo più chiaro: «una peculiare tendenza alla catastrofe, orchestrata però secondo ritmi che non sono più quelli di Sennett e dei suoi epigoni, ma nemmeno quelli di Keaton e Lloyd», che getta così «le basi del procedimento comico noto come slow burn. L’espressione – che si può tradurre con “lenta combustione”, “a fuoco lento” – ha in area anglofona un significato piuttosto ampio. Può descrivere infatti sia una reazione graduale e meditata a un’azione comica (si pensi agli sconsolati sguardi in macchina di Hardy); sia l’azione distruttiva di un personaggio ai danni di un oggetto o di un altro personaggio, che monta piano piano verso un’esplosione di violenza incontrollata. Per questa seconda accezione, alcuni studiosi di Laurel e Hardy utilizzano spesso un sinonimo più preciso: reciprocal destruction (distruzione reciproca). In entrambi i casi, comunque, l’elemento costante è il tempo dell’azione, che nelle mani dei due comici rallenta, si dilata come mai era accaduto prima di allora» (pp. 39-40).

Nel ricostruire le vicende produttive di Big Business, Gimmelli sottolinea come sia Stan Laurel a seguire l’intero processo di realizzazione del film e come l’attore imponga immagini luminose e lunghe inquadrature con pochi primi piani per avvicinarsi all’esperienza della recitazione dal vivo. Laurel insiste anche per l’inusuale e antieconomico metodo di filmare le scene rispettando l’ordine con cui sarebbero poi state montate. La pellicola viene girata nel corso della settimana di Natale del 1928 con riprese effettuate interamente in esterni.

Gli Studi Roach rappresentano negli anni Venti un’anomalia rispetto al cinema ormai avviato verso il dominio dello Studio System e il produttore tenta di differenziarsi sia dalle opere tradizionali sia dalle modalità produttive delle Major. Caratteristici delle produzioni Roach di metà anni Venti sono quei rallentamenti delle reazioni dei protagonisti tra una gag e l’altra capaci di prolungarne notevolmente l’effetto comico. Ciò avviene anche per quella “distruzione reciproca” portata ai massimi livelli proprio da Laurel e Hardy sul finire del decennio.

Roach capisce che i tempi stanno mutando e non solo per le opere comiche. Petr Král (Stan et Ollie, ou l’Unique et son double in Id., Les Burlesques ou Parade des Somnambules, 1986) giunge a sostenere che tale stile lento corrisponde ad un periodo in cui le cose sembrano rallentare, una sorta di “fine della festa” che caratterizza la crisi della fine degli anni Venti e alla frenesia del decennio che si sta chiudendo sembra sostituirsi una ricerca di stabilità. «L’invenzione della lentezza da parte di Laurel e Hardy (con l’appoggio creativo-produttivo di McCarey e Roach) appare quindi legata al mutamento generale dello stile di vita statunitense sulla soglia degli anni Trenta. La “fine della festa” a cui Král fa riferimento si riflette con una certa evidenza nell’estetica dei film della coppia, Big Business incluso» (pp. 53-54).

I luoghi topici della slapstick comedy rimangono in secondo piano nel film di Laurel e Hardy. Se l’ambiente in cui si svolge il film è ancora lo spazio urbano, rispetto alla tradizionale slapstick comedy, la grande città scompare e le sue strade risultano tutt’altro che brulicanti di vita: la vicenda si concentra su un microcosmo riconducibile ad un sobborgo residenziale. «L’impressione è che in questo film, come in molti altri del duo, gli esterni vogliano restituire una sensazione di chiusura» (pp. 54-55).

Per quanto riguarda l’automobile che, insieme all’abitazione, rappresenta il simbolo della commedia degli anni Venti, Gimmelli sottolinea che per quanto nel film la coppia si sposti a bordo di una Ford T pickup, prototipo dell’auto di massa, il mezzo non viene pienamente sfruttato. «L’auto di Laurel e Hardy, quindi, è ormai soltanto un oggetto ingombrante, scomodo da mettere in moto e destinato a compiere percorsi limitatissimi» (p. 56).

L’insistenza e la meticolosità con cui il film si dilunga sulla coppia nell’atto di mettere in moto l’automobile per poi partire appaiono del tutto sproporzionate rispetto alla rilevanza dell’azione compiuta. Si indugia su particolari che sarebbero risultati del tutto superflui per un cortometraggio slapstick di solo qualche anno prima, soprattutto se la scena è incentrata su un’automobile emblema del dinamismo. Certo, nella slapstick comedy tradizionale non mancano distruzioni di autoveicoli ma ciò avviene solitamente a causa di incidenti dettati dalla frenesia metropolitana. In Big Business, invece, «la modernità e la sua frenesia sono già assimilate e lontane nel tempo, mentre all’orizzonte si va profilando la recessione economica. All’azione sregolata e spesso precipitosa della tradizione slapstick, Laurel e Hardy oppongono dunque una sorta di teatrino della crudeltà [i due] non intendono travolgere lo spettatore con una serie di shock visivi: preferiscono invece accompagnarlo, un passo alla volta, verso un destino altrettanto funesto, ma comunque inevitabile» (p. 58).

Dopo alcuni rifiuti da parte di abitanti del quartiere, all’ennesimo tentativo di vendere un albero natalizio prende il via una serie di gag che vede rami e lembi di cappotto restare incidentalmente incastrati nella porta del maldisposto abitante. Certo, la gag dell’abito incastrato in una porta non è nuova per il genere, ma la novità sta piuttosto nella ripetizione insistita dell’azione maldestra e ciò rappresenta una svolta imposta dalla coppia di comici alla slapstick comedy.

