scrittura – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una sfida per i protocolli di un vecchio partito (e di una vecchia storiografia) https://www.carmillaonline.com/2021/02/24/una-sfida-per-i-protocolli-di-un-vecchi-partito-e-di-una-vecchia-storiografia/ Wed, 24 Feb 2021 22:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65064 di Sandro Moiso

Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), prefazione di Carlo Ginzburg, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 334, 19,00 euro

Bene ha fatto Quodlibet a riproporre, in occasione di un centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, soltanto più tardi Italiano, passato quasi sottotraccia, il testo di Mauro Boarelli già pubblicato nel 2007 presso l’editore Feltrinelli. La ricerca dell’autore, infatti, non soltanto riporta i lettori in una situazione spazio-temporale che Carlo Ginzburg, nella sua prefazione, paragona a quella di “un libro di fantascienza”, ma anche, e forse [...]]]> di Sandro Moiso

Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), prefazione di Carlo Ginzburg, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 334, 19,00 euro

Bene ha fatto Quodlibet a riproporre, in occasione di un centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, soltanto più tardi Italiano, passato quasi sottotraccia, il testo di Mauro Boarelli già pubblicato nel 2007 presso l’editore Feltrinelli. La ricerca dell’autore, infatti, non soltanto riporta i lettori in una situazione spazio-temporale che Carlo Ginzburg, nella sua prefazione, paragona a quella di “un libro di fantascienza”, ma anche, e forse soprattutto, li costringe a riflettere su una metodologia usata per ricostruire la storia del “partito comunista più grande dell’Occidente” che è diventata anche strategia politica. Mentre l’indagine di Boarelli sfugge, per scelta, alle norme che hanno prodotto le più scontate indagini storico-politiche, quasi tutte basate sull’esperienza dei vertici del partito stesso e sui documenti prodotti nel tempo da quegli stessi.

Come afferma ancora Ginzburg nella prefazione alla presente riedizione, al suo primo apparire: «La fabbrica del passato lanciava una sfida originale alla corporazione degli storici, invitandoli a superare l’ottica verticistica formulata in maniera esplicita da Paolo Spriano nella sua Storia del Partito comunista italiano»1. Sfida che non consisteva tanto in una differente lettura di quella storia, ma nell’utilizzo di un archivio costituito da circa milleduecento autobiografie che i militanti del partito erano stati invitati a scrivere nel periodo intercorso tra il 1945 e i 1956 in quel di Bologna.

In quel decennio il Partito obbligava di fatto i propri militanti a narrare pubblicamente oppure a scrivere la propria storia e molto spesso li sollecitava ad esplicitare il racconto della propria vita in entrambe le forme. Prima di procedere all’analisi dei motivi politico-ideologici che fecero sì che il Partito comunista, a livello nazionale, avesse adottato questa modalità di integrazione e controllo dei militanti all’interno delle proprie strutture, val la pena di sottolineare subito che la scelta operata nei confronti delle fonti utilizzate da Boarelli è già di per sé molto importante dal punto di vista storiografico.

Una sfida che, anche se è rimasta ancora in gran parte inevasa fino ai nostri giorni, ribalta l’ordine della storiografia partitica precedente, tutta rivolta ai documenti prodotti dall’alto, riportando l’attenzione sui documenti prodotti, si potrebbe dire, dalle gambe su cui il partito marciava.
Un autentico ribaltamento di prospettiva che nella scelta delle fonti aveva, e ha tutt’ora, il suo autentico punto di forza. Un punto di vista che, a differenza della prospettiva scelta anche da coloro che ieri e oggi hanno continuato e continuano a sottolineare e criticare il sostanziale stalinismo delle scelte espresse da Togliatti e dal suo “partito nuovo”, permette di allargare lo sguardo all’essenza del metodo di funzionamento dei partiti comunisti e della loro percezione e introiezione da parte dei militanti politici di base.

Non è certamente un caso che, più volte, Boarelli si richiami all’esperienza, in gran parte ancora unica e poco compresa, di Danilo Montaldi e alle sue scelte metodologiche, che Pier Paolo Poggio ha avuto modo di definire come una sfida ai protocolli ideologici del PCI2. Sfida che diventa, per forza di cose e lo si vedrà meglio più avanti, anche tale nei confronti dei rigidi protocolli di una storiografia imbalsamata ancora troppo spesso nei paramenti dei documenti e delle fonti “ufficiali” ovvero “alte”.

Un metodo storiografico rigido di cui si avvalgono ancora oggi sia la storiografia modellata dal togliattismo e dallo stalinismo che quella di “opposizione interna” nel ricostruire fatti ed eventi della storia della politica comunista. Da cui già si distaccava Montaldi quando nel suo Saggio sulla politica comunista in Italia3 ricordava, solo per fare un esempio, gli episodi di autentica e violentissima lotta di classe verificatisi nelle fabbriche dell’URSS all’epoca dello stakanovismo.

Un testo che all’epoca era stato rifiutato da editori come Einaudi e Feltrinelli proprio perché scomodo, non soltanto dal punto di vista politico ma anche storiografico. Mentre l’irrequietezza di Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e di Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia, è ancora ravvisabile, fatte le dovute differenze epocali e soggettive, nel lavoro di Mauro Boarelli.

Ma se l’inquietudine di Montaldi scaturiva da una passione politica che costringeva il cremonese a modificare i canoni della ricerca sociologica e storica, nel caso di Boarelli è proprio l’insoddisfazione nei confronti delle metodologie e dei protocolli di ricerca a far scaturire, poi, nei fatti un differente sguardo storico-politico sulla storia del partito, anche se forse sarebbe meglio dire dei partiti comunisti. Rovesciando il punto di vista delle fonti scelte evidentemente si è costretti a rovesciare anche la narrazione storiografica. Semplificando: dal basso è possibile cogliere ciò che dall’alto è impossibile percepire (oppure si vuole nascondere).

Il problema vero, e più importante, è però costituito dal fatto che il lettore si troverà davanti non soltanto ad un’epoca in cui i militanti di base erano costretti a “confessare” ai funzionari del partito le loro convinzioni e, eventuali, debolezze, all’interno di un inquadramento e disciplinamento che si riscontrava in tutti i partiti stalinizzati, ma anche alla riflessione sul fatto che quella pratica, scritta e orale, discendeva dritta dritta dal gesuitismo dell’epoca della Controriforma.

Scoprendo in questo modo che quella pratica e quell’organizzazione partitiche erano tutt’altro che di ispirazione laica, facendo così che la fede religiosa, apparentemente, cacciata a pedate dalla porta del partito, si ripresentasse nella fede e fiducia nello stesso, rientrando così da una finestra nemmeno troppo stretta. Una fede di carattere religioso che riposava comunque sul fondo dell’“anima” di molti militanti dell’epoca e che veniva sostituita da una fede “laica” di uguale o maggior portata e potenza simbolica.

Ecco allora che la ricerca sulle “scritture” dei militanti comunisti rivela un aspetto ancora troppo accantonato dell’esperienza e del successo epocale dell’ideale comunista, in un contesto in cui il “partito nuovo” di Togliatti riproponeva la tradizione staliniana ancor più che bolscevica cercando di adattarla opportunisticamente alle necessità politiche dei tempi, affidandosi all’arma di coinvolgimento più potente per un’istituzione politico-religiosa (che fosse la Compagnia di Gesù o il PCI poco importa dal punto di vista della ricerca): la confessione pubblica e la dichiarazione della piena appartenenza alla causa ideale.

Fino ad ora però si è qui tralasciato l’aspetto più interessante sottolineato da Mauro Boarelli, quello riguardante la cultura d’origine degli autori delle biografie esaminate: una cultura ancor prevalentemente orale in cui l’uso della scrittura costringeva spesso i militanti ad autentiche contorsioni espressive che costituivano effettivamente la “forma” della resa e dell’accettazione di un certo tipo di inquadramento politico che era, forse, prima di tutto culturale.

L’ideale progressista che animava le scuole di partito finiva così col ricalcare il metodo di una scuola che, dal punto di vista linguistico, più che tener conto delle differenze individuali, culturali e di classe, mirava ad un inquadramento unico dei soggetti/oggetti destinati ad essere istruiti e che della cancellazione delle radici sociali e delle lingue ad esse collegate faceva, e ancora troppo spesso fa, il suo obiettivo primario.

Lo sradicamento dalle radici culturali significava, in ambito istituzionale e partitico, non solo impoverire la ricchezza espressiva posseduta in partenza dai subordinati, ma anche, ridefinendone i linguaggi e le terminologie usate (spesso impropriamente), ridisegnarne i confini del pensiero e della capacità di autonoma riflessione, sia dal punto di vista individuale che collettivo. Motivo per cui si può cogliere come la resa dei partiti comunisti all’ideale progressista di acculturazione e alfabetizzazione finisse col ridurre quegli stessi partiti a strumenti di un’evoluzione politica e sociale che poco per volta avrebbe rimosso dal suo orizzonte qualsiasi cambiamento radicale dei rapporti di classe, economici e culturali.

Come dire: la trasformazione dell’immaginario partitico da antagonista a sostenitore dell’esistente aveva origine, più ancora che nelle scelte ideologiche e nella praxis politica, negli strumenti usati per inquadrare i militanti. Strumenti educativi che si pensavano imparziali e disinteressati, ma che di fatto non lo erano.
E non a caso qui l’autore pone attenzione alle diverse interpretazioni dell’uso e dell’avvento della scrittura nelle società prevalentemente orali, mettendo a confronto le ipotesi di Walter J. Ong e Jack Goody che sono stati due dei maggiori studiosi, da punti di vista differenti e, sostanzialmente, contrari del fenomeno, sia a livello storico che antropologico.

Togliere ai militanti, o a chiunque altro, il proprio retroterra linguistico, rappresentava, e significa ancora adesso, una sorta di colonizzazione culturale destinata a privarli della “voce” nel senso più vero e profondo e “togliere la voce” significa anche ricomporre, oppure reprimere, il disaccordo compreso in una differente e più articolata organizzazione del discorso. Ecco allora che l’esercizio forzoso della scrittura si trasformava in un disarmo profondo della base del partito, dopo di che qualsiasi alterazione del percorso politico programmato dai vertici sarebbe stato più facilmente digerito dalla stessa. Fino alla cancellazione della sua memoria e della sua esperienza storica.

Sia ben chiaro: questa recensione si è basata principalmente sui presupposti metodologici espressi dall’autore sia nella prima introduzione che in in quella aggiunta per la nuova ma, anche se la ricchezza e la varietà delle testimonianze contenute nelle autobiografie citate costituisce il vero cuore del testo, è proprio in quelle che è possibile cogliere il problema di quella disciplina della memoria cui Boarelli ha rivolto principalmente la sua attenzione.

La lettura del testo non può dunque che rivelarsi utile e stimolante per chiunque sia interessato ad uscire dalle peste, ideologiche e metodologiche, che hanno caratterizzato un secolo giunto da tempo al suo tramonto, ma che ancora tardano a lasciare libero il campo a più approfondite conoscenze e riflessioni sulle cause delle sue tragedie, dei suoi errori e delle sue sconfitte. Cui la sola critica di carattere ideologico non può certamente più bastare.


  1. Carlo Ginzburg, Prefazione a Mauro Boarelli, La fabbrica del passato, Quodlibet, Macerata 2021, p.7  

  2. Pier Paolo Poggio, Montaldi e i protocolli ideologici del PCI in Gianfranco Fiameni ( a cura di), Danilo Montaldi (1929-1975), azione politica e ricerca sociale, Atti del seminario svoltosi a Cremona il 9 maggio 2003, Annali della biblioteca statale e libreria civica di Cremona, volume LVI, 2006, pp. 17-209  

  3. Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia. 1919 – 1970, Centro d’Iniziativa Luca Rossi e Cooperativa Colibrì, Milano 2016 (Prima edizione edizioni Quaderni Piacentini, Piuacenza 1976)  

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Due anni senza Philip Roth https://www.carmillaonline.com/2020/05/11/due-anni-senza-philip-roth/ Mon, 11 May 2020 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59910 di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di quel materiale, prevalentemente saggistico, è stato raccolto e pubblicato un anno prima che morisse. Ma quello che Roth aveva davvero da dire lo aveva già scritto nei suoi romanzi: l’ultimo suo lavoro, Nemesi, è del 2010 . L’anno dopo dichiarò che si sarebbe ritirato perché continuando “avrebbe potuto fare solo disastri”: momento topico, il raggiungimento del punto di saturazione, dopo una vita interamente spesa “a rigirare parole”. E anche quello che c’era da scrivere, su di lui – presenza mondana ingombrante, spesso al centro di polemiche feroci e autentici atti di culto – è già stato scritto, tra biografie autorizzate e non – ottima quella di Claudia Pierpont Roth, a cui l’autore collaborò volentieri, nonostante il tono franco e non elegiaco dell’opera.

Ma qual è il lascito vero, ultimo, di questo gigante della letteratura americana contemporanea? Forse la sensazione che ha lasciato, nei suoi lettori più attenti, di non riuscire mai ad afferrare il segreto lontano di quella scrittura, qualcosa di nascosto, indefinito, pur nella estrema evidenza della pagina scritta, qualcosa di non catalogabile nei canoni tradizionali della critica. Philip Roth lascia sempre una domanda sospesa nell’aria: perché i suoi libri, le sue storie, i suoi personaggi, sono quasi tutti segnati da una cifra memorabile, imperitura, perché esercitano una fascinazione che solo i grandi classici riescono a impiantare nell’anima dei lettori?

In fondo Roth non era “il più bravo” della sua generazione. Riconosceva l’inarrivabile primazia di Saul Bellow; ammetteva pubblicamente che Updike – amico, poi nemico, sempre competitor –, con la sua saga del Coniglio, si era dimostrato tecnicamente superiore per la profondità descrittiva dell’America wasp sconvolta dal boom e dalla rivoluzione sessuale; sapeva di doversi misurare con un gigante come Don De Lillo – che pubblica Underworld lo stesso anno di Pastorale Americana. Lui stesso era consapevole di non essere il migliore, e lo ammetteva. Eppure: perché i suoi libri, almeno alcuni, danno l’idea di essere il lascito “del migliore”? Qual è l’ingrediente segreto di una scrittura potente, ironica, ma anche contorta, personalissima, colloquiale fino allo stremo, allergica alle esigenze di sobrietà che da sempre gli editor vanno predicando, senza mai sfociare nello sperimentalismo bislacco oggi di moda? Non era il “number one” ma dalle sue pagine si sprigiona una misteriosa scintillanza che tutti gli altri non possono non avergli invidiato. E questo a dispetto delle malriuscite trasposizioni cinematografiche (Dio ci preservi dall’ultima, la serie HBO ispirata alla geniale ucronia di Complotto contro l’America).

Fu un personaggio famoso, decisamente non schivo, anche se mai in cerca di pubblicità o visibilità gratuita. Rilasciava interviste, ebbe amicizie prestigiose con il gotha della cultura americana e si concesse più di uno sprazzo mondano – compreso un breve flirt con Jaquie Kennedy. Più di De Lillo, riusciva a unire pubblico e critica, ma la sua carriera letteraria non fu sempre rose e fiori.

Dopo l’esordio pruriginoso del Lamento di Portnoy, che tanta popolarità gli aveva dato consacrandolo come il più interessante dei giovani della sua generazione, affrontò una ventina d’anni di scrittura dalle alterne fortune. In questa fase si annoverano gioielli come Lo scrittore fantasma (in cui osa resuscitare l’icona santificata – e mummificata – di Anna Frank, immaginando di incontrarla negli anni ’60, confusa e attraente giovane donna di cui invaghirsi, in mezzo alle memorie ancora fumanti dell’Olocausto e l’ebbrezza di quel decennio pirotecnico, facendo incontrare nella finzione narrativa due universi lontanissimi). Ma anche anni di solenni stroncature, in cui le grandi aspettative sollevate agli esordi parevano non concretizzarsi mai pienamente, lasciandolo nel limbo degli “ex giovani” di talento tristemente inespressi.

Fu al giro di boa dei sessant’anni che Roth infilò la sfilza dei suoi capolavori, talmente letti e famosi – come La macchia umana – da suscitare lo snobismo di quei critici che lo avevano atteso al varco per anni, e adesso guardavano diffidenti agli enormi successi di pubblico.

Cosa era scattato, in quegli anni, per dargli la spinta decisiva? La vecchiaia incipiente – che con pudore chiamiamo maturità? Lo sblocco emotivo di alcuni nodi esistenziali, la sua uscita, come ha scritto qualche critico, dalla fase di “eterno figlio”, dal ribellismo emotivo e identitario, per entrare dentro – lui e il suo alter ego Nathan Zuckerman – la fase malinconica dei capelli bianchi, degli acciacchi, delle disillusioni? Probabilmente è questa condizione che lo porta a usare al massimo la sua forza, la chiave di lettura di ogni storia e ogni suo personaggio: il paradosso – l’incongruente, l’inatteso, lo sconcertante – portato allo stremo, con coraggio, risolutezza, senza le speranze giovanili a mitigarlo, con la spietatezza di chi non perde più tempo a dare un senso alla vita.

E proprio la sua identità ebraica, è il terreno di fondo del suo spirito di paradosso: mai uno scrittore ebreo, ufficialmente ateo e allergico alle rivendicazioni identitarie di molti suoi correligionari, aveva passato tanto tempo a parlare e fare i conti con la “sua” ebraicità. E questo con una ossessione, un puntiglio, uno scrupolo psicologico, da far invidia a un rabbino. La sua pretesa di essere considerato “un ebreo” senza tanti altri aggettivi, “come essere qualsiasi altra cosa, come essere una mela”, si scontrava con il suo continuo battere e ribattere su quel medesimo tasto irrisolto. Come il prurito della pelle segnata dalle ortiche: anche se sai che non fa bene, continui a grattare fino al sangue, se necessario – questo significava ebraicità per il laicissimo e peccaminoso Roth.

Lo stesso esordio di Portnoy fu traumatico, con le accuse pubbliche rivoltegli da ambienti religiosi, circa il presunto “odio di sé”, tipico delle minoranze vogliose di assimilazione, che la scrittura del giovane Roth, dietro spregiudicatezze e oscenità, in realtà pareva rivelare agli occhi dei suoi detrattori. Forse fu proprio quello shock a chiarirgli le idee: non doveva ritrarsi dalle polemiche, doveva scavare e scavare e ancora scavare dentro il filone aurifero della suo ebraismo, perché lì dentro c’era l’arte, lì c’era la vita, lì c’era il fuoco, e le ferite aperte che germinano letteratura.

E negli anni sfornerà una galleria di “moderni tipi ebraici” assolutamente non stereotipati, problematici, contemporanei, eppure segnati da un qualche arcaico rimando tradizionale: i vecchi padri ebrei, laboriosi indomiti e premurosamente oppressivi verso il destino dei figli; e figli come Seymour Levov, l’eroe di Pastorale Americana, che ha realizzato il sogno dell’integrazione americana persino nella eccellenza genetica, meritandosi l’appellativo di “svedese”, genitore e imprenditore modello a cui toccherà la più feroce delle nemesi paterne; e Sabbah l’ebreo gaudente, ripugnante e pure a suo modo romantico, che incarna il “perturbante”; e Rita Cohen, l’enigmatico spiritello ebraico che disorienta i lettori di Pastorale, con le sue maligne apparizioni agli snodi cruciali della storia, simbolo dell’insopprimibile pulsione critica, feroce, erotica, oppositiva, che pure é stata una componente dell’anima della diaspora. Il filo conduttore dell’ebraismo afferra Roth e lo conduce nei labirinti oscuri della vita e del romanzo.

“Nella mia vita mi sono occupato sempre delle stesse cose ebrei, ebrei, ebrei, Newark, Newark, Newark”. Ed effettivamente i nodi identitari e quella “periferia” newyorkese che è considerato il Jersey, sono gli ingredienti immancabili, lo sfondo di ogni sua narrazione: e si sposano meravigliosamente bene. Qual è il luogo d’America dove un ragazzino ebreo piccolo borghese può meglio affrontare gli anni più turbolenti ed eccitanti della storia americana – dalla vittoria della guerra alla crisi del Vietnam? Il Jersey, naturalmente. A un passo dalla grande metropoli ma ancora in una dimensione umana, periferica, in cui quel ragazzino può ben dire di conoscere e identificarsi con ogni marciapiede e ogni vicolo del suo (ebraicissimo) quartiere. L’identità ebraica di prudente ponderatezza, che si dilata e si stiracchia verso la tensione sessuo-politica degli anni ’60, tendendosi senza mai spezzarsi: quanta ricchezza di temi, storie, volti, parabole possono sorgere da un simile calderone?

E poi a venticinque anni il matrimonio con una shiksa conosciuta in un bar dove la ragazza lavora – una bionda non ebrea che gli da l’illusione di avere finalmente conquistato la vera America, l’America profonda del biondismo; ma proprio come l’America, dietro la patina di brillantezza wasp, si nasconde un portato di sofferenza irredimibile e violenta, una sorta di miniera radioattiva. Il matrimonio è un disastro follemente distruttivo, che demolisce la vita di Roth e la condiziona (anche economicamente ) per molti anni, spedendolo in analisi per “recuperare la sua esausta virilità”. La bionda ha un passato terribile, viene da una scassata famiglia di alcolisti, le sono stati sottratti da un giudice due figli ed emana una tale carica di aggressività possessiva, che il giovanotto brillante della Bucknell University ne viene travolto.

Ma che fa uno scrittore – oltre ad andare in analisi, assumere psicofarmaci e lamentarsi del destino? Prende tutto questo veleno, lo mette a macerare nel suo laboratorio segreto e lo trasforma in una saga narrativa potente. Attraverso trasposizioni e finzioni letterarie, continua per anni a raccontare del suo maledetto matrimonio. Dal romanzesco avvio, con la futura moglie che per costringerlo al matrimonio si finge in dolce attesa, dopo aver acquistato in un androne del Bronx le urine di una barbona nera incinta; fino all’inaspettato epilogo: la morte in un banale incidente stradale della donna, che lo libera dalle vessanti condizioni imposte dal divorzio, che avevano ridotto Roth sul lastrico.

Un matrimonio sbagliato, diventa uno scrigno inesauribile di vite e controvite – una devastazione mentale al limite del patologico, si trasforma in una potente macchina narrativa. Anche Roth, alla fine, dovrà riconoscerlo: chi, se non la moglie distruttiva e squilibrata, è stata la vera editor e la vera musa della sua esistenza? Chi ha preso lo studentello presuntuoso innamorato di sé e dei libri e lo ha sbattuto faccia a faccia con la vita vera, fatta di stupri, alcolismo, sofferenze inenarrabili e famiglie devastate? Dopo gli anni passati a lottare con la bionda shiksa, Philip, non può che ringraziare e renderle pubblico riconoscimento (pur specificando che se fosse Dante, saprebbe bene dove collocarne il destino post-mortem).

Negli anni buoni della sua scrittura, questa “domesticità” di ambienti, temi e personaggi, si è fatta più ardita, è andata a porsi in contesti diversi, lontani dalle strade di New York. È il caso di Operazione Shylok, dove i temi classici di Roth vengono calati nel calderone furioso della storia: Gerusalemme diventa il teatro in cui l’autore, passata la mezz’età, si confronta con i suoi nodi irrisolti di uomo, di ebreo, di scrittore progressista. È la Gerusalemme di fine anni ’80, in cui una Corte israeliana processa John Demjanjuk, operaio di Cleveland riconosciuto come il boia di Treblinka. Ma sono anche gli anni in cui l’Intifada palestinese mette Israele sul banco degli accusati della storia, in un rovesciamento schizofrenico e drammatico in cui Roth irrompe portandosi dietro le sue paranoie, le sue domande irrisolte, saltabeccando tra le aule del processo Demjanjuk che lo ipnotizza, l’amico professore palestinese che cerca di tirarlo dalla sua parte, il Mossad che prova ad arruolarlo come doppiogiochista, in un gioco tra finzione e verità storica, prolisso, verboso, ridondante di temi e di parole, ma straordinariamente avvincente.

Ha sempre saputo, giocarci, con la storia, Roth. Come quando racconta, in Complotto contro l’America l’avanzata del fascismo in America. Cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se, alle elezioni presidenziali del 1940, Charles Lindebergh, eroe nazionale germanofilo, avesse battuto Franklin Delano Rooosvelt e si fosse piazzato alla Casa Bianca? Lo sguardo ignaro di un ragazzino di un quartiere ebraico, registra lo smottamento progressivo, la deriva lenta ma inesorabile verso gli scenari peggiori: l’incubo degli ebrei americani che rischiano di ritrovarsi – davvero e in via definitiva – soli dentro il montare della marea antisemita. Ma anche senza complesse evocazioni geopolitiche, a Roth basta raccontare una banale cena di classe tra ex studenti ultra sessantenni, per far fremere le pagine di ironia ed epicità: nel salone del ristorante aleggia l’Angelo della Storia, mentre dentisti, commercianti, carpentieri e casalinghe raccontano la loro normalità, la poderosa ascesa sociale che, grazie al boom del dopoguerra, ha consentito loro di abbandonare i vecchi quartieri ebraici e incarnare il sogno americano della piena assimilazione – salvo accorgersi che alla fine del sogno, ci sono sempre dentiere, prostate infiammate e capelli candidi. È su quelli, che sta svolazzando “l’Angelo della storia”.

Nel 2017, un anno prima che morisse, È uscita in America una ponderosa raccolta di saggi, articoli, recensioni, scritte da Roth. Una specie di suggello “post-romanzo” della sua storia letteraria. Why write? – perchè scrivere – è intitolata. Se ne dovrebbe ricavare una summa delle complesse motivazioni dello scrittore, denudato dai suoi filtri romanzeschi, dai suoi alter ego, dai suoi personaggi. Ma siamo sicuri di volerlo vedere nudo, lo scrittore? E se il misterioso segreto della sua scrittura si rivelasse per quello che è stato – puro talento – non rimarremmo forse delusi, come quando si svela il trucco di un numero di alta prestidigitazione? Perché scrivere? Bella domanda. Se la pongono ogni giorno milioni di scrittori e scribacchini, tutti mossi dalla medesima ansia. Al termine della sua carriera se la pose anche Philip Roth. Ma per lui, ormai acquietato, si trattava della contemplazione postuma di una grande eredità.

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In fondo alla scrittura c’è ancora la notte https://www.carmillaonline.com/2018/12/29/in-fondo-alla-scrittura-ce-ancora-la-notte/ Fri, 28 Dec 2018 23:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=50221 di Paolo Lago

Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura. Calvino Pasolini Bazlen Parise Cattafi, Le Lettere, Firenze, 2017, pp. 175, € 18,00.

Il recente, interessante saggio di Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura, trae il suo titolo dal romanzo di Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte (1932). Se il finale del romanzo di Céline – quel “termine della notte” – non coincide con l’arrivo del giorno ma con il persistere di una “zona di crepuscolo”, rimanendo in sospeso come il percorso esistenziale del protagonista, “compiere un viaggio al termine della [...]]]> di Paolo Lago

Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura. Calvino Pasolini Bazlen Parise Cattafi, Le Lettere, Firenze, 2017, pp. 175, € 18,00.

Il recente, interessante saggio di Diego Bertelli, Viaggio al termine della scrittura, trae il suo titolo dal romanzo di Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte (1932). Se il finale del romanzo di Céline – quel “termine della notte” – non coincide con l’arrivo del giorno ma con il persistere di una “zona di crepuscolo”, rimanendo in sospeso come il percorso esistenziale del protagonista, “compiere un viaggio al termine della scrittura” – scrive Bertelli – “significa sapersi trattenere in una zona ugualmente incerta: quella in cui la vita di chi scrive, avanzando secondo gradi diversi di consapevolezza, testimonia l’impossibilità di un suo compimento formale”. Opera letteraria come vita, finale come morte sono alcune delle suggestive analogie messe in gioco dal saggio, il quale si configura come uno studio incentrato soprattutto sugli aspetti formali delle opere analizzate: Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Italo Calvino, Petrolio (1992) di Pier Paolo Pasolini, Il capitano di lungo corso di Roberto Bazlen (1973), L’odore del sangue (1997) di Goffredo Parise e i diari inediti di Bartolo Cattafi. Tutti i testi presi in esame (un romanzo pubblicato in vita, tre opere postume e una serie di diari inediti) si situano in un arco di tempo compreso fra il 1973 e il 1979. Quello degli anni Settanta è un periodo, come nota l’autore, in cui lo strutturalismo da un lato e le teorie della ricezione dall’altro “provocano un depotenziamento enorme della figura dell’autore e della sua autorità”.

Il saggio di Bertelli pone a confronto fra di loro delle opere di indubbio fascino, delle opere che rappresentano in sé il magma della vita stessa e la cui scrittura si inerpica nelle suggestive volute degli esperimenti formali. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino è un romanzo costituito da dieci incipit di possibili romanzi: un’opera che si sfalda e contemporaneamente si riafferma di continuo in una dimensione potenziale, in cui il lettore diventa il protagonista nel momento stesso in cui legge. Petrolio di Pasolini è un romanzo al quale l’autore stava freneticamente lavorando al momento della sua uccisione, nel 1975, ed è uscito postumo solamente nel 1992. Si tratta di un’opera ‘sperimentale’, costruito come “l’edizione critica di un testo inedito”, un “Satyricon moderno”, un vero e proprio “metaromanzo menippeo” (cioè un romanzo-saggio che riflette sugli stessi meccanismi letterari, legato alla linea culturale dell’antica satira menippea) in cui Pasolini inserisce delicati rimandi alla politica e alla società degli anni Settanta. Il capitano di lungo corso di Bazlen è un romanzo incompiuto e mai pubblicato, la cui parziale diffusione fu limitata a un circolo ristretto di amici. Il romanzo, elaborato in circa un ventennio (dal 1944 al 1965, anno della morte di Bazlen) si configura come una continua amplificazione di note esplicative data l’impossibilità, a detta dell’autore, di scrivere libri. Così, infatti, scrive lo stesso Bazlen: “Io credo che non si possano più scrivere libri. Perciò non scrivo libri – quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina”. L’odore del sangue di Parise, invece, è stato pubblicato postumo nel 1997 e nasce da un’esperienza di morte vissuta in prima persona dall’autore, dall’essersi trovato davanti la Gorgone e non aver chiuso gli occhi, come scrive Cesare Garboli nella prefazione al romanzo. Quest’ultimo è stato scritto da Parise nell’estate del 1979, subito dopo un infarto. Dopodiché venne sigillato dallo stesso autore e ripreso in mano e riletto solo nel 1986, poco prima della morte. I diari inediti di Bartolo Cattafi sono stati scritti dal 1971 al 1979 e interrotti soltanto dall’aggravarsi delle condizioni di salute del poeta. La scrittura diaristica di Cattafi tende alla concretezza e finisce per coincidere con lo stesso scorrere della vita, in un “viaggio al termine della scrittura” che è anche il termine della vita.

Vorrei concentrarmi adesso soprattutto su due fra le opere analizzate da Bertelli nel corso del suo ampio e ben articolato saggio. Si tratta di due romanzi molto diversi fra loro che però risultano straordinariamente vicini, sia dal punto di vista formale che, per certi aspetti, di contenuto: Petrolio di Pasolini e L’odore del sangue di Parise (dal quale Mario Martone, nel 2004, ha tratto un film). In entrambi i romanzi gli autori narrano una sorta di discesa all’inferno entro la cornice italiana di un preciso periodo storico, quello degli anni Settanta. Un periodo oscuro, attraversato da diverse contraddizioni ma connotato anche da ideali propositivi di lotta contro un sistema imposto dall’alto, falcidiati dal successivo decennio degli Ottanta. Sia Pasolini che Parise compiono una discesa nell’inferno della progressiva degenerazione sociale dell’Italia, un abbrutimento reazionario e meschino, lo stesso preso di mira dal movimento del Settantasette, il quale era invece mosso da istanze di liberazione del desiderio. Entrambi i romanzi sono l’estremo lascito testamentario e postumo di due vivaci intellettuali, due scrittori poco inclini a chinare la testa in ruoli precostituiti e irreggimentati. Petrolio si configura sostanzialmente come un romanzo politico, incentrato sulle oscure trame politiche ed economiche a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, in un periodo in cui l’economia e l’azienda stavano rapidamente scalando la vetta del potere politico. L’Italia e Roma – siamo soprattutto nel 1974 e 1975 – sono presentati come un luogo infernale in cui l’abbrutimento fascista imperversa ogni dove, in cui i giovani, resi afasici ed inespressivi, sono ormai involgariti dalla pubblicità televisiva e dal conformismo delle mode. C’è una serie di appunti (Petrolio è infatti costituito da una congerie di appunti), intitolata “Il Merda” in cui è descritto un vero e proprio viaggio infernale (in uno schema modellato sull’Inferno dantesco) del borgataro Merda e della sua ragazza Cinzia, all’interno delle nuove periferie degradate. Il culmine di tale visione è la città di Roma che, vista dall’alto, assume la forma di una croce uncinata, a simboleggiare l’avvento di un nuovo nazismo, quello della degenerazione delle coscienze livellate dal progressivo benessere economico. Lo spazio urbano della Capitale è connotato da squallore e sporcizia mentre le strade sono invase dai rifiuti. Nell’Appunto 70, “Chiacchiere notturne al Colosseo”, le vie che circondano il Colosseo sono caratterizzate da squallore e solitudine, dal traffico incessante e da rifiuti e cartacce che vengono portati via dal vento.

Ne L’odore del sangue di Parise viene tratteggiato un impietoso affresco della Roma fine anni Settanta, specchio dell’intera Italia. A un certo punto, il protagonista io narrante si reca, di notte, sotto casa della moglie Silvia, irretita ormai nella relazione con un giovane fascista, e lo spazio che si trova dintorno possiede dei cupi risvolti infernali. Così sono descritti i giovani che percorrono le vie notturne della città: “Eccoli, erano loro, i giustizieri della notte, quelli che avevano assassinato Pasolini, quelli che avevano bruciato un somalo dormiente su un letto di cartoni, «per scherzo». Intravedo le loro facce, anche nella velocità della corsa. Parevano facce americane, alcune bionde e butterate, altre nere dai capelli ricci, di arabi americanizzati. Erano, nella loro anonima e meccanica criminalità, le facce di Roma”. Come in Petrolio, la città notturna è attraversata da “spazzatura vagante” mentre in lontananza si erge “un riverbero rossastro e fumoso come di incendio”, “vari piccoli incendi di mondezza accesi da ragazzi intorno a prostitute e travestiti che battevano in quella zona”. La città, che diviene quasi specchio e simbolo dell’intera Italia, è connotata da marcati tratti infernali, come nel romanzo postumo di Pasolini. Non a caso, Cesare Garboli, nella prefazione scrive che, ne L’odore del sangue, “c’è un inferno, e un romanziere che lo racconta”.

Petrolio e L’odore del sangue, formalmente simili perché ‘monumenti’ letterari postumi, non rifiniti, non conclusi definitivamente, escrescenze magmatiche della penna ancora calda dello scrittore, mostrano anche metaforicamente il baratro in cui stava precipitando la società italiana. Se il primo è esplicitamente un romanzo politico che racconta un momento delicato di passaggio e di mutamento del potere, anche per mezzo di immagini molto crude di carattere erotico, il secondo, mostrando gli abbrutimenti sadomasochistici cui si sottopone il personaggio di Silvia nella relazione col giovane fascista spregiudicato, mostra anche la progressiva degradazione dell’intera società, catturata perversamente dal benessere e dal qualunquismo galoppanti. Parise scrive il suo romanzo nel 1979: solo un anno dopo inizieranno gli anni Ottanta, gli anni del disimpegno, del rampantismo sociale, dell’eroina, della “Milano da bere”, del berlusconismo e delle televisioni private. Come scrive Bertelli al termine del suo saggio, tirando le somme della sua rigorosa disamina comparata, da un punto di vista formale “l’unico viaggio possibile al termine della scrittura è quello di chi sa trattenersi in una zona incerta, la quale è anche la più carica di attesa, perché a essa corrisponde la paradossale suggestione degli inizi”. Ma forse, se guardiamo in fondo alla scrittura di Petrolio e de L’odore del sangue, troviamo ancora la notte, una notte fonda che, agendo in profondità, ha obnubilato le coscienze negli anni del disimpegno fino ai più tetri risvolti politici e sociali della contemporaneità, dei giorni che proprio adesso ci troviamo a vivere.

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Bob Dylan e la riscoperta delle origini rapsodiche del Mito e della Bibbia https://www.carmillaonline.com/2018/04/19/bob-dylan-potenziale-mitico-del-discorso-biblico/ Wed, 18 Apr 2018 22:01:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44790 di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume III (1988 – 2012) Un nuovo inizio e la maturità, Ancora Editrice 2018, pp. 424, € 26,00

Come già precedentemente annunciato, è giunta al termine la monumentale opera dedicata da Renato Giovannoli ai rapporti tra l’opera di Dylan, la Bibbia e l’uso che di questa si è fatto nella canzone popolare americana. Il terzo tomo appena pubblicato conclude degnamente l’opera, fornendo al lettore indici analitici riguardanti i testi, le canzoni, gli autori e i passi della Bibbia citati nei tre volumi della stessa. Tali indici, soltanto per darne un’idea, occupano [...]]]> di Sandro Moiso

Renato Giovannoli, La Bibbia di Bob Dylan. Volume III (1988 – 2012) Un nuovo inizio e la maturità, Ancora Editrice 2018, pp. 424, € 26,00

Come già precedentemente annunciato, è giunta al termine la monumentale opera dedicata da Renato Giovannoli ai rapporti tra l’opera di Dylan, la Bibbia e l’uso che di questa si è fatto nella canzone popolare americana. Il terzo tomo appena pubblicato conclude degnamente l’opera, fornendo al lettore indici analitici riguardanti i testi, le canzoni, gli autori e i passi della Bibbia citati nei tre volumi della stessa. Tali indici, soltanto per darne un’idea, occupano più di cento pagine di quest’ultimo volume, su un totale di 1132 che costituiscono nel suo complesso l’intera ricerca.

Le altre 316 pagine del testo in questione sono dedicate alla musica prodotta da Dylan negli anni compresi tra il 1988 e il 2012. Si tratta quindi del periodo in cui sono stati registrati i suoi ultimi dischi composti da brani originali prima dei tre album dedicati alla canzoni interpretate da Frank Sinatra oppure tratte dal grande American Songbook di interpreti come Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sara Vaughn o Ray Charles.

Tale scelta è pienamente giustificata dalla ricerca tematica svolta, poiché non solo gli ultimi tre presentano canzoni più legate al mainstream musicale americano più che all’ambito folk e popular, ma anche perché in tale ambito è più difficile rintracciare eventuali richiami, vicini o lontani, alla Bibbia e alle sue parole.

Senza tornare a quanto già detto nella precedente recensione dei primi due volumi dell’opera, (qui) si rende ancora necessaria l’analisi di quali siano le motivazioni “poetiche” che hanno spinto Dylan e una gran parte di folksinger americani ad utilizzare le parole e i riferimenti all’Antico e al Nuovo Testamento nelle loro canzoni. Escludendo però l’indagine dalle personali convinzioni religiose che, soprattutto nel caso di Dylan ma anche in quello di molti altri (ad esempio Kris Kristofferson), possono apparire spesso altalenanti oppure soltanto occasionali.

Analizzare, d’altra parte, l’autenticità o meno della conversione religiosa dei singoli interpreti potrebbe costituire un lavoro non soltanto lungo e complesso ma, probabilmente, anche fuorviante e tutto sommato poco scientifico considerato che ogni interpretazione delle convinzioni religiose di qualunque individuo, famoso o meno che sia, finisce inevitabilmente con l’intersecare le convinzioni religiose o laiche di chi interpreta. Analisi che, comunque e nel migliore dei casi, riguarderebbe principalmente la psicanalisi o la sociologia più che l’interpretazione del testo poetico e la sua valenza comunicativa.

Certamente il periodo preso in esame nell’ultima fatica di Giovannoli non corrisponde al periodo più religioso di Dylan. Eppure, eppure…basta scorrere molti dei testi delle canzoni prese in esame nel terzo volume per rendersi conto che con l’età l’abile trickster di Duluth non ha rinnegato l’uso dell’enunciato biblico, anzi.

Pur escludendo infatti l’album di canzoni natalizie, in cui Adeste Fideles è presente, in una versione cantata con una voce più roca di quella di Tom Waits, insieme ad una pruriginosa immagine di una pin-up natalizia posta sulla copertina in compagnia di altre immagini dei Re Magi e di gioiose slitte trainate da cavalli sulla neve,1 quasi a voler giocare sulla componente sacra e profana (molto) delle festività natalizie, Dylan sembra aver incrementato negli album presi in esame l’uso della citazione biblica. Diretta o indiretta a seconda dei casi.

Il periodo corrisponde a quello in cui il cantautore dichiarerà apertamente che l’unica chiesa alla quale sente di appartenere è “quella della mente avvelenata”, ma allo stesso tempo i testi continueranno a riprendere citazioni del Vecchio e Nuovo Testamento oppure da canzoni (blues, gospel, spiritual, country song) in cui tali citazioni sono presenti anche se modificate o utilizzate in un contesto non propriamente legato ad una esperienza o speranza di ordine religioso o spirituale.

Ecco allora “the land of milk and honey” ( la terra del latte e del miele) che si trasforma nella “land of money” (la terra del denaro). L’allusione all’infranto sogno americano di libertà e vita migliore è evidente, ma è tutto lì? Davvero? O non riguarda forse tutta la società moderna, di qua e di là dell’oceano, a Nord come a Sud? O forse costituisce soltanto un’evocazione, qualcosa che sa trovare in ogni ascoltatore una diversa prospettiva interpretativa, tale da rivelare più i sogni o i demoni di chi ascolta che quelli di chi canta?

Oppure, come capita in Political World contenuta in Oh Mercy (del 1989), la sapienza (wisdom) di cui si parla nella terza strofa, dicendo che è stata gettata in prigione e che non c’è nessuno a raccoglierne la traccia (trail), è una reminiscenza del libro di Giobbe in cui si parla di una “Sapienza nascosta agli occhi di ogni vivente” (il mistero di cui l’essere umano non può appropriarsi se non avvicinandosi a Dio) oppure tratta delle idee che il potere vuole nasconder agli occhi di chi non “deve” sapere?

Affermava il romantico tedesco Novalis: la vera poesia può avere al massimo un vasto significato allegorico, come la musica. Aggiunge umilmente chi scrive che la poesia come la musica costituisce una sorta di vibrazione che percorre il mondo, tenendolo insieme e separandolo allo stesso tempo, poiché tutti possono trovare nello stesso testo poetico e nella stessa esecuzione musicale motivi comuni ed espressioni estremamente differenti di quella medesima Sehnsucht (struggimento, nostalgia, desiderio di qualcosa che non si sa bene interpretare né tanto meno si conosce con certezza) di origine romantica che sembra far vibrare le corde più intime dell’inconscio collettivo e di ognuno di noi.

E’ ancora Novalis ad affermare che nella lontananza tutto diventa poesia: montagne, uomini, accadimenti lontani. E allora come non comprendere che questi discorsi tratti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento scaturiscono, come i miti greci o di altre civiltà, da un tempo lontano, in cui era la voce a produrre la parola e a ricordare gli eventi, gli uomini, gli insegnamenti e le storie da trasmettere ai posteri.

La poesia e l’oralità scaturiscono dalla stessa fonte: la voce dell’uomo. Tonante, dimessa, autorevole o timida che sia. I profeti parlavano e dovevano trovare le giuste parole e i giusti esempi. Gli anziani dei clan, i capi tribù e i re parlavano e dovevano convincere chi guidavano e governavano. I sacerdoti cantavano e danzavano e dovevano coinvolgere i possibili adepti nei loro culti. I cacciatori cantavano e dovevano ammansire gli Dei e gli animali per farseli amici e ringraziarli, magari dopo averli uccisi.

I guerrieri e gli schiavi dovevano trovare esempi e modelli che li sostenessero nella battaglia e nella rivolta. Gli agricoltori tramandavano ai figli i loro insegnamenti e le loro conoscenze e così pure facevano le donne, le uniche a tramandare i segreti più veri della vita, della nascita e dell’amore.

Tutto ciò è andato avanti per millenni e si è depositato in un vastissimo immaginario collettivo che non ha e non può avere confini nazionali o di classe, anche se a tale scopo può essere talvolta utilizzato, perché spesso si è formato ancor prima che quelli esistessero nelle loro forme attuali. Un immaginario che coinvolge le figure del Mito, autentico patrimonio di archetipi, che da Ulisse e Atena a Mosè e Gesù Cristo, da Maria Maddalena a Hermes e a Gilgamesh si è trasmesso fino a noi, inconsapevolmente.

Così come si è depositato in opere che sono state scritte secoli dopo l’inizio della loro diffusione orale: l’Iliade, l’Odissea, l’Antico Testamento, così ricco di canti e poesie. Oppure attraverso una narrazione disordinata e popolare come quella contenuta negli infiniti Vangeli apocrifi, in cui magari un dispettoso Gesù ancora bambino fa morire un compagno di giochi per poter dimostrare la sua potenza facendolo poi risorgere. Un intero universo narrativo, evidentemente tutto di origine umile ed orale, da cui i Padri della chiesa hanno poi dovuto scindere il grano dalla pula per ottenere una narrazione più rispettabile ed accettabile.

E allora cosa fa il poeta, il cantautore, il poeta-cantautore vincitore di un premio Nobel come Dylan, se non rielaborare all’infinito temi antichi e sempre attuali, edificanti o devastanti, ma sempre in grado di toccare le menti e i corpi di chi lo ascolta. Cosa può fare se non dare voce alla Musa che canterà, magari polifonicamente, attraverso di lui? E’ soltanto una superficiale abitudine della società borghese, l’unica in cui la scrittura sia stata pienamente dominante dopo l’invenzione della stampa, quella di considerare il testo sempre come scritto e stabile, anzi stabilito una volta per tutte.

E’ una febbre filologica, nata con l’Umanesimo, che fa cercare sempre il testo definitivo e completo di un’opera, quasi che questa non fosse in costante evoluzione nel tempo e non soltanto nella o per la volontà dell’autore (ah già…i diritti d’autore…questo è mio, questo di qualcun altro etc.) e non soltanto per sua mano.2 Ed è stata spesso la cultura “bassa” e collettivamente condivisa, che molti ritengono sottocultura, quella che nel tempo ha rimodellato e ridefinito collettivamente i messaggi selezionando, in tempi e momenti diversi e attraverso rapsodi casuali oppure coscienti, ciò che alla fine rimarrà dell’umana esperienza e dell’umano errare. A dispetto dei palazzi della cultura “alta” dove tutto è via via classificato, canonizzato e definitivamente imbalsamato.

Ed è poi ancora un male interpretato laicismo di stampo perbenista e borghese che vede nella citazione religiosa soltanto un elemento di arretratezza ed ignoranza senza saper coglie invece la potenza del discorso figlio di secoli di rielaborazioni orali, in cui tutti i problemi dell’individuo e della specie sembrano essere già stati elaborati e rielaborati più volte. Magari senza l’aiuto della penna, del computer o dell’istituto universitario e degli specialisti che ne sono la malferma ma autoritaria espressione.

Ed è altrettanto il prodotto di un razionalismo portato all’eccesso, e conservativo quanto il buio che voleva inizialmente combattere, l’incapacità di cogliere il fatto che dentro a quelle parole antiche sia racchiusa la capacità di donare la speranza, di suscitare la rivolta oppure di consolare la sconfitta e la miseria, che non è sempre e soltanto economica.

Soltanto per questa via si può realmente avvicinare Dylan, cercare di comprendere il suo uso delle citazioni, il suo modificare sempre ciò che il pubblico si aspetta come dato una volta per tutte, come ancora ha fatto nel primo dei tre concerti tenuti a Roma ad inizio aprile (qui). Solo così si può comprenderne ad un tempo la genialità, la poetica e l’arte come l’opera ricca e profonda di Renato Giovannoli ci stimola a fare.


  1. Si tratta dell’album Christmas In The Heart del 2009  

  2. Per meglio comprendere questo basterebbe che ogni lettore di questo articolo potesse rileggerlo nella sua forma originale e nelle dieci diverse versioni che hanno preceduto questa stesura definitiva (?), osservando come ogni minima variazione di termini o periodi possa portare il lettore stesso a recepirne il senso in maniera diversa, sia in positivo che in negativo.  

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Eversione politica ed insurrezione espressiva https://www.carmillaonline.com/2016/06/29/eversione-politica-ed-insurrezione-espressiva/ Wed, 29 Jun 2016 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30940 di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. [...]]]> di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. William S. Burroughs tra eversione politica e insurrezione espressiva, Ombre Corte, Verona, 2016, 202 pagine, € 18,00. Tale testo si snoda lungo una successione tripartita che prende il via con alcuni contributi (Parte prima) che indagano la matrice politica di Burroughs, prosegue poi (Parte seconda) presentando tre scritti dello scomparso Antonio Caronia (autore di importanti studi a proposito di cyberpunk, mutanti, androidi, virtuale, postumano, ibridi uomo-macchina ecc.) e si conclude (Parte terza) con alcuni interventi che analizzano le tecniche di scrittura di Burroughs ed il suo rapporto con i media.

Da parte nostra passeremo in rassegna il volume seguendo un ordine differente: inizieremo dai contributi di Caronia, proseguiremo con i saggi che trattano William S. Burroughs tra cut-up, remix, musica underground, lingua teatralizzata, sonic weapons, shotgun paintings ed audiovisivi “infetti”… e termineremo con gli scritti che si concentrano su “Burroughs ed il politico”.

I tre interventi di Antonio Caronia raccolti in questo volume sono stati prodotti dallo studioso tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90. Il primo scritto, “Il sistema dei media nell’universo della fantascienza” (1990) [originalmente in: C. De Stasio, M. Gotti, R Bonadei (a cura di), La rappresentazione verbale e iconica: valori estetici e funzionali. Atti dell’XI Congresso nazionale dell’A.I.A., Bergamo 24-25 ottobre 1988, Guerini, Milano, 1990] individua nella scrittura burroughsiana la capacità di intercettare le trasformazioni sensoriali, individuali e sociali determinate dalla comunicazione elettronica. In tale intervento Caronia sostiene che del sistema dei media della seconda metà del Novecento, «di questa rete di audiovisivi che connette il pianeta via etere e lo trasforma in villaggio globale (o in una metropoli locale, il che forse è la stessa cosa), Burroughs coglie un carattere fondamentale, quello della trasparenza. Attraverso il collegamento punto-a-punto della radio e della televisione le distanze si annullano, il tempo si relativizza e noi riusciamo a vivere in un eterno presente, espanso a inglobare il lontano e il vicino, il passato e il futuro. Il mondo diviene trasparente, e questa trasparenza è per noi una garanzia della realtà del mondo» (p. 77).

Nella social science fiction, sostiene lo studioso, i mass media risultano metafora del potere, strumenti attraverso cui vengono create realtà artificiali che imprigionano l’essere umano attraverso pratiche di disciplinamento dei corpi. Tale intuizione, da parte della fantascienza più orientata verso la critica sociale ed antropologica, secondo Caronia, esprime «la consapevolezza del processo che vede i media costituirsi come vero e proprio corpo sociale complessivo a detrimento dei corpi individuali» (p. 78). Ad esempio, nel racconto di James Ballard In The Intensive Care Unit (Riunione di famiglia, 1977), viene presentata una società futura ove i corpi non possono entrare in contatto tra loro; tutti i rapporti debbono essere filtrati dal video. Anche nei racconti di Philip Dick il tema dell’espropriazione del corpo risulta ricorrete e viene affrontato soprattutto attraverso la figura dell’androide, come nel celebre Do Androids Dream of Electric Sheep? (Il cacciatore di androidi, 1968).

scanners009A proposito della capacità di certa fantascienza di percepire la problematica dello “statuto del corpo” nell’ambito delle trasformazioni produttive e sociali che attorno alla metà del Novecento iniziano a palesarsi, Caronia, oltre alla narrativa, fa riferimento anche ad una celebre produzione televisiva degli anni Ottanta: Max Headroom (1987-1988) di Annabel Jankel e Rocky Morton, opera che pone la questione del “corpo immateriale” nell’epoca dell’immagine elettronica.
Ancora una volta, secondo Caronia, «la fantascienza, più che veicolo di anticipazione, più che discorso futurologico divulgativo, usa il presente, lo scava, ne estrae le tendenze e caratteristiche sotterranee, in una competizione/emulazione inviabile fra parola e immagine» (p. 80), come ben testimoniano le produzioni cyberpunk. William Gibson, in particolare, «nei suoi romanzi introduce una nuova figurazione che sta già diventando convenzione narrativa, quella del cyberspace, lo spazio virtuale interno al computer nel quale si muovono gli operatori più abili connessi alla macchina per via neuronale» (pp. 80-81). Parola ed immagine, da questo punto di visto, a queste latitudini, ci parlano di un “nuovo corpo sintetico” dato dall’intrecciarsi sempre più inestricabile di naturale ed artificiale.

Caronia, nel suo secondo intervento, “Immaginari a confronto: William S. Burroughs e James Ballard” (1992) [originalmente in: A. Caronia, Archeologie del virtuale. Teorie, scritture, schermi, Ombre Corte, Verona, 2001], propone un’analisi comparata dei testi di William S. Burroughs e di James Ballard soffermandosi soprattutto su Naked Lunch, opera in cui lo studioso individua «l’irreparabile urgenza di rappresentare, nella sua incontenibile virulenza, i processi di degradazione della carne, la purulenta carne del tossicodipendente, sui cui destini si esercitano le violentissime guerre del potere nell'”universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga» (p. 76).
In questo scritto viene sottolineato come Naked Lunch, nonostante la sua destrutturazione narrativa e la mescolanza di stili differenti, riesca a coinvolgere il lettore grazie soprattutto al suo saper trasmettere una «stringente sensazione di necessità» (p. 83). In tale romanzo non viene ancora fatto ricorso al metodo del cut-up e l’effetto straniante, che comunque lo contraddistingue, deriva, secondo lo studioso, dall’urgenza della scrittura. «Quello che Il pasto nudo ci offre è insomma uno sguardo sull’universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga. Da qui prende l’avvio quella particolarissima “continuità” che lega l’uno all’altro tutti i libri di Burroughs almeno fino a Nova Express […] e che ruota attorno al tema del controllo e del complotto» (p. 84) e, continua lo studioso, le «”aree psichiche” esplorate da Burroughs diventano qui delle aree geografiche in senso letterale, paesi fantastici che servono da sfondo e da commento alle azioni dei personaggi» (p. 84). Dunque, la galleria di figure che scorre davanti agli occhi del lettore «è innanzitutto la loro carne malata di droga in continua trasformazione, e le parole che la descrivono, un flusso di parole in caduta libera» (p. 85). Naked Lunch, attraverso la magmaticità del linguaggio, mette in scena il decadimento, la trasformazione, la dissoluzione e la perdita del corpo umano. In Burroughs però, sostiene lo studioso, non vi è alcuna visione romantica dell’innocenza originaria del corpo; il corpo è malato in quanto tale e lo è irreparabilmente.

James Ballard, una decina di anni dopo l’uscita di Naked Lunch di Burroughs, è alle prese con i suoi condensed novels poi raccolti in The Atrocity Exhibition (1970), tradotti in italiano soltanto nel 1990 proprio da Antonio Caronia con il titolo La mostra delle atrocità. A proposito di tale raccolta, sostiene lo studioso, «non c’è altro testo, forse, che sollevi temi analoghi e che possa stare al pari del libro di Burroughs quanto a intensità e lucidità della visione» (p. 87). Da una costola di questo libro di Ballard nasce il romanzo Crash (1975) che ha nella mutazione del corpo il suo nucleo fondamentale. In questo caso la mutazione viene indagata «attraverso una violenta e catastrofica variante del matrimonio tra corpo e tecnologia: la compenetrazione del corpo e della macchina nell’incidente automobilistico» (p. 87). In Ballard, dunque, interno ed esterno del corpo, corpo e mondo si compenetrano diventando «un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una scrittura crudele e impietosa, la fine della modernità» (p. 87)

nl_cronembergNel terzo intervento, “Il pasto nudo. Storia di un testo” [scritto per il saggio Naked Lunch messo in cantiere da Telemaco Edizioni nel 1992 ma mai pubblicato], Caronia ricostruisce brevemente la faticosa genesi del celebre romanzo di Burroughs a partire dalle difficoltà nel trovare un editore e, soprattutto, una diffusione in America a causa dei tanti problemi di censura.

La parte di Saccheggiare il Louvre che si occupa del rapporto di Burroughs con le arti mediali prende il via con il contributo di Vito Campanelli, Lieterary Cut-Ups. Le radici letterarie della cultura del remix”, in cui lo studioso intende verificare se la figura di Burroughs può essere collocata tra i fondatori di quello che oggi è divenuto un vero e proprio fenomeno di massa: la “cultura del remix”. Se è pur vero che ogni epoca ha fatto ricorso a frammenti di produzioni precedenti, è indubbio che mai come nell’età contemporanea si può parlare di cultura del remix come tratto distintivo. La diffusione di strumenti di post-produzione che permettono di campionare e sovrapporre fonti diverse, la moltiplicazione delle fonti a cui si può accedere ovunque ed in ogni istante e la tendenza a riversare in formato digitale quanto prodotto precedentemente dalla cultura analogica, sono alcuni dei motivi che permettono alla cultura del remix di caratterizzare la contemporaneità. Inoltre, le ingenti quantità di informazioni a disposizione richiedono memorie artificiale in grado di contenerle in maniera modulare, dunque immediatamente disponibili ad operazioni di remix.
Campanelli, che segnala come le radici della tecnica burroughsiana del cut-up possono essere individuate nelle sperimentazioni della poetica dadaista di inizio Novecento, sottolinea come ricorrendo al “gioco modulare” dei frammenti, Burroughs possa «andare oltre la definitività, quasi la sacralità, dei testi per aprire ad opere e visioni che non possono mai dirsi finite, concluse, appunto, definitive […] Anche i concetti di autorialità ed originalità sono messi fortemente in discussione attraverso i cut-up» (pp. 101-102). L’operazione burroughsiana contribuisce ad esplicitare come innovazione ed originalità non siano ormai più possibili.

Sono diversi anche i musicisti sperimentali contemporanei che hanno contribuito a diffondere la cultura del remix; si pensi alle pratiche di campionatura che rendono l’opera mai davvero conclusa in quanto chiunque può riprendere il lavoro e modificarlo ulteriormente. Proprio ai musicisti lo studioso concede un ruolo privilegiato nella diffusione di tale cultura perché più che alle fonti dell’avanguardia artistica è al mondo musicale che si deve la comprensione profonda del remix. Campanelli ricostruisce brevemente i punti salienti della storia del remix musicale a partire dalle pratiche dei DJ giamaicani che, a fine anni Sessanta, utilizzano basi ritmiche preregistrate per poi riarrangiarle. È in queste pratiche musicali che si devono ricercare le radici della cultura del remix e non nell’avanguardia dada primonovecentesca o nel cut-up burroughsiano. A suffragio di tale ipotesi nello scritto vengono riportate le riflessioni della studiosa statunitense Rosalind Krauss (L’originalità dell’avanguardia) che vede nelle avanguardie storiche il permanere del mito modernista dell’originalità; «l’originalità avanguardista è concepita come un’origine in senso proprio, un inizio a partire da niente. Un concetto questo che è incompatibile con la prospettiva del remix che si fonda proprio sul riutilizzo creativo del passato» (p.103). A differenze delle avanguardie storiche, la contemporaneità avrebbe una maggior consapevolezza di come il concetto di originalità sia ormai completamente andato in frantumi a causa dei processi di automazione nella produzione, riproduzione e distribuzione oltre che, a parere nostro, a causa di pratiche di esproprio, di appropriazione, votate ai commons, alla conquista ed alla condivisione di beni comuni in ostilità all’industria culturale ed al concetto di proprietà autoriale.

Se la rivoluzione del remix ha fatto saltare le rigide distinzioni tra autore e fruitore, tra emittente e ricevente, sostiene Campanelli, il mercato dell’arte ha reagito a ciò “commercializzando l’aura”; «Nell’attuale mercato dell’arte, infatti, ciò che si vende e si compra è l'”aura”, ovvero la possibilità di definire qualcosa come arte e in tale ottica, l’originalità dell’opera, la possibilità di attribuirne la paternità al genio solitario del presunto artista di turno, diventa l’aspetto nodale» (p. 104).
Secondo lo studioso «la cultura del remix rappresenta l’approdo finale di quel processo di sgretolamento di quel mito modernista dell’originalità che, sotto una serie di spinte concentriche (economiche, sociali, culturali e tecnologiche), giunge al pieno compimento con il diffondersi su scala planetaria dei media digitali» (p. 105).
I cut-up burroughsiani sembrerebbero un tentativo di sottrazione ai ruoli prescritti dalle principali istituzioni: famiglia, scuola, azienda, moda e comunicazione dei media. Attraverso operazioni di remix, come il cut-up, si possono sperimentare strade differenti da quelle tracciate ma, sottolinea Campanelli, «Il problema diventa, in ultima analisi, quello di capire quali condizioni devono verificarsi affinché le pratiche remixatorie attuali possano sottrarsi a quelle forme di creatività indotte dalla Rete, omologanti, massificanti al massimo grado, come nel caso delle memi, le idee-virus che si diffondono con enorme rapidità nel Web. In definitiva, quali sono le condizioni perché il remix possa accogliere l’eredità dei cut-up letterari divenendo una pratica per sottrarsi agli stampi prefabbricati dell’auto-identità?» (p. 106).

Bacon-Studies-Self-PortraitNel contributo The cut-up up the cut the up cut. Le rivoluzioni linguistiche e metodologiche di William S. Burroughs” di Linda Barone e Gerardo Guarino, gli autori si soffermano soprattutto sul rapporto tra Burroughs e la musica, mettendo in luce come una parte non irrilevante della scena musicale underground «in pieno stile cut-up, abbia tagliato frammenti del messaggio e dell’opera di Burroughs e se li sia cuciti addosso sotto forma di citazioni, tecniche del cut-up e fold in, dreamachine, ma soprattutto imparando il suo linguaggio, facendo propria la sua cultura, ergendosi spesso a parte attiva e spinta rinnovatrice diventando veicolo di un cambiamento con l’obiettivo di ricostruire il sistema sociale» (p. 108).

Il concetto di parola/lingua come strumento di controllo compare in molta della produzione burroughsiana e, secondo lo scrittore americano, se le droghe, il potere ed il sesso attivano un controllo sul corpo, la lingua esercita il suo controllo sulla mente ed è perciò necessario ricorre a tecniche come il cut-up al fine di sottrarsi a tale controllo. Gerardo Guarino, riprendendo le riflessioni di Matteo Boscarol (William Burroughs, Rock and Roll Virus. Conversazioni con: David Bowie, Patti Smith, Blondie, Devo) sottolinea come «le tematiche dell’eccesso, delle droghe, del viaggio psichedelico da una parte e quelle del controllo, dell’alienazione, della mutazione e dello spazio, dall’altro, come rifugio per l’essere umano, via di fuga dal controllo e dal condizionamento della pattumiera dell’establishment che reprime l’uomo sono topoi, luoghi, quartieri (boroughs in altre parole) centrali in certi ambienti musicali» (p. 122). Tra i musicisti che, nel corso degli anni Settanta ed Ottanta, sono stati influenzati, seppure in modo diverso, dalla cultura burroughsiana lo studioso cita: David Bowie, Patti Smith, Lou Reed, Mick Jagger, Bob Dylan, John Cage, Philip Glass, Laurie Anderson, Frank Zappa, Ian Curtis, Nick Cave, Kurt Cobain, Lydia Lunch, David Johanesen, Tom Waits… e gruppi come: Blondie, Devo, Cabaret Voltaire, Throbbing Gristle, Ramones, Sonic Youth, The Future…

Vincenzo Del Gaudio, nel suo “Il segno e il caso: William S. Burroughs tra scrittura e teatro”, affronta il processo che porta la parola scritta dal foglio alla voce trasformandola in suono declamato ed udito. La tecnica del cut-up in Burroughs, dopo aver frantumato e fatto esplodere la consequenzialità del discorso-potere, ha lo scopo di creare una nuova lingua e come prerequisito il principio della teatralizzazione della parola che «non è una semplice operazione di rappresentazione, ma ha come scopo principale rendere la lingua creata non una mera lingua rappresentabile, ma una lingua teatrabile, ovvero, da ultimo, una lingua declamabile» (pp. 128-129). La teatralizzazione in Burroughs richiede «un’attivazione sonora della lingua, attraverso un teatro della voce senza attore, attraverso una messa in presenza della lingua» (p. 129). Dunque, sostiene Del Gaudio, «La lingua di Burroughs è un corpo teatrale, un corpo teatro, una scrittura dove “non c’è più spettacolo possibile, ci sono soltanto lo scontro, la mischia con il mondo, le attrazioni e le repulsioni” [Jean-Luc Nancy, Corpo teatro]» (p. 129). La scrittura burroughsiana, per dirla con Roland Barthes (Variazioni sul tema), è una “scrittura ad alta voce”, legata al respiro, alla vita, che «biologizza la macchina di scrittura» (p. 130).

A partire da tali premesse, Del Gaudio passa ad analizzare lo spettacolo The Black Rider: The Casting of Magic Bullets, realizzato da Burroughs insieme al regista Robert Wilson ed al musicista Tom Waits, andato inscena per la prima volta ad Amburgo nel 1990. Tale spettacolo è descritto dallo studioso come «un’eroica messa in vita operativa della lingua che si fa suono e respiro e che diventa una lingua teatralizzata, un’oscena voce oscura che proviene dalla black box, una voce metallica filtrata da un megafono: “Ascoltate le mie ultime parole in qualsiasi luogo”» (p. 134).

crocif_bacon005Stefano Perna, in Mixes by Bill. Tape experiments, armi sonore”, si occupa invece del rapporto tra Burroughs e le tecnologie di registrazione, manipolazione e riproduzione del suono, viste dallo scrittore americano come strumenti dotatati di possibilità rivoluzionarie in termini conoscitivi e di decondizionamento mentale. Perna individua nel cut-up non solo un procedimento artistico ma anche la modalità di funzionamento del sistema media elettronico, dunque, secondo lo studioso, l’artista può, attraverso tale pratica, produrre «uno sfasamento “denarcotizzante, la riappropriazione critica di una routine già implicita nel funzionamento stesso dell’ecosistema mediale» (p. 138).

Le tecniche di sperimentazione di Burroughs e compagni variano dalla sovrincisione di suoni su registrazioni preesistenti (drop-in) ai rimaneggiamenti di una “frase sonora” al fine di sfruttare tutte le possibilità combinatorie, dalle manipolazioni dello scorrimento del nastro durante la fase di registrazione (inching) alla registrazione simultanea di fonti differenti provenienti da vari media ecc. Alcuni di questi procedimenti sono simili a quelli utilizzati da compositori come Karlheinz Stockhausen, Luciano Berio, Pierre Schaeffer e Pierre Henry ma, sostiene Perna, «sebbene le procedure e alcuni risultati possano sembrare per certi versi simili a quelli dei compositori, i presupposti da cui prendono le mosse gli esperimenti di Burroughs erano estremamente differenti. Mentre i compositori di area avanguardistica con le loro manipolazioni e decostruzioni tramite nastro erano alla ricerca di nuovi metodi per generare mondi sonori sconosciuti o inauditi, sui quali esercitare però un pieno e totale controllo espressivo, una sorta di ampliamento delle loro possibilità di azione e composizione della materia artistica, l’orizzonte di Burroughs era completamente diverso, semmai più vicino all’utilizzo delle tecnologie mediali fatto da John Cage» (pp. 139-140). Per Burroughs si tratta di ricavare zone/ritagli di tempo sottratti a quel “fluire normale” degli eventi attraverso cui viene esercitato il controllo: «frammenti di realtà depurati dalle manipolazioni che la macchina del controllo impone su tutti i discorsi e i contenuti prodotti e riprodotti dal linguaggio e dai media» (p. 140). I media sonori sono pertanto per Burroughs vere e proprie armi da utilizzare ed indirizzare al meglio, visto che lo stesso esercito americano non ha mancato di condurre ricerche sulle cosiddette sonic weapon, «armi che, producendo suoni nello spettro ultra- o infra-sonico, puntano a provocare effetti deflagranti e allo stesso tempo invisibili sulle persone, andando ad agire direttamente sui “ritmi” interni del corpo e della percezione» (p. 144).

Nell’intervento di Costantino Vassallo, “William S. Burroughs e i lineamenti di una pittura autografa”, viene presa in esame l’attività pittorica di Burroughs attuata ricorrendo alla pratica degli shotgun paintings. Se nel caso del cut-up la scrittura è trattata in forma plastica, come il materiale in pittura od in scultura, all’opposto, sostiene lo studioso, Burroughs sembra trattare la pittura come la scrittura: «i dipinti scrivono. Raccontano e predicono storie» (p. 151), afferma lo stesso Burroughs (The Third Mind). Lo scrittore americano sostiene che la pittura, a differenza della scrittura, può trasmettere serie di immagini e storie contemporaneamente, dunque «lo sparo per Burroughs permetterebbe il deliberasi di una precipua quanto particolare simultaneità narrativa in buona parte promossa per via automatica» (pp. 151-152).

Mario Trino, nel suo scritto Junker’s Movies. Il cinema infetto di William S. Burroughs”, analizza il rapporto tra lo scrittore americano e gli audiovisivi a partire delle esplorazioni della tecnica del cut-up in ambito audiovisivo da parte dello stesso Burroughs insieme a Brion Gysin, Ian Sommerville ed Anthony Balch. In The Cut Ups (1967), ad esempio, la durata dei fotogrammi viene calibrata, durante il montaggio, in modo che le immagini vengano percepite dallo spettatore senza che questi abbia il tempo di analizzarle in profondità. Se il cut-up nella scrittura permette di realizzare testi liberatori che rompono la linearità del testo, «espongono al pubblico la metodologia del controllo e la distruggono» (p. 158), in ambito audiovisivo le medesime tecniche «invece di liberare lo spettatore, ne impegnano le risorse cognitive con immagini intermittenti, che alimentano disturbi percettivi e fisici» (p. 158). Si intende così «rinegoziare la natura dell’esperienza mediale e i termini della costruzione e, quindi, della percezione del reale: esattamente come nelle opere letterarie, ma con processi e tecniche tipiche del cinema sperimentale, il loro obiettivo primario consiste nel mettere in discussione la “natura della realtà percepita”» (p. 160).

saccheggiate_louvre_Burroughs_coverSe c’è un cineasta influenzato da Burroughs, questo è David Cronemberg. Molte delle sue produzioni sono popolate da corpi mutanti e tecniche di controllo esercitate su di essi e sulla mente, si pensi a film come: Rabid (Rabid – Sete di Sangue, 1977), Videodrome (id., 1983), The Fly (La mosca, 1986), Scanners (id., 1981), The Dead Zone (La zona morta, 1983), Dead Ringers (Inseparabili, 1988). In Nake Lunch (Il pasto nudo, 1992), Cronemberg decide di «utilizzare il testo di partenza per creare una sorta di intertesto, un Naked Lunch che è nella stessa misura intessuto di sostanze burroughsiane, eppure le oltrepassa verso una dimensione audiovisiva autonoma in un processo acutamente definito “a dialectis intoxication”» (pp. 163-164). Il risultato è un nuovo Naked Lunch, in forma cinematografica, che può essere inteso come un’espansione dell’immaginario di Burroughs.

Oltre al regista canadese, Trino passa in rassegna anche alcune produzioni di Guns Van Sant che sicuramente derivano dall’immaginario burroughsiano, così come alcuni corti d’animazione e cartoon realizzati da Nick Donkin, Melodie McDaniel, Malcom McNeil, Gerrit van Dijk. Non mancano nemmeno opere audiovisive in cui Burroughs è coinvolto come attore-icona ed opere documentarie. Lo studio di Trino analizza, inoltre, la genesi di Blade Runner: A Movie (1979), opera realizzata da Burroughs ispirandosi al romanzo Bladerunner (1974) di Alan E. Nourse. Ad inizio anni Ottanta Ridley Scott è alle prese con una sua versione cinematografica del romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) e decide di acquistare i diritti d’uso del titolo (non dei contenuti) delle opere di Nourse e di Burroughs per il suo film. Nonostante il lungometraggio di Scott derivi dal romanzo di Dick, sostiene Trino, sono evidenti i debiti del regista nei confronti dell’immaginario iconografico burroughsiano.

I contributi relativi a “Burroughs ed il politico” si aprono con lo scritto di Giso Amendola, “Saccheggiate la Banca centrale. Dal controllo al debito, senza tacer d’eccedenti mostruosità”, in cui lo studioso individua nell’opera burroughsiana una topografia del controllo. È lo stesso Gilles Deleuze ad associare il concetto di controllo allo scrittore americano: «Sono le società di controllo che stanno sostituendo le società disciplinari. “Controllo” è il nome che Burroughs propone per designare il nuovo mostro e che Foucault riconosce come il nostro prossimo avvenire» (p. 25). Amendola, dopo aver ricostruito il pensiero di Foucault in merito al superamento della società disciplinare ed all’avvento di quella di controllo, evidenzia come la produzione burroughsiana si leghi a tale nuovo tipo di potere: «La sua concezione del controllo non è iscrivibile nella lunga tradizione delle distopie, non c’è traccia di Grandi Fratelli, e nemmeno di panottici […] La società del controllo è un piano dinamico […] il controllo non si esercita sopra i soggetti, né li osserva: ma attraversa i soggetti stessi, li modifica e ne è costantemente modificato. In Burroughs, la concezione del controllo non passa affatto fuori dal soggetto: lo stesso tema della dipendenza sposta tutto sul campo della produzione di soggettività. La società del controllo taglia fuori qualsiasi culto ideologico del potere» (p. 28).

Il potere è dunque una relazione che attraversa e costituisce i soggetti e Deleuze spiega come l’uomo non sia più rinchiuso ma indebitato. «Il ruolo dell’indebitamento si comprende solo guardando ad una società il cui intero corpo sociale è diventato estesamente produttivo, in cui il welfare, i servizi, la vita stessa, tutta intera, delle persone diventano fonte di estrazione del valore» (p. 31). Secondo Foucault e Deleuze la resistenza non avviene (non può avvenire) a partire da “un fuori” (che non esiste); essa si produce all’interno della relazione di potere, trasformandola. Qualcosa di analogo, sostiene Amendola, avviene in Burroughs ed in lui il controllo è sempre anche una macchina di resistenza e per questo motivo intende portare la rottura dentro il linguaggio attuando pratiche di desoggettivazione e di fuoriuscita dal linguaggio al fine di cercare una via di fuga da esso. «La macchina non è più il mezzo di produzione a noi esterno, ma è intelligenza, sapere, linguaggio: è incorporata dentro di noi e dentro le forme della cooperazione sociale. Così il lavoro, potenza della liberazione umana e insieme origine della sua miseria – la croce dei Grundrisse – si dà ora finalmente come produttività sociale ampliata, dove la macchina è ormai incorporata nella vita di uomini e donne: una potenza diffusa che però continua a incontrare il comando della valorizzazione capitalistica, sempre più parassitaria e estrattiva» (p. 35). È dall’interno della cooperazione sociale che la resistenza può oltrepassare le identità imposte.

nl_cronemberg_008Claudia Landolfi, nel suo “Non potere più dire ‘sono questo’. L’Apocalisse in/di parole di William S. Burroughs”, inizia col collocare Burroughs tra coloro che Timothy S. Murphy (Up the Marks: The Amodern William Burroughs) etichetta come scrittori “amoderni” pur restando per certi versi anomalo anche all’interno di questa categoria. Landolfi individua in Burroughs una radicale critica al capitalismo ed al suo sistema di controllo attuata attraverso le sue sperimentazioni linguistiche con cui è alla ricerca di una linea di fuga dalla catena “capitale-soggettività-linguaggio”: «l’indagine sulle forme paranoiche del controllo capitalistico della società americana che trasforma le soggettività attraverso il linguaggio-virus che usa (e dunque controlla) il corpo umano è ben chiaro da Junky (La scimmia sulla schiena, 1953) a Naked Lunch» (p. 43). In generale, sostiene Landolfi, il limite politico delle opere di Burroughs è ravvisabile nel fatto che, pur ingaggiando una resistenza al controllo votata al cambiamento sociale, non sembrano andare oltre alla negazione dello status quo, mancano di prospettare nuove forme di organizzazione sociale.

Education is a virus from outer space: elementi di anatomia politica” di Alfredo Di Tore parte dalla constatazione di come l’opera burroughsiana mostri «in filigrana, come il filo rosso che lega linguaggio, corpo e mutazione sia oggetto di una deliberata confusione di piani e livelli, di una ibridazione mistificante. Più propriamente il legame tra linguaggio e corpo umano è il frutto dell’attività di quella che Giorgio Agamben definisce la macchina antropologica, un artificio che propone incessantemente una distinzione fittizia tra umano e non umano attraverso un processo arbitrario, ideologicamente orientato, di inclusione/esclusione. Secondo lo studioso in tutta l’attività di Burroughs è possibile rintracciare un tentativo, costante ed efficace, di smantellare la macchina antropologica» (pp. 50-51). Attribuendo al linguaggio la natura di virus, Burroughs dà corpo al linguaggio conferendogli una dimensione parassitaria. Il corpo funzionerebbe dunque come un decodificatore che reagisce al virus del linguaggio. Il rapporto identità/corpo/ambiente è, in Burroughs, un esercizio di potere che deve essere fatto saltare e l’ultima parte dell’intervento di Alfredo Di Tore analizza come la mutazione, in Burroughs, sembri offrirsi come possibilità.

locandina_saccheggiate_louvre_003Concludiamo questa lunga disamina di Saccheggiare il Louvre, con il contributo di Antonio Lucci, “Sciarada gattesca. Schizotecniche della scrittura in William Burroughs”, che prende il via da alcune riflessioni sulle “tecniche culturali” sviluppate dalle Kulturwissenschaften tedesche, in particolare dal filosofo viennese Thomas Macho e dallo studioso tedesco Friedrich A. Kittler. Lucci riprende gli studi di Macho a proposito della “divisione del soggetto” alla base delle “pratiche di solitudine”, tra cui ha un posto eminente la scrittura, mentre da Kittler recupera l’idea che «il soggetto è creato dal sistema di media che utilizza, nella misura in cui ne fa uso» (p. 64). A partire da tali linee guida, Lucci analizza l’opera burroughsiana evidenziandone la «funzione di raddoppiamento, quindi di sdoppiamento e di Spaltung, che assume la scrittura […] andando a vedere come a questa funzione di sdoppiamento scritturale faccia pendant una serie di contenuti narrativi opposta e parallela, vale a dire quella della moltiplicazione, proliferazione ed ibridazione dei soggetti della nella narrazione, che si pone come un affollato e brulicante “brodo primordiale” da cui escono, per poi ricadere nel calderone della scrittura libera e magmatica, figure allucinatorie, allunanti e allucinate, tipiche di una dimensionalità simbolica altra, atta a segnare i (non-) confini di un cosmo anumano» (p. 65).
L’analisi di Lucci si concentra su The Cat Inside (Il gatto in noi, 1986), opera tarda di Burroughs, in cui la funzione del doppio assume la massima evidenza. Secondo lo studioso le tecniche culturali della scrittura, la distruzione del soggetto-scrittore, della scissione della soggettività, costitutive della scrittura burroughsiana, sembrano, in questo testo, essere superate «grazie ad un equilibrio soggettivo ritrovato, attraverso una discreta, magica, sospesa, presenza della dimensione dell’alterità radicale, tanto estranea quanto vicina […]: quella dell’animale domestico, che dà a Burroughs il senso e la dimensione esistenziale e affettiva di una comunità tra i viventi non più vissuta con ferocia critica, ma con l’empatia della compassione» (p. 71).

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#RazzaMigrante, un progetto di narrazione collettiva sulle migrazioni contemporanee https://www.carmillaonline.com/2016/02/27/razzamigrante-un-progetto-di-narrazione-collettiva-sulle-migrazioni-contemporanee/ Sat, 27 Feb 2016 22:58:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28808 di Maz Project 

migrazione[Diffondiamo questa iniziativa dal sito di Maz e invitiamo alla scrittura]

Appunti per un canto blues o della razza migrante – @genusmigrