sect cinema – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 17 Dec 2024 21:00:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (II) https://www.carmillaonline.com/2019/08/26/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-ii/ Mon, 26 Aug 2019 21:05:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54308 di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata [...]]]> di Franco Pezzini

(qui la prima puntata)

1.2. Sette per la vita, sette per la morte 

Il primo problema per chi voglia affrontare analiticamente il filone sect cinema – ormai una sorta di subgenere, anche se il termine va inteso con elasticità per i motivi che si diranno – è ovviamente di circoscriverne l’oggetto. Il che non è semplice come risulta invece in riferimento ad altri mostri.

Anzitutto del termine “setta” esistono varie definizioni scientifiche, ma lo sviluppo del tema nel cinema conosce connotati piuttosto fluidi, e abbraccia un’assai variegata serie di comunità o gruppi segreti. Ciò che rileva, infatti, non è tanto un inquadramento “teorico” del soggetto – cosa sia o non sia una setta – ma un contesto narrativo e una serie di stereotipi e dinamiche.

Accanto alle sette vere e proprie, dunque, potremo repertoriare da un lato società e ordini segreti o almeno velati da un silenzio iniziatico come Rosacroce, Massoneria e Illuminati, connotati da un peculiare esoterismo; dall’altro ordini religiosi storicamente riconosciuti ma oggetto di particolare mitopoiesi come i Templari. Ma anche quelle comunità cultuali che per fanatismo, marginalità o vocazione al segreto gli sceneggiatori apparentano di fatto – e con tutti i pregiudizi del caso – alle sette: certi culti esotici, per esempio, non importa quanto fantasiosi (per esempio il culto di Karnak dei film sulla Mummia reviviscente, o i simil-Thug di Indiana Jones e il tempio maledetto).

Per contro non andrebbero comprese nell’analisi (per assenza di un sottotesto magico-religioso dal concreto impatto sulla trama) le società segrete o criminali, anche se connotate nella descrizione filmica da richiami forti a simboli, riti e valori. Al di là di un certo apparato, si pensi solo a quei Beati Paoli di discussa esistenza storica, celebrati all’inizio del Novecento da Luigi Natoli e sul (piccolo) schermo per esempio in un famoso sceneggiato nostrano, L’amaro caso della baronessa di Carini di Daniele D’Anza, 1975.

Ma è l’immaginario a definire i confini. Così, per quanto a rigore le vicende della Family di Manson appartengano all’insieme dei gruppi criminali assai più che alle sette nell’accezione dell’antropologia religiosa, i confusi connotati “filosofici” del gruppo, le orrende modalità del crimine e il tipo di contesto retrostante finiscono con l’avvicinare al tema del diabolismo: solo l’anno prima Roman Polański, marito dell’attrice Sharon Tate – la vittima più nota dell’eccidio, all’ottavo mese di gravidanza – aveva girato quel sulfureo Rosemary’s Baby, 1968 che parlava proprio di una setta satanica e della nascita dell’Anticristo.

In secondo luogo si è accennato al filone delle sette come a un subgenere cinematografico – come, per intendersi, il vampire cinema oppure il cinema demoniaco. Ma anche da questo versante il discorso è più sfumato, visto che nei singoli casi la setta può non rappresentare affatto il “mostro” principale o più evidente. Si pensi ai citati film sulla Mummia reviviscente o a quelli che richiamano gli zombie alla loro origine folklorica: la setta c’è eccome – nel primo caso un sopravvissuto culto egizio, nel secondo un Vudu riletto più o meno fantasiosamente – ma resta in secondo piano o decisamente defilata rispetto al suo alfiere teratologico (che magari si ribellerà, ucciderà l’arci-vilain capo della setta eccetera). Oppure si considerino i film sulla stregoneria: solo in certi casi presentano una collettività streghesca, e a volte le streghe non appaiono affatto, anche se l’inquisitore di turno si mostra molto indaffarato coi roghi e possiamo parlare di setta presunta – che però può avere peso concreto nella trama.

Nel tentativo dunque di porre ordine in una materia tanto sfuggente, un criterio potrà ravvisarsi – con tutta l’elasticità del caso – nella tipologia di setta, in riferimento cioè all’oggetto del “culto” in scena. E una prima e fondamentale categoria riguarderà ovviamente le sette religiose – le più diffuse senz’altro nel tessuto sociale, anche se non necessariamente le più rappresentate al cinema. Da un primo fronte potremo anzi distinguerle in due ampi filoni: le sette emerse dall’interno dell’Occidente che conosciamo, a espressione di ipotetici revival pagani o invece di istanze criptoecclesiali, giocate sul rapporto fanatismo/plagio o sulla resistenza alla chiese dominanti; e le sette venute dall’esterno, connotate in genere da aggressive e pittoresche forme di esotismo. Esotismo geografico, come nel caso di quelle d’importazione dall’Africa selvaggia o dal predatorio Oriente, secondo i più vieti stereotipi transitati attraverso il pelago della cultura popolare tra Otto e Novecento; ma anche esotismo cronologico, in riferimento a realtà del passato evocate nei film in costume, oppure sopravvissute o riemerse dal passato entro il grembo del nostro tempo, come il citato culto di Karnak dei film sulla Mummia.

Un secondo filone, meglio rappresentato su schermo, riguarda la galassia di magia e stregoneria. Le sette insomma dell’occulto, variamente declinato: e se per le streghe, che aprono un orizzonte vastissimo di problemi, occorrerebbe circoscrivere l’esame agli aspetti di un “culto” più o meno recuperato dalla divulgazione popolare (non è detto che un film dov’è in scena una singola strega alluda a una qualche sua collettività di appartenenza), altre comunità emergono in toto dal mondo della fiction. Si pensi ai culti blasfemi ispirati agli scritti di Lovecraft, che con abbondanti forzature troveranno via via spazio nel cinema, o (per dire) allo sfuggente e bizzarro culto dei Pantos delle fantasie horrotiche del regista Jess Franco. A quest’ambito variegato si possono peraltro accostare anche le sette evocate dai film di vampiri – sette di vampiri o comunque legate a vampiri, riti di sangue e ansie d’immortalità – o di licantropi: sottofiloni che negli ultimi anni, attraverso il successo della saga Twilight e le divagazioni di un (com’è stato definito) romanticismo sexy, sia pure al plasma, hanno visto moltiplicarsi nella fiction conventicole sempre più simili alle associazioni adolescenziali da college.

Terzo grande gruppo, di conclamata rilevanza nell’immaginario e dunque ovviamente importantissimo su schermo, è poi quello delle sette sataniche – o più generalmente diaboliste. Varato dal capolavoro non sufficientemente conosciuto di Edgar Ulmer, The Black Cat, 1934, il filone è quello che con più pertinacia ripropone gli stereotipi del modello-setta offrendo materia ogni anno a un numero non compiutamente repertoriabile di pellicole.

A tali macroaree dovranno però aggiungersi altri insiemi filmicamente meno rappresentati e con legami più problematici con il modello-setta, pur trattenendone alcune caratteristiche nelle trame. Troveremo per esempio le citate società segrete “storiche” di tipo esoterico (Illuminati, Rosacroce eccetera…) ovviamente nell’ambito di liberissime riletture; certi gruppi di controllo e cospirazione a carattere sociopolitico (sette votate al dominio, sette di ricchi, gruppi “preoccupati”), o connotati sul piano generazionale (confraternite giovanili, hippies, “sette” di bambini) o sessuale (come certe sette femminili). Oltre ad altri gruppi chiusi che gli stilemi cinematografici riconducono in termini più o meno riconoscibili al modello-setta.

 

1.3. Le stagioni della setta

Nella produzione filmica in tema di sette è possibile individuare quattro periodi fondamentali.

Il primo e più lungo periodo potrebbe essere definito come età del feuilleton. La setta è descritta secondo gli stilemi di tutta una produzione romantica/gotica su società e gruppi segreti: l’arsenale tenebroso e pittoresco, l’esotismo e l’enfasi su un passato tirannico, il dominio arcano su forze misteriose e minacciose, i melodrammi delle eroine sono elementi che sottolineano uno scarto tra l’esperienza mostruosa della setta e la realtà sociale “normale” cui appartiene lo spettatore. Non che manchino, intendiamoci, richiami all’inquietudine; ma la setta è un paradigma dell’estremo che interpella solo in via di eccezione. In questi anni, seminale è l’opera di fiction del “principe degli scrittori thriller” tra i Trenta e i Settanta, Dennis Wheatley (1897-1977): tutti coloro che in seguito immagineranno il theatrum delle sette si rifaranno in modo diretto o indiretto a lui, e una delle ultime grandi opere di questa fase è The Devil Rides Out, 1968, tratto dal suo omonimo romanzo, diretto per la Hammer da Terence Fisher e sceneggiato da Richard Matheson.

La svolta si ha idealmente con il caso Manson, che punta diretto al cuore del cinema ma scatena il panico non solo a Hollywood: altri crimini della Family hanno colpito gente comune, talora con teatrale atrocità, e il combinato di totale devozione dei membri, difficoltà di provare le accuse a Manson e impossibilità di circoscrivere con chiarezza un gruppo tanto sfuggente (ammiratori e fiancheggiatori non si contano) spiazza gli investigatori e alla fine il pubblico. Colpita è una certa immagine dell’America, e il caso finisce col segnare una svolta nell’immaginario già investito dal terremoto simbolico del ’68: la carica di sovversione recata dalla setta sembra sovvertire in chiave satanica i valori di un paese fondato con la Bibbia in mano, minacciare ogni possibile ambito, infiltrarlo in radice (perverte persino il “peace and love” marca hippie), annunciare la presunta apocalisse sociale dell’Helter Skelter. Anche attraverso il sensazionalismo da rotocalco di un’epoca in cui le fonti per comprendere un fenomeno sono limitate e l’esplosione coeva del grande revival magico (che potremmo simbolicamente datare all’uscita nel 1970 di Man, Myth & Magic: An Illustrated Encyclopedia of the Supernatural is an encyclopedia of the supernatural a cura di Richard Cavendish, ma ovviamente vede una quantità di tasselli precedenti), il mostro-setta entra così a piedi uniti nel genere horror. Che sta capitalizzando proprio le confuse dinamiche di un’età di ribellione – si pensi agli innumerevoli film sulla persecuzione delle streghe, già avviati dal leggendario The Witchfinder General (Il Grande Inquisitore) di Michael Reeves, 1968 – e trova in quel soggetto teratologico collettivo un tema importante. Al di là di abbondanti concessioni al pruriginoso, i film di questo periodo – che potremo appunto chiamare età dell’Helter Skelter – rivelano ancora a una lettura odierna la propria carica provocatoria. Una dimensione che però alla fine degli anni Settanta tende a esaurirsi.

Se è difficile ravvisare un punto di svolta, pare possibile riconoscerlo almeno a fini convenzionali nel 1978: in corrispondenza cioè con un nuovo terribile evento di forti ricadute sull’immaginario, il cosiddetto massacro della Guyana. A portare alla morte di novecentodiciotto persone, bambini compresi, non è un satanista (come spesso viene imprecisamente definito Manson) votato all’eversione ma un religioso, il reverendo Jim Jones del Tempio del Popolo: e il rapido approdo su schermo di un evento tanto eclatante – Guyana: Crime of the Century (Il massacro della Guyana) di René Cardona Jr., 1979 – è già indicativo di un nuovo modo di raccontare le sette. Potremmo parlare di età dell’ordinaria crudeltà per il periodo che giunge fino all’inizio degli anni Novanta: esaurita la valenza provocatoria del tema – come per molti altri sottofiloni gotici, si pensi al vampire cinema – con l’età del riflusso la tendenza è di confezionare prodotti “sicuri” nel segno di uno stile definito come originalità decorosa. Non che, ovviamente, manchino in assoluto film coraggiosi; ma a livello diffuso, abbandonate le emozioni del classico feuilleton e anche quelle della rivolta lisergica, la setta diviene uno stereotipo mostruoso come altri, in un continuo rilancio all’atroce.

Con l’inizio degli anni Novanta, però, l’horror e in genere il fantastico conoscono una nuova primavera: e pare emblematica l’uscita nel 1991 del film La Setta di Michele Soavi. In questa fase la riscoperta dei classici del passato (anche grazie a strumenti come VHS, DVD e comunque il web), l’intento di recuperarne il sapore anche filologico, il dialogo con la cultura neogotica conducono a un’attenzione nuova ai miti neri. In tale età gnostico-gotica (così potremmo chiamarla) che vedrà figure antiche riprendere quota con impreviste impennate le sette ritrovano un ruolo importante nell’immaginario cinematografico. Si diffonde nella cultura popolare una fascinazione un po’ New Age per quel filone criptoecclesiale che già annuncia Dan Brown, e permette di innestare nel vecchio arsenale paleogotico (abbazie dirute, inquietanti segreti, ambigui monsignori…) un nuovo esoterismo di consumo: un fenomeno oggi arretrato ma conservando il valore di un riferimento “eccellente” e un certo target. Emblematico anche il successo di altre fantasie gotiche che con le sette possono trovare connessioni, dal fantasy gotico della saga di Harry Potter – che riporta in circolazione il tema dei gruppi magici – alla variegata offerta (Buffy, Twilight) in tema di vampiri e relative collettività segrete: anche su questo fronte si assiste oggi a un arretramento, ma si tratta di temi ormai entrati nell’immaginario collettivo.

Se, a distanza di quasi trent’anni, i richiami al “mostro plurale” iniziano a sembrare un po’ logori (ma sempre godibili e magari sanamente provocatori se gestiti con intelligenza) non è in questione forse solo la rapidità con cui il nostro mondo usa e getta. Il fatto è che l’età del sospetto ha ormai scoperchiato le cripte un tempo segrete: non perché il segreto in quanto tale non abbia più spazio nel nostro mondo iperconnesso, ma perché quelli che davvero esistono sono affogati nella chiacchiera. Montate come maionese dai social, bufale e crociate antibufale (magari per imbavagliare il web) presentano la stessa assenza di logos. Il cospirazionismo e il suo fratello gemello, l’anticospirazionismo di comodo – quello che inibisce qualunque dubbio sulla realtà come presentata, in nome d’interessi che restano di classe e non equivocamente di casta, nuovo nome della setta – lavorano felici assieme.

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Biancaneve e le sette (nane). Prolegomeni al sect cinema (I) https://www.carmillaonline.com/2019/08/23/biancaneve-e-le-sette-nane-prolegomeni-al-sect-cinema-i/ Fri, 23 Aug 2019 21:01:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54254 di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo [...]]]> di Franco Pezzini

Nell’agosto 1969, mezzo secolo fa, si consumano due eventi di fortissimo impatto mediatico. Uno, lo sappiamo, è il festival di Woodstock (15-18 agosto), i famosi “tre giorni di pace e musica rock”, culmine ideale della stagione della Summer of Love, con forse mezzo milione di spettatori: un evento in qualche modo epocale nel pur variegatissimo panorama delle controculture USA. L’altro, di tipo ben diverso e consumato in pratica nello stesso periodo, è il caso Manson (eccidi 9-10 agosto, arresti 16 agosto), che per quanto frutto dei deliri di un gruppo relativamente limitato esplode nei media sparigliando tutte le carte. La società americana è colta alla sprovvista dall’orrore e insieme dal carattere sfuggente della vicenda (la tesi di un apocalittico conflitto sociale che Manson avrebbe inteso scatenare attraverso gli omicidi risulta almeno fantasiosa, e legata – il memoriale Helter Skelter del prosecutor Bugliosi è abbastanza chiaro – alle difficoltà probatorie di sostenere l’accusa al malefico santone); e pur avviando un periodo di forte tensione, l’eccidio perpetrato dalla cosiddetta Family di Manson non porta a una generalizzata caccia alle streghe verso le controculture, come forse sarebbe avvenuto in altri momenti. Ma certo quel caso offre su un piatto d’argento all’immaginario collettivo – tra motivi concreti e stigmatizzazioni di parte, anche a seconda dell’approccio assunto dall’osservatore verso le realtà alternative – un nuovo volto della rivolta beat, ben più imprevedibile e allarmante. Sul tema, estremamente complesso, in questa sede non si entra.

Ciò che invece interessa è un altro contraccolpo immaginale. Il caso Manson influisce infatti in modo irreversibile sull’idea di setta presente in narrativa ma soprattutto sugli schermi, e che perde improvvisamente i connotati da feuilleton conservati fino a quel punto per assumerne di assai più sinistri.

 

1.1. Uomini e topoi

Di fronte all’odierno brulicare nella fiction (horror, storie fantastiche, thriller, polizieschi, e l’elenco potrebbe continuare) del soggetto-setta, di primo acchito si è portati a sospettare una sorta di diffusa pigrizia narrativa. A dirla con malizia, l’entrata in scena della setta di turno – spesso cattivissima – esime romanzieri e sceneggiatori dallo sforzarsi troppo sui moventi dei crimini, dal costruire psicologie complesse ai personaggi buoni e cattivi, dall’intessere dinamiche di eccessiva originalità. E permette di riciclare indefinitamente ingredienti simili, colpi di scena compresi. Ci sarà per esempio il momento in cui l’eroe intuisce di trovarsi di fronte a una realtà oscura collettiva e segreta; ci sarà la messa in scena del controllo che la setta esercita su soggetti più o meno vivi (persone “normali” controllate via plagio, ipnosi o forme di necrosi psicologica, ma anche zombie e mummie); ci sarà la scena del rito tenebroso, magari orgiastico; e ci sarà la solita fanciulla, o più raramente l’eroe o antieroe, davanti alla prospettiva di qualche orrendo sacrificio. Quando poi – come più raramente accade – la setta è invece “buona” e si schiera contro i vilain di turno, dovrà essere comunque circonfusa di un equivoco senso di mistero.

Dunque certo, può trattarsi di pigrizia dei narratori/sceneggiatori. Tuttavia la diagnosi in molti casi dev’essere meno ingenerosa e banalizzante: e la fiction sulle sette – di cui proprio il cinema offre il volto più popolare anche in termini di numeri di fruitori – permette di porre in scena dinamiche di oggettivo interesse. Per dire, a questo tipo di cinema si ricollega uno dei film in assoluto più belli di tutta la storia dell’horror, The Wicker Man di Robin Hardy, 1973. Il distinguo, come al solito, starà insomma nel tipo concreto di spendita del tema di volta in volta.

Vero e proprio mostro plurale, la setta permette di giocare in termini stilizzati e anzi ritualizzati elementi di sicuro successo presso il pubblico. Elementi piuttosto vari: dal più candido gusto per l’avventura e il mistero al richiamo un po’ pruriginoso per la damsel in distress, dal riconoscimento di strutture topiche che con le fiabe hanno molto a che fare – e soddisfano alcune nostre attese profonde in un complesso gioco di sfoghi ed esorcismi – all’evocazione sottile di concreti disagi e crisi d’epoca. Certo la necessità per l’eroe di calarsi in una dimensione di tenebra – il tempio segreto della setta – per strappare la vittima a una collettività senza volto e sconfiggere il male può dirla lunga sul rapporto con quel tempio d’Ombra che sono le pulsioni individuali e collettive in riferimento a valori, stereotipi di genere eccetera. Che ciò poi comprenda anche le peculiari attese dello spettatore postmoderno non può stupire: il richiamo cioè a vedere drammatizzata in scena, in un tessuto insieme provocatorio e gratificante, quella cifra del sospetto che connota – a torto o a ragione, poco importa – la società in cui viviamo.

A livello generalissimo, le trame presentano anzitutto un evento drammatico che porti il gruppo chiuso & segreto all’attenzione di una società più o meno ampia. Un’emersione che si manifesta anzitutto su un piano metatestuale come narrazione: è lo spettatore, prima ancora del protagonista, il soggetto che dev’esserne informato. Ciò innesca dinamiche interessanti: se la setta è il più paradigmatico mostro sociale, una società-mostro ombra e riflesso oscuro di quella più estesa di cui lo spettatore fa parte, il confronto permette di drammatizzare una serie di opposizioni (aperto/chiuso, conoscibile/segreto, libero/non libero eccetera) potenzialmente feconde per una meditazione critica sul nostro mondo di appartenenza. E d’altra parte il modo in cui la crisi su schermo verrà risolta – persino nel caso di una setta che, a un certo punto del film, si riveli “buona” – lascia spesso intravedere un estremo pessimismo degli sceneggiatori.

Se ciò attiene alla visione della setta dall’esterno (il protagonista e in parallelo lo spettatore), la drammatizzazione conduce d’altronde a scrutare – almeno a tratti – l’interno. Con la rivelazione della forte coesione dei membri, a livello interiore/psicologico ed esteriore/organizzativo: qualcosa che si manifesta come legame di sangue – sanzionato magari con terribili giuramenti e maledizioni – ma flirta con l’indifferenziazione, quasi a echeggiare una cifra Legione di identità frantumate e confuse in minacciosa identità collettiva. Ciò che trova la manifestazione culminante nella messa in scena del plagio (usiamo il termine in chiave generica), con gli adepti condotti a perpetrare gli atti più atroci o a subirli. Le potenzialità (melo)drammatiche del meccanismo sono evidenti, ma esso finisce con l’evocare in chiave provocatoria anche le alienazioni, i plagi e le crisi del mondo esterno “libero”.

Strettamente connesso, ed esso pure funzionale al frisson narrativo è d’altra parte il motivo del segreto. La setta vive dinamiche “coperte”, esclusive nei confronti del mondo esterno, e ciò rileva anche in tutto un contesto scenografico: caverne, templi segreti, ville impenetrabili, fattorie nel deserto permettono a registi e sceneggiatori di coinvolgere il pubblico grazie a un arsenale tradizionale di pittoresca efficacia, con riti obliqui il cui arsenale non è sempre chiaro. Ma al contempo proprio l’elemento del segreto – ovviamente da svelare – offre combustibile alla trama, provoca la quest dei protagonisti: e finisce così col manifestarsi come conclamata metafora mitica di quel segreto – l’evoluzione misteriosa di una trama in mano allo sceneggiatore – che sostanzia la curiosità verso qualunque film.

Proprio il segreto, però, topos del gotico classico a cui questo filone richiama, informa nella fiction anche un altro tema, il rapporto col potere. La collettività espressa dalla setta è per definizione minoritaria ma nel segno di un qualche tipo di élite: forte delle sue coperture, essa si impone come presenza irriconosciuta, pervasiva e infiltrante la società. Come espressione di spregiudicate lobby di potere anche ai più alti livelli, o invece di realtà sotterranea tra le pieghe nascoste del mondo cognito. Fino ad accreditarsi a motore segreto di storia, politica, religione e quant’altro, sull’onda di quei cospirazionismi di cui la cultura popolare trasuda nei più vari ambiti.

Fin qui si è accennato alle dinamiche drammatiche offerte dal motivo dell’oppressione psicologica o ideologica all’interno o all’esterno del gruppo; ma il tema di una religio in nero apre a uno spettro di suggestioni assai più ampio. Così da un lato conduce al variegato e febbrile bacino di fiction sui paganesimi: e di qui a sviluppi sui fronti paralleli del rapporto perturbante con il passato (si pensi a quel caposaldo del genere Folk Horror che è The Wicker Man, dove la setta è rappresentata dall’intera comunità neopagana dell’isola), e dell’alienità insidiosa delle culture esotiche in rapporto al civile Occidente (le sette egizie nei film di mummie, caraibiche nelle storie sul Vudu, eccetera). Ma da un altro fronte la religio in nero provoca direttamente, sia pure in termini fantastici, su temi ed elementi di un immaginario “cristiano”: un’evoluzione che trova radice nel primo gotico antipapista, e conosce sviluppi critici via via allargati a istituzioni e ambiguità di un po’ tutte le chiese dominanti, per giungere in fondo al vasto, colloso pelago odierno dell’esothriller alla Dan Brown. A fronte poi di questi poli del religioso si strutturano in funzione dialettica anche i relativi opposti, fino agli estremi dello streghesco e del satanico: e l’evocazione della minaccia – vera o presunta – incarnata dalla setta permette di proiettare come nei giochi d’ombre antesignani del cinema le stesse ambiguità della controparte.

Tutto un mondo simbolico tradizionale – segni, riti, liturgie… – viene così recuperato alla luce del pittoresco e dell’orrido, e la galleria delle brutture storiche liberissimamente rievocata grazie al comodo schermo di conventicole fittizie o poco note. Si tratta ovviamente di una nebulosa molto variegata, che corre dal brivido di certe fantasie criptoecclesiali – tenebrose sacrestie, cappucci, paramenti, angeli marmorei sotto nubi apocalittiche – alla diretta messa in scena del male attraverso topoi come il sacrificio umano e la tensione a un Anti-Avvento satanico. Nelle pellicole si potrà anzi individuare in genere almeno una scena-chiave di carattere specificamente rituale – sacrificale, iniziatica, eccetera: quello che possiamo definire il theatrum proprio della setta, e tale da compendiare idealmente un po’ tutti i topoi in precedenza citati.

La sua messa in scena permette infatti una svolta più avanzata nella conoscenza del mostro-setta da parte di protagonista e spettatore; svela nella coesione della setta la sua realtà di corpo (anti)sociale; sottolinea visivamente la cifra del segreto, anche nella collocazione spaziale della scena in un tempio nascosto, una cripta, una grotta; celebra l’epifania del potere della setta stessa, sia in senso materiale (per esempio nella visione dell’eroina catturata e pronta al sacrificio) che ideale (per esempio nel rivelare sotto i cappucci degli adepti personaggi presentati in precedenza come “importanti” – a vario titolo); e ovviamente ammannisce un ricco arsenale di suggestioni simboliche e rituali d’effetto. Ma anche da questo punto di vista, potremmo dire, la messa in scena riproduce con efficacia un meccanismo sottostante, finendo con l’essere metafora diretta del rito del cinema, con i suoi templi immersi nell’oscurità della proiezione.

E in particolare del cinema nero, recante il theatrum di provocazioni, crisi e contraddizioni del singolo spettatore e della società cui appartiene. Come in una rilettura della fiaba, il protagonista di queste storie dovrà dunque salvare la propria Biancaneve dall’altare-catafalco del sonno della Ragione, presidiato da una collettività nana oscuramente ctonia. Il che conduce verso abissi ben più profondi della cassa di una biglietteria; e il comodo sotterfugio di riparare dietro a una schiera litaniante di cappucci, tra torce, teschi e strani paramenti, finisce con lo svelare allo spettatore dimensioni ulteriori, dall’emersione più o meno imprevista o imbarazzante.

(I – continua)

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