segregazione – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronaca di una sconfitta (nascosta sotto un cumulo di menzogne) https://www.carmillaonline.com/2021/11/24/cronaca-di-una-sconfitta-nascosta-sotto-un-cumulo-di-menzogne/ Wed, 24 Nov 2021 21:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69228 di Sandro Moiso

“Nella inconcepibile finitezza dell’universo non vi è nulla di nuovo, nulla di differente. E’ una questione di statistica e ciò che può apparire eccezionale alla ristretta mente dell’uomo appare inevitabile all’infinito […]. Quel che sembra un fatto unico può essere un luogo comune. […] questo avvenimento inconsueto, queste impressionanti coincidenze di luogo, di possibilità, di corsi e ricorsi, tutto questo si può ripetere con straordinaria esattezza e precisione più e più volte sul pianeta di un sistema solare della Galassia che compie un solo movimento di rotazione ogni duecento [...]]]> di Sandro Moiso

“Nella inconcepibile finitezza dell’universo non vi è nulla di nuovo, nulla di differente. E’ una questione di statistica e ciò che può apparire eccezionale alla ristretta mente dell’uomo appare inevitabile all’infinito […]. Quel che sembra un fatto unico può essere un luogo comune. […] questo avvenimento inconsueto, queste impressionanti coincidenze di luogo, di possibilità, di corsi e ricorsi, tutto questo si può ripetere con straordinaria esattezza e precisione più e più volte sul pianeta di un sistema solare della Galassia che compie un solo movimento di rotazione ogni duecento milioni di anni e ne ha compiuti finora già nove. Vi sono stati mondi e culture, a non finire, ognuno forse sedotto dall’illusione orgogliosa di essere unico, insostituibile, irriproducibile. Ci sono stati uomini, a non finire, malati della stessa forma di megalomania da cui anche intere nazioni e mondi interi sono affetti. Ce ne saranno altri e altri ancora.” (Alfred Bester, L’uomo disintegrato, 1952)

Non vi può essere dubbio che la sconfitta, prima americana e subito dopo occidentale, in Afghanistan sia stata ancor più politica che militare. La precipitosa ritirata, che alcuni oggi vorrebbero descriverci come poco importante dal punto di vista degli interessi statunitensi, è avvenuta infatti principalmente a seguito di calcoli politici sbagliati e fiducia mal riposta nelle forze armate. Oltre che in una montagna di dollari spesi più per corrompere che per costruire una nazione.

La storia della guerra afghana, durata vent’anni, non è, però, soltanto la storia di una catastrofe militare, politica, sociale e culturale. E’ anche quella di un’enorme voragine, di un buco nero che non solo ha assorbito vite, soldati, mezzi e denaro, ma anche coscienze, illusioni, ideologie, concezioni e visioni del mondo e che ha contribuito a trasformare l’immaginario occidentale. Anche quello che si riteneva di “sinistra”, democratico o antagonista, se non marxista.

Una guerra sviluppatasi nel corso di un cambiamento tecnologico che si è fatto anche antropologico. Una svolta nella gestione dei dati e delle informazioni che, più che dar vita ad una quarta rivoluzione industriale, ha garantito al nostro avversario di sempre, l’imperialismo finanziario o il capitalismo dello sfruttamento integrale delle risorse del pianeta e della vita, una capacità di penetrazione nell’immaginario collettivo ed individuale prima inconcepibile. Arricchendo il già fin troppo condiviso ideale di progresso con le enormi bugie e falsità contenute nei vacui discorsi sui diritti umani e, da qualche tempo, sul green capitalism (come hanno ancora dimostrato il recente G20 tenutosi a Roma oppure la conferenza COP 26 di Glasgow).

Questo autentico lavaggio della coscienza collettiva, quasi si trattasse di riciclare denaro sporco, ha utilizzato strumenti nemmeno troppo complicati e neppure programmati in precedenza. Soltanto è avvenuto in un contesto in cui la soggettività è diventato un elemento assoluto e dirimente in qualsiasi contesto di discussione e dibattito. Mentre l’interesse collettivo si è pian piano trasferito a far da tappezzeria sbiadita nel salotto mediatico universale, che va dagli studi televisivi ai social presenti nei telefonini di ultima generazione, in cui siamo ormai immersi. Troppo spesso per semplice pigrizia e/o conformismo.

Così il lento movimento delle galassie sociali e delle differenti forme di produzione, destinate a scontrarsi inevitabilmente nel corso dei loro giganteschi movimenti, è stato sempre più nascosto da una miriade di individui “pensanti” che si comportano, nell’interpretare le proprie scelte e quelle altrui oppure le proprie irrinunciabili specificità, come coloro che rivendicarono fino a Galileo, e oltre, l’unicità dell’uomo e la centralità sua e del pianeta che gli è stato assegnato all’interno di un universo ridotto a pure funzione di contorno e sfondo.

D’altra parte, quando vent’anni or sono l’azione americana diede inizio al conflitto afghano, dopo aver preventivamente scacciato i sovietici da quegli stessi territori, con un’altra lunga e mai dichiarata guerra da cui sarebbero derivati sia la determinazione che la costituzione dei gruppi della galassia dell’islamismo radicale, da poco l’ultimo movimento occidentale antimperialista e internazionalista globale di un qualche peso era stato schiacciato e smembrato nelle strade di Genova, grazie non soltanto all’enorme apparato repressivo messo in atto in quei giorni, ma anche alle sue indubbie contraddizioni e agli errori di calcolo dei suoi leader.

I fatti del G8 di Genova, oltre tutto, avvennero poco prima che a Durban, in Sudafrica, dal 31 agosto all’8 settembre 2001, si svolgesse la Conferenza mondiale “contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza”. Iniziativa dell’ONU che, forse per la prima volta, vide i delegati degli Stati Uniti e di Israele ritirarsi dalla medesima in segno di rifiuto e opposizione alle risoluzioni prese dalla stessa.

Risoluzioni “morbide” che comunque individuavano nello stato di Israele il promotore dell’apartheid nei confronti dei palestinesi e, in secondo luogo e senza la richiesta di risarcimenti come invece era stato inizialmente previsto, nella schiavitù e nel razzismo un crimine perpetuato fin dal passato negli Stati Uniti (oltre che in altri contesti), ma che bastarono a suscitare lo scandalo tra i principali rappresentanti dell’imperialismo e del sionismo.

Nemmeno due settimane dopo le torri gemelle sarebbero crollate sotto l’effetto di un attacco terroristico che più che in Afghanistan avrebbe trovato supporto, come dimostrano i documenti appena, e solo parzialmente, desecretati dal Federal Bureau of Investigation (qui), nei servizi segreti e nei funzionari sauditi presenti sul territorio americano. Ancora ventisei giorni e, il 7 ottobre, sarebbe iniziato l’attacco americano contro l’Afghanistan e il governo degli studenti coranici (talebani).