Una parte del volume è dedicata alla coppia Laurel e Hardy. In tale sezione vengono ripresi gli studi di Noël Burch (La lucarne de l’infini, 1991) – a proposito del cosiddetto “piano emblematico” con cui vengono presentati di due all’inizio del film -, di Stefano Brugnolo (Strane coppie, 2013) – che indaga come i due personaggi “diversi ma simili” facciano vacillare il principio d’identità a livello di logica, funzioni e ruoli -, di Roland Lacourbe (Laurel et Hardy, 1975) – che si sofferma sul ribellismo individuale e di coppia nei diversi film -, di Charles Barr (Laurel & Hardy, 1967) – sulla gestualità della coppia -, di Marco Giusti (Stan Laurel & Oliver Hardy, 1997), Stuart Kaminsky (Generi cinematografici americani, 1985) e Gilles Deleuze (Cinéma 1. L’Image-mouvement, 1983) – sulle peculiarità dei due personaggi.

Venendo al contesto in cui agisce la coppia, il saggio mette in risalto come l’universo sia molto diverso tanto da quello chapliniano abitato da poveri e poliziotti, quanto da quello keatoniano che ha come contesto l’attiva borghesia dell’epoca. In Big Business viene messa in scena una società che faticosamente ha raggiunto un certo livello di benessere e che, terrorizzata dall’idea di perdere tutto, è disposta a difendere le conquiste ottenute con ogni mezzo necessario. «Colui che in Big Business è chiamato a incarnare tutto questo è James Finlayson […] uno dei comprimari più assidui di Laurel e Hardy […] Maestro del double take, vale a dire di quella particolare reazione comica basata sulla risposta ritardata – sorpresa, spavento o stizza – a una situazione o a una gag inaspettate, in Big Business Finlayson fa ampio uso di una sua “creazione”, il fade away: una smorfia del volto con un occhio chiuso e l’altro strabuzzante, spesso utilizzata per accompagnare il double take, ma perfettamente autosufficiente, nonché particolarmente efficace nei rapidi duelli facciali con Laurel e Hardy, che “riempiono” di quando in quando le pause dello scontro» (p. 69).

Oltre alla mimica facciale Finlayson lavora sul crescendo dell’irritazione che si traduce in a una recitazione sempre più nevrotica e sguaiata che lo porta persino a danzare follemente sull’auto distrutta della coppia. «È come se a contatto con la strana coppia di piazzisti, l’aggressività e la follia represse degli everymen d’America trovassero il modo di emergere in tutta la loro violenza» (p. 72). Alle reazioni sempre più concitate di Finlayson fanno da contrappunto le azioni più misurate e lente di Laurel e Hardy che, come sottolinea Giusti, probabilmente si rendono conto che «la logica dell’occhio per occhio altro non è che “un rito, ripetibile, che fa parte dei rapporti ‘di mondo’ con la società”» (p. 72). Big Business è costruito attorno allo slow burn fra la coppia e l’antagonista; qui «si ha l’impressione che il consueto gioco al massacro raggiunga proporzioni colossali, arrivando ben presto a inghiottire ogni cosa: non soltanto lo spazio dell’azione, ridotto a un cumulo di macerie, ma addirittura […] la narrazione stessa» (p. 72).

Nonostante la vicenda sembri innescarsi all’improvviso a causa di un gesto maldestro, in realtà, sottolinea Gimmelli, tutto deriva da una serie di piccoli segnali disseminati nella parte iniziale del cortometraggio in cui si palesa l’incompatibilità e la conflittualità tra la coppia e il mondo circostante. Le sequenze e le inquadrature sono sapientemente calibrate per costruire il classico “rituale” che porta la coppia a confrontarsi con l’antagonista: «ciascun contendente attende con pazienza che l’altro abbia completato la sua mossa, dopodiché fa una rapida ricognizione dei danni subiti (oppure chiama il pubblico a testimone guardando in macchina) e soltanto a quel punto restituisce il colpo. Ovviamente l’energia distruttiva del trio è destinata a dilagare a macchia d’olio, a coinvolgere spazi sempre più ampi» (p. 77). I tempi d’attesa tra un’azione e la reazione si fanno però via via più rapidi fino a condurre ad un conflitto ormai incapace di rispettare i tempi alternati. In un crescendo vertiginoso le scaramucce lasciano il posto ad una violenza anarchica distruttiva capace di radere al suolo la casa e l’automobile, con i loro portati simbolici, e nulla può l’intervento dell’autorità in divisa.

Se il titolo sembra promettere grandi affari finanziari, «quello che lo spettatore si trova davanti è lo spettacolo di tre scalmanati che si fanno la guerra e che, per soprammercato, si ritrovano alla fine più poveri di quando avevano cominciato» (p. 83). Il cinema di Laurel ed Hardy può dunque essere letto come sovversivo per il suo mettere in scena una frustrazione, per certi versi, antiborghese e anti-hollywoodiana, culminante in un allontanamento dei due in fuga a passo di corsa – inseguiti dall’autorità in divisa irrisa dalla coppia – che, a differenza di quanto avviene nei film di Chaplin in cui il personaggio abbandona la scena scrollando le spalle a un mondo che lo esclude, promette di diffondere il caos altrove.

… a combustione lenta… il caos esploderà ovunque.

 

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