scuola – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Scuola, motori e lavoro a tutti i costi https://www.carmillaonline.com/2024/09/26/scuola-motori-e-lavoro-a-tutti-i-costi/ Thu, 26 Sep 2024 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84644 di Paolo Lago

Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.

Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di [...]]]> di Paolo Lago

Paolo La Valle, Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, Alegre, Roma, 2024, pp. 255, euro 16,00.

Il mondo dei motori, delle automobili e delle moto si insinua in modo pervasivo in quello della scuola e dell’educazione soprattutto se le scuole in questione si trovano nella cosiddetta “Motor Valley”, collocata tra Bologna, Modena e Reggio Emilia. È quello che ci racconta Paolo La Valle nel suggestivo Gli automotivati. La love story tra scuola e motori, uscito recentemente per la collana Quinto Tipo di Alegre: si tratta di una sorta di diario-saggio che focalizza un anno di insegnamento svolto dall’autore, docente di Italiano, in un Istituto Professionale della zona. La scrittura alterna l’immediatezza della presa diretta sugli avvenimenti legati all’universo scolastico (in cui protagoniste sono classi ‘difficili’, composte spesso di soli alunni maschi) a inserti dal taglio più saggistico, dove si infittiscono osservazioni e riflessioni su un tessuto sociale irretito dal produttivismo capitalista che si ingrandisce e si sviluppa sempre di più a scapito della vita delle persone. Il tutto scandito da capitoli che portano nei titoli formati dal verso di una canzone sempre diversa l’ispirazione musicale che li ha mossi.

Il lavoro è un dogma, da quelle parti, e gli stessi alunni del Professionale odiano la scuola e non vedono l’ora di finirla o interromperla per mettersi a lavorare nel settore automotive e cioè per quelle fabbriche e per quelle aziende che si estendono a macchia d’olio provocando un abnorme consumo di suolo e per tutto il grande circo spettacolare che si erge dietro questo apparato, in primis il Motor Show di Bologna che nel 2018 ha visto la sua ultima edizione. Se, come nota l’autore, nel 1976, ai suoi albori, il Motor Show occupava un’area di 5mila metri quadrati, nel 2004 “si arriva a 230 mila facendo da volano all’aumento di consumo di suolo in un territorio che oggi con la sua Zona Fiera raggiunge i 375 mila metri quadrati e ospita iniziative di ogni tipo, grazie al protagonismo del Gruppo BolognaFiere, in grado di allestire settantacinque eventi all’anno tra Bologna, Modena e Ferrara” (p. 34). Lo stesso Motor Show ha rappresentato l’aspetto più spettacolare dell’ideologia che gli esponenti del capitale pretendono di inculcare nei giovani che gravitano attorno al settore, e la progressione dei suoi chilometri quadrati equivale all’aumento esponenziale della densità di auto in Italia, che provoca un ulteriore aumento di suolo nella costruzione di sempre nuove strade (come il progetto del cosiddetto Passante di Bologna), di sempre nuovi svincoli e rotatorie realizzati asfaltando e cementificando innumerevoli aree verdi. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se a ogni nuova pioggia violenta (eventi che ormai non si possono più considerare ‘eccezionali’ nella realtà del cambiamento climatico che ci troviamo a vivere) quel territorio dell’Emilia Romagna (che è terza in Italia per consumo di suolo) viene devastato e allagato: è cronaca, purtroppo, anche di questi giorni.

Il lavoro è un dogma e risuona come un vero e proprio mantra, fin dalla scuola, irretendo gli adolescenti e le adolescenti. Laura, ad esempio, che adesso ha trentadue anni, ha lavorato al Motor Show come ragazza immagine fin da quando stava per compiere diciotto anni e andava ancora a scuola, in un contesto in cui gli atteggiamenti sessisti risultano assolutamente normali e si esplicitano in continui apprezzamenti volgari e viscidi (e il racconto di Laura e di altre ragazze si materializza all’interno di un capitolo intitolato Quante belle figlie da sposar, verso tratto da Ottocento di Fabrizio De André, in un momento in cui la canzone accelera musicalmente commentando in forma iperbolica l’iperproduzione spettacolare dei primi anni Novanta). Certo, è questa l’altra faccia del capitale, è il suo truce spettacolo che ‘macchinizza’ e capitalizza gli stessi corpi, come vediamo nelle sequenze iniziali del film Titane (2021) di Julia Ducurnau, in cui alcune ballerine sexi si esibiscono sui cofani delle automobili in un autosalone di fronte a maschi per i quali non c’è alcuna differenza – sembra – fra l’estetica delle auto e quella delle ragazze.

L’ideologia del lavoro a tutti i costi, come già notato, si insinua anche tra i banchi di scuola, dove si trovano, fra gli altri, gli studenti El J, Cucciolotto, Pablo, Thomas, e allora la scrittura diaristica erompe in volute sintattiche e lessicali che esondano da qualsiasi schema, in un sinuoso pastiche che ricalca il parlato ma soprattutto i gerghi giovanili mentre sullo sfondo, come un magico folletto portatore di pace all’interno di una quotidiana guerra, si aggira fantasmaticamente la Chica, la compianta canina del narratore e professore che scambia con lei uno sguardo nei momenti più difficili, in momenti in cui bisogna dare forse un conforto o una pacca sulle spalle a chi è inserito nella macina di un sistema più grande di lui, come succede a molti di questi giovani, cresciuti fra vita non facile e motori. Il lavoro si fa breccia anche attraverso la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, oggi rappresa nell’acronimo Pcto, largamente diffusa nell’Istituto Professionale in questione. Un percorso che dovrebbe essere formativo ma che ha al suo attivo una scia di morti, giovani studenti vittime di incidenti sul lavoro. E, come scrive La Valle, un’ideologia di questo tipo nella sua classe è introiettata a tal punto che si tende a dare la colpa alla persona incidentata che avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle misure di sicurezza e non, magari, alla quasi totale mancanza di queste ultime o a un sistema che non fa in modo che siano sufficienti e all’altezza.

I messaggi che dall’alto vengono fatti passare, infatti, sono quelli di una contrapposizione muro contro muro fra scuola e mondo del lavoro:

da una parte c’è il mondo della scuola, con le sue materie inutili e le sue fissazioni, mentre dall’altra c’è il mondo che conta, quello del lavoro, quello da cui arrivano i soldi. Il primo mondo impone regole per te incomprensibili, il secondo le ammorbidisce. Quale scegli?
Se nel primo ti inseguono perché stai fumando e nel secondo fingono di non accorgersene? Se nel primo si arrabbiano per un commento che hai fatto a una ragazza, mentre nel secondo scherzi a voce alta su culi e tette? Se nel primo insegnano cose che per te sono inutili e nel secondo ti dicono che l’importante è guadagnare? Con queste opzioni, a sedici anni, le scelte sono facili (p. 201).

Oggi anche la scuola è stata raggiunta dalla longa manus del capitale e si sta trasformando in un’azienda “che vive secondo i criteri delle temporalità formalizzate, della competitività e delle mille categorizzazioni che comprimono le attività spingendole verso l’individualismo. È una modalità repellente e se a questa roba non abbiamo dato il nome di fascismo è perché ancora non gli abbiamo fatto la guerra” (p. 208). Assieme al lavoro, si fanno strada anche la competitività e il meccanismo della valutazione sempre e comunque con l’intento di disciplinare gli individui in una forma mentis economica fin dai banchi di scuola. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, rispetto a quanto aveva scritto nel 1995 Raoul Vaneigem nel suo Avviso agli studenti: “Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo opera per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere fino alla nausea il leitmotiv dei suoi anni giovanili: vinca il migliore!” (R. Vaneigem, Avviso agli studenti – Terrorismo o rivoluzione, trad. it. di S. Ghirardi, piano b edizioni, Prato 2010, p. 34).

L’adolescenza è fatta anche per perdere tempo, per bighellonare, per sbagliare e prendersela con calma, non solo per diventare efficienti e produttivi al più presto. Ecco perché, alla fine, bisognerebbe – citando Gilles Clement insieme all’autore – “elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica” (Gilles Clement, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, 2005, p. 61). Infatti, il capitale che impone produttività, efficienza e competitività nella scuola è lo stesso che costruisce sempre più strade perché ci siano sempre più auto in circolazione, a scapito delle aree naturali, cementificate e distrutte ed è lo stesso che devasta montagne e boschi per creare i tunnel dell’alta velocità; allora sarebbe meglio “pensare alla cura e alla riparazione dei suoli, andando nella direzione opposta rispetto all’asfalto, al cemento e alle camicie di forza con cui ci ostiniamo a perimetrare ogni forma di vita” (p. 224). E anche la produzione dei nuovi veicoli elettrici (che necessitano di onerose materie prime e di un complesso smaltimento), verso cui si lancia la corsa del capitale, rappresenta soltanto un’altra faccia della devastazione di sempre nuovi territori. Infatti, come riflette amaramente Paolo La Valle nella pagina finale del suo libro, l’impressione è “che la progressiva scomparsa del fumo dei gas di scarico stia contribuendo a rinnovare una speranza che potrà pure comportare la fine del motore a scoppio, ma nella logica del sacrificio messianico” (p. 244).

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La scuola dell’esclusione https://www.carmillaonline.com/2022/12/30/la-scuola-dellesclusione/ Thu, 29 Dec 2022 23:01:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75389 di Luca Cangianti

Angela Pesce, Sulle scale della scuola, BookTribu, 2022, pp. 170, € 19,00 stampa, € 4,95 ebook.

In quanto dispositivo di socializzazione secondaria, la scuola è preposta alla riproduzione della società contemporanea con le sue caratteristiche e le sue gerarchie. Nel romanzo Sulle scale della scuola di Angela Pesce, questa affermazione prende vita e si popola di decine di storie, di sofferenza, di rabbia e di desiderio. La voce narrante è quella di un’insegnante di sostegno che porta il nome dell’autrice. A 26 anni entra in una [...]]]> di Luca Cangianti

Angela Pesce, Sulle scale della scuola, BookTribu, 2022, pp. 170, € 19,00 stampa, € 4,95 ebook.

In quanto dispositivo di socializzazione secondaria, la scuola è preposta alla riproduzione della società contemporanea con le sue caratteristiche e le sue gerarchie. Nel romanzo Sulle scale della scuola di Angela Pesce, questa affermazione prende vita e si popola di decine di storie, di sofferenza, di rabbia e di desiderio.
La voce narrante è quella di un’insegnante di sostegno che porta il nome dell’autrice. A 26 anni entra in una scuola media della bassa bolognese, immersa nella nebbia d’inverno e tormentata dalle zanzare d’estate. Prende la corriera all’alba, con passeggeri sempre identici che leggono free press, e si scontra con una burocrazia scolastica per la quale le vite degli studenti (e degli insegnanti precari) sono pezzi di carta in un faldone.

Asia è una ragazza in affido con i genitori a Modena; Chong è un ragazzo cinese che dorme dietro una tenda, in un capannone dove i suoi connazionali lavorano giorno e notte; Alina è figlia di una “zingara” e colpevole di aver portato i pidocchi a scuola; Maria suscita i peggiori commenti bigotti e sessisti per essersi presentata all’esame orale con un abbigliamento giudicato vistoso; Pietro, per parlare e farsi capire, sembra che debba tradurre i suoi pensieri “non si sa in che modo e da quale lingua”.
Poi ci sono i genitori dei ragazzi “problematici”. Alcuni rifiutano il disagio dei propri figli (“Matteo non è mica down o sulla sedia a rotelle, e allora a cosa serve la prof di appoggio?”), altri hanno interiorizzato la violenza classista e sono terrorizzati di far trasparire la “fatica economica” (“No, ma io in autobus non lo mando. Noi non lo usiamo”).
Tutti fuggono da questi ragazzi che chiedono un adulto di cui potersi fidare. Fuggono alcuni insegnanti che non vedono l’ora di andare a lavorare in un liceo o all’università. Fuggono molti dirigenti per i quali “la prova migliore del buon funzionamento della loro scuola è che certi ragazzi non ci si trovino affatto a proprio agio, non sappiano trovare spazio, costruire relazioni, fare amicizia, crescere.”

Angela parla a voce bassa, non mette note, spesso si sente “inesperta, incompetente, impreparata” e proprio grazie a questo suo disequilibrio entra in empatia con il dolore e il bisogno di fiducia dei suoi studenti. La prosa di Sulle scale della scuola rispecchia quest’umiltà. È una scrittura fluida, avvolgente, intima. Ma attenzione, perché questa delicatezza è un argine che contiene a stento una rabbia smisurata contro chi tranquillamente riproduce sulle carni e le anime dei ragazzi il marchio dell’esclusione sociale.

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Economia di guerra / 2: ancora sulla centralità del lavoro e del necessario conflitto che l’accompagna https://www.carmillaonline.com/2020/04/20/economia-di-guerra-2-ancora-sulla-centralita-del-lavoro-e-del-necessario-conflitto-che-laccompagna/ Mon, 20 Apr 2020 21:01:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59487 di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara. Smaschera il mondo in maschera.

Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza. Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il [...]]]> di Sandro Moiso

Il lampo del virus illumina l’ora più chiara.
Smaschera il mondo in maschera
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Viviamo giorni di confusione, ma anche di grande chiarezza.
Il balletto del tutti contro tutti che si svolge a livello politico (nazionale e locale), scientifico (con il dilagare degli esperti e delle task force) e mediatico dovrebbe aver già da tempo aperto gli occhi dei cittadini e dei lavoratori. Date di riapertura diffuse come se ciò non avesse conseguenze sull’andamento del contagio e da quest’ultimo non dovessero dipendere, ottimismo sparso a piene mani su un picco che dovrebbe assomigliare a un altipiano (per il tramite di ingegnose acrobazie linguistiche, geomorfologiche e statistiche), dati di una autentica strage a livello sanitario che i partiti istituzionali si rimpallano, con minacce di inchieste e commissariamenti, tra Destra e Sinistra come in una partita di volley ball, noiosissima e già vista centinaia di volte. Una guerra tra rane, topi e scarafaggi che, se fosse ancora vivo Giacomo Leopardi, sarebbe degna soltanto di un nuova “Batracomiomachia”.

In questo autentico bailamme, che sembra soltanto peggiorare di giorno in giorno, sono però ancora troppi coloro che, pur animati dalle migliori intenzioni, affrontano le questioni legate all’attuale pandemia in ordine sparso. Rincorrendo il momento, chiedendosi quando si potrà ricominciare ad agire, senza chiedersi su cosa si potrebbe davvero incidere, scambiando un problema per il “problema”, anteponendo l’idea dell’azione allo studio delle azioni necessarie, contrapponendo l’individuale al sociale oppure scambiando per sociale ciò che in sostanza è individuale. In una girandola di iniziative che tutto fanno tranne che fornire prospettive concrete per un’uscita dall’attuale catastrofe che, occorre ancora una volta dirlo, non è né naturale né umanitaria, ma derivata direttamente dalle “leggi” di funzionamento del modo di produzione capitalistico. Come afferma Frank M. Snowden, storico americano della medicina, nel suo Epidemics and Society: non è vero che le malattie infettive “siano eventi casuali che capricciosamente e senza avvertimento affliggono le società”. Piuttosto è vero che “ogni società produce le sue vulnerabilità specifiche. Studiarle significa capirne strutture sociali, standard di vita, priorità politiche”1

Gli elementi che potrebbero aiutare a definire il campo per un intervento immediato, concreto e condivisibile a livello di massa sono già molti. Sono compresi nelle parole, nelle promesse fasulle e nei provvedimenti che i governi e i loro padroni, nazionali e internazionali, stanno esplicitando, come si affermava all’inizio, sotto gli occhi di tutti. Una lunga sequenza di leggi, prevaricazioni, distruzioni e violenze che costituiscono la trama della più lunga crime story mai raccontata.
Ancora una volta è inutile, infatti, cercare l’ordito nascosto o segreto della realtà, basta saperla osservare e ascoltare, oppure semplicemente leggere, following the money.

Ad esempio, nella “Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020” concordata il 30 marzo 2020 a Roma, alla presenza del Ministro del lavoro e delle politiche sociali tra Associazione Bancaria Italiana (ABI), l’ Alleanza delle Cooperative Italiane, tutte le maggiori associazioni imprenditoriali e confederazioni sindacali.

Il tema è sostanzialmente quello della cassa integrazione ordinaria o in deroga. Provvedimenti da sempre destinati a ricadere economicamente sulle spalle dello Stato, degli imprenditori e dell’INPS, ma che grazie a questo accordo, in piena crisi economica (di cui la pandemia da coronavirus costituisce un’aggravante ma non l’unica origine), potrebbe ricadere direttamente sulle spalle dei lavoratori che la vorranno o dovranno richiederla.

Se già la cassa integrazione comporta sempre e comunque un costo per i lavoratori, consistendo mediamente in un 80% del salario, a partire da questo accordo la stessa si trasforma in una sorta di prestito che viene accordato ai lavoratori in attesa che sia l’INPS a ripianarlo e a provvedere ai successivi pagamenti, ma il cui costo iniziale ricadrà interamente sui dipendenti coinvolti, a differenza della cassa integrazione comunemente intesa che prevede, in caso di ritardo delle prestazioni dell’INPS, che il costo iniziale ricada sugli oneri delle imprese che, di fatto, sono costrette ad anticipare per qualche mese gli stipendi parziali pagati dall’ente previdenziale.
Come si può leggere nel testo della Convenzione, invece:

Al fine di fruire dell’anticipazione oggetto della presente Convenzione, i/le lavoratori/trici […] dovranno presentare la domanda ad una delle Banche che ne danno applicazione […]
Il/la lavoratore/trice e/o il datore di lavoro informeranno tempestivamente la Banca interessata circa l’esito della domanda di trattamento di integrazione salariale per l’emergenza Covid-19.
In caso di mancato accoglimento della richiesta di integrazione salariale […] qualora non sia intervenuto il pagamento da parte dell’INPS, la Banca potrà richiedere l’importo dell’intero debito relativo all’anticipazione al/la lavoratore/trice che provvederà ad estinguerlo entro trenta giorni dalla richiesta.
Nei casi della anticipazione del trattamento di integrazione salariale da parte della Banca, quest’ultima, in caso di inadempimento del lavoratore, […] comunicherà al datore di lavoro il saldo a debito del conto corrente dedicato.
In tal caso, a fronte dell’inadempimento del lavoratore, il datore di lavoro verserà su tale conto corrente gli emolumenti spettanti al lavoratore, anche a titolo di TFR o sue anticipazioni, fino alla concorrenza del debito. Il lavoratore darà preventiva autorizzazione al proprio datore di lavoro […] in via prioritaria rispetto a qualsiasi altro vincolo eventualmente già presente evitando che sia il datore di lavoro a dover regolare i criteri di prevalenza tra i diversi impegni presenti, nei limiti delle disposizioni di legge2.

La Convenzione con le banche non è un inedito, è già stata usata nel 2008/2009 e se la pratica di cassa non va in porto l’impresa è comunque obbligata a pagare le mensilità al lavoratore, che può così restituire gli anticipi versati dalla banca. La Convenzione è un accordo astratto, ma agli sportelli (persino di due filiali diverse dello stesso gruppo) possono nascere piccoli ricatti o fraintendimenti che il lavoratore, di solito inesperto, può non saper gestire – tipo l’obbligo di aprire una posizione permanente in quella banca, al di là del conto corrente e a termine della Convenzione. Inoltre:

“«L’accordo con l’Abi parla di un’istruttoria di merito creditizio nei confronti del lavoratore. Ma questa previsione rischia di essere un problema per chi ha un finanziamento in corso e magari non sia riuscito a pagare qualche rata di credito al consumo», spiega Roberto Cunsolo, consigliere dell’Ordine nazionale dei commercialisti. Tanto basta, infatti, per essere segnalati alla Centrale rischi finanziari (Crif) e di conseguenza vedersi rifiutare l’anticipo degli ammortizzatori.
L’argomento non è da poco visto che il governo nei provvedimenti adottati finora non ha previsto lo stop alle rate per i piccoli prestiti.” (qui)

Fermiamoci qui. E’ chiaro però che, in questo modo, la cassa integrazione ordinaria o in deroga si trasforma in nient’altro che in un prestito ai lavoratori/trici, che gli stessi sottoscriveranno con le banche, liberando quasi del tutto i datori di lavoro da qualsiasi responsabilità economica in merito. Un sistema perfetto di sfruttamento circolare del lavoro dipendente. Soprattutto nel caso della cassa in deroga per la quale viene del tutto esclusa la possibilità che questa possa essere anticipata dal datore di lavoro.
L’anticipo è sui conti dei lavoratori e, se qualcosa va storto, i padroni possono detrarre le cifre per il ripianamento del debito direttamente dai salari (senza neanche il limite del quinto dello stipendio). In questo modo il lavoratore diventa il garante ultimo della politica economica d’emergenza. Il lavoro è il fideiussore generale di riserva, la banca l’intermediario, l’impresa fa la ritenuta alla fonte per conto del sistema bancario di governo. L’accordo, inoltre, non prevede il vincolo di non licenziare, come indirettamente confermato dal silenzio sindacale in proposito. Così il salario è eventuale, ma se c’è, il padrone può versarlo ai suoi finanziatori.

In un contesto in cui si prevede che siano più di 11 milioni i lavoratori che dovranno far ricorso alla cassa integrazione (o ai bonus) e in un panorama in cui le imprese con meno di 10 dipendenti, ovvero quelle ritenute maggiormente a rischio, costituiscono l’82,4% (col 22,6% dei dipendenti complessivi) delle imprese manifatturiere, il 96,2% (con il 66% dei dipendenti) delle imprese edili e il 96,6% (con il 52,3%) di quelle legate ai servizi, commercio all’ingrosso e al dettaglio3 i tempi della Cig saranno già più lunghi di almeno 10-15 giorni. Mentre, per la complessità delle operazioni richieste in modalità diversa per ogni istituto bancario, i lavoratori meno esperti di strumenti informatici, considerato che le banche escludono la possibilità di una ‘consulenza’ sindacale a soccorso degli stessi, rischieranno di essere tra gli ultimi ad essere pagati, vista anche la precedenza che sia le banche che l’Inps accorderanno agli aiuti per le aziende.

Più che lo sdegno per lo strumento in questione, andrebbe rimarcato l’eterno ineliminabile ruolo delle banche. Dal Q.E., all’Ape, alla Cassa: tutto deve passare dalle banche, che tra l’altro in questa fase non hanno assolutamente uomini e mezzi per svolgere il ruolo “burocratico” che lo Stato gli appalta – oltre al costo economico e sociale che questo parassitismo bancario comporta. Questa pletora di ammortizzatori (Cigo, Cig, Naspi, Bonus autonomi, Reddito Gigino di Maio, contributi comunali) di cui alla fine non ci si capisce più nulla, costituisce però il risultato della mancanza di uno strumento di reddito generale e universale. Così, sia a livello sindacale che prefettizio, inizia a crescere l’allarme per il clima da insorgenza sociale ed economica che sembra nascere spontaneamente, soprattutto in città come Torino dove le code davanti al Monte dei pegni si allungano ormai di giorno in giorno (qui).

Ma occorre fare ancora qui alcune osservazioni di carattere generale.
La prima, naturalmente, è quella riguardante il fatto che tale provvedimento conferma la tendenza generale alla completa finanziarizzazione di ogni attività o provvedimento un tempo compresi in ciò che veniva definito welfare state. Che si tratti di sanità, di lavoro o di previdenza (con tutti gli addentellati del caso: cassa integrazione, pensioni, etc.) il costo oggi non solo non deve più essere sostenuto dalla finanza e dall’intervento pubblico, ma deve anche costituire motivo di realizzazione di interessi per chi si sostituisce, anche solo momentaneamente, allo Stato e alle sue agenzie in veste di ufficiale pagatore. Insomma, in soldoni le banche non muovono un dito se non ne ricavano una qualche forma di profitto.

La seconda, non meno importante, è che le casse dello Stato si avviano ad essere sostanzialmente vuote. Anni di ruberie, rapine politico-mafiose autorizzate, prebende, investimenti fantasma o in grandi opere inutili e dannose mai terminate (e interminabili), premi a consorterie politiche di ogni tendenza e genere, profitti e prestiti garantiti a imprese e banche too big to fail, tasse mai pagate e attività svolte in nero hanno letteralmente prosciugato la casse dello Stato e dell’INPS. La quale ultima, nata come Istituto di previdenza sociale per i lavoratori, ha dovuto sempre più farsi carico anche delle pensioni e dei trattamenti di fine servizio milionari di manager e dirigenti, privati e pubblici, oltre che diventare il tappabuchi per i periodi di sospensine dell’attività produttiva programmati dalle grandi aziende (come la Fiat).
Impressione generale confermata dallo slittamento in avanti continuo della data di presentazione dei provvedimenti economici governativi resi necessari dalla crisi.

Lo Stato sociale ha un costo sicuramente elevato che è andato crescendo nel tempo, ma non tutto è stato dissipato, come vorrebbe far credere una narrazione tossica e di parte, a causa delle pensioni un tempo calcolate su una età media più bassa e una vita lavorativa che veniva calcolata su un numero di anni inferiore a quelli attualmente necessari. Né si tratta soltanto di truffe rappresentate dai falsi invalidi, che pur ci sono state ma non tali da determinare l’attuale situazione di difficoltà.
Certo l’innalzamento dell’età media della vita ha comportato un prolungamento inaspettato dei pagamenti pensionistici e delle spese assistenziali per la terza età, ma troppo spesso ci si dimentica di sottolineare come proprio nel settore dell’assistenza alla stessa e in quello della Sanità non sia mai stato messo in pratica alcun tipo di controllo e di calmiere dei prezzi. Contribuendo così a fare dell’assistenza sanitaria e agli anziani un autentico Far West dove tutto è concesso, in termini di guadagno e profitto privato, e dove nessuna attività, o quasi, è svolta avendo come primo obiettivo quello della salute e del benessere dei cittadini.

Le tanto venerate privatizzazioni, concesse tanto da destra che da sinistra4, hanno dimostrato, proprio nel cuore dell”eccellenza’ sanitaria lombarda, la loro reale efficienza. Soprattutto nelle RSA, ovvero nelle residenze per anziani, sempre più costose (per lo Stato e per i cittadini) e meno protette dal punto di vista sanitario.
Residenze per anziani che sono diventate, in tutta Europa, uno dei settori più interessanti di investimento per le società finanziarie a caccia di nuovi territori in cui poter praticare le proprie scorrerie, garantendo profitti annui anche del 6-7% e trasformandosi, almeno fino all’esplodere della pandemia, in uno dei settori in cui si attendevano i maggiori investimenti nei prossimi anni. Fino a 15-20 miliardi di euro entro il 2035.
Basti pensare che in Lombardia l’84% delle RSA, che nel loro insieme rappresentano un affare da 1,4 miliardi di euro, è privato. Un affare che coinvolge 8.000 strutture e 262.000 persone censite dallo Spi-CGIL soltanto per il 2018 in tutt’Italia5.

«È un settore a metà tra l’immobiliare e l’infrastrutturale, che rappresenta un ottimo modo per diversificare e proteggere i portafogli, soprattutto nei momenti di ciclo economico debole», ha affermato in un recente convegno Giuseppe Oriani, ceo per l’Europa di Savills Investment Management. Ma che cosa attira gli investitori? In primo luogo, si tratta di un investimento a basso rischio, che si traduce in una sostenibilità dei canoni su un arco temporale medio lungo. «A questo, concorre il fatto che nel sistema italiano, così come in quello francese o tedesco, solo una parte delle rette di degenza è a libero mercato, ma una quota consistente è coperta dal pubblico, nel nostro caso dalle Regioni. Questo è un elemento di garanzia per chi investe», spiega Pio De Gregorio, responsabile Industry trend & benchmarking analysis di Ubi Banca, che ha redatto un accurato studio sul settore.
Naturalmente fanno gola i rendimenti medi lordi, stimati in un range compreso tra il 6% il 7,5%. La dinamica demografica è legata a doppio filo a questa classe di investimento. Infatti, a seconda degli scenari che si verificheranno, e dunque della necessità di posti letto in Rsa, si parla di investimenti in nuove strutture per 15 miliardi di euro entro il 2035, secondo l’ottica più conservativa, o fino a 23 miliardi secondo lo scenario più generoso. L’Italia ha ancora un forte gap da recuperare. In Germania ci sono oltre 12mila strutture per circa 876mila posti letto, in Francia 10.500 strutture e 720mila posti letto, in Spagna rispettivamente circa 5.400 e 373mila.6

Quello delle RSA, alla luce dei decessi ricollegabili alla mancata prevenzione sanitaria in occasione dell’attuale pandemia, sembra essere un esempio piuttosto efficace per dimostrare concretamente come salute, assistenza e finanza non possano collimare nei loro obiettivi ultimi7.
L’assalto finanziario ad ogni aspetto del sociale infatti non rappresenta soltanto una riduzione della spesa dello Stato nel settore dei servizi ai cittadini, ma un vero rovesciamento di questi ultimi che si trasformano in un autentico settore di investimento protetto per il capitale finanziario sempre più alla ricerca di aree garantite in cui essere “parcheggiato” con una resa maggiore di quella fornita dall’investimento produttivo.

La strategia messa in atto da anni nei confronti della spesa pubblica e del suo taglio, si rivela dunque sempre di più per quello che di fatto è: fornire la possibilità di continuare ad investire speculativamente senza rischiare che l’enorme bolla finanziaria che si è venuta a creare negli anni (con scarsa o nulla base nell’economia reale) finisca con l’esplodere.
Questo può tranquillamente farci affermare che proprio per tale motivo i paperoneschi fantastiliardi promessi dal governo di Totò e Peppino per fronteggiare la crisi non esistono. Non esistono nelle casse del governo e non esistono nemmeno nelle casse delle banche. Le quali ultime avendo investito cifre da capogiro in titoli gonfiati, se non in veri e propri junk bond, oppure in titoli di Stato per impedire l’aumento dello spread e degli interessi pagati oggi non hanno disponibile tutta la liquidità richiesta dal governo per finanziare le imprese in crisi.

Interessante, da questo punto di vista, può rivelarsi la posizione assunta dall’AD di Intesa San Paolo, Carlo Messina, che, nei giorni scorsi, ha dichiarato che se la banca farà la sua parte mettendo a disposizione 50 miliardi di crediti, anche gli imprenditori che hanno spostato i loro investimenti e le loro ricchezze all’estero dovrebbero fare altrettanto facendoli rientrare in Italia8. La globalizzazione si incrina quindi, proprio ai suoi vertici, di fronte a una crisi che, al di là delle vacue dichiarazioni di Conte e Gualtieri, non troverà nei finanziamenti europei la sponda troppo a lungo strombazzata. Né i 1500, né i 400 miliardi ma, per ora e al massimo, i 37 messi a disposizione dal ferreo fondo salva stati (MES).

Da qui due conseguenze immediate e tutte due da consumarsi sulla pelle dei lavoratori: la prima è la riapertura di tutte le aziende che ne hanno fatto richiesta in deroga9 in cambio del mancato aiuto promesso su così larga scala (certo qualcosa ci sarà, ma non nella misura attesa da gran parte del mondo imprenditoriale), mentre la seconda (che non sarà comunque l’ultima) è compresa nell’accordo di cui abbiamo parlato all’inizio di questo intervento.

Non vedere in questo accordo una forma di liberalizzazione dei contratti di lavoro destinata a durare ben oltre l’emergenza sarebbe da imbecilli e non denunciarlo semplicemente criminale.
Ecco allora serviti gli snodi su cui articolare la nuova protesta sociale, non sull’idealità o l’ideologia o su un solidarismo più di marca cattolica che rivoluzionaria, ma sulla salda concretezza costituita dall’impossibilità di far coincidere gli interessi dei lavoratori con quelli dello Stato e del capitale, soprattutto nei periodi di crisi. Si tratti dei lavoratori dell’industria, si tratti dei lavoratori e degli operatori della sanità, si tratti ancora dei lavoratori dei servizi pubblici e privati e della scuola, la crisi ha tolto la maschera alla controparte. E’ ora di smettere di considerare il lavoro dipendente un privilegio o una fortuna, anche là dove sembrava garantito. E’ venuta l’ora di riportarlo al centro del conflitto e dell’attenzione antagonista.

In questi giorni il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che siamo davanti ad una crisi peggiore di quella del 1929, dalla quale, occorre sempre ricordarlo, si uscì soltanto con il secondo macello imperialista mondiale; sorto ed esploso non per un insanabile conflitto tra democrazia e autoritarismo, ma soltanto per ridefinire i confini delle aree di influenza economica e politica nel e sul mercato mondiale. Il Financial Times si è spinto a dichiarare in prima pagina (15 aprile) che questa sarà la peggiore crisi economica degli ultimi 300 anni. Ma è stato il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, a giungere ad una sintesi storica più adeguata, dichiarando che:

Una volta che l’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia sarà sotto controllo, il rischio è che si apra una delle più grandi fasi di stagnazione economica degli ultimi secoli e con essa una ristrutturazione dei sitemi politici di riferimento. Il pericolo è di ritrovarsi in una nuova «grande crisi generale» paragonabile a quella che gli storici definiscono la «crisi generale del XVII secolo», quando la seconda ondata pandemica di peste fu accompagnata da un profondo cambiamento degli assetti politici ed economici […] La conseguenza è che dobbiamo attenderci non solo della povertà la più grave recessione economica degli ultimi secoli, con un crollo inimmaginabile della capacità produttiva e un aumento mai registrato e delle disuguaglianze a livello globale, ma anche lo stravolgimento dell’ordine esistente. Già all’indomani della grande crisi del 2008, infatti, l’ordine internazionale liberale ha cominciato a dare segni di cedimento strutturale.10

Mai come in quest’occasione la salvaguardia della salute e delle garanzie sul lavoro sono state coincidenti; mai come in questo momento lotta sindacale e lotta politica (intesa nel suo senso più ampio di ridefinizione delle necessità sociali e del modo di governarle) si sono avvicinate nelle loro finalità; mai come oggi la lotta per la ripartizione della ricchezza prodotta è stata tanto importante per ridefinire i modi della sua creazione, delle sue finalità e della difesa dell’ambiente. E della salvaguardia della specie umana.

Soprattutto in un contesto in cui la sostanziale confusione sui dati epidemiologici, la chiacchiera politica, la propaganda mediatica e le continue e contraddittorie illazioni di presunti esperti quali Roberto Burioni e Ilaria Capua (nomi che valgono soltanto come esempio considerato che l’elenco potrebbe continuare a lungo) non hanno fatto altro che coprire di parole inutili e pietose la sostanziale scelta dell’immunità di gregge come unica strategia da applicare nei confronti dell’epidemia, pur senza averlo mai dichiarato pubblicamente.

Lontani dalla memoria storica della Chiesa, che ha motivo di mantenerla non per ragioni di cambiamento e sovvertimento dell’ordine esistente, ma al contrario per la necessità di conservare i suoi apparati e la sua funzione11, i tecnici del dream team di Vittorio Colao già insistono per rendere obbligatorio lo smart working, il telelavoro, per le grandi aziende e ovunque sia possibile. Mentre alcuni lavoratori e alcune lavoratrici possono vedere in questa “modernizzazione” una forma di flessibilità che potrebbe andare incontro alle loro esigenze personali e famigliari, è inevitabile osservare come tale ristrutturazione del lavoro white collar sia destinata a promuovere un’ulteriore parcellizzazione dello stesso e un’atomizzazione dei suoi esecutori che, ben presto, dovranno fare i conti con una totale privatizzazione dei loro contratti e con una tendenza inarrestabile alla creazione di lavoratori “autonomi” (in realtà dipendenti) assolutamente non più garantiti sia sui tempi di lavoro che sulle retribuzioni. Come già ben sanno molti lavoratori precari.

Sarebbe poi da affrontare il tema della ristrutturazione del lavoro nel comparto sanità, dove è evidente che dietro agli untuosi elogi agli “eroi che ci difendono in prima linea” si cela una totale ristrutturazione peggiorativa delle condizioni di lavoro dei medici (qui) e di tutto il personale sanitario12, già da tempo iniziata con le privatizzazioni messe in atto nel settore. Non solo in Lombardia, caso più eclatante, ma in tutta Italia e da ogni governo nazionale o locale.

Nella scuola anche non ci sarà da scherzare. Anche qui il telelavoro di queste settimane, le lezioni a distanza e le riunioni fiume per via telematica, non costituiranno altro che un ulteriore aumento dei carichi di lavoro dei docenti, una riduzione delle risorse disponibili (che bisogno ci sarà di pagare i corsi di recupero, se gli insegnanti saranno obbligati a tenere delle lezioni da casa al pomeriggio?) e se le classi saranno ridotte di numero sarà solo per sdoppiarle su un lavoro che potrebbe svolgersi sia di mattina che pomeriggio, con un aumento dell’orario settimanale dei docenti non accompagnato da un’adeguata retribuzione. Non a caso già si parla di un nuovo contratto e di nuove assunzioni che certo non sarebbero minimamente adeguate a coprire un raddoppio delle cattedre.

Del lavoro in fabbrica, nei cantieri, nella distribuzione e nel commercio abbiamo già indirettamente parlato anche negli articoli precedenti. Ma se da un lato su ogni lavoratore di questi settori, come anche di quelli citati prima, graverà la spada di Damocle del licenziamento e della disoccupazione, è chiaro che su tutti i lavoratori e le lavoratrici peseranno fin da subito l’aumento dei ritmi, l’inasprimento delle turnazioni, la probabile riduzione delle retribuzioni per permettere alle aziende, grandi e piccole, di superare ‘insieme’ il difficile momento. Lo ha sintetizzato benissimo il presidente degli industriali vicentini, Luciano Vescovi, quando ha affermato: “Si tratta di trovare un percorso italiano per tamponare l’emergenza e aiutare il sistema, ma è molto complicato in uno Stato privo di soldi. Bisogna dirlo chiaramente: bisogna tornare a lavorare, e tirare la cinghia per un po’” (qui). Mentre lo stesso presidente del consiglio Conte ha già preannunciato che, con la prossima riapertura, si lavorerà sette giorni su sette.

D’altra parte l’elezione di Carlo Bonomi alla presidenza di Confindustria e l’immediata proposta di anticipare ufficialmente la riapertura produttiva del settore auto (che significa, in realtà, praticamente tutta la metalmeccanica) e di quello della moda (tessile e non solo: cuoio. chimica, etc.) mostrano chiaramente come tutte le decisioni della politca siano completamente assuefatte, a Destra come a Sinistra, agli ordini provenienti dai “padroni del vapore” e dagli investitori. In fin dei conti, nella pletora di tecnici arruolati di giorno in giorno per svolgere le funzioni che dovrebbero essere specifiche del Governo e del Parlamento, i veri specialisti sono loro: gli imprenditori. Che, però, non ancora soddisfatti dagli omini di pezza posti al governo o nel parlamento, si spingono già a chiedere la presenza di un nuovo de Gaulle13.

Non tenere conto di ciò, chiudersi nello specifico o nel proprio orticello, scimmiottando gli orridi specialisti ed esperti come i 17 membri della super-commissione varata dal governo in questi giorni, sarebbe semplicemente perdente e conservatore.
In tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti i lavoratori di tutti i settori hanno capito che la lotta contro la crisi da coronavirus coincide con la lotta contro il virus del capitale (qui).
Ma ciò che fa paura, forse, è proprio il fatto che nelle crisi sistemiche tutti i nodi sono destinati a venire al pettine e non ci sia più spazio per le incertezze e i tentennamenti.
Stiamo dunque ben attenti a non perdere questa occasione, a partire proprio dalle assemblee, dalle discussioni e dalle eclatanti contraddizioni che si svilupperanno sui posti di lavoro. Non abbiamo bisogno di inventarci spazi, ma di riconquistare quelli che ci sono e conosciamo già.
In fin dei conti, se già gli “esperti”, i media e l’economia ci dicono che “fa brutto”, anche noi avremo prima o poi il diritto di sbroccare, no?14

N.B.
Questo lungo articolo, la cui responsabilità per i contenuti e gli eventuali errori ricade interamente sull’autore, non sarebbe stato possibile senza i consigli, le critiche e le considerazioni espresse da Luca B., Giovanni I., Maurizio P., Gioacchino T. e Cosetta F.


  1. F.M.Snowden, Epidemics and Society. From the Black Death to the Present, New Haven- London 2019, Yale University Press, p.7  

  2. Convenzione in tema di anticipazione sociale in favore dei lavoratori destinatari dei trattamenti di integrazione al reddito di cui agli Artt. da 19 a 22 del DL N. 18/2020  

  3. Dati Istat riferiti al 2016  

  4. Resta qui da ricordare sempre il vademecum prodiano per la “proficua collaborazione “ tra Stato e mercato: Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino 1995  

  5. R. Galullo e A. Mincuzzi, Residenze per anziani, affare da 1,4 miliardi in Lombardia. L’84% delle Rsa è privato,il Sole 24ore, 8 aprile 2020  

  6. Adriano Lovera, Residenze per anziani, mercato in crescita costante, il Sole 24ore, 14 ottobre 2019  

  7. In Italia, Spagna, Francia, Belgio e Irlanda la metà dei decessi da Covid-19 è avvenuta nelle residenze pr anziani (qui)  

  8. A. Greco, Intervista a Carlo Messina, la Repubblica, 7 aprile 2020  

  9. Facendo sì che il lockdown promesso e strombazzato non sia mai neppure lontanamente esistito per la maggioranza dei lavoratori, come si può osservare anche solo dai dati dell’ISTAT (qui); fatto evidente che soltanto da qualche giorno il Viminale e alcuni quotidiani fingono invece di scoprire 

  10. Raul Caruso, Dopo la pandemia si rischia una crisi degli assetti globali, Avvenire 14 aprile 2020  

  11. Anche quando per bocca di Papa Francesco avanza la richiesta di un salario universale per i lavoratori più poveri (qui)  

  12. Come spiega molto bene l’intervista ad un’infermiera contenuta qui  

  13. Carlo Andrea Finotto, Virus e rischio baratro. Perché all’Italia servirebbe un nuovo de Gaulle, il sole 24ore, 18 aprile 2020  

  14. Sia ‘far brutto’ che ‘sbroccare’ sono due possibili traduzioni in italiano dell’americano ‘breaking bad’  

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Dall’autonomia scolastica all’autonomia differenziata https://www.carmillaonline.com/2020/01/17/dallautonomia-scolastica-allautonomia-differenziata/ Fri, 17 Jan 2020 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57465 di Giorgio Cremaschi

Lo aveva già annunciato la pubblicità del Liceo Visconti Roma: “Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo. Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile..”

Poi il Liceo Arnaldo Brescia: “Gli alunni provengono da un contesto socio culturale medio alto ..numericamente limitata la presenza di studenti di nazionalità non italiana.”

Ora l’Istituto onnicomprensivo dell’obbligo “Via Trionfale” a Roma: “..il plesso [...]]]> di Giorgio Cremaschi

Lo aveva già annunciato la pubblicità del Liceo Visconti Roma: “Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo. Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile..”

Poi il Liceo Arnaldo Brescia: “Gli alunni provengono da un contesto socio culturale medio alto ..numericamente limitata la presenza di studenti di nazionalità non italiana.”

Ora l’Istituto onnicomprensivo dell’obbligo “Via Trionfale” a Roma: “..il plesso di via Taverna accoglie alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana. Il plesso di via Vallombrosa, sulla via Cortina d’Ampezzo, accoglie, invece, prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)..”

Coloro che vogliono e sostengono autonomia scolastica e autonomia differenziata non facciano gli ipocriti ora, questo è il prodotto delle loro scelte. Ora si fa scandalo perché una scuola dell’obbligo onnicomprensiva di Roma si fa pubblicità vantando che nelle sue diverse sedi i poveri studiano coi poveri ed i ricchi coi ricchi. È la terza volta che questa pubblicità progresso va sui giornali. Magari ce ne sono stati anche altri di questi annunci in vista dell’open day, quando una scuola si mette in mostra sul mercato dell’istruzione. E quando cerca soldi da ricchi e imprese perché quelli dello stato non ci sono.

È una vergogna, ma le reazioni istituzionali e di palazzo ad essa sono pura ipocrisia. I presidi zelanti che sul web vendono la loro scuola con ferocia sociologica sono il prodotto di ventitré anni di controriforma della scuola, dal varo dell’autonomia scolastica di Prodi, alle tre I ( impresa informatica inglese) di Berlusconi, alla Buona Scuola di Renzi.

Il sistema formativo pubblico è stato privatizzato di fatto e trascinato nella competizione di mercato come qualsiasi azienda e i presidi sono diventati come manager, imprenditori scolastici.

Le famiglie sono diventate clienti ed i figli prodotti finali. Il profitto della scuola sono le iscrizioni, se si iscrivono in tanti e possibilmente di famiglie benestanti, arrivano i soldi. Ci sono meno alunni e soprattutto troppi poveri? Finirà che manca anche la carta dei gabinetti. E gli insegnanti sono sempre più assoggettati alla competizione scolastica dal preside padrone e dalle direttive ministeriali.

E allora è conseguente che il peggio della competitività sociale, la discriminazione ed il rifiuto dei poveri e dei migranti, il consolidamento delle barriere di classe e di etnia fino all’apartheid, divengano la propaganda con la quale un istituto scolastico afferma il proprio valore rispetto ad un altro. Venite qua, ci sono i ricchi, magari imparate come si fa.

I dirigenti delle scuole si sono stupiti dello scandalo che hanno suscitato le loro parole. Ma come, noi abbiamo solo fatto descrizioni sociologiche dei nostri istituti, come ci ha suggerito lo stesso ministero, si sono giustificati. È la banalità del male, ma in fondo quei presidi hanno ragione, essi hanno solo reso pubblica la discriminazione sociale e di classe di cui tutto il sistema scolastico controriformato si è fatto veicolo. È la scuola di mercato e liberista che parla, è l’istruzione che non deve servire a formare cittadini capaci di difendersi ed affermarsi, ma sudditi nel e del mercato.

È l’autonomia scolastica che fa parlare le scuole un poco come Maria Antonietta, un poco come la Borsa Valori, un poco come i decreti sicurezza di Salvini.
E ora non contenti di aver distrutto la scuola pubblica, Lega e PD vogliono applicare lo stesso modello liberista a tutto il paese con un’altra autonomia, quella “differenziata”.

Venite a investire, a fare affari, a pagare le tasse qui da noi dove c’è il PIL più alto e chi è povero e migrante o sta al posto suo o lo mettiamo posto noi. Questo diranno i presidenti manager delle regioni ricche tra qualche anno, se oggi passa l’autonomia differenziata voluta dalla Lega in Lombardia e Veneto e dal PD in Emilia Romagna. Dopo le scuole azienda avremo le regioni azienda in competizione selvaggia tra loro. È la logica perversa ma inesorabile della privatizzazione dello stato e della società di mercato che porta a tutto questo.

Non ci credete? Confrontate i destini magnifici che promettevano venti anni fa i sostenitori dell’autonomia scolastica con la realtà e la propaganda attuale delle scuole.

L’autonomia scolastica ha distrutto il sistema pubblico dell’istruzione, quella differenziata farà lo stesso con ciò che resta di tutto il sistema pubblico nel paese. Dopo le scuole dei ricchi avremo la secessione dei ricchi. E ci sarà chi di questo si farà pubblicità: la nostra regione…

Non fate scandalo, non fate gli ipocriti voi politici di centrodestrasinistra. Se chiamate autonomia scolastica e differenziata ciò che in realtà è l’assoggettamento del pubblico al privato, al profitto , ai più perversi meccanismi di mercato, non stupitevi poi se c’è chi vi prende sul serio. Questo schifo è roba vostra e siete tutti colpevoli, perché non solo lo avete prodotto, ma volete continuare come e peggio di prima.

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Democrazie genocidarie https://www.carmillaonline.com/2019/06/27/democrazie-genocidarie/ Wed, 26 Jun 2019 22:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53121 di Sandro Moiso

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, pp. 424, 24,00 euro

In tempi in cui il dibattito politico-culturale ufficiale tende a ridurre il problema del genocidio al tema, fin troppo abusato, della shoa oppure, in chiave minore, a quello sollevato dal Tribunale dell’Aja sui massacri avvenuti in Bosnia a danno delle popolazioni di fede islamica, le novità connesse all’impostazione data da Leonardo Pegoraro alla sua ricerca, appena pubblicata da Meltemi, sulla distruzione dei popoli indigeni dell’America [...]]]> di Sandro Moiso

Leonardo Pegoraro, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, pp. 424, 24,00 euro

In tempi in cui il dibattito politico-culturale ufficiale tende a ridurre il problema del genocidio al tema, fin troppo abusato, della shoa oppure, in chiave minore, a quello sollevato dal Tribunale dell’Aja sui massacri avvenuti in Bosnia a danno delle popolazioni di fede islamica, le novità connesse all’impostazione data da Leonardo Pegoraro alla sua ricerca, appena pubblicata da Meltemi, sulla distruzione dei popoli indigeni dell’America Settentrionale, dell’Australia e della Nuova Zelanda, potrebbero rivelarsi di estrema importanza sia sul piano storico che su quello della riflessione politica e culturale.

Nonostante il fatto che Franco Cardini, nella sua introduzione al testo, tentando di superare alcuni schemi ormai considerati fisiologici della rilettura del ‘900 sulla base dei regimi totalitari e genocidari (Nazismo e shoa – Stalinismo/bolscevismo e gulag), cerchi di far rientrare il problema all’interno di una rilettura dei fenomeni sopracitati in una più ampia (e scivolosa) tendenza della specie e delle società umane a distruggere, da sempre, i propri simili, finendo così col sostituire il male assoluto rappresentato nell’immaginario contemporaneo dalla shoa con una sorta di male assoluto insito nel profondo delle società umane fin dalle loro origini più antiche, l’autore non ha dubbi nel sostenere che il genocidio è alla base del trionfo economico e coloniale di alcune delle società considerate liberal-democratiche per eccellenza: quelle anglosassoni rappresentate dallo sviluppo dell’impero britannico e del suo Commonwealth, da un lato, e degli Stati Uniti, dall’altro.

Già in passato, autori come Andrzej Kaminski avevano cercato di allargare il tema oltre la shoa e il gulag almeno fino allo schiavismo ottocentesco, ma senza mai uscire dalla logica dei campi di concentramento, prigionia e lavoro coatto1, mentre invece la ricerca di Pegoraro, che coordina attività di ricerca presso la Monash University di Melbourne e collabora a riviste scientifiche quali Settler Colonial Studies e International Critical Thought, accentrando l’attenzione sul problema della distruzione recente dei popoli indigeni del continente nord-americano e dei territori australi non si preoccupa di affondare le mani in una storia di sangue, soprusi, violenze e massacri che non hanno avuto altra giustificazione che non fosse quella di sgombrare il campo da società e individui ritenuti “inferiori” che ostacolavano il cammino del progresso economico moderno e della civiltà occidentale mercantile, bianca e cristiana.

Se nella prima parte, infatti, l’autore si interroga sui significati attribuiti al termine genocidio e sull’effettiva “unicità” dell’Olocausto ebraico, nella seconda, una volta giunto alla definizione di democrazie genocidarie per indicare le forme di governo che, pur distanti dall’esser totalitarie, hanno contribuito in maniera massiccia e spietata al massacro di milioni di esseri umani caratterizzati soltanto da un diverso colore della pelle e da un diverso approccio culturale ai modi della sopravvivenza umana nell’ambiente che li circondava, scoperchia un autentico vaso di Pandora di furia e violenza, descrivendo dettagliatamente come tali olocausti altri furono condotti e motivati.

A partire dall’annientamento di una “razza esecrabile” come quella dei nativi nord-americani condotta con scotennamenti (premiati), cani, diffusione dell’alcolismo e del vaiolo che caratterizzarono la guerra contro gli “spietati indiani selvaggi”, Pegoraro ci conduce attraverso le marce della morte volute dal presidente Jackson per trasferire le tribù dai loro territori ad altri che poi gli furono ancora tolti in seguito (come l’Oklahoma). Ci fa assistere alle politiche di “spidocchiamento” delle Grandi Pianure e ai massacri avvenuti in quello che sarebbe diventato lo Stato più ricco dell’Unione: la California.

Ma non bastarono armi, malattie e spostamenti forzati, no.
Fu l’educazione forzata dei bambini a costituire uno strumento insostituibile per la distruzione della resistenza dei popoli indigeni, sia negli Stati Uniti che in Canada.
“Uccidi l’indiano, salva l’uomo” sembra essere lo slogan ideale per rappresentare un’educazione autoritaria e micidiale destinata a sradicare dai più giovani, spesso con violenze e abusi, l’anima “primitiva” e ribelle con una più “civilizzata” e accondiscendente.

In Canada tale distruzione “educativa”, le cui conseguenze fisiche e psichiche hanno iniziato ad essere riscoperte soltanto da pochi decenni a questa parte e il cui motto sembra essere stato “l’unico indiano buono è il non-indiano”, è passata attraverso la deportazione e l’internamento dei piccoli discendenti delle tribù originarie, la morte di numerosi di loro per i maltrattamenti o le scarse cure prestate, le sevizie fisiche e mentali cui furono sottoposti spesso negli istituti educativi religiosi e “caritatevoli”. Fino al reale impedimento di procreare indotto in loro con le minacce, la forza oppure attraverso la demonizzazione delle più naturali attività sessuali connesse alla sopravvivenza della specie. Nel caso del Canada, poi, furono anche i Francesi a metterci lo zampino, per tramite dei Gesuiti che fin dal XVII secolo si dedicarono all’opera di “conversione” delle popolazioni indigene2 .

Ma ancor peggio, forse, andarono le cose per gli aborigeni del continente australiano, dove la progressiva colonizzazione “bianca” e britannica (considerato che la maggioranza dei coloni era rappresentata da individui di origine inglese, irlandese, gallese o scozzese, spesso deportati a forza in quel continente lontano), distrusse e annientò quasi del tutto le popolazioni eora, darug, wiradjuri e i cosiddetti “diavoli neri” della Tasmania.

Diavoli, selvaggi, pidocchi: tutti termini che inducevano un’idea di male, di inciviltà e di sporcizia.
Qualcosa che i veri cristiani, i veri uomini civili, i veri portatori del progresso dovevano distruggere: pena la sconfitta del bene, dei valori universali del liberalismo europeo e dello sviluppo economico. Qualcosa che, a ben vedere, troviamo ancora nel “diritto penale del nemico” odierno e nell’educazione trasmessa da tutti gli ordini di scuola, statali, private o religiose che siano, ancora oggi. Anche qui da noi, come nel ’68 si seppe così ben riconoscere in una struttura educativa che rimaneva comunque parte di un sistema concentrazionario dal punto di vista politico e culturale.
Vogliamo dire di classe, per cancellare ogni dubbio dalle anime belle che ancora si peritano di illustrarci come una buona e diffusa educazione sia il fulcro della formazione del buon cittadino democratico?

Ultima, ma non per importanza, viene l’esperienza dei popoli indigeni della Nuova Zelanda.
Quanto sangue è scorso nei fiumi e quanto ha impregnato la terra della Nuova Zelanda prima che la Haka, la danza tipica dei popoli Maori, diventasse famosa precedendo le partite degli All Blacks? Questa mostruosa finzione di riconoscimento di una cultura altra, viene dopo le autentiche guerre genocidarie condotte contro gli indigeni dai coloni e dalle truppe che ne avevano invaso i territori.

Distrutti e sconfitti, nonostante le rivolte, i discendenti dei superstiti sono stati assimilati fino all’invenzione di una possibile provenienza ariana dei popoli originari neozelandesi. In un contesto in cui la ricerca storica, linguistica e scientifica, hanno messo in dubbio da tempo la stessa esistenza di una “stirpe” ariana. Come sostenne già, più di trent’anni fa, il sinologo Martin Bernal, nel suo fondamentale Atena Nera, collegando il mito dell’arianesimo e dell’esistenza dell’indoeuropeo all’espansione coloniale europea, soprattutto britannica nel corso del XIX secolo3 .

Alla fine il mito ariano, uscito apparentemente dalla porta, rientra sempre, dalle finestre o dalle feritoie della Storia e della cultura politica. Cosicché quest’opera fondamentale ha il merito enorme di rivelare definitivamente come tra democrazie liberali e totalitarismi il passo sia breve, anzi come l’unica vera differenza consista tra chi vince le guerre e possa in seguito definire le colpe dei “malvagi” sconfitti.

In fin dei conti fascismo e liberalismo potrebbero poi non essere così distanti come si cerca di far credere e, di conseguenza, Hitler ed Auschwitz potrebbero non essere altro che la realizzazione piena delle promesse insite nel progresso liberale e del modo di produzione capitalistico. E delle loro reali conseguenze per i lavoratori e la specie umana.
Un dovuto ringraziamento va dunque a Leonardo Pegoraro per averci fornito gli strumenti per poter affermare ciò con più argomenti e convinzione nel corso delle battaglie future per la liberazione della specie e del pianeta da un modo di produzione e di governo delle risorse sempre più iniquo e distruttivo.


  1. Andrzej J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1997  

  2. Si legga in proposito il romanzo, di William T. Vollmann, Venga il tuo regno, pubblicato da Alet (Padova 2011) e che costituisce il secondo dei Sette sogni – Un libro di paesaggi nordamericani attraverso i quali l’autore ha inteso ricostruire la storia della conquista e colonizzazione del continente nordamericano.  

  3. M. Bernal, Atena nera. Le radici asiatiche delle società classiche, il Saggiatore, Milano 2011, edizione originale 1987  

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E’ successo un sessantotto! https://www.carmillaonline.com/2018/03/22/successo-un-sessantotto/ Thu, 22 Mar 2018 21:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44351 di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate [...]]]> di Sandro Moiso

Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00

Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate all’attuale cinquantenario di un movimento che in realtà iniziò ben prima e da ben altri lidi. Così come ha già ben sottolineato Valerio Evangelisti nei giorni scorsi proprio su Carmilla.

Per questo motivo l’attuale quarta edizione del testo di Guido Viale “Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione”, uscito per la prima volta nel 1978 per le edizioni Mazzotta, potrebbe rivelarsi utile e necessaria, considerato anche il fatto che alla stessa sono state aggiunte una nuova introduzione dell’autore, 64 pagine a colori che riproducono volantini, manifesti, opuscoli e libri dell’epoca oltre al fondamentale manifesto della rivolta studentesca “Contro l’università”, scritto da Viale e pubblicato nel febbraio di quello steso anno sulle pagine del n° 33 dei Quaderni Piacentini. Mentre per gli amanti della grafica e della memoria compare anche la ristampa (estraibile) del manifesto diffuso dal Soccorso Rosso, negli anni successivi, a difesa di Pietro Valpreda e di denuncia delle trame terroristiche di Stato, disegnato da Guido Crepax.

Guido Viale (classe 1943) vive attualmente a Milano e, dopo gli anni di militanza di cui parla nella sua nuova introduzione al testo, ha lavorato come insegnante, traduttore, giornalista, ricercatore e consulente sui temi della gestione dei rifiuti, dell’ambiente, della mobilità urbana e dei migranti.
Come afferma egli stesso nell’introduzione, quello ora ripubblicato dalle Edizioni Interno 4:

“ E’ un lavoro con cui avevo cercato di “fare il punto” sul significato e la portata di quelle lotte ormai trascorse, proprio mentre prendevo congedo da dieci anni di militanza intensa e ininterrotta prima nel movimento degli studenti, poi nell’assemblea operai studenti di Mirafiori e infine nel gruppo Lotta continua. In questo libro cercavo di enucleare i contenuti ancor vivi di ciò che quei dieci anni di militanza ci avevano insegnato: erano stati una specie di “università della strada” da cui chi non vi aveva partecipato non avrebbe mai più potuto attingere gli insegnamenti che noi ne avevamo ricavato. “1

L’intento fin dalla prima edizione era infatti quello di muoversi in direzione contraria rispetto alle due strade intraprese, già a solo dieci anni di distanza, dalle commemorazioni di quell’anno e che sono sostanzialmente quelle che sembrano ancora animare gli intenti del farlocco cinquantennale di cui già si è parlato più sopra.

Da un lato si poneva , e si pone tutt’ora, il carattere formidabile di quegli anni, tutto a teso a rendere mitico l’evento collocandolo in uno spazio altro; rendendolo così non più raggiungibile né, tanto meno, utilizzabile nel contesto politico, sociale e conflittuale venutosi a determinare nei decenni successivi sia come metro di paragone sia come modello, per quanto criticabile e discutibile, di riferimento.

Dall’altro si sottolineava la deriva “terroristica” di quel movimento, finendo con l’appiattire tutte le lotte del decennio seguito al ’68 sulle scelte operate successivamente dalle numerose formazioni politico-militari che avrebbero dato vita alla lotta armata in Italia. Esperienza che, è sempre bene ricordarlo, avrebbe costituito la forma più incandescente del conflitto sociale nell’Europa occidentale e visto arruolato nelle sue file un numero incredibilmente elevato di operai, donne e giovani.

L’attuale cinquantenario, che per giunta incrocia il quarantennale del rapimento Moro messo in atto dalle Brigate rosse nel 1978, sembra rimarcare ancora con forza questo secondo aspetto con affermazioni che lasciano di stucco, soprattutto per la loro superficialità e per l’intrinseco e deviante negazionismo storico sulle responsabilità dello Stato, e dei suoi apparati militari e polizieschi oltre che partitici, nel perseguimento di un’autentica strategia del terrore a partire dall’autunno del 1969 e dalla strage di piazza Fontana in poi.

Basti citare, come esempio di ciò, la recente affermazione dell’attuale premier in stato di animazione sospesa che il 16 marzo di quest’anno ha affermato come l’azione delle Brigate rosse di quarant’anni fa abbia costituito “il più grave attacco alla Repubblica”.2 Un’affermazione che da sé basterebbe mostrare la falsità dell’antifascismo ostentato, per soli fini di convenienza elettorale, dalle forze di governo e della “sinistra” istituzionale prima della recente chiamata alla urne.

Sia il testo che le due interviste all’autore, che lo accompagnano in appendice, esprimono invece

“un modo di contrapporre a quelle opposte visioni il nucleo essenziale di un possibile recupero dello spirito del ’68 in un contesto storico e sociale completamente cambiato<. In tutti i sensi, un’altra epoca”.3

Ciò che costituì invece, secondo Guido Viale, l’essenza del ’68, fu una sorta di globalizzazione delle lotte a livello internazionale e dal “basso” che ebbe inizio a partire, sempre nel giudizio dell’autore, da un carattere unificante a livello mondiale:

“la lotta contro tutte le gerarchie, dentro tutte le istituzioni che le consolidano e le legittimano: famiglia, Università, scuola, fabbrica, pubblica amministrazione, ospedali (compresi, importantissimi allora, quelli psichiatrici), tribunali, carcere, forze armate, quartieri e strutture urbanistiche”4

La riflessione ebbe inizio a partire da quelli che sarebbero poi stati i due poli trainanti dello scontro su scala globale: la fabbrica e la scuola. Qui in Italia fin dai primi mesi, ma forse già anche prima, di quell’anno venivano al pettina alcuni nodi fondamentali di quel boom economico di cui tanto si parlava ma che aveva al suo centro una forte migrazione interna, salari e tempi di lavoro vergognosi e una riforma della scuola media che dal 1963 sembrava aver aperto le porte dell’ascensore per l’emancipazione sociale anche per le classi meno abbienti. Sembrava, appunto, poiché fin dalle prime occupazioni di palazzi universitari e scuole la riflessione degli studenti in rivolta poteva:

“constatare come scuola e istruzione non offrissero né garantissero più alcun riscatto, alcune vera emancipazione, alcune prospettiva di una vita più libera e soddisfacente; facendo così crollare sotto di sé tutte le altre gerarchie: dalla fabbrica alla pubblica amministrazione e a tutto ciò cui i saperi impartiti all’Università avrebbero dovuto fornire una legittimazione.”5

Ma anche se Viale fu tra i protagonisti dell’occupazione di Palazzo Campana a Torino, che dal 27 novembre 1967 avrebbe contribuito ad infiammare gli altri atenei italiani e anticipato il maggio francese, sono la fabbrica e la trasformazione dei rapporti sociali, politici, lavorativi e di potere tra operai ed operai, tra lavoratori e sindacati, tra militanti politici e partiti e tra dipendenti ed aziende a costituire il “core” dl libro e sostanzialmente degli avvenimenti del decennio che seguì al ’68.

Nelle inchieste che i giovani universitari e gli studenti iniziavano a far circolare tra i lavoratori delle aziende torinesi ciò che risaltava maggiormente era l’odio per il lavoro. Si parlava di «lavoro forzato; fa schifo; abbondante e poco retribuito; siamo carcerati come un innocente in carcere; [la Fiat] un campo di concentramento per anime bisognose; che il lavoro nobilita l’uomo, ma la Fiat lo fa schiavo; se penso al mio lavoro non lavoro più» e così via6

E’ l’inizio dell’autonomia operaia destinata a travolgere organizzazione del lavoro, rapporti sindacali, partiti istituzionali e gerarchie aziendali. Viale cita dai verbali di assemblee operaie di Mirafiori, all’epoca pubblicati dalla Monthly Review nel 1969):

“Io credo – è la relazione introduttiva di un operaio di Mirafiori –che al di là dell’importanza oggettiva che le lotte autonome hanno nei confronti della produzione, che sono riuscite a bloccare, il vero successo di queste lotte sta nel fatto che oggi gli operai della Fiat sono molto aperti a confrontare le loro idee, a discutere; nel fatto che qui oggi si possa discutere di tutti i problemi che ci riguardano […] Questi sono i nostri passi avanti decisivi; l’aver portato la lotta all’interno della fabbrica. Ognuno di noi sa che la fabbrica è il posto dove tutti i giorni siamo uniti, ma solo per produrre ed essere sfruttati. I ritmi di lavoro, le condizioni generali di lavoro, i ricatti della polizia padronale ci impediscono spesso addirittura di parlarci […] Ma se per il padrone la fabbrica deve funzionare così, per gli operai diventa, al contrario, il luogo dove costruiscono la loro unità non per produrre ma per lottare, per discutere insieme , per organizzarsi. La Fiat, che non è solo la più grande fabbrica italiana , ma anche il più schifoso campo di concentramento, in questi giorni è trasformata dalle fermate, dai cortei, dalle assemblee, dalla forza degli operai che hanno mandato al diavolo la divisione e la paura […] Siamo noi ora a decidere non solo della forma della lotta, ma anche dei suoi obiettivi, del modo di guidarla, di organizzarla, di estenderla. E questa è la cosa che fa paura ai sindacati e ai padroni […] La produttività è un problema dei padroni; il salario è un problema degli operai […] Nessun operaio si illude più. Il sindacalista vantava la Fiom gloriosa del ’48, ma oggi siamo nel ’69. Sono passati ventuno anni, l’operaio è maggiorenne e non ha più bisogno dei sindacati”.7

Il discorso potrebbe continuare a lungo e il testo fornisce elementi ed argomenti in abbondanza, ma prima di chiudere questa breve sintesi occorre ricordare un altro importante elemento di crescita politica e culturale che il ’68 portò con sé e che continua ancora ai nostri giorni a cozzare con le interpretazioni dei fatti di quegli anni e, ancora di oggi come abbiamo potuto vedere prima: la nascita della controinformazione.

L’autore sottolinea così il ruolo che essa ha avuto fin dagli esordi, promossa e sviluppata dalle organizzazioni di quella che sarebbe poi stata definita sinistra rivoluzionaria:

“proprio partire dalla denuncia della matrice statuale e fascista e delle finalità eversive della strage di Piazza Fontana e dell’assassinio di Pino Pinelli. A distanza di anni, quella denuncia inizialmente isolata e snobbata si è dimostrata esatta, sia storicamente che fattualmente; ma ritengo anche che abbia avuto un ruolo decisivo nello sventare il disegno sotteso alla strategia della tensione. Se per molti anni […] gli istituti basilari della democrazia parlamentare sono stati in qualche modo salvaguardati è grazie all’impegno straordinario in questo campo dei militanti «rivoluzionari» di allora; e non certo per merito della magistratura e meno che mai delle cosiddette forze dell’ordine; né grazie all’atteggiamento compiacente, quando non complie, della maggior parte delle forze politiche che sedevano – e siedono ancor oggi, mutate le vesti – in Parlamento”.8

Come si vede, dunque, un’ottima ed incisiva lettura per iniziare seriamente le celebrazioni del cinquantennio senza sommergere la memoria nel ridicolo, nello spettacolo e nella retorica. Anzi…


  1. Viale, il 68, pag. 7  

  2. Si veda repubblica.it del 16 marzo 2018  

  3. Viale, op.cit. pag. 8  

  4. Viale pag. 9  

  5. Viale, pag. 9  

  6. Viale, pag. 198  

  7. Viale, pp. 202 – 205  

  8. pag. 10  

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Segnali di Fumo: Amianto di Alberto Prunetti https://www.carmillaonline.com/2016/09/13/segnali-fumo-amianto-alberto-prunetti/ Mon, 12 Sep 2016 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33084 2di Jacopo Frey e Nicola Gobbi

Amianto di Alberto Prunetti è un libro che ha già avuto da parte dei lettori un’accoglienza meritata e sentita, e l’autore ha nel frattempo ripreso a girare per l’Italia con nuovi compagni di viaggio, come l’oste anarchico e altri proletari della Maremma. Perché, riprendere ora, a fumetti, una riflessione su questo libro?

Chi scrive è un docente precario dell’Emilia Romagna che attende da qualche mese i risultati del concorso per entrare in ruolo bandito dalla ministra Giannini: un’abile mossa propagandistica del governo che offre miglioramenti reali a pochi lavoratori, mantenendo immutata [...]]]> 2di Jacopo Frey e Nicola Gobbi

Amianto di Alberto Prunetti è un libro che ha già avuto da parte dei lettori un’accoglienza meritata e sentita, e l’autore ha nel frattempo ripreso a girare per l’Italia con nuovi compagni di viaggio, come l’oste anarchico e altri proletari della Maremma. Perché, riprendere ora, a fumetti, una riflessione su questo libro?

Chi scrive è un docente precario dell’Emilia Romagna che attende da qualche mese i risultati del concorso per entrare in ruolo bandito dalla ministra Giannini: un’abile mossa propagandistica del governo che offre miglioramenti reali a pochi lavoratori, mantenendo immutata l’ansia dei tanti precari, resa più aspra dal miraggio lasciato intuire dal concorso.

Sull’onda di questa attesa e della precarietà costante, quando chiacchiero con qualche sconosciuto in autobus o con i vicini di casa a proposito del futuro, tendo a scivolare nella nostalgia di una fantomatica epoca di sicurezza economica e professionale: «Ah, se fossimo ancora negli anni Ottanta», che mi avrebbe visto sicuramente già in ruolo.

Allargando la portata analitica di queste mie elucubrazioni, tendo a spiegare l’impietoso scarto fra quest’epoca di incertezza professionale e quei lontani anni del “posto fisso”, con la spirale negativa avviata dal progressivo smantellamento dell’industria dal nostro paese. «Se ancora producessimo l’acciaio qui da noi come una volta» dico «tanti problemi non ci sarebbero e saremmo tutti, in un modo o nell’altro più sereni». E a corollario di questo ragionamento finisco per decantare anche la tranquillità del clientelismo della Prima Repubblica rispetto alla mannaia della meritocrazia.

È quasi retorico chiedersi quali fondamenti possano avere questi ragionamenti. Il problema è che qualcuno ci pensa sul serio a queste cose; alla fine per me sono una risposta ad un malumore del lunedì.

Ecco, Amianto è proprio lì a ricordarci il vero volto di quell’epoca d’oro che chiamiamo Les Trente Gloreuses: lo scambio, consumato alle spalle dei lavoratori o con la conscia accettazione del rischio sotto il ricatto dell’occupazione e del premio, fra benessere e salute.

Amianto però ci racconta anche, usando la lingua del lavoro e della tecnica, un altro dramma: quel sacrificio di due generazioni di lavoratori e lavoratrici covava il sogno del miglioramento per i propri figli. Studiare, finalmente, e costruire autonomamente il proprio futuro. Oltre alla salute, alla generazione dei padri e della madri è stato portato via anche la realizzazione di quel desiderio. Come quando si va a pescare, quindi, e ci si ritrova l’amo portato via da un pesce.

Ne vale la pena? Alla fine, come il pesce veloce che acchiappa la mosca e strattona, il filo -tenuto con fatica- viene strappato di mano. E un altro non c’è [J.F.]

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La strage degli studenti in Messico: Narco-Stato e Narco-Politica https://www.carmillaonline.com/2014/10/10/la-strage-degli-studenti-in-messico-narco-stato-e-narco-politica/ Thu, 09 Oct 2014 22:00:18 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18018 di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Marcha Ayotzinapa 8 oct 179 (Small)Il Messico si sta trasformando in un’immensa fossa comune. Dal dicembre 2012, mese d’inizio del periodo presidenziale di Enrique Peña Nieto, a oggi ne sono state trovate 246, a cui pochi giorni fa se ne sono aggiunte altre sei. Sono le fosse clandestine della città di Iguala, nello stato meridionale del Guerrero. Tra sabato 4 ottobre e domenica 5 l’esercito, che ha cordonato la zona, ne ha estratto 28 cadaveri: irriconoscibili, bruciati, calcinati, abbandonati. E’ probabile che si tratti dei corpi interrati di decine di studenti della scuola normale di Ayotzinapa, comune che si trova a circa 120 km da Iguala. Infatti, dal fine settimana precedente, 43 normalisti risultano ufficialmente desaparecidos. “Desaparecido” non significa semplicemente scomparso o irreperibile, significa che c’è di mezzo lo stato.

Vuol dire che l’autorità, connivente con bande criminali o gruppi paramilitari, per omissione o per partecipazione attiva, è coinvolta nel sequestro di persone e nella loro eliminazione. Niente più tracce, i desaparecidos non possono essere dichiarati ufficialmente morti, ma, di fatto, non esistono più. I familiari li cercano, chiedono giustizia alle stesse autorità che li hanno fatti sparire. Oppure si rivolgono ai mass media e a istituzioni che in Messico sono sempre più spesso una farsa, una facciata che nasconde altri interessi e altre logiche, occulte e delinquenziali. E nelle conferenze stampa, senza paura, dicono: “Non è stata la criminalità organizzata, ma lo stato messicano”.

La strage di #Iguala #Ayotzinapa

Marcha Ayotzinapa 8 oct 149 (Small)La sera di venerdì 26 settembre un gruppo di giovani alunni della scuola normale di Ayotzinapa si dirige a Iguala per botear, cioè racimolare soldi. Hanno tutti tra i 17 e i 20 anni. Vogliono raccogliere fondi per partecipare al tradizionale corteo del 2 ottobre a Città del Messico in ricordo della strage  di stato del 1968, quando l’esercito uccise oltre 300 studenti e manifestanti in Plaza Tlatelolco. I normalisti decidono di occupare tre autobus. I conducenti li lasciano fare, ci sono abituati. Sono le sette e mezza, fa buio. Fuori dall’autostazione, però, ad attenderli c’è un commando armato di poliziotti. Fanno fuoco senza preavviso. Sparano per uccidere, non solo per intimidire. Hanno l’uniforme della polizia del comune di Iguala e sono gli uomini del sindaco José Luis Abarca Velázquez e del direttore della polizia locale Felipe Flores, entrambi latitanti da più di una settimana. Ma i pistoleri poliziotti non restano soli a lungo, presto sono raggiunti da un manipolo di altri energumeni in tenuta antisommossa. Il fuoco delle armi cessa per un po’, ma l’attacco è stato brutale, indignante e irrazionale.

La persecuzione continua. Partono altri spari. Muoiono tre studenti, altri 25 restano feriti, uno in stato di morte cerebrale. Per salvarsi bisogna nascondersi, buttarsi sotto gli autobus. Non muoverti, se no gli sbirri ti seccano. Alcuni cercano di scappare, scendono dai bus, il formicaio esplode nell’oscurità. Gli uomini in divisa caricano decine di studenti sulle loro camionette e li portano via. Pare che l’esercito, la polizia federale e quella statale abbiano scelto di non intervenire. Lasciar stare.

Intanto sopraggiungono altri soggetti con armi di alto calibro, narcotrafficanti del cartello dei Guerreros Unidos, una delle tante sigle che descrivono il terrore della narcoguerra e la decomposizione del corpo sociale in molte regioni del paese. Non contenti, i poliziotti, in combutta con i narcos, si spostano fuori città, pattugliano la strada statale che collega Ayotzinapa a Iguala e fermano un pullman di una squadra di calcio locale, los avispones. Assaltano anche quello, pensando che sia il mezzo su cui gli studenti stanno facendo ritorno a casa. Bisogna sparare, bersagliare senza tregua. E ora sono in tanti, narcos e narco-poliziotti, insieme, probabilmente per ordine de “El Chucky”, un boss locale, e del sindaco Abarca.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 234 (Small)Ammazzano un calciatore degli avispones, un ragazzo di quattordici anni che si chiamava David Josué García Evangelista. I proiettili volano ovunque, sono schegge di follia e forano la carrozzeria di un taxi che, sventurato, stava passando di lì. Perdono la vita sia il conducente dell’auto sia una passeggera, la signora Blanca Montiel. Il caso, la mala suerte si fa muerte. Poche ore dopo in città compare il cadavere dello studente Julio Cesar Mondragón, martoriato. Gli hanno scorticato completamente la faccia e gli hanno tolto gli occhi, secondo l’usanza dei narcos. La macabra immagine, anche se repulsiva, diventa virale nelle reti sociali. E si diffondono globalmente anche le testimonianze dirette dell’orrore che stanno rendendo i sopravvissuti.

Le reazioni alla mattanza

Dopo il week end del massacro a Iguala i compagni della normale di Ayotzinapa e i familiari delle vittime e dei desaparecidos si organizzano, reclamano, tornano sul luogo della strage e indicono una manifestazione nazionale per l’8 ottobre a Città del Messico per chiedere le dimissioni del governatore statale, Ángel Aguirre, la “restituzione con vita” dei desaparecidos e giustizia per le vittime della mattanza.

Cresce la pressione mediatica e popolare per ottenere giustizia. Arrivano i primi arresti. 22 poliziotti al soldo delle mafie locali e 8 narcotrafficanti sono imprigionati e la Procura Generale della Repubblica comincia a occuparsi del caso. Alcuni degli arrestati confessano i crimini commessi e parlano di almeno 17 studenti rapiti e giustiziati. Indicano la posizione esatta di tre fosse clandestine in cui sarebbero stati interrati. L’esercito e la gendarmeria commissariano l’intera regione e blindano le fosse comuni che non sono tre, sono sei. La morte si moltiplica. I corpi recuperati sono 28, non 17. I desaparecidos, però, sono 43.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 020 (Small)I numeri non tornano. I familiari non si fidano, chiedono l’invio di medici forensi argentini, specialisti imparziali e qualificati. Ci vorrà tempo per avere certezze, se mai ce ne saranno. I risultati dell’esame del DNA tarderanno ad arrivare almeno due settimane. Nel frattempo, il 7 ottobre, seicento agenti delle polizie comunitarie della regione della Costa Chica, appartenenti alla UPOEG (Unione dei Popoli Organizzati dello Stato del Guerrero), hanno fatto il loro ingresso a Iguala per cercare “vivi o morti” e “casa per casa” i 43 studenti scomparsi. Altri gruppi della polizia comunitaria di Tixla, autonoma rispetto alle autorità statali, hanno scritto su twitter: “Con la nostra attività di sicurezza stiamo proteggendo la Normale di #Ayotzinapa“.

Dov’è finito il sindaco del PRD (Partido de la Revolución Democrática, di centro-sinistra) José Luis Abarca? E sua moglie, anche lei irreperibile? E cosa fa il governatore dello stato, il “progressista”, anche lui del PRD, Ángel Aguirre? Pare che lui conoscesse molto bene la situazione già da tempo. Il loro partito ha scelto di espellere il sindaco e sostenere il governatore per non perdere quote di potere in quella regione. Abarca ha chiesto 30 giorni di permesso e poi è sparito. Ora è ricercato dalla giustizia e vituperato dall’opinione pubblica nazionale. Aguirre, che non ha potuto impedire la strage né ha bloccato la concessione permesso richiesto dal sindaco prima di scappare, cerca di difendere l’indifendibile e, per ora, non presenta le sue dimissioni. Anzi, scambia abbracci e si fa la foto con Carlos Navarrete, nuovo segretario generale del PRD eletto domenica 5 ottobre.

Narco-Politica

La gravità della situazione è palese, anche perché è nota da anni e non s’è fatto nulla per denunciarla ed evitare la sua degenerazione violenta. José Luis Abarca, sindaco di Iguala al soldo dei narco-cartelli, ha un passato inquietante alle spalle, ma è riuscito comunque a diventare primo cittadino e a piazzare sua moglie, María Pineda, come capo delle politiche sociali municipali, cioè dell’ufficio del DIF (Desarrollo Integral de la Familia), e prossima candidata sindaco. Il giorno della strage la signora Pineda doveva presentare la relazione dei lavori svolti come funzionaria pubblica e, temendo un’eventuale incursione dei normalisti nell’evento, avrebbe richiesto al marito di “mettere in sicurezza” la zona.

Abarca avrebbe quindi lanciato l’operazione contro gli studenti con la collaborazione piena del capo della polizia municipale, suo cugino Felipe Flores. Costui era già noto per aver “clonato” pattuglie della polizia col fine di realizzare “lavoretti speciali” e per i suoi abusi d’autorità. La moglie del sindaco è sorella di Jorge Alberto e Mario Pineda Villa, noti anche come “El borrado” e “El MP”, due operatori del cartello dei Beltrán Leyva morti assassinati. Salomón Pineda, un altro fratello, sta con i Guerreros Unidos dal giugno 2013. In uno degli stati più poveri del Messico, Abarca e consorte prendono, tra stipendi e compensazioni, 20mila euro al mese che pesano direttamente sulle casse comunali.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 175 (Small)“Mi concederò il piacere di ammazzarti”, avrebbe detto nel 2013 il sindaco Abarca ad Arturo Hernández Cardona, della Unidad Popular di Guerrero, prima di ucciderlo, secondo quanto racconta un testimone di questo delitto per cui Abarca non è stato condannato, ma che è depositato in un fascicolo giudiziale.

Il 30 maggio 2013 otto persone scomparvero a Iguala. Erano attivisti, membri della Unidad Popular, un gruppo politico vicino al PRD. Tre di loro sono stati ritrovati, morti, in fosse comuni. La camionetta su cui viaggiavano venne rinvenuta nel deposito comunale degli autoveicoli di Iguala. Human Rights Watch, Amnesty Internacional e l’Ufficio a Washington per gli Affari Latinoamericani chiesero invano alle autorità federali di chiarire il caso, essendoci il fondato sospetto di un’implicazione delle autorità locali. Cinque attivisti sono tuttora desaparecidos.

I sicari con l’uniforme della polizia e quelli in borghese lavorano per lo stesso cartello, quello dei Guerreros Unidos che è in lotta con Los Rojos per il controllo degli accessi alla tierra caliente, la zona calda tra lo costa e la sierra in cui prosperano le coltivazioni di marijuana e fioriscono i papaveri da oppio, che qui si chiamano amapola o adormidera. Le bande rivali sono nate dalla scissione dell’organizzazione dei fratelli Beltrán Leyva, ormai agonizzante. Il 2 ottobre, mentre 50mila persone sfilavano per le strade della capitale per non far sbiadire la memoria di una strage, a Queretaro veniva arrestato l’ultimo dei fratelli latitanti, Hector Beltrán Leyva, alias “El H”, un altro figlio delle montagne dello stato del Sinaloa. “El H” era diventato un imprenditore rispettato. Originario della Corleone messicana, la famigerata Badiraguato, e antico alleato dell’ex jefe de jefes, Joaquín “El Chapo” Guzmán, che sta in prigione dal febbraio scorso, s’era costruito una reputazione rispettabile, onorata. Ma già da tempo il gruppo dei Beltrán s’era diviso in cellule cancerogene e impazzite secondo il cosiddetto effetto cucaracha: scarafaggi in fuga, un esodo di massa per non essere calpestati.

Ed eccoli qui che giustiziano studenti insieme ai poliziotti che, a loro volta, aspirano a posizioni migliori all’interno dell’organizzazione criminale, sempre più confusa con quella statale, e s’occupano della compravendita di protezione e di droga. L’eroina tira di più in questo periodo e Iguala è una porta d’accesso importante, una plaza di snodo. L’eroina bianca del Guerrero è un prodotto che non ha niente da invidiare, per qualità e purezza, a quella proveniente dall’Afghanistan. Anche per questo la regione è la più violenta del Messico da un anno e mezzo a questa parte e ha spodestato in testa alla classifica della morte altri stati in disfacimento come il Michoacan, il Tamaulipas, Sonora, il Sinaloa, Chihuahua, l’Estado de México e Veracruz.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 292 (Small)I responsabili del massacro di Iguala

I poliziotti detenuti accusano Francisco Salgado, uno dei loro capi, finito anche lui in manette, di avere ordinato loro di intercettare gli studenti fuori dalla stazione degli autobus. Invece l’ordine di sequestrarli e assassinarli sarebbe arrivato dal boss mafioso El Chucky. Chucky, come il personaggio del film horror “La bambola assassina” di Tom Holland. Il procuratore di Guerrero, Iñaki Blanco, ritiene che il principale responsabile della mattanza e della desaparición dei 43 normalisti sia il sindaco Abarca che “è venuto meno al suo dovere, oltre ad aver commesso vari illeciti”. Il procuratore parla solo di “omissioni”, promuoverà accuse per “violazioni alle garanzie della popolazione” e la revocazione della sua immunità, ma dal suo discorso non si capisce chi sarebbero tutti i responsabili né come saranno identificati e processati.

Chi ha ordinato ai (narco)poliziotti di fermare i normalisti e di sparare? Com’è possibile che il sindaco e il capo della polizia e delle forze di sicurezza locali, Felipe Flores, siano riusciti a fuggire? Perché i due, ma anche l’esercito e le forze federali, hanno lasciato gli studenti alla mercé della violenza? Perché la polizia prende ordini dai narcos e, anzi, fa parte del cartello dei Guerreros Unidos? Com’è possibile che tutto questo sia tragicamente così normale in Messico? Come mai nessuno l’ha impedito, se già da anni si era a conoscenza della situazione?

Infatti, ci sono prove del fatto che, almeno dal 2013, il governo federale e il PRD hanno chiuso entrambi gli occhi di fronte all’evidenza: José Luis Abarca e sua moglie María Pineda avevano chiari vincoli col narcotraffico e con la morte di un militante come Arturo Hernández Cardona. Ma già dal 2009, quando il presidente era Felipe Calderón, del conservatore Partido Acción Nacional (PAN), la Procura Generale della Repubblica aveva reso pubbliche la relazioni della signora Pineda e dei suoi fratelli con il cartello dei Beltrán Leyva. La polizia di Iguala era in mano ai narcos e sono tantissime le realtà locali in Messico ove predomina questa situazione.

L’esperto internazionale di sicurezza e narcotraffico, il prof. Edgardo Buscaglia, ha parlato di Peña Nieto e di Calderón come figure simili tra loro, come coordinatori del patto d’impunità e della perdita di controllo politico nazionale: “Sono cambiate le facce, ma hanno lo stesso ruolo”.  Perciò, ha segnalato l’accademico, bisogna cominciare dal presidente per trovare i responsabili. Mentre la comunità internazionale “fa come se non stesse accadendo nulla”, nel paese “il denaro zittisce le coscienze collettive” e, secondo Buscaglia, “il sistema giungerà a una crisi e ci sarà una sollevazione sociale in cui si fermerà il paese e soprattutto il sistema economico”.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 129 (Small)Le scuole normali messicane

Resta il fato che sparuti gruppi di studenti, seppur combattivi, di un’istituzione rurale non sono pericolosi trafficanti né rappresentano minacce sistemiche. Perché annichilarli? Forse la storia ci aiuta a ipotizzare delle risposte. Le scuole normali messicane, nate negli anni ’20 e impulsate dal presidente Lázaro Cárdenas negli anni ’30 come baluardi del progetto di educación socialista per il popolo e le zone rurali del paese, sono considerate oggi dalla classe politica tecnocratica come un pericoloso e anacronistico retaggio del passato. Un’appendice inutile da estirpare per entrare appieno nella globalizzazione.

Di fatto i governi neoliberali, dai presidenti Miguel de la Madrid (1982-1988) e Carlos Salinas (1988-1994) in poi, hanno costantemente attaccato e minacciato la sopravvivenza del sistema scolastico delle normali che, ciononostante, ha saputo resistere. La funzione sociale di questi centri educativi è sempre stata fondamentale perché è consistita nell’istruire le classi sociali più deboli e sfruttate, specialmente i contadini e gli abitanti delle campagne, affinché potessero difendersi dai soprusi dei latifondisti e dei politici locali, secondo un chiaro progetto politico-educativo di emancipazione e ribellione allo status quo. L’alfabetizzazione della popolazione rurale e la formazione di maestri coscienti socialmente sembra essersi trasformata in un’anomalia per tanti settori benpensanti, politici e metropolitani.

Anche per questo gli studenti delle normali, in quanto portatori di modelli di lotta e di formazione antitetici rispetto a quelli delle élite locali e nazionali e dei cacicchi della narco-agricoltura e della narco-politica, sono già stati vittime in passato della barbarie e della repressione. Nel dicembre 2011 la polizia ne uccise due proprio di Ayotzinapa durante lo sgombero di un blocco stradale e di una manifestazione. Una violenza smisurata venne impiegata dalla Polizia Federale nel 2007 per reprimere gli alunni di quella stessa cittadina che avevano bloccato il passaggio in un casello della turistica Autostrada del Sole tra Acapulco e Città del Messico. Nel 2008 i loro compagni della normale di Tiripetío, nel Michoacán, furono trattati come membri di pericolose gang e, in seguito a una giornata di proteste e scontri con la polizia, 133 di loro finirono in manette.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 008 (Small)Tradizione stragista

La criminalizzazione dei normalisti va inquadrata anche nel più esteso processo di criminalizzazione della protesta sociale che incalza con l’approvazione di misure repressive, come la “Ley Bala”, che prevede l’uso delle armi in alcuni casi nei cortei da parte della polizia, con l’inasprimento delle pene per delitti contro la proprietà privata e l’ampliamento surreale delle fattispecie legate ai reati di terrorismo e di attacco alla pace pubblica. Tutti contenitori pronti per fabbricare colpevoli e delitti fast track. Il caso di Mario González, studente attivista arrestato ingiustamente il 2 ottobre 2013 e condannato, senza prove e con un processo ridicolo, a 5 anni e 9 mesi di reclusione, sta lì a ricordarcelo.

Ma la “tradizione stragista” e di omissioni dello stato messicano è purtroppo molto più lunga e persistente. Basti ricordare alcuni nomi e alcune date, solo pochi esempi tra centinaia che si potrebbero menzionare: 2 ottobre 1968, Tlatelolco; 11 giugno 1971, “Los halcones”; anni ’70 e ‘80, guerra sucia; 1995, Aguas Blancas, Guerrero; 1997, Acteal, Chiapas; 2006, Atenco y Oaxaca; 2008 y 2014, Tlatlaya; 2010 e 2011, i due massacri di migranti a San Fernando, Tamaulipas; 2014, caracol zapatista de La Realidad, Chiapas; 2014, Iguala; 2006-2014, NarcoGuerra, 100mila morti, 27mila desaparecidos…

La OAS (Organization of American States), Human Rights Watch, la ONU, la CIDH (Corte Interamericana dei Diritti Umani) si sono unite al coro internazionale di voci critiche contro il governo messicano. La notizia delle fosse comuni e della mattanza di Iguala sta cominciando a circolare nei media di tutto il mondo e si erge a simbolo dell’inettitudine, dell’impunità e della corruzione. In pochi giorni è crollata la propaganda ufficiale che presentava un paese pacificato e sulla via dello sviluppo indefinito.

“Estamos moviendo a México”

Marcha Ayotzinapa 8 oct 225 (Small)Gli spot governativi presentano un Messico che si muove, che sta sconfiggendo i narcos e che, grazie alla panacea delle “riforme strutturali”, in primis quella energetica, ma anche quelle della scuola, del lavoro, della giustizia e delle telecomunicazioni, si starebbe avviando a entrare nel club delle nazioni che contano: una retorica, quella delle riforme necessarie e provvidenziali, che suona molto familiare anche in Europa e in Italia e che, in terra azteca, copia pedantemente quella dei presidenti degli anni ottanta e novanta, in particolare di Carlos Salinas de Gortari. Dopo la firma del NAFTA (Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord) con USA e Canada, Salinas preconizzava l’ingresso del Messico nel cosiddetto primo mondo. Invece alla fine del suo mandato nel 1994 l’insurrezione dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) in Chiapas, l’effetto Tequila, la svalutazione, indici di povertà insultanti e la fine dell’egemonia politica del PRI (Partido Revolucionario Institucional, al potere durante 71 anni nel Novecento) attendevano al bivio il nuovo presidente, Ernesto Zedillo (1994-2000).

Oggi Peña Nieto, anche lui del PRI, dopo aver approvato le riforme costituzionali e della legislazione secondaria in fretta e furia, cerca di vendere il paese agli investitori stranieri, mostrando al mondo come pregi gli aspetti più laceranti del sottosviluppo: precarietà e flessibilità del lavoro; salari da fame per una manodopera mediamente qualificata, non sindacalizzata e ricattabile; movimenti sociali anestetizzati; un welfare non universale, discriminante e carente; riforme educative dequalificanti per professori e alunni ma “efficientiste”; stato di diritto “flessibile”, cioè accondiscendente con i forti e spietato coi deboli.

Marcha Ayotzinapa 8 oct 276 (Small)Il presidente annuncia lo sforzo del Messico per consolidare l’Alleanza del Pacifico, un’area commerciale sul modello del NAFTA per i paesi americani affacciati sull’Oceano Pacifico, e la prossima partecipazione di personale militare e civile alle “missioni di pace dell’ONU” come quella ad Haiti, la missione dei caschi blu chiamata MINUSTAH, che pochi onori e tante grane ha portato al paese caraibico e agli eserciti latinoamericani, per esempio il brasiliano, l’uruguaiano e il venezuelano, che vi partecipano attivamente.

Questa politica da “potenza regionale”, però, deve fare i conti con la cruda realtà. L’inserto Semanal del quotidiano La Jornada del 5 ottobre ha pubblicato un box con un piccolo promemoria: dal dicembre 2012 al gennaio 2014 ci sono stati 23.640 morti legati al narco-conflitto interno, 1700 esecuzioni al mese, con Guerrero che registra, da solo, un saldo di 2.457 assassinii, secondo quanto  riferisce la rivista Zeta in base all’analisi dei dati ufficiali. Nel 2011 Fidel López García, consulente dell’ONU intervistato dalla rivista Proceso (28/XI/2011), aveva parlato di un milione e seicentomila persone obbligate a lasciare la loro regione d’origine per via della guerra. Anche per questo il Messico rischia di trasformarsi in un’immensa fossa comune (e impune).

Ayo foto corteo lungoPost Scriptum. Il corteo.

“¿Por qué, por qué, por qué nos asesinan? ¡26 de septiembre, no se olvida!” (“Perché, perché, perché ci assassinano? Il 26 settembre non si dimentica”).  E’ stato il grido di oltre 60 piazze del Messico e decine in tutto il mondo nel pomeriggio dell’8 ottobre 2014.

“Gli studenti sono vittime di omicidi extragiudiziari, si sequestrano e si fanno sparire non solo studenti ma anche attivisti sociali e quelli che vanno contro il governo […] è una presa in giro verso il nostro dolore, non sappiamo perché fanno questo teatrino politico”. Così ha espresso la sua rabbia Omar García, compagno degli studenti uccisi, in conferenza stampa. L’esercito, che nei tartassanti spot governativi viene ritratto come un’istituzione integra, fatta di salvatori della patria e protettori dei più deboli, ha vessato gli studenti di Ayotzinapa che portavano con loro un compagno ferito:

“Ci hanno accusato di essere entrati in case private, gli abbiamo chiesto di aiutare uno dei nostri compagni e i militari han detto che ce l’eravamo cercata. Lo abbiamo portato noi all’ospedale generale ed è stato lì a dissanguarsi per due ore. L’esercito stava a guardare e non ci hanno aiutato”, continua Omar. “Il governo statale sapeva quello che stavamo facendo, non eravamo in attività di protesta ma accademiche ed è dagli anni ’50 che occupiamo gli autobus e la polizia se li viene riprendere, ma non deve aggredirci a mitragliate”.

Il normalista ha infine parlato del governatore Aguirre: “Il nostro governatore ha ammazzato 13 dirigenti di Guerrero e due compagni nostri nel 2011 e per nostra disgrazia questi sono rimasti nell’oblio. La Commissione Nazionale dei Diritti Umani, cha aveva emesso un monito, non ha più seguito la cosa e il caso è rimasto impune, chi ha ucciso è rimasto libero”.

Perseo Quiroz, direttore di Amnisty in Messico, ha spiegato che non serve a nulla che il presidente Peña si rammarichi pubblicamente dei fatti di Iguala perché “questi incubavano tutte le condizioni perché succedessero, non sono fatti isolati […] lo stato messicano colloca la tematica dei diritti umani in terza o quarta posizione e per questa mancanza di azioni accadono come a Iguala”.

Ayo Polizia comunitaria a AyotzinapaAnche il Dottor Mireles, leader del movimento degli autodefensas del Michoacán e incarcerato dal luglio 2014, ha mandato un messaggio dal carcere solidarizzando con i normalisti di Iguala. Il suo comunicato è importante perché sottolinea il doppio discorso e le ambiguità del governo: da una parte la connivenza narcos-autorità-polizia è la chiave di un massacro di studenti nel Guerrero, per cui i vari livelli del governo sono immischiati e responsabili; dall’altra si mostra una falsa disponibilità al dialogo con gli studenti del politecnico (Istituto Politecnico Nazionale, IPN) che hanno occupato l’università due settimane fa per chiedere la deroga del regolamento, da poco approvato alla chetichella dalle autorità dell’ateneo, che attenta contro i principi dell’educazione pubblica e dell’università. Nonostante le dimissioni della rettrice dell’IPN e l’intimidazione derivata dal caso Ayotzinapa, la protesta studentesca continua, chiede la concessione dell’autonomia all’ateneo (cosa già acquisita da tantissime università del paese) e mette in evidenza la scarsa volontà di dialogo dell’esecutivo.

A San Cristobal de las Casas, nel Chiapas, gli zapatisti hanno proclamato la loro adesione alle iniziative di protesta di questa giornata e in migliaia hanno realizzato con una marcia silenziosa alle cinque del pomeriggio.

L’EPR (Esercito Popolare Rivoluzionario) ha emesso un comunicato in cui ha definito il massacro come un “atto di repressione e di politica criminale di uno stato militare di polizia”.

Il sindacato dissidente degli insegnanti, la CNTE (Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educación), era presente alle manifestazioni che sono state convocate in decine di città messicane e presso i consolati messicani in oltre dieci paesi d’Europa e delle Americhe. La Coordinadora ha anche dichiarato lo sciopero indefinito nello stato del Guerrero. Nella capitale dello stato, Chilpancingo, hanno marciato oltre 10mila dimostranti.

A Città del Messico abbiamo assistito a una manifestazione imponente, non solo per il numero dei manifestanti, comunque alto per un giorno lavorativo e stimato tra le 70mila e le 100mila persone, quanto soprattutto per la diversità e il forte coinvolgimento delle persone nel corteo. Hanno risposto alla convocazione dei familiari delle vittime e degli studenti scomparsi centinaia di organizzazioni della società civile, tra cui il Movimento per la Pace e l’FPDT (Frente de los Pueblos en Defensa de la Tierra di Atenco), che sono scese in piazza con lo slogan “Ayotzinapa, Tod@s a las calles” mentre su Twitter e Facebook gli hashtag di riferimento erano  #AyotzinapaSomosTodos e #CompartimosElDolor, condividiamo il dolore.

Ayotzinapa resiste cartelloNel Messico della narcoguerra le mattanze si ripetono ogni settimana, da anni, e così pure si riproducono le dinamiche criminali che distruggono il tessuto sociale e la convivenza civile. Solo che ultimamente non se ne parla quasi più. I mass media internazionali e buona parte di quelli messicani hanno semplicemente smesso d’interessarsi della questione, seguendo le indicazioni dell’Esecutivo.

La strage di Iguala e il caso Ayotzinapa stanno facendo breccia nella cortina di fumo e silenzio alzata dal nuovo governo e dai mezzi di comunicazione perché mostrano in modo contundente, crudele e diretto la collusione della polizia, dei militari e delle autorità politiche a tutti i livelli con la delinquenza organizzata. Sono i sintomi della graduale metamorfosi dello stato in “stato fallito” e “narco-stato”. Disseppelliscono il marciume nascosto nella terra, nelle sue fosse e nelle coscienze, nei palazzi e nelle procure. Smascherano la violenza istituzionale contro il dissenso politico e sociale, aprono le vene della narco-politica ed evidenziano omertà e complicità del potere locale, regionale e nazionale. Per questo Iguala e le sue vittime fanno ancora più male.

[Questo testo fa parte del progetto NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga]

P.S. Mentre stavo per pubblicare quest’articolo, il governo messicano, attaccato da tutti fronti per la strage di Iguala e i desaparecidos di Ayotzinapa, ha annunciato la cattura di Vicente Carrillo, capo del cartello di Juárez. Un altro colpo a effetto al momento giusto per distrarre l’opinione pubblica, ricevere i complimenti della DEA (Drug Enforcement Administration) e provare a smorzare gli effetti dell’indignazione mondiale. A che serve catturare un boss importante se continuano comunque le mattanze come a Iguala e tutto resta come prima?

Galleria fotografica della manifestazione a Città del Messico: LINK

Video Cori e Sequenze del Corteo: LINK

Riassunto Fatti di Iguala – Andrea Spotti/Radio Onda D’urto: LINK

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Scuola: cronaca di una morte annunciata https://www.carmillaonline.com/2014/08/27/scuola-cronaca-morte-annunciata/ Wed, 27 Aug 2014 21:45:55 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16981 di Silvia Di Fresco

keating3Descrivere quanto accaduto a luglio sembra semplice: il 6 luglio il sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi ha dichiarato in un’intervista a Repubblica che nel giro di una decina di giorni sarebbe stata emanata una legge delega “rivoluzionaria”: i professori, in cambio di un salario più alto avrebbero dovuto lavorare di più sostituendo anche i colleghi in malattia ed evitando, così, la chiamata dei supplenti. A tale dichiarazione sono seguite, rimbalzando sulla stampa, proteste immediate dei docenti e indignazione successiva da parte dei sindacati confederali e non. Cinque giorni dopo, il [...]]]> di Silvia Di Fresco

keating3Descrivere quanto accaduto a luglio sembra semplice: il 6 luglio il sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi ha dichiarato in un’intervista a Repubblica che nel giro di una decina di giorni sarebbe stata emanata una legge delega “rivoluzionaria”: i professori, in cambio di un salario più alto avrebbero dovuto lavorare di più sostituendo anche i colleghi in malattia ed evitando, così, la chiamata dei supplenti. A tale dichiarazione sono seguite, rimbalzando sulla stampa, proteste immediate dei docenti e indignazione successiva da parte dei sindacati confederali e non. Cinque giorni dopo, il suddetto Reggi al “Cantiere Scuola” del PD a Terrasini e la ministra Giannini a Radio Vaticana, hanno smentito affermando che i docenti solo volontariamente avrebbero potuto lavorare di più ottenendo così un aumento stipendiale che premiava la buona volontà di chi, a scuola, si dà da fare (perché, ribadiscono, «i gatti mica son tutti grigi!» [sic!]1). Hanno inoltre aggiunto che no, non si tratta di una legge delega, ma di una proposta al vaglio del governo da approvare a settembre e che i privati avranno un ruolo importante nel far ripartire la Scuola Pubblica (perché basta coi soliti pregiudizi ideologici)2. A questo punto tutti i soggetti coinvolti hanno tirato un sospiro di sollievo e sono andati in vacanza.

No.

In realtà ad andare in vacanza sono stati solo coloro che si adeguano con estrema duttilità alle proposte governative e alla trasformazione della società in atto. Tutti gli altri sono invece rimasti con la loro rabbia, la loro preoccupazione, la loro frustrazione a pensare quale ulteriore supplizio li attenda a settembre.

1) Gli insegnanti di ruolo hanno iniziato ad immaginare giornate eterne in cui, oltre allo stress sempre maggiore dovuto a classi pollaio in scuole fatiscenti, saranno moralmente costretti a sostituire per 15 giorni i propri colleghi per non essere additati, ancora una volta, come fannulloni; giornate in cui non avranno più tempo per correggere i compiti e preparare degnamente le loro lezioni perché dovranno espletare altri tipi di sevizi per ottenere uno stipendio più alto di cui necessitano e, qualora la scuola venga valutata negativamente, per seguire corsi di formazione obbligatori3; giornate in cui non si sentiranno più insegnanti ma badanti e, per dirla alla Calvino, macchine per vendere fiato. In più la pensione, anche per i Quota 96, è sempre più lontana.

2) Gli insegnanti precari inseriti nelle Graduatorie ad Esaurimento hanno continuato ad aspettare l’uscita delle suddette (compilate a maggio) per comprendere se, visti i molti trasferimenti, dovessero spostarsi in altra Provincia con le Graduatorie d’Istituto.4 Hanno poi avuto modo di continuare a preoccuparsi per il loro presente (mancata monetizzazione delle ferie, attesa della disoccupazione, necessità primarie da espletare comunque), per il loro futuro prossimo (a settembre lavorerò?), per il loro futuro venturo (lo Stato, dopo anni di sfruttamento, mi assumerà o si libererà, risparmiando, di me?). Ovviamente in parallelo hanno immaginato le stesse cose dei colleghi di ruolo, pensione compresa.

3) Gli insegnanti precari inseriti solo nelle Graduatorie d’Istituto stanno ancora aspettando l’uscita delle stesse (sperando che le scuole le pubblichino sul loro sito5) e si stanno chiedendo se la burocrazia che hanno dovuto espletare sia servita a qualcosa visto che da più parti si grida alla loro abolizione. Hanno inoltre condiviso tutte le preoccupazioni e tutto l’immaginario dei colleghi precedenti.

4) Gli aspiranti insegnanti (molti dei quali presenti nella seconda e nella terza categoria di cui sopra) si chiedono poi se hanno speso bene i loro soldi e il loro tempo partecipando a costosi corsi TFA e PAS6, visto che sì il MIUR ha dichiarato che sarà indetto un concorso nel 2015, ma mica è detto che si vinca visti gli esigui posti a disposizione. Oltre a ciò, considerato che il titolo ottenuto non ha valore concorsuale, considerato che vogliono abolire le Graduatorie d’Istituto, considerato che non possono accedere alle Graduatorie ad Esaurimento, sorge loro il dubbio che le proprie speranze siano servite solo a rimpinguare le casse delle Università e la propaganda governativa sul merito.

keating1A questo punto, posto che la paura, l’insoddisfazione, il risentimento sono cresciuti esponenzialmente, a settembre tutti i soggetti coinvolti scenderanno in piazza, bloccheranno gli scrutini, forzeranno la legge 146/907 e pretenderanno ciò che spetta loro di diritto. La società civile poi, rendendosi conto dell’importanza capitale della Scuola Pubblica e dell’equazione più diritti/più qualità, si unirà senza indugio – insieme agli studenti – alla protesta; di fronte a tale reazione il governo, obbligato a ricordarsi il significato del lemma democrazia, desideroso di fare la volontà di chi rappresenta e incurante di quanto chiede l’Europa, cede e, dopo aver messo fine al reato del precariato e aver sbloccato le pensioni, finanzia massicciamente la Scuola, abroga la legge che vincola i finanziamenti (statali e privati) al numero di iscritti, abolisce la Riforma Gelmini ed elimina l’Invalsi garantendo così ai futuri cittadini un ambiente educativo sereno, continuità didattica e sviluppo del pensiero critico.

No.

A settembre il governo, in barba alle promesse rivoluzionarie, varerà la sua Riforma in continuità coi progetti di chi l’ha preceduto. Ci sarà un piccolo contentino, d’altronde già prospettato a luglio, sull’aumento delle ore (ad esempio l’aggettivo “volontario”) e saranno poste le basi per la chiamata diretta, oramai sempre più desiderata dalla maggioranza dei precari i quali vedono in essa l’unica e concreta speranza di lavoro. L’opposizione, interna e non, sarà scarsa e solo ad opera di chi possiede ancora un’ideologia. Molte parole, in puro stile nazionale, saranno spese sui social e sulla stampa, saranno arringate le masse mediatiche e, verso la fine di ottobre, calerà il silenzio e prevarrà una triste e tipica rassegnazione.
Facciamo un passo indietro.
Tutto ciò che è stato presentato da Reggi e da Giannini nell’estate, era già stato prospettato dalla ministra sia in alcune interviste, sia nelle linee programmatiche presentate in Parlamento il 27 marzo 2014:

Serve la revisione di un contratto mortificante, non solo perché è pagato poco,
ma anche perché non ha meccanismi premiali, che valorizzino quella larga fascia di docenti che si impegnano e si aggiornano
Giannini, Intervista a Radio 1, 20 marzo 2014
Il terzo principio è quello della VALUTAZIONE, che significa eliminare i colli di
bottiglia, e sostituire i controlli ex ante con la valutazione ex post. Significa
assegnare le risorse sulla base dei meriti e dei demeriti. (p. 4)
Ed ecco che la valutazione – che controlla, misura, certifica questa qualità
– diventa decisiva per fondare la scuola del nuovo secolo (p. 8)
La valutazione è entrata nella cultura e nella prassi della scuola italiana ormai da alcuni anni. Nell’ultimo decennio siamo riusciti ad introdurre – per quanto faticosamente – i test INVALSI e a fare quindi rilevazioni sull’apprendimento, o a garantire la nostra partecipazione alle indagini internazionali (ad es. l’OCSE-PISA). Sono tuttavia legittimamente attesi progressi significativi nei singoli settori: la valutazione delle scuole, dei presidi, dei docenti (p. 8)
Giannini, Linee programmatiche, 27/03/2014

È qui evidente che lo strumento principale individuato dal Governo per attuare l’annunciata rivoluzione della Scuola non è l’aumento orario, bensì la valutazione. Essa consente infatti di fare leva sull’orgoglio ferito dei docenti, di personalizzare il rapporto lavorativo svuotando il Contratto Nazionale, di impedire la solidarietà tra colleghi, di annientare l’opposizione, di immettere la scuola sul mercato. In passato però suddetto sostantivo convinceva poco gli insegnanti, i quali vi leggevano – a ragione – una forma di controllo che andava a ledere la libertà di insegnamento e, gioco forza, di apprendimento. Poi qualcosa è cambiato.

Nella riforma annunciata per settembre in realtà sono molti i punti di contatto con la famigerata e allora tanto contestata Legge Aprea (D.L. 953/2008). Le anticipazioni uscite qualche settimana fa su Orizzonte Scuola parlano chiaro:8

La carriera si articolerà, dunque, in tre gradini:

  • docente ordinario, il cui compito sarà quello dell’insegnamento,
  • docente esperto, che avrà compiti di carattere organizzativo elencati in precedenza
  • docente senior, che potrà occuparsi di compiti connessi alla formazione iniziale, e all’aggiornamento dei docenti della scuola.

Mentre per il docente esperto, i compiti dovranno essere svolti al di fuori dell’orario di lavoro in classe, quindi oltre le canoniche 18 ore lavorative, per il docente senior si potrebbe, invece, profilare anche l’esenzione dall’insegnamento.
Lo scopo di questa stratificazione non è certamente quello di creare gerarchie di subordinazione, ma di creare un riconoscimento giuridico ed economico allo svolgimento di attività diverse dall’insegnamento, che volgarmente possiamo definire “carriera”.

Il Disegno di legge 953 “ex Aprea” non diceva cosa diversa:

una carriera, articolata in tre livelli (docente iniziale, ordinario ed esperto), fondata su modalità e su criteri di valutazione basati sul merito professionale (articolo 17), nonché un’articolazione del ruolo che garantisca alle istituzioni scolastiche e formative autonome professionalità e competenze adeguate, certificate, stabili e valutate (articolo 12); un contratto snello, che intervenga sulle materie che gli sono proprie e quindi sui punti che non incidono sulle competenze professionali e sull’organizzazione della carriera: in particolare, orario, retribuzione, mobilità, nonché riconoscimento dell’autonomia contrattuale di una categoria di professionisti (area autonoma) (articolo 22).

keating2Se leggiamo, oltre alle linee programmatiche, le interviste rilasciate dallo staff del PD o da Renzi stesso9 le idee chiave della nuova riforma saranno: valutazione, autonomia, concorsi di rete per il reclutamento. Tradotto: personalizzazione del rapporto di lavoro, perdita dei diritti acquisiti, aziendalizzazione. Tutte idee che – grazie alla legge Bassanini sull’autonomia (L. 59/97) – attraversano, dalla Moratti in poi, il Ministero dell’Istruzione. Ad essere cambiate, dunque, non sono le proposte, bensì la loro accettazione da parte del mondo della scuola. Possiamo infatti affermare che – eccettuato il breve afflato contro l’aumento orario a parità salariale proposto da Monti – l’ultima lotta che ha visto coese tutte le varie componenti della Scuola è stata quella contro la Riforma Gelmini, la quale, malgrado tutto, andò (va) avanti e 87000 persone – dopo anni di precariato permanente – rimasero senza lavoro. Lo shock10 è devastante: oltre ad assistere impotenti alla disperazione di colleghi diventati all’improvviso ex-, i docenti si trovano a dover insegnare in un contesto ostile, in cui le risorse sono ridotte all’osso e la qualità del proprio lavoro peggiora a vista d’occhio, proprio come la loro considerazione sociale. Ma ciò che viene introiettato non è solo la perdita della propria funzione pubblica, ad essa si aggiunge l’inutilità della lotta. Da allora e in maniera massiccia la frase più ricorrente in sala insegnanti (e purtroppo non solo) è «tanto non serve a niente.» Da allora e in maniera massiccia la rabbia avrà come destinatario del proprio sfogo i social network, non come mezzo per organizzare proteste capillari e improvvise, bensì – nella maggior parte dei casi – per condividere i propri sentimenti e le proprie riflessioni. «Il perseguimento di un comune interesse è sacrificato alla ricerca di una comune identità».11 Non solo. L’operato legislativo afferente al “reclutamento” dei nuovi docenti – dalla fine degli anni Novanta in poi –ha teso deliberatamente a separarli secondo la logica del divide et impera12: prima agevolando di volta in volta una categoria rispetto a un’altra, poi ammantando ogni decreto, ogni proposta, ogni intervista con la parola merito. Il merito è stato il vestito con cui è stata venduta sia la perdita progressiva di diritti, sia la tanto evocata flessibilità, ineluttabile strumento di una società migliore in cui solo i meritevoli hanno diritto di esistere.

Non a caso Renzi, Giannini e Reggi hanno fatto largo uso sulla stampa di tali termini, aggiungendo ad essi, però, un’altra parola chiave che ha chiosato la baraonda estiva: volontario. Già nel 2001 Moratti, attraverso la legge finanziaria del 28 dicembre 2001 articolo 22 comma 4, dava la possibilità ai docenti di fare, “prioritariamente e con il loro consenso”, fino a 24 ore, ovvero sei in più rispetto a quelle previste dal contratto. I sindacati confederali lo permisero proprio perché – a detta loro – era un atto volontario che avrebbe aiutato i singoli ad avere uno stipendio più alto.13 In realtà, oltre ad aver aiutato molti precari a non lavorare, ha implicitamente dichiarato che le ore previste nel CCNL sono poche, se ne possono fare di più, gli insegnanti sono sfaticati (e privilegiati). Tale norma non verrà più toccata e, una volta passato il tornado Gelmini, sarà compito di Monti e dei suoi tecnici riprendere il tema, forte di tutti quei docenti – precari e non – che negli anni avevano svolto le ore aggiuntive. Quello che allora lasciò basiti fu aver proposto un aumento di orario lavorativo – 24 ore obbligatorie – senza alcun aumento stipendiale. In tempi di crisi economica, personale e politica questo era ciò che sconvolgeva, non l’ulteriore taglio sotteso, non l’incremento della valutazione annunciato, non l’impoverimento della scuola bene comune. Gli scudi che si levarono nel 2012, nonostante le belle parole spese, si abbassarono subito dopo che l’incremento orario era stato scongiurato. Sebbene apparisse quella una lotta vinta, in realtà non lo fu: i politici capirono quale fosse il tema su cui giocare, il resto – valutazione, merito, maggior autonomia – erano terreni invece già pronti. Per aiutare ad arrivare all’obiettivo della chiamata diretta – ultima tranche dell’aziendalizzazione della Scuola Pubblica – Profumo indisse un concorso che sembrò ai più insensato, a maggior ragione avendo dichiarato a voce alta di voler “conseguire la gestione ottimale delle risorse umane, strumentali e finanziarie” attraverso la costituzione di reti di scuole mediante un organico dell’autonomia della durata di almeno tre anni (D.L. 5/ 2012, art 50) Incoerenza? Idee confuse? L’opposto. La funzione di quel bando, infatti, aveva due obiettivi. Il primo quello di svalutare le Gae e i suoi iscritti mediante il filtro del merito («Non viene bandito un concorso dal 1999, stanno lì senza aver alcuna professionalità, è colpa loro lo scatafascio della scuola pubblica», echeggiava la stampa); il secondo di riportare in auge un metodo abbandonato da più di un decennio dimostrandone la fallibilità per ricorrere, in seconda battuta, ai concorsi di rete, proposti per la prima volta dalla Commissione d’Amore ai tempi di Berlinguer14 e poi continuamente ripresi fino ad oggi. Ma cosa sono? chiederete voi. Funziona così: scuola A, scuola B, scuola C, tutti Istituti Superiori, formiamo una rete e bandiamo un concorso per 4 posti sulla A05015. Ad esso potranno partecipare tutti coloro in possesso di un’abilitazione. La commissione sarà formata – probabilmente – da un Comitato di valutazione composto a maggioranza da docenti interni. La vittoria consisterà non in una cattedra, bensì in un contratto orario diviso a seconda dei bisogni delle scuole della rete. Non si parlerà più di tempo indeterminato, ma di un contratto pluriennale sottoposto alla valutazione degli esperti capeggiati dal dirigente di cui si diceva in precedenza. Tra l’altro, visto l’ampio proliferare delle reggenze, la rete in questione potrebbe avere un solo dirigente. D’altronde solo così i docenti migliori, i quali si distinguono per la flessibilità oraria e per il contributo spesso volontario che apportano alla scuola, potranno essere valutati e vedere riconosciuti – anche a livello stipendiale – i propri meriti. E difatti la proposta estiva di Reggi lì è andata a parare: ha di nuovo sottointeso che a scuola non si fa nulla, poi ha ritrattato, poi ha detto che ci sono i buoni e i cattivi, poi ha detto che bisogna valutare e ancora che ad assumere i meritevoli ci penseranno loro. L’orario? Chi vuole – solo i bravi vogliono, è chiaro – può lavorare di più ed essere pagato. Non solo. Renzi potrebbe addirittura rilanciare in modo diretto la chiamata del dirigente, così da far levare gli scudi e far credere, in seconda battuta, di aver fatto un passo indietro cedendo alla pressione dei sindacati. Le reti (cioè la chiamata diretta a costo ridotto) a quel punto diventeranno anche il simbolo della democraticità del premier. Il cerchio si chiude. Il circo invece rimane aperto, ope legis.


  1. 36 ore, Reggi aggiusta il tiro: “saranno riconosciute attività fino a 36 ore”, niente di obbligatorio. Mai sognato di dire di aumentare tempo di insegnamento, qui; Scuola, il ministro Giannini: i sindacati non difendano privilegi, qui

  2. Giannini: “Veto paritaria? Stop a lotta fra statale e non statale”, qui

  3. Da settembre valutazione delle scuole. I prof delle peggiori seguiranno corsi di formazione, qui

  4. Purtroppo per alcuni di loro – ad esempio per quelli della provincia di Bologna – non è stato possibile perché il bando di quest’ultime è scaduto prima che alcuni CSA pubblicassero le Gae. 

  5. Nonostante la L. 69/2009 obblighi la pubblica amministrazione alla trasparenza, essa ritiene assolto il suo compito dando la possibilità ad ogni candidato di controllare il proprio punteggio nella pagina personale di Istanze on line, senza poter controllare le graduatorie per intero. Solo alcune scuole hanno recepito diversamente la normativa e le hanno pubblicate sul proprio sito. 

  6. TFA: il Tirocinio Formativo Attivo è il corso di preparazione all’insegnamento; di durata annuale, consente di ottenere l’abilitazione per la scuola secondaria di primo e di secondo grado.
    PAS: i Percorsi Speciali Abilitanti sono corsi rivolti a quei docenti privi di abilitazione e che insegnano, con contratti a tempo determinato, da almeno tre anni. 

  7. La cosiddetta “legge antisciopero” firmata da tutti i sindacati confederali al fine di conciliare i conflitti. Di fatto pone limiti tali che l’azione di lotta mediante sciopero viene fortemente penalizzata. 

  8. Al Ministero si lavora alla carriera. Le nostre anticipazioni: ci saranno i docenti ordinari, esperti e senior, qui

  9. Concorsi triennali e GAE chiuse. Salari proporzionali al lavoro svolto. Licei di 4 anni? Vediamo come va! Intervista al responsabile scuola del PD, Davide Faraone, qui; Rifoma della scuola: nuove regole per le assunzioni, bonus maturità, meno tecnologia e piano per l’edilizia scolastica, qui

  10. «Capita che le società sotto shock si rassegnino a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti», Naomi Klein, Shock economy, Rizzoli, Milano 2007, p. 25. 

  11. Richard Sennett, Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista, Bompiani, Milano, 1982, p. 175. 

  12. https://www.youtube.com/watch?v=AfJFSgWolac 

  13. La Moratti rilancia, sciopero scongiurato, qui

  14. 1997, guarda caso stesso anno della legge sull’autonomia. 

  15. Materie letterarie negli istituti superiori di II grado. 

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Docenti di lingua-cultura italiana, precari e bistrattati all’estero https://www.carmillaonline.com/2014/04/03/docenti-di-lingua-cultura-italiana-precari-e-bistrattati-allestero/ Wed, 02 Apr 2014 22:00:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13899 di Fabrizio Lorusso

Precari docenti[Visto l’interesse comune per le tematiche trattate, questo articolo viene pubblicato oggi anche su Minima et Moralia e La poesia e lo spirito/Viva la scuola].

Nel dibattito sul precariato e il riconoscimento della professionalità dei docenti d’italiano come lingua seconda o straniera – L2 o LS – sono pochi i contributi sulle istituzioni italiane all’estero, in particolare sugli Istituti Italiani di Cultura (IIC). Il caso specifico che intendo descrivere riguarda la precarietà [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Precari docenti[Visto l’interesse comune per le tematiche trattate, questo articolo viene pubblicato oggi anche su Minima et Moralia e La poesia e lo spirito/Viva la scuola].

Nel dibattito sul precariato e il riconoscimento della professionalità dei docenti d’italiano come lingua seconda o straniera – L2 o LS – sono pochi i contributi sulle istituzioni italiane all’estero, in particolare sugli Istituti Italiani di Cultura (IIC). Il caso specifico che intendo descrivere riguarda la precarietà imperante a livello lavorativo nell’Istituto di Città del Messico, un esempio rappresentativo di un deterioramento comune a molte altre sedi estere. Sebbene esistano in Italia e all’estero condizioni di sfruttamento ben peggiori di quelle che riguardano i precari della cultura e dell’insegnamento, la situazione di queste categorie, scarsamente riconosciute in termini professionali, resta preoccupante. E riflette quella generale del mondo del lavoro in un paese con la disoccupazione al 13% in cui la caduta quasi trentennale del potere d’acquisto dei salari e la presenza di un esercito crescente di “riservisti” hanno compresso stipendi e diritti.

Riconoscere la professionalità dei docenti L2/LS

Nell’articolo “Certificare il precariato, didattizzare lo sfruttamento”, uscito in gennaio su Carmilla on line, Claudia Boscolo criticava giustamente la decisione del Comune di Brescia di creare un albo di ex insegnanti in pensione, disponibili a insegnare italiano agli studenti migranti, per sopperire alla carenza strutturale di personale nelle scuole. Si cerca di risparmiare recuperando docenti pensionati, in vena di fare del volontariato, ed escludendo le nuove figure professionali dei facilitatori linguistici, dei mediatori culturali e dei docenti specializzati nell’insegnamento della lingua come L2/LS. Tutta gente che ha dovuto ottenere dei titoli di studio ad hoc per specializzarsi o che comunque deve accumulare un’esperienza specifica ampia per insegnare lingua-cultura* italiana agli stranieri.

Il 27 dicembre 2013 su Il Manifesto Roberto Ciccarelli parlava di una “nuova frontiera dell’insegnamento”, basata sul lavoro gratuito e “la rimozione dell’esistenza di migliaia di persone con master ed esperienza”. E’ poi circolato un appello diffuso dal blog Riconoscimento della professionalità degli insegnanti d’italiano L2/LS e ripreso da Il Lavoro Culturale, intitolato “Italiano ai migranti: l’importanza delle condizioni d’insegnamento”, nel quale si ribadisce che “insegnare l’italiano a migranti non significa ‘aiutare nei compiti’: significa sapere come insegnare una lingua, quali approcci e metodi utilizzare e in quale situazione, significa saper creare attività e materiali ad hoc, significa progettare percorsi che tengano conto di determinati fattori (stadio dell’interlingua, sequenze di apprendimento, interferenze con la L1, e altri elementi teorici che si devono conoscere e saper applicare). Significa saper coinvolgere gli insegnanti di classe in questo percorso”.

 Istituti Italiani di Cultura all’estero

L’idea di trattare un caso estero nasce dalle forti somiglianze con la situazione dei professori L2/LS in Italia, dalla scarsa informazione disponibile sugli IIC e dalla mia esperienza personale. L’Istituto Italiano di Mexico City è l’Ufficio Culturale dell’Ambasciata d’Italia, dipende dal MAE (Ministero Affari Esteri) e gode dell’extraterritorialità, ovvero il suo territorio appartiene al paese ospitante, ma è politicamente amministrato dal paese ospitato. Al suo interno prestano servizio gli impiegati locali, assunti in base al codice del lavoro messicano, e quelli del MAE, che possono essere sia messicani sia italiani, hanno in genere contratti a tempo indeterminato e ricevono stipendi e benefici come i dipendenti pubblici in Italia. Tra questi ci sono i “contrattisti”, assunti sul posto con dei concorsi pubblici, e quelli provenienti dalla carriera diplomatica, per esempio l’addetto culturale e il direttore che possono raggiungere stipendi di 7 e 12mila euro al mese rispettivamente (vedi i reportage completi di Thomas Mackinson – Uno 2014Due 2011Tre 2011 in cui si parla di cifre anche maggiori, dai 12 ai 17mila euro, e di molte altre problematiche).

Dulcis in fundo ci sono i docenti, quasi tutti italiani ma a volte anche messicani, “assunti” con qualcosa di simile a un atto di cottimo o contratto di prestazione d’opera. Insomma, i professori, spesso elogiati da direttori e diplomatici di turno perché sarebbero “il volto dell’Italia nel mondo”, “i nostri rappresentanti diretti con gli studenti e con il Messico”, “l’interfaccia linguistica e culturale del paese”, pur operando praticamente in un territorio italiano all’estero, sono l’ultima ruota del carro, precaria. Il riconoscimento della professionalità dell’insegnante L2/LS, in Italia e all’estero, passa necessariamente dal riconoscimento e dalla tutela dei suoi diritti lavorativi per “ridare dignità alla nostra categoria di insegnanti di italiano a stranieri, sempre più bistrattata dalle istituzioni”, come ben rimarca il blog Insegnanti L2/LS. Quindi partiamo dal lavoro. A fine marzo 2014 Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un reportage sui docenti in nero all’IIC di Bruxelles e un video con interviste ai professori che sono praticamente dei “fantasmi per la Farnesina e l’Ambasciata” e hanno sicuramente tante storie da condividere coi loro colleghi degli altri Istituti nel mondo.

L’Istituto Italiano di Città del Messico e il precariato

In Messico la sede dell’IIC, che include due piccoli edifici  per le aule, due giardini e altre strutture per le attività culturali e amministrative, è a Coyoacán, placido quartiere coloniale del sud cittadino, mentre l’Ambasciata si trova a oltre 20 km di distanza nella zona residenziale conosciuta come Palmas. Per i 17-18 membri del corpo docente dell’IIC-Messico c’è un contratto “di prestazione di servizi”, stipulato tra il “Committente” (IIC) e il “Prestatore” (docente), valido solamente per uno o più corsi specifici e rescindibile in qualunque momento da entrambe la parti, anche senza motivi.

Al punto/clausola 5 si cita un diritto di rescissione, esercitabile senza alcun preavviso, del Committente in caso di “gravi motivi d’insoddisfazione per il comportamento e l’espletamento del servizio da parte del Prestatore”. E al punto 6 si ribadisce: “Il presente contratto può essere rescisso da entrambe le parti in ogni momento per altre ragioni”. Cioè? Arbitrio, qualsiasi altra ragione. Infine, per chi si fosse fatto illusioni: “E’ escluso il rinnovo tacito del presente contratto”, frase che suggella la precarietà di un rapporto che non va mai oltre i cinque mesi consecutivi. Non vengono versati contributi previdenziali di alcun tipo. In pratica esiste un rapporto contrattuale di lavoro tra un individuo e un soggetto non privato, l’IIC, che, secondo le modalità in cui si svolge, potrebbe configurarsi come subordinato e prevedere diversi trattamenti economici, retributivi e contributivi, ma così non è.

precari Esempio Contratto IIC Un professore che si assenta perde lo stipendio per le ore dei corsi non lavorate e rischia il posto di lavoro. Non c’è “l’indennità per malattia”. Secondo quanto riferiscono alcuni insegnanti, verrebbe accettata un’assenza solo per “gravi motivi di salute”, ma non esiste una regola scritta o una circolare che lo confermi, non sono chiari questi “gravi motivi”. Il che implica un ampio margine di discrezionalità da parte della direzione che negli ultimi anni è arrivata a togliere corsi a un docente o a escluderlo completamente dall’Istituto se questo chiede con ragionevole anticipo un permesso per motivi personali giustificati. In alcuni casi, però, il “permesso” viene concesso senza conseguenze. Per di più, a volte, la segreteria avrebbe richiesto un certificato medico ad alcuni docenti. In Messico non c’è un sistema sanitario universale e gratuito, e comunque la maggior parte dei prof non è iscritta al sistema sanitario locale, cosa prevista, invece, per i lavoratori di altre istituzioni educative. Dunque richiedere un certificato obbliga il docente a cercare un medico privato che lo redige per 40 o 50 euro. Inoltre in Messico la sanità è al collasso, non esiste la figura del medico di famiglia e l’IIC non ha un dottore interno o “aziendale”, perciò tocca andare dal privato. Sebbene se la minaccia verbale di far presentare ai docenti il certificato non si sia ancora materializzata, il fatto che sia stata enunciata è di per sé grave.

Contratti e permessi di soggiorno

Una nota “curiosa”. Il contratto è in italiano, ma dice al punto 9 che “in caso di controversie derivanti dall’applicazione del presente contratto è competente il Foro locale”, cioè quello messicano. Una stranezza che nessuno è riuscito a spiegare. Alcuni avvocati, consultati da vari professori negli ultimi anni, e alcuni funzionari del MAE, invece, sostengono che non può essere competente il tribunale locale ma quello italiano, a Roma. Tutto questo succede nonostante il punto 2 stabilisca che “Il Prestatore garantisce che la prestazione verrà effettuata in forma autonoma anche se con modalità concordate tra il Prestatore e il Committente”. Negli ultimi anni non ho visto molte “forme autonome” nello svolgimento della “prestazione” né “modalità concordate”: se non è previsto un meccanismo valido, individuale o collettivo, per fare accordi, allora esistono solo decisioni unilaterali. E se una decisione non si basa su criteri scritti e pubblici, per esempio sul web o con una circolare, diventa arbitraria. Trattandosi di un’istituzione pubblica, ci si aspetterebbe di più…

Le “modalità concordate” c’erano prima, dato che esisteva una rappresentanza legittima del corpo docente, soppressa a fine 2011, che accordava con la direzione tali condizioni e modalità: come gestire assenze e malattie, orari, semestri e gruppi/classi, fasce salariali e aumenti; come lavorare in classe e che tipo di didattica, libri, testi extra, materiali e strutture vanno utilizzate o migliorate; i criteri per l’ingresso e il tirocinio dei nuovi docenti (soppresso nel 2011, dopo oltre 10 anni d’efficace funzionamento, e sostituito da una decisione soggettiva della direzione); che tipo di graduatorie interne s’usano per distribuire il lavoro e quali eventuali sanzioni si prevedono in tutta una serie di casi ordinari e situazioni limite. Tutti elementi sui cui la direzione ha una responsabilità di fronte al Ministero e su cui mantiene, quindi, un potere di decisione finale. Ma se il contratto e il buon senso prevedono un momento di confronto sulle modalità e questo non viene realizzato, allora si tratta di “unilateralità” o imposizioni.

Il punto 8 s’occupa di quei docenti che, magari dopo aver lavorato per 10 o 20 anni continuativamente in un’istituzione pubblica del loro paese, pensavano ingenuamente di poter acquisire qualche diritto, per esempio l’accumulo di punti in una graduatoria o un tipo di considerazione nei concorsi pubblici. Invece gli anni all’IIC, in Messico e in molti altri paesi, non contano nulla: “In nessun caso il rapporto di prestazione di servizi può comportare l’assunzione nei ruoli dell’Amministrazione del Ministero degli Affari Esteri o presso l’Istituto Italiano di Cultura”. Assunzione al MAE o in IIC? Impossibile. Però almeno qualche riconoscimento per la carriera si potrebbe prevedere, no? Invece non ci sono neanche i riconoscimenti simbolici, men che meno quelli materiali.

L’istituzione mantiene una “spada di Damocle” migratoria sui docenti che per l’ottenimento o il rinnovo del permesso di soggiorno dipendono da una lettera della direzione IIC: a lavoro precario, permesso di soggiorno precario e prof ricattabili. Riassumendo: tra dipendenti MAE-Carriera diplomatica (direttori e addetti), contrattisti MAE assunti in loco, impiegati con contratto locale e docenti di lingua L2/LS sono quest’ultimi i più precari. Sono inesistenti per il sistema pensionistico e della previdenza sociale italiano o messicano, rischiano in qualsiasi momento di finire clandestini ed è una situazione che all’IIC-Messico dura da più di trent’anni. Sono invisibili anche per i sindacati che non possono intervenire.

Interrogazioni parlamentari

Il 19 dicembre 2012 ci fu un’interrogazione parlamentare del deputato Gino Bucchino, eletto nella circoscrizione Nord e Centro America, proprio sul caso dell’IIC-Messico in cui si segnalavano problemi relativi alla diffusione culturale: “L’attività culturale del nostro istituto ha conosciuto negli ultimi tempi una flessione di ordine quantitativo e qualitativo, dovuta sia alla riduzione delle risorse destinate in generale alla rete dei nostri istituti che a motivi specifici attinenti alla programmazione e alla realizzazione in loco dell’intervento; in particolare, è diminuito il numero degli eventi culturali, alcuni dei quali realizzabili a costo minimo o nullo, e dell’insegnamento linguistico”. Dal punto di vista culturale ci sono stati degli sforzi volti al miglioramento, ma secondo l’interrogazione l’offerta non è paragonabile a quella degli anni immediatamente precedenti all’insediamento della direzione 2012-2014, (Melita Palestini, direttrice, e Gianni Vinciguerra, addetto culturale).

Per esempio l’unica libreria italiana in Messico (Libreria Morgana) gestiva uno degli spazi più apprezzati e attivi all’interno dell’Istituto, un vero punto d’incontro della comunità, ottimo per la realizzazione di eventi e la lettura. Dal luglio 2012 la libreria in IIC non c’è più. Al suo posto c’è un loculo vuoto e macabro accanto all’ingresso principale che dà il benvenuto ai visitatori. Infatti, non s’è trovato un accordo con l’IIC, in quanto questo “proponeva” una riduzione degli spazi alla metà e un aumento drastico e repentino dell’affitto, oltre a riservarsi la prerogativa di maggiori poteri di controllo sulla durata del rapporto e sugli eventi letterari. Una situazione paradossale in un centro culturale. Lo spazio non è stato più valorizzato né altre librerie hanno preso il posto della Morgana, malgrado le ripetute promesse in tal senso da parte della direttrice e le rimostranze della comunità locale.

Il 12 marzo 2014 c’è stata un’altra interrogazione, presentata dal deputato Emanuele Scagliusi, che si basa su informazioni riportate dal Fatto Quotidiano, da ansa.it, dalla Federazione indipendente lavori pubblici della Farnesina e anche su una lettera di protesta della comunità italiana in Messico del 2013. Il testo denuncia una serie d’irregolarità e preoccupazioni, relative agli IIC di New York, Città del Messico, Bruxelles, Barcellona e Madrid, e chiede al Ministro degli Affari Esteri Mogherini se stia esercitando la sua funzione di controllo sull’operato dell’Ispettorato del suo ministero e dei direttori degli Istituti Italiani. L’interrogazione è stata seguita da un’interpellanza urgente sul caso dei docenti dell’IIC di Bruxelles.

Contratto etico e lavoro bistrattato

precari docenti messicoIn ambito lavorativo il testo dell’interrogazione di Bucchino cita il “Contratto etico”, un documento per la protezione di alcuni diritti di base dei docenti L2/LS e mediatori culturali unico nel suo genere in America Latina. Fu redatto e siglato nel 2008 da rappresentanti di professori, responsabili didattici, dal Comites locale (Comitato Italiani all’Estero), da gruppi, associazioni e collettivi di italianisti, e dai direttori di numerose istituzioni messicane e italiane operanti in Messico, tra cui alcune scuole Dante Alighieri e lo stesso Istituto Italiano (Link Al Documento): “Il rapporto autoritario e privo di regole con il personale adibito all’espletamento dei corsi contribuisce ad accentuare la precarietà della situazione e a insidiare la stabilità e la continuità del servizio; importanti prerogative previste nei contratti a favore del personale e le indicazioni contenute nel Contratto etico del personale insegnante, sottoscritto fin dal 2008, ricevono scarsa considerazione.”

Negli ultimi anni il “Contratto Etico” è diventato carta straccia proprio nell’istituzione che più di tutte l’aveva promosso. Da più di 4 anni non c’è un aumento salariale (orario) in IIC, mentre prima c’era un piccolo adeguamento, comunque insufficiente, ogni uno o due anni. La gestione dell’Istituto di Mexico City ha ricevuto una serie di critiche esterne molto forti. Alla fine del gennaio 2013, la comunità italiana in Messico, per la precisione un’ottantina di firmatari italiani e messicani interessati alla questione, diffuse una lettera diretta all’allora Ambasciatore, Roberto Spinelli, e a vari quotidiani, siti e riviste italiani e messicani in cui si deplorava “l’inesorabile declino di questo importante punto di riferimento per la diffusione della lingua e della cultura italiane” e il fatto che “la direzione riserva al pubblico in generale un trattamento spesso scortese e freddo: è difficilissimo essere ricevuti e, quelle rare volte in cui viene concesso un colloquio, la chiusura di fronte a qualunque proposta di collaborazione (anche gratuita) è assoluta”.

Diffusione culturale

Lo scrittore italiano Fabio Morábito, in Messico dal 1970, ne parlava su Nazione Indiana in questi termini: “Cercherò di tracciare un breve quadro del posto che occupa la letteratura italiana in Messico. Intanto non credo che l’Italia promuova una qualche politica culturale in questo paese, anzi mi domando se lo faccia in altri. L’Istituto Italiano di Cultura, che ha sede in uno dei posti più belli di Città del Messico, non si contraddistingue certamente per la sua vivacità. Per me é stato sempre un istituto grigio, incapace di attrarre un pubblico locale. Ci vanno più che altro i vecchietti italiani e forse qualche studente dei corsi di lingua”.

Resta un’opinione, ma di uno che qualcosa ne sa. Già nel 2010 la scrittrice e accademica Francesca Gargallo aveva subito un tentativo di restringere la libertà di espressione durante la presentazione del suo libro e della conferenza “Liberazione delle donne, liberazione di un popolo: gli saharawi”  in un evento culturale organizzato presso la biblioteca dell’IIC. 

E poi nel settembre 2013 la denuncia dello scrittore messicano Naief Yehya è cominciata a circolare su Facebook, insieme a decine di commenti di solidarietà e oltre cento condivisioni. In pratica l’autore ha scritto che la presentazione del suo libro “Pornocultura: lo spettro della violenza sessualizzata nei media” sarebbe stata cancellata il giorno prima dall’IIC, “che ha avuto in mano per settimane un libro che non nasconde di cosa tratta”. E continua: “Sapevano anche che avremmo proiettato alcune immagini legate al testo. Un giorno prima dell’evento apparentemente si sono accorti di cosa significava la parola Porno, si sono scandalizzati e hanno cancellato l’evento. Per fortuna Tusquets ha potuto programmare l’evento nella sala Octavio Paz della libreria del Fondo de Cultura Económica”, che, per chi non la conosce, è una delle principali case editrici messicane. Ecco il commento di Alberto Navarro, un alunno IIC contrariato su FB: “Sono studente dell’Istituto, che vergogna, non tutti la pensano così in quel posto, c’è gente molto valida e critica lì dentro, pensante. L’autorità ha paura in questo paese ed è chiaro il perché”.

La petizione al governo contro le chiusure

Sta circolando in rete (link) una petizione al governo, con quasi tremila adesioni, contro la chiusura, prevista entro l’estate, di otto istituti italiani di cultura nel mondo. Tra i primi firmatari ci sono scrittori, giornalisti, intellettuali, cineasti, accademici e artisti molto noti. La petizione è giusta ma incompleta. I problemi degli Istituti sono strutturali, non tanto o non solo legati a dirigenti e funzionari, quanto alle regole, alle dinamiche e alle consuetudini che li governano. In una petizione bisognerebbe chiedere una riforma degli IIC, delle loro logiche di funzionamento e dei meccanismi per le nomine di addetti, direttori, funzionari, contrattisti e professori che, in certi casi, riproducono la classica parentopoli all’italiana, anti-meritocratica e parassitaria. Si dovrebbe rivedere il sistema degli eventi e delle proposte culturali del “giro” ministeriale che vengono inoltrate dal MAE agli Istituti. Bisognerebbe valorizzare le persone in loco, chi insegna, chi fa cultura e semplicemente chi lavora, e rendere visibili i “precari italiani all’estero”, protagonisti di un lavoro docente e culturale bistrattato in quei luoghi, anche se poi viene dipinto da diplomatici e politici come necessario e determinante per l’immagine del paese. Non basta salvare gli IIC, vanno cambiati da cima a fondo. ___________________

* La fusione in una sola parola del binomio lingua-cultura evidenzia l’inscindibilità di due elementi che s’influenzano reciprocamente. Insegnare una lingua non significa solo trasmettere uno strumento di comunicazione o delle regole, ma è anche un’attività di trasmissione dei fenomeni culturali che sono inscindibili dagli aspetti linguistici. Non c’è isolamento tra lingua e cultura ma comunicazione e interazione in un contesto o ambiente sociale storicamente determinato.

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