A distanza di vent’anni si possono dunque fare considerazioni di varia natura e peso sull’ipocrisia che, allora come oggi, ha governato e governa ancora l’informazione politico-mediatica sull’argomento. La prima considerazione da fare, però, riguarda la scarsa mobilitazione contro la guerra che si ebbe fin da subito, di qua e di là dell’Atlantico; a differenza di quanto era avvenuto all’inizio degli anni Novanta in occasione della guerra del Golfo, che vide svilupparsi una forte opposizione alla stessa sia negli Stati Uniti, che in Europa e anche qui in Italia.

L’uso reiterato delle immagini del crollo delle Twin Towers aveva invece contribuito a creare un clima di sgomento e di paura che, soprattutto negli Stati Uniti e subito dopo nel resto dell’Occidente ricco, sicuro e perbenista, tagliò le gambe anche a chi in precedenza aveva manifestato contro la guerra.

La “guerra in casa” faceva paura, non c’è dubbio, e costringeva, tramite una politica della paura e della sbandierata minaccia ai “nostri” diritti, a far sì che una parte consistente della popolazione, senza alcuna differenziazione politica e/o sociale, finisse per parteggiare per gli interessi statunitensi e occidentali, ritenuti come propri.

Non era più l’anticomunismo degli anni Sessanta e Settanta a mobilitare una parte consistente dell’opinione pubblica a favore dell’intervento militare, ma la lesa maestà del diritto occidentale di dominare il mondo, anche attraverso la favola dei diritti e della libertà individuale. Narrazione trascinatasi fino ai nostri giorni, caratterizzati da una confusione ideologica e da un’ipocrisia che non ha quasi eguali nella Storia.

Un libro di Craig Whitlock, appena dato alle stampe da Newton Compton1, si occupa di far piazza pulita delle menzogne che giustificarono quell’entrata in guerra e che hanno continuato a giustificarne la continuazione nei successivi vent’anni. Con almeno tre presidenti direttamente coinvolti nella sua narrazione: George Bush Jr., Barack Obama e Donald Trump.

Craig Whitlock è un giornalista investigativo del «Washington Post», e se questo non dovesse ricordare nulla al lettore distratto sarà utile ricordargli che il «Washington Post» è proprio quel giornale che nel 1972 rivelò, nonostante le minacce presidenziali e degli uomini degli apparati a lui più vicini, lo scandalo Watergate, che portò alla richiesta di impeachment per lo stesso presidente Richard “Tricky” Nixon e alle sue dimissioni a seguito della scoperta, a partire dall’hotel Watergate di Washington, di intercettazioni condotte in segreto contro i rappresentanti del Partito Democratico ad opera di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente Nixon.

Scandalo che, in qualche modo, oscurò a livello mediatico e d’opinione quello aperto poco tempo prima dalla pubblicazione sul «New York Times» dei cosiddetti Pentagon Papers, uno studio sugli errori compiuti dal Pentagono e dal governo statunitense in Vietnam, che era stato commissionato dall’8° Segretario della Difesa statunitense Robert McNamara (in carica dal 21 gennaio 1961, sotto la presidenza di John Kennedy, al 29 febbraio 1968, sotto quella di Lyndon Johnson). Però, più che uno studio sugli errori, i Pentagon Papers, rivelati all’epoca oltre che dal «New York Times» anche dal «Washington Post», si erano trasformati in una denuncia delle menzogne messe in campo dal governo per giustificare una guerra destinata inevitabilmente alla sconfitta (oltre che a danneggiare gravemente la popolazione, l’ambiente e l’economia del Vietnam).

Non per nulla il testo di Whitlock si intitola, nell’edizione originale americana pubblicata quest’anno, Afghan Papers, proprio per richiamare alla memoria un’esperienza cui si ispira il lavoro del giornalista statunitense. Lavoro iniziato nel 2016, quando il presidente Obama, allo scadere del suo secondo mandato, non aveva ancora mantenuto le promesse di vittoria e di ritiro delle truppe precedentemente fatte. Cosa che ha permesso a Whitlock di affermare:

A quel punto io potevo vantare un’esperienza di quasi sette anni come reporter di punte del «Washington Post» nella copertura di notizie del Pentagono e dell’esercito degli Stati Uniti.
[…] Prima di ciò, ero stato per sei anni il corrispondente estero oltreoceano del «Washington Post»; avevo scritto di al-Qaeda e dei suoi affiliati terroristi in Afghanistan, Pakistan, Medio Oriente, Nord Africa e Europa.
Come molti giornalisti, sapevo che l’Afghanistan era un totale disastro. Disprezzavo le vuote dichiarazioni dell’esercito americano, in base alle quali sembrava che i progressi fossero costanti e che si fosse sulla strada giusta2.

Operazione, quella afghana, che nonostante il vasto consenso pubblico, dovuto alle motivazioni riassunte all’inizio di questo articolo, fin dall’inizio presentò qualche ombra per chi intendeva comprenderne a fondo ragioni, motivazioni, finalità e strategie reali, se è vero che, come afferma ancora Whitlock:

Due settimane dopo gli attacchi dell’11 settembre, mentre gli Stati Uniti si preparavano alla guerra in Afghannistan, un giornalista pose una domanda ben precisa al segretario della Difesa Donald Rumsfeld: i funzionari americani mentono ai media sulle operazioni militari per fuorviare il nemico?
[…] Il segretario della Difesa parafrasò una citazione del primo ministro britannico Winston Churchill: «In tempo di guerra, la verità è così preziosa che dovrebbe sempre essere assistita da una guardia del corpo di bugie». […] Sembrò che Rumsfeld stesse giustificando la pratica di diffondere bugie in tempo di guerra, ma poi cambiò rotta e insistette che lui non sarebbe mai stato capace di fare una cosa del genere. «La risposta alla sua domanda è no, non credo che sia possibile», dichiarò «Non ricordo di aver mai mentito alla stampa. Non ho intenzione di farlo e direi di non aver alcun motivo di farlo. Esistono decine di modi di sottrarsi a una situazione in cui si sarebbe obbligati a mentire, e io non lo faccio»3.

Attraverso l’analisi di migliaia di documenti, interviste, memoir e anni di lavoro, Whitlock ha invece portato in piena luce e dimostrato col suo lavoro (in parte già pubblicato in una serie di articoli del «Washington Post») l’enorme cumulo di menzogne con cui il governo e l’esercito degli Stati Uniti hanno coperto una disfatta politico-militare con pochi altri precedenti nella loro storia (e in quella dell’Occidente).

Dodici giorni dopo le dichiarazioni di Donal Rumsfeld, il 7 ottobre 2001: «quando l’esercito americano iniziò a bombardare l’Afghanistan, nessuno poteva immaginare che quella missione si sarebbe trasformata nella guerra più lunga della storia americana, più lunga della Prima e della Seconda guerra mondiale e di quella del Vietnam messe insieme»4.

Guerra in cui, secondo la ricostruzione di Whitlock e le interviste rilasciate da militari e funzionari di ogni livello e grado: «A sorpresa, i generali al comando hanno ammesso di essere scesi sul campo senza una vera e propria strategia o un piano», come ha dichiarato il generale dell’esercito Dan McNeill, due volte comandante delle forze armate statunitensi durante l’amministrazione Bush. «Semplicemente non esisteva»5.

Come ha ancora aggiunto il generale britannico David Richards, a capo delle forze USA e NATO dal 2006 al 2007: «Non c’era una strategia coerente a lungo termine. Abbiamo provato a tracciare un approccio coerente a lungo termine, una vera e propria strategia, ma ci siamo ritrovati con una serie di tattiche slegate.» Oppure, come ha ammesso Richard Boucher, il principale diplomatico per l’Asia meridionale e centrale dell’amministrazione Bush: «Non sapevamo cosa stessimo facendo.» Mentre il tenente generale dell’esercito Douglas Lute, lo zar della guerra della Casa Bianca sotto le amministrazioni Bush e Obama, gli faceva eco affermando: «Non avevamo la più pallida idea di quello che stavamo facendo»6.

La costruzione di una nazione “moderna”, i diritti delle donne, la formazione di un esercito regolare e di una polizia, oltre che di un’amministrazione non corrotta non sono state altro che vuote promesse e menzogne per giustificare una guerra che, oltre alle centinaia di migliaia di vittime tra la popolazione civile, ha causato 2300 morti e 21.000 feriti, senza contare il numero infinito di traumi psicologici, tra i 775.000 soldati statunitensi che hanno prestato servizio in Afghanistan. Un prezzo altissimo per ciò che, alla fin fine si è rivelato come il più costoso perseguimento di un chimerico nulla della Storia.

I leader politici contrari al ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan si richiamano spesso alla necessità di difendere i progressi fatti in questi anni. Vediamoli rapidamente.
A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane maggiori), attribuibili al lavoro delle organizzazioni internazionali e delle ONG, non alla NATO), l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (su mille nati, 113 decessi entro il primo anno di vita), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite). Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra dell’Alleanza del Nord espressione della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo ed è lontanissimo dallo standard minimo di una Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma7.

Basterebbe poi soltanto citare la tanto sbandierata guerra alla produzione di oppio, nei suoi dati reali, per verificare come il cumulo di menzogne sia stato enorme sia durante che ancora oggi, a guerra finita:

A questo si aggiunge il sistematico coinvolgimento di tutte le autorità governative, da quelle periferiche e a quelle centrali, nel business della droga (oppio ed eroina) rifiorito dal 2001 con effetti devastati non solo nello stesso Afganistan (in dieci anni la tossicodipendenza è aumentata del 650% e oggi riguarda un afgano adulto su 12, con conseguente esplosione dell’Aids) ma anche in Occidente, compresa l’Italia, dove l’eroina proveniente dall’Afganistan si sta diffondendo tra i giovanissimi provocando un numero di vittime che non si vedeva dagli anni ’808.

Come ha confermato anche, in un articolo recente, il quotidiano francese «Le Figaro»:

c’è un’area in cui i talebani avevano sorpreso positivamente: il mullah Omar, leader supremo dei talebani, aveva imposto un divieto totale alla coltivazione del papavero da oppio nei territori sotto il loro controllo, cioè oltre il 90% del paese e il 95% della superficie coltivata dalla coltivazione del papavero. Nel maggio 2001, i talebani avevano praticamente eliminato la produzione di oppio, facendola scendere a 185 tonnellate dalle 4600 tonnellate del 1998. Questo residuo era concentrato nei territori del nord-est del paese sotto il controllo dell’Alleanza del Nord, nemici dei talebani. Tuttavia, per una sinistra ironia, durante i 20 anni della presenza americana, la produzione e il traffico di oppio sono stati ricostituiti9.

Infine, visto che se ne è fatto un gran parlare ad agosto e settembre di quest’anno, non occorre dimenticare che: «La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale in Afghanistan è il crescente numero di afgani che cerca rifugio all’estero: in Europa negli ultimi anni, tra i richiedenti asilo gli afgani sono i più numerosi dopo i siriani»10. E questo non soltanto negli ultimi mesi, come i media embedded vorrebbero far credere, ma per tutto il corso della guerra. Senza contare che molti profughi fuggiti in Pakistan hanno iniziato, dopo la ritirata occidentale, a rientrare in Afghanistan.

Sceneggiata oltre più vergognosa se si considera che, dopo gli alti lai e guaiti espressi dai media politically correct a favore dei profughi nelle prime settimane post-ritirata, l’Europa e l’Occidente intero sono ritornati ad essere quelli dei muri anti-profughi e migranti. Le lacrime di coccodrillo durano poco, come già dimostrarono le disavventure dei profughi vietnamiti negli Stati Uniti dopo il 197511. Ben accolti in quanto “collaborazionisti” agli inizi, ma poi rifiutati come immigrati e stranieri subito dopo.

L’elenco delle menzogne politiche e mediatiche potrebbe continuare all’infinito. Basti qui soltanto sottolineare che anche Donald Trump, il presidente che in maniera del tutto opportunistica ha finito col patteggiare il ritiro, poi portato a termine dall’amministrazione Biden, di fronte alla resistenza pashtun e all’avanzata talebana che in un solo anno (dal 2015 al 2016) aveva finito col passare dal 28% al 43% del territorio controllato, nell’ambito della missione di combattimento Freedom’s Sentinel, aveva deciso l’invio di ulteriori 3.500 soldati in modo da far sì che il numero complessivo delle truppe americane in Afghanistan raggiungesse i 14.500 uomini.

Va inoltre considerata la presenza di circa 23.500 contractors alle dipendenze del Pentagono (di cui 9.400 americani) impiegati a supporto delle operazioni e delle strutture militari statunitensi nel Paese, tra i quai 1.700 paramilitari (di cui 450 americani).
Tra le ipotesi allo studio dell’amministrazione Trump per il nuovo ‘surge’ c’è quella di ricorrere all’invio, invece che di truppe regolari, di un vero e proprio esercito di contractors dipendenti di compagnie militari private (PMC) da impiegare, per conto del Pentagono, in operazioni di combattimento, così da poter disporre di ‘boots on the ground’ in numero illimitato e di non dover sostenere il costo politico di ulteriori perdite di fronte a un’opinione pubblica americana stanca di questa guerra infinita12.

Menzogne sulla guerra, menzogne sul ritiro, menzogne sul e del dopoguerra.
Tornando così al testo di Withlock occorre sottolineare come, proprio all’inizio, l’autore ricordi come:

Soltanto una stampa libera e senza freni può rivalare in modo efficace i raggiri di un governo. E tra le responsabilità di una stampa libera c’è il dovere d’impedire a qualsiasi istituzione del governo di ingannare il popolo e mandarlo in terre lontane a morire di febbre, pallottole e granate straniere.
Il 30 giugno 1971, il giudice della Corte Suprema Hugo L. Black ha espresso un’opinione in tal senso nel caso New York Times Co. Contro gli Stati Uniti, noto anche come il caso Pentagon Papers. Con una votazione di sei a tre, la Corte ha stabilito che il governo degli Stati Uniti non poteva proibire al «New York Times» o al «Washington Post» i segreti del dipartimento della Difesa sulla guerra del Vietnam13.

Ancora una volta il richiamo è ai Pentagon Papers che, all’epoca della loro pubblicazione suscitarono anche l’attenzione di una delle menti più lucide del ‘900, Hannah Arendt, che sugli stessi scrisse, nel 1971, Lying in Politics. Reflections on the Pentagon Papers, una conferenza trasformata poi in un articolo pubblicato nel 1972 nella «New York Review of Books»14. Il cui tema centrale, più che la disastrosa campagna militare asiatica condotta dagli Stati Uniti, era costituito dall’uso della menzogna in politica. Era la stessa Arendt ad affermarlo:

I Pentagon Papers – ovvero il nome con cui la Storia del processo decisionale statunitense sulla politica in Vietnam in quarantasette volumi (commissionata dal segretario alla difesa Robert McNamara nel giugno del 1967 e completata un anno e mezzo dopo) è divenuta familiare fin dal giugno 1971, quando il «New York Times» pubblicò questo resoconto top secret e accuratamente dettagliato, sul ruolo che svolsero gli Stati Uniti in Indocina tra la seconda guerra mondiale e il maggio del 1968 – raccontano storie diverse e offrono differenti lezioni a lettori differenti. Alcuni sostengono di aver compreso solo ora come il Vietnam fosse il “logico” prodotto della Guerra fredda e dell’ideologia anticomunista, altri, invece, affermano che questa è un’opportunità unica per comprendere i processi decisionali del governo, ma la maggior parte dei lettori, tuttavia, concordano che la questione centrale sollevata dai Papers è l’inganno. Ad ogni modo, è abbastanza ovvio che questa fosse la questione di gran lunga più importante nella mente dei giornalisti che hanno collazionato i Pentagon Papers per il «New York Times» […] Il celebre vuoto di credibilità che ci ha accompagnato per sei lunghi anni si è improvvisamente trasformato in un abisso15.

Menzogna in politica che sempre dovrebbe suscitare scandalo e riprovazione, ma che, soprattutto nell’italietta bigotta e opportunista di ogni colore, sempre più sembra essere accettata come necessaria e inevitabile, soprattutto da quella che vorrebbe ancora definirsi come “sinistra democratica”. Al contrario, invece, nello scritto della Harendt, che dovrebbe ben essere tenuto a mente da chi questo sistema vorrebbe davvero e radicalmente cambiare, si sottolinea come la “politica della menzogna” sia stata destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale.

Ancor più interessante è il fatto che la stragrande maggioranza delle decisioni di questa disastrosa impresa sono stata prese con la piena consapevolezza che, verosimilmente, esse non avrebbero potuto venir attuate: perciò gli obiettivi dovevano mutare continuamente. Dapprima ci sono gli obiettivi annunciati pubblicamente – «vedere il popolo del Vietnam del Sud in grado di determinare il proprio futuro» o «assistere il paese nel suo tentativo di aver ragione della cospirazione comunista» oppure ancora il contenimento della Cina e il tentativo di evitare l’effetto domino, o lo sforzo di proteggere la reputazione dell’America in quanto «garante delle posizioni anti-sovversione».
[…] A partire dal 1965 la nozione di vittoria netta passò in secondo piano e l’obbiettivo divenne «convincere il nemico che non è in grado di vincere», Dal momento che il nemico non se ne convinceva, fece la comparsa il nuovo obbiettivo: «evitare una sconfitta umiliante» – come se la caratteristica principale della sconfitta in guerra fosse la semplice umiliazione. I Pentagon Papers riportano la paura ossessiva dell’impatto che avrebbe avuto una sconfitta, non sul benessere della nazione, ma «sulla reputazione degli Stati Uniti e del loro Presidente». Perciò, poco tempo dopo, nel corso di molti dibattiti riguardo l’impiego di truppe di terra contro il Vietnam del Nord, l’argomento principale non fu la paura della sconfitta e la preoccupazione circa la sorte dei soldati in caso di ritirata ma, «una volta che le truppe statunitensi sono sul territorio, sarà difficile farle ritirare senza dover ammettere la sconfitta»16.

Letti in tralice i commenti della Harendt ci rivelano tutta la debolezza e l’insicurezza dell’operare americano non solo in Vietnam, ma anche in Afghanistan. Più in profondità rivelano, però, anche tutta la prosopopea di un modo di produzione, e dei suoi governi, nel mantenere posizioni che non siano umilianti per il proprio operato (dalle guerre ai piani per il contrasto delle pandemie oppure per fermare il cambiamento climatico). Paura di un’umiliazione che in un sol colpo potrebbe rivelare non soltanto la fanfaronaggine capitalistica e occidentale, delle sue presunte capacità gestionali, militari, politiche, tecniche e scientifiche, ma anche dei poveri di spirito cospirazionisti che nel vedere in ogni azione governativa un “complotto” non contribuiscono ad altro che a ridare credibilità e forza ad un sistema intimamente anarchico e fallimentare.

Una galassia giunta ormai al termine del suo ciclo che, per ora, soltanto l’inerzia continua a far ruotare in prossimità dell’autentico buco nero che ha contribuito a creare con il suo sovrapporre menzogne, violenza, falsità e irresponsabile volontà di dominio su una materia di per sé ribelle, indocile e irriducibile alla sua volontà.

In questo sistema, cui il maquillage esperto di rappresentanti dei media ed intellettuali da strapazzo tende a dare ogni volta un aspetto diverso e “più consapevole”, in realtà a dominare, oltre alla brama di profitto e appropriazione privata, sono infatti il caso e l’ignoranza, anche ai livelli più elevati di governo, sia al centro che alla periferia dell’impero.

Nel caso della guerra in Vietnam, ci troviamo di fronte, oltre che a falsità e confusione, ad una ignoranza dello sfondo storico di riferimento davvero stupefacente e assolutamente onesto: non solo i decision-makers sembravano ignorare tutti le ben note vicende della rivoluzione cinese e la decennale rottura tra Mosca e Pechino che l’aveva preceduta, ma «nessuno al vertice era al corrente o considerava importante che i vietnamiti avessero combattuto contro invasori stranieri per almeno duemila anni» o che parlare del Vietnam come di una «piccola nazione arretrata» priva di interesse per le nazioni «civilizzate», opinione sfortunatamente condivisa anche da coloro che criticano la guerra, è in aperta contraddizione con l’antica e altamente sviluppata cultura della regione. Ciò di cui il Vietnam è privo non è certo “la cultura”, ma l’importanza strategica […] di un terreno adatto a moderni eserciti meccanizzati e di obbiettivi significativi per l’aviazione. Ciò che ha provocato la sconfitta delle politiche statunitensi e del loro intervento armato non sono state solo le paludi […] ma il volontario e deliberato disprezzo per tutti i fattori storici, politici e geografici, per più di venticinque anni17.

Le stesse parole si potrebbero ripetere esattamente per i think tank che hanno pianificato e condotto così disastrosamente la guerra afghana, ma anche per qualsiasi altra fallimentare strategia capitalistica, presente e passata, compresa la pianificazione sovietica di età staliniana.
Ci si rende così conto, allora, che la politica della paura affonda le proprie radici nella paura del fallimento insito nel cuore del colosso capitalista, che vivo può rimanere soltanto se i suoi potenziali avversari sono convinti della sua forza e capacità di previsione e organizzazione.

Così, come affermava la Arendt in chiusura del suo saggio: «Da questa storia si può concludere che quanto più successo ottiene il bugiardo, quante più persone egli ha convinto, tanto più probabile è che egli stesso finisca per credere alle proprie bugie»18. Purtroppo la trasformazione antropotecnologica, di cui si parlava all’inizio, non ha fatto altro che rafforzare tali narrazioni, false e invasive, contribuendo a renderle ancora più pervasive sia a livello di immaginario individuale che politico (qui su Carmilla).

A chi resiste, in questo autentico deserto di macerie ideologiche, politiche, etiche, militari ed economiche rappresentato dal capitalismo attuale, non resta che continuare a denunciare non solo le intenzioni e le falsità dei suoi aperti sostenitori, ma anche quelle ancora troppo spesso riferibili al campo del socialismo irrazionale degli imbecilli, già destinati alla sconfitta poiché, anche involontariamente, continuano ad operare nello stesso campo semantico e con le stesse logiche “rovesciate” dell'”avversario”. Logiche che, invece, non potranno essere soltanto “rovesciate di segno”, ma che dovranno essere annullate una volta per tutte, per permettere a ben altre galassie sociali di formarsi e vivere per un altro ciclo di tempo all’interno dell’infinito moto dell’universo.


  1. Craig Whitlock, Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti Top Secret, Newton Compton Editori, Roma 2021, pp. 350, 12,00 euro  

  2. Craig Whitlock, Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti Top Secret, Newton Compton Editori, Roma 2021, p. 9  

  3. C. Whitlock, op. cit., p. 7  

  4. Ibidem, p. 8  

  5. Ibid., p. 11  

  6. Tutte le citazioni si trovano a p. 12 del testo di Whitlock  

  7. MILEX. Osservatorio sulle spese militari italiane (a cura di), AFGHANISTAN. Sedici anni dopo, 2017, p. 11  

  8. Ivi  

  9. Bernard Frahi, “Come gli occidentali hanno permesso all’Afghanistan di diventare di nuovo il paese della droga”, «Le Figaro», 24 agosto 2021  

  10. MILEX, Afghanistan. Sedici anni dopo, op. cit, p. 11  

  11. Ben rappresentate in un film del 1985: Alamo Bay di Louis Malle  

  12. MILEX, op. cit., p.7  

  13. C. Wuitlock, op. cit., p. 6  

  14. Tradotto in Italia come: Hannah Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui “Pentagon Papers”, Casa Editrice Marietti, Milano 2006  

  15. H. Arendt, La menzogna in politica, Casa Editrice Marietti, Milano 2006, p. 7  

  16. H. Arendt, op. cit., pp. 27-29  

  17. Ibidem, p. 59  

  18. Ibid, p. 63  

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The Roof is on Fire: l’America della nuova coscienza “nera” https://www.carmillaonline.com/2018/01/16/the-roof-is-fire-lamerica-della-nuova-coscienza-nera/ Mon, 15 Jan 2018 23:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42724 di Giacomo Marchetti

Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00

«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?» Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali. La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta. Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal [...]]]> di Giacomo Marchetti

Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00

«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?»
Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali.
La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta.
Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal musicista che acquista nei suoi versi un significato particolare.
Thug Life, traducibile in “vita da teppista” diviene: The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody.
E così Khalil spiega l’acronimo: «nel senso che quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo».
Tupac, per Khalil, era la verità.
Lo diverrà anche per Starr, cessando di essere solo, musica “dei vecchi tempi”.

Khalil, cresciuto insieme alla protagonista è costretto a farla, la vita da teppista, con una situazione familiare alle spalle piuttosto problematica a causa della madre che non riesce ad uscire dalla tossicodipendenza, ed una nonna anziana e malata.
Starr vive nello stesso quartiere di Khalil, ma studia in una scuola lontano dal suo abitato, in cui è una delle poche teen-ager afro-americane; suo padre, ex membro di una gang – come a sua volta sua padre – è stato in carcere ed ora gestisce un piccolo spaccio alimentare nel quartiere regalato dal vecchio proprietario – unico a dargli un lavoro uscito di prigione – ; la madre lavora come infermiera professionale.

Starr ha un fratello più grande che il padre ha avuto da una relazione extra-coniugale con la “donna” di King, capo-banda della gang di quartiere, i King Lords, a cui il padre era “affiliato”, e un fratellino più piccolo Sekani…
Starr, ha visto uccidere da una “pallottola vagante” la sua migliore amica Natasha alcuni anni prima, senza che fosse fatta luce su quell’omicidio.
Nella finzione letteraria così come nella realtà, le vite degli afro-americani uccisi in conflitti a fuoco non conta, sia che a sparare sia un agente di polizia sia che l’omicidio avvenga in altre circostanze.

Quella notte, Khalil e Starr verranno fermati dalla polizia che ucciderà Khalil durante il fermo nonostante fosse disarmato e non avesse dato adito ad alcun comportamento “sospetto”.
Sarà la presunta aggressività verbale di Khalil e il possesso di una spazzola nella portiera dell’auto, confusa per una pistola, a far premere il grilletto all’agente secondo il suo “alibi”.
Il vero motivo è che Khalil è un giovane afro-americano…

La vita di Starr viene stravolta una seconda volta, e forse l’unica cosa che la salva dall’essere la seconda vittima della violenza poliziesca quella notte – l’autore dell’omicidio non smette di puntarle la pistola addosso anche dopo aver ucciso Khalil – è il preciso decalogo che i suoi genitori le hanno imposto dall’età di dodici anni sul comportamento da tenere in caso di fermo.
Le parole del padre, Starr, le ha stampate in testa, quando sente la sirena e lo specchietto retrovisore dell’auto su cui viaggiano si colorano d’azzurro.
Devi fare tutto quello ti dicono di fare […]Tieni le mani bene in vista. Non fare movimenti bruschi. Parla solo se interpellata.
Le ha insegnato il padre, e così si comporta, “salvandosi”.

Da allora, vive un perenne conflitto interiore, che risolve decidendo di non tacere di fronte alla morte dell’amico, di non rimuoverla per dimenticare in fretta.
Non vuole convivere silenziosamente con i propri rimorsi di coscienza che si alternano agli incubi che popolano le sue notti.
The Hate U Give è “un romanzo di formazione” e il lettore viene proiettato nel mondo di una sedicenne afro-americana nel suo mutevole rapporto con il mondo e con se stessa nella sua vita di tutti i giorni, ma che tiene testa a tutti, genitori compresi.
Ai poliziotti che la interrogano e che le chiedono:
«Puoi dirci cos’è successo la sera dell’incidente?»
Starr risponde a bruciapelo:
«Intende la sera che è stato ucciso».

Una vita quotidiana fatta anche di amore viscerale per le Jordan (i vari tipi di calzature indossati da Air Mike) e per il Basket, i “cibi spazzatura”, l’irrompere improvviso della sessualità, un rapporto organico e strutturante con i social – che divengono strumenti della sua battaglia e non solo semplici passatempi – e personaggi dello spettacolo della cultura mainstream con cui idealmente tal volta si confronta, come Willie il principe di Bel Air della fortunata serie televisiva.

La sua vita si svolge dentro più di un conflitto e “tra conflitti”, basti pensare che suo zio Carlos, il fratello della madre, importante sostituto del padre durante i suoi anni di detenzione, è un poliziotto nato e cresciuto in quartiere ma trasferitosi poi nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.
Suo zio, non rinuncia a “proteggere” la nipote anche recidendo quella “solidarietà di corpo” che è il collante della polizia in casi come questi, e prendendosi in carico un altro giovane afro-americano a cui la gang a cui era affiliato vorrebbe “fare la pelle”.

Starr sceglie di contribuire al sabotaggio della macchina del fango montata contro Khalil che viene rappresentato dai media come un criminale tout court, ed indaga direttamente sulla strada intrapresa dal suo coetaneo accusato di essere uno spacciatore appartenente ad una banda, scoprendo i motivi reali della sua scelta “extra-legale”. Decide di diffondere attraverso i social, insieme agli altri, un’ immagine dell’amico più consona alla realtà rispetto a quella stereotipata dei media mainstream, facendo divenire virale la percezione della comunità degli affetti attorno a Khalil.
Una ricerca travagliata, perché la costringe a fare i conti per ciò che provava veramente per Khalil, a far riemergere i ricordi di un passato che aveva dovuto rimuovere a causa della morte di Natasha e del “trio” che formavano insieme a lui: momenti di felicità infantile che fanno l’effetto di un pugno alla bocca dello stomaco a causa della tragica scomparsa degli amici.

Starr fornisce elementi concreti per smontare la tesi che utilizza l’inversione tra vittima e carnefice tesa a deresponsabilizzare l’agente per la morte di Khalil, affinché non si proceda giuridicamente contro di lui.
La protagonista affronta la spensierata crudeltà del pregiudizio razziale che anche una delle sue migliori amiche, Hailey, esercita su di lei, ridefinendo un universo relazionale più maturo e cosciente con un’altra sua amica asiatico-americana.
Ingaggia un confronto serrato con il suo ragazzo Chriss, figlio di una famiglia agiata che vive nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.

Ciò che ha vissuto Starr “politicizza” le sue relazioni, in un rapporto dialettico di incontro/scontro fondato su basi nuove. Così, alla fine, Starr è un vettore di crescita di Chriss, che decide di partecipare organicamente alle proteste degli afro-americani – unico bianco in un quartiere nero in rivolta – e in maniera non meno impegnativa sceglie di affrontare il padre e lo zio di Starr che non vedevano di buon occhio il fidanzamento della figlia con un bianco, ma che alla fine si rassegnano all’evidenza che il ragazzo abbia “le palle”.
Chriss, è un “traditore di razza” disposto a mettere in discussione i suoi pregiudizi razziali inconsapevoli, in un percorso che lo porta a annullare anche il suo “machismo”, l’opposto positivo di Hailey e dei suoi tanti coetanei pronti a sfruttare la morte dello “spacciatore” Khalil solo per perdere un giorno di scuola.
Williamson, il nome della scuola che frequenta, e Garden Heitghts, il quartiere-ghetto dove vive, «sono due mondi completamente diversi» che la protagonista aveva precedentemente deciso di tenere separati, ma l’esistenza e le relazioni in questi due “universi paralleli” si intrecceranno dissolvendo le divisioni artificiali e facendo comunicare tra loro i compartimenti stagni dell’esistenza precedente.
Ma se si dissolvono nella scelta di vita di Starr, i muri della segregazione secondo la linea di colore rimangono alti per le due comunità.

Anche il rapporto con il quartiere si modifica nel corso degli eventi, una relazione complessa dove gli elementi di una irrinunciabile familiarità con le relazioni di mutuo appoggio storicamente intessute dai suoi abitanti, si alternano ad uno spazio fisico disseminato da pericoli.
Rischi dovuti allo scontro tra le gang, dove anche andare a fare due tiri in un campo di basket in un parco all’aperto in un territorio conteso può riservare “spiacevoli sorprese”.
Un quartiere dominato da un circolo vizioso che costringe gli ultimi della scala sociale – per poter emergere o più comunemente per sopravvivere – all’affiliazione ad una banda che ha come propria ragione d’esistenza lo spaccio di droga che falcidia le vite delle persone a causa della loro tossicodipendenza, della guerra per lo spaccio e delle massiccia presenza della polizia “giustificata” dalla “guerra alla droga” stessa.
Questa è una dinamica magistralmente inquadrata dalla serie televisiva dell’HBO: The Wire, affresco di una città, “nera” e “povera” come Baltimora, che ritroviamo nel libro della Thomas…

Lo spettro dell’insurrezione urbana, il riot, attraversa tutto il romanzo, e prende concretamente forma in due momenti separati aventi come apice “i disordini” che provoca la decisione della giuria di non incriminare il poliziotto che ha ucciso Khalil, nonostante la coraggiosa testimonianza di Starr di fronte al Gran Giurì e alla sua altrettanto temeraria, e non scevra di conseguenze, scelta precedente di comparire in una seguitissima trasmissione televisiva.
Il quartiere diventa teatro di una violenza contraddittoria che investe obiettivi “legittimi” della rabbia popolare: un’auto della polizia e il negozio dei pegni, come attività commerciali la cui scomparsa desertificherebbe ancora maggiormente il tessuto urbano e la condizione stessa degli “insorti”, aspetti che riecheggiano i temi sviluppati da Spike Lee in “Fai la cosa giusta”.

Riprendiamo le parole di Tupac: quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo.
Questa è la cifra del romanzo, se alle nuove generazioni afro-americane viene fatto bere “il latte marcio” del suprematismo bianco nel mix letale di quartieri degradati, violenza poliziesca, “carcerizzazione” e guerra tra bande come orizzonte di vita, il precipitato politico di questo non può che essere la ribellione.

Che sia lo scatto di coscienza di una sedicenne, la solidarietà tra subalterni della stessa comunità o il riot che brucia l’illusione di una società post-razziale in un quartiere dove la polizia si comporta come forza d’occupazione, la matrice resta la stessa.
Tupac è il medium, anche a livello di storia familiare, tra ciò che è stato storicamente il movimento di liberazione degli afro-americani – di cui il romanzo è pieno zeppo di riferimenti grazie alla figura del padre ed è rappresentato all’oggi dalla figura dell’avvocato-attivista che aiuta Starr nella sua battaglia.

Così come le rivolte nei ghetti afro-americani segnarono il passo a fine anni ‘60, decretando la fine dell’illusione integrazionista del movimento per i diritti civili sotto la leadership di Martin Luther King e aprendo la strada ad una “nuova” radicalizzazione degli afro-americani, così le proteste scaturite dall’uccisione di afro-americani da parte della polizia ha fatto maturare una nuova coscienza nera “organizzata” – di cui #BlackLivesMatter è l’esempio maggiormente conosciuto – facendo cambiare pagine alla società colorblindness narrata dall’industria culturale di Obama.
Questo romanzo, da cui è stato tratto un film per la regia di G.Tillman Jr., ne è un esempio potente, incalzante nella scrittura, serrato nei dialoghi, come le rime di un brano hip hop, mondo da cui l’autrice – che vive da sempre a Jackson, nel Mississippi – proviene.

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Brasile: cartografie delle disuguaglianze https://www.carmillaonline.com/2013/11/28/brasile-cartografie-delle-disuguaglianze/ Wed, 27 Nov 2013 23:01:16 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10987 di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia [...]]]> di Jacopo Anderlini

Morro da providencia

[Quest’articolo sarà pubblicato tra pochi giorni sul primo numero della rivista on-line e cartacea Magma – Pubblicazione anarchica]

Quest’estate in Brasile qualcosa s’è rotto. S’è squarciato il velo intessuto dai partiti governativi e dai media mainstream per creare una narrazione lineare e monocolore che racconta di un Brasile pacificato, spensierato e “pio”. Nel momento in cui andavano in scena i grandi circhi mediatici della Confederation Cup e della Giornata mondiale dei giovani, qualcosa ha interrotto lo spettacolo. Proteste e rivolte in tutto il paese, composte da centinaia di migliaia di persone, scese per le strade a manifestare. Già, ma a manifestare per cosa? Occorre fare un passo indietro e osservare da una certa distanza gli eventi che hanno portato alle proteste di giugno, per non commettere l’errore di ridurre il tutto a un fuoco di paglia. Se è vero che le dimensioni, le pratiche e la radicalità di questo movimento sono fuori dall’ordinario per il Brasile, questo però va visto in prospettiva rispetto agli eventi che lo hanno anticipato. Qui vogliamo cercare di fornire un quadro sul contesto economico e sociale, sulla geografia urbana dei territori, sugli spazi dove si intersecano gli interessi di stato e capitale e quelli delle classi popolari.

I prodromi di una rivolta

I primi fuochi della protesta nascono a seguito dell’aumento del prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici in diverse città brasiliane, prima fra tutti São Paulo, operati ad inizio giugno 2013. Per molte persone, soprattutto lavoratori e studenti, un aumento di pochi centesimi fa la differenza tra l’accedere o meno al servizio e colpisce quindi in maniera diretta il diritto alla mobilità.

Queste proteste erano state precedute da mobilitazioni analoghe per la diminuzione del costo dei mezzi pubblici nel settembre dell’anno prima a Natal, città da quasi un milione di abitanti nel nordest del paese, nel marzo seguente a Porto Alegre e in maggio a Goiânia.

Per comprendere la viralità e l’estensione di queste proteste, ciò che le lega assieme nel tempo e nello spazio, occorre osservare e analizzare quei fili invisibili che intersecano assieme mobilità e sviluppo urbano: fili che nel contesto brasiliano disegnano la mappa delle disuguaglianze sociali e della divisione di classe.

La questione della mobilità nelle grandi megalopoli brasiliane costituisce un indicatore importante rispetto ai processi di ristrutturazione urbana che si articola sulla direttrice di una triplice esclusione: economica, spaziale e sociale. È evidente, infatti, come la dimensione del trasporto pubblico coinvolga e informi il quadro complessivo della definizione di spazio urbano metropolitano.

Città globali: Rio de Janeiro.

Per iniziare a cogliere questo aspetto è sufficiente fare un esempio concreto e ripercorrere la storia dello sviluppo urbano degli ultimi anni di una delle megalopoli più importanti del Brasile: Rio de Janeiro. La città carioca in tutto il Brasile è seconda solo a São Paulo sia in quanto a popolosità sia per il prodotto interno lordo. A livello economico, il settore manifatturiero ha svolto, almeno fino agli anni ‘80, un ruolo di primo piano e accanto a questo l’estrazione e la raffinazione di petrolio e gas, oltre a costituire una delle principali fonti di approvvigionamento energetico del Brasile, ha attirato diverse multinazionali petrolifere. Essendo stata capitale del Brasile per circa due secoli, la città ha sempre avuto una capacità attrattiva per i capitali nazionali e internazionali e questo ha favorito l’emergere di un polo finanziario, dei servizi e delle telecomunicazioni che negli ultimi decenni è divenuto estremamente rilevante.

A questo sviluppo economico, a questa produzione di ricchezza, è corrisposto l’aumento delle disuguaglianze sociali, con una polarizzazione sempre più marcata tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati. Un tipo di sviluppo che, come teorizza Saskia Sassen, ha coinvolto tutte le città globali attraverso la mondializzazione del mercato del lavoro e la finanziarizzazione delle economie, portando alla costituzione di nicchie economiche del terziario avanzato ad altissimo profitto e di vaste aree del settore dei servizi a bassa qualifica e con una mobilità sociale pressoché assente. Un quadro ben rappresentato anche dal punto di vista spaziale: nelle città globali – quindi anche a Rio – il quartiere della Borsa e della finanza è rigidamente diviso da quello dei servizi o dai quartieri-dormitorio.

A Rio de Janeiro questa divisione territoriale è particolarmente evidente: la zona del centro, quella più antica e nucleo originario della città, è caratterizzata oggi dai grandi palazzi della Borsa, delle banche, delle multinazionali e degli uffici dei colossi delle telecomunicazioni; la zona sud è quella delle residenze dei più ricchi, delle località di villeggiatura per turisti e delle attrazioni per i ceti più abbienti, oltre che sede di una delle più costose università private del Brasile: la Pontificia Università Cattolica; la zona nord è quella dove risiede parte del ceto medio ma soprattutto quella con il più alto numero di favelas, immense baraccopoli spesso senza elettricità, gas e acqua potabile dove vive circa un quinto della popolazione di tutta la città, quella che non può permettersi gli affitti troppo alti o che non può acquistare un immobile: le classi popolari – in questa zona si trova anche la sede dell’università pubblica di Rio de Janeiro; la zona ovest è quella dove è possibile osservare lo stridente contrasto tra quartieri ricchi e quartieri poveri, tra slums e zone residenziali ultramoderne: la parte nord per estensione accoglie diverse baraccopoli mentre la parte sud vede quartieri abitati da classi abbienti ma che non possono permettersi la zona sud.

Negli ultimi decenni Rio de Janeiro ha avuto un intenso sviluppo economico, dovuto sia a rinnovate attività estrattive di petrolio e gas, sia ad un mercato finanziario aggressivo e in espansione. L’aumento di alcuni indicatori della ricchezza economica media, danno una visione assolutamente distorta delle reali condizioni materiali: a fronte di un aumento dei profitti e del reddito per i ceti più abbienti, è aumentato il numero delle persone sotto la soglia di povertà. La risposta delle istituzioni non si è fatta attendere e, per tenere sotto controllo il malessere sociale, nel 2008 sono state introdotte le Unidade de Polícia Pacificadora, un’unità speciale di polizia con l’obiettivo ufficiale di pacificare militarmente i quartieri controllati dai trafficanti di droga: in realtà una velleitaria risposta securitaria che vuole ridurre la complessa problematica della disuguaglianza sociale a un problema di ordine pubblico.

Mega eventi

All’interno di questo scenario, possiamo considerare il mega-evento come un dispositivo che viene messo in campo in quanto rete complessa di rapporti di potere che vengono risoggettivati (o desoggettivizzati) secondo un nuovo discorso e nuove retoriche. Per dispositivo intendiamo – nell’articolazione che ne dà Giorgio Agamben nel suo Che cos’è un dispositivo? – quella complessa rete di relazioni di potere che, in forma discorsiva o non-discorsiva, produce o destruttura la soggettività dei viventi; è cioè «un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve; tanto del detto che del non-detto» e si manifesta come «un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati». Parliamo di dispositivo – come elemento disciplinare – perché il mega-evento va a incidere e a ridefinire in maniera conflittuale processi economici, politici, sociali e nondimeno spaziali. Se prendiamo il mega-evento come oggetto di analisi, possiamo riuscire a scorgere, attraverso le sue implicazioni, l’articolazione delle retoriche del potere.

Il grande evento da cui partire sono i Giochi Panamericani del 2007, che vengono ospitati interamente a Rio de Janeiro. In questa occasione, vengono avviati fin dagli anni precedenti diversi progetti di ristrutturazione urbana che riguardano sia la costruzione di nuovi complessi sportivi, stadi, arene, villaggi degli atleti, eccetera, sia interventi di “riqualificazione” di alcuni quartieri e la creazione di nuove infrastrutture. Secondo l’Observatório das Metrópoles, che si occupa da molti anni dell’impatto dei mega-eventi sui tessuti urbani, entrambe le tipologie di progetti hanno portato a processi di gentrification* e sradicamento delle comunità di quartiere in cui venivano messi in atto, a speculazioni nel mercato immobiliare e all’aumento generalizzato del costo della vita. Quello che preme sottolineare è come il discorso politico e la retorica sviluppista, messi in campo dalle istituzioni pubbliche dello stato di Rio de Janeiro (la macroregione di cui la città fa parte) e dall’imprenditoria privata convergano anche sul piano economico con investimenti e speculazioni sia del pubblico che del privato.

Il fatto che mette ancor più in evidenza la natura disciplinare di questa macchina astratta è il tentativo di ricomprendere all’interno dello stesso discorso istituzionale le critiche o i discorsi-altri al mega-evento con la nomina di una commissione speciale (CO-Rio) che monitorasse l’evolversi dei lavori: a questa commissione non ha peraltro partecipato nessun gruppo che si occupa della questione. Tra gli interventi urbani effettuati in questo periodo, il più esemplificativo risulta essere la costruzione dello Stadio Olimpico Engenhão, dal nome del quartiere che lo ospita: Engenho de Dentro, abitato prevalentemente da classe operaia e in misura minore da piccola borghesia. Lo stadio, che è finito per costare circa sei volte di più il prezzo preventivato ad inizio lavori, è stato edificato senza alcuna comunicazione con i residenti, molti dei quali anzi si sono trovati con la casa espropriata e poi demolita (chi la possedeva e non era in affitto).

Se possiamo considerare i Giochi Panamericani del 2007 come la forma ancora embrionale del dispositivo del mega-evento, con la maggior parte delle implicazioni ancora in nuce e non pienamente manifeste, negli anni successivi il tessuto metropolitano diventa sempre più terreno di scontro e disciplinamento. In vista della Confederation Cup del 2013 e del Campionato del Mondo di Calcio, di cui Rio ospiterà diverse partite, e soprattutto delle Olimpiadi di Rio del 2016, si estendono ulteriormente gli interventi securitari e urbanistici con tutto ciò che implicano in termini economici, sociali, spaziali.

Il primo di questi interventi che ci consegna la cifra del discorso pubblico istituzionale è la costituzione, come ricordato in precedenza, di un’unità speciale di polizia di prossimità col compito di pacificare alcuni quartieri più a ridosso dei luoghi in cui si terranno i mega-eventi. Quartieri limitrofi a quelli più ricchi dove la stessa condizione di povertà è elemento da nascondere, da rimuovere, da controllare.

Sul piano degli interventi urbani, la costruzione di infrastrutture, edifici e complessi sportivo/abitativi, oltre ad aver intaccato il tessuto urbano – in misura simile o maggiore a quella descritta prima per lo stadio Engenhão – ha provocato un boom del mercato immobiliare, con un aumento dei prezzi e della rendita che da un lato ha compresso il potere di acquisto degli affittuari e dall’altro ha prodotto una speculazione da parte dei proprietari di case. In molti quartieri è quindi intervenuto un processo di sradicamento duplice: il primo, dove la coazione è diretta e amministrata dall’istituzione pubblica nella sua forma di polizia; la seconda, in cui la coazione appare meno evidente ma ugualmente violenta e che è spinta dalle logiche di mercato che portano gli abitanti del quartiere originari a non avere i mezzi per vivere e sopravvivere.

Un’attenzione particolare meritano gli interventi volti a “migliorare” la mobilità urbana che di fatto si sono rivelati distruttivi per il tessuto urbano in cui sono stati implementati. È il caso di alcuni progetti di costruzione di infrastrutture per i trasporti che passano per diversi quartieri popolari e favelas per congiungere il villaggio olimpico con l’aeroporto e che di fatto implicano dubbi vantaggi per la popolazione locale e anzi rischiano di provocare lo sgombero di alcune migliaia di persone.

A Providência, una delle favela più vecchie di Rio, è in atto, all’interno del progetto Morar Carioca finanziato dal Programa de Aceleração do Crescimento (PAC), un processo di eradicamento di circa un terzo della popolazione per favorire la costruzione di alcune funivie. Lo stesso programma prevede la costruzione di case popolari e l’erogazione di prestiti a basso interesse per i meno abbienti. Anche qui la retorica sviluppista si sposa con pratiche coercitive e di disciplinamento che vedono delocalizzare di fatto le classi popolari per favorire la speculazione immobiliare e la rendita e parallelamente attuare politiche di segregazione – le case popolari si troverebbero a nord-ovest, all’estrema periferia di Rio e scarsamente servite dai mezzi pubblici.

Ecco allora che sotto il velo dello “sviluppo anche per i ceti più disagiati” in occasione dei mega-eventi possiamo scorgere le maglie avviluppanti di nuovi rapporti di potere e disciplinamento che si manifestano nelle varie forme che si sono descritte.

Insorgenze

Ecco allora che le proteste per il trasporto pubblico e la mobilità libera e gratuita acquistano un peso e una qualità differenti se le vediamo legate a quelle durante la Confederation Cup e la Giornata mondiale della gioventù cattolica, e se le inseriamo nel contesto dello trasformazione/trasfigurazione della metropoli attraverso il dispositivo governativo del mega-evento. La radicalità e inclusività con cui si è espresso il movimento in questi ultimi mesi in Brasile e in particolare a Rio, la pluralità di istanze assunte da esso e la capacità di sperimentare differenti pratiche organizzative ci suggeriscono che quanto portato avanti può essere la spinta per la nascita di ulteriori terreni di lotta. Un movimento che emerga con forza dal conflitto tra governo delle cose e dei corpi, che possa rinnovarsi continuamente e trovare nuove forme.

* Descrive un particolare processo metropolitano per cui viene “riqualificato” un quartiere considerato degradato per poi rivendere gli immobili ad un prezzo più alto. Ovviamente facendo in modo che gli abitanti precedenti sloggino. La discriminante è chiaramente la creazione del profitto derivante dalla riqualificazione più che il miglioramento delle condizioni sociali del quartiere.

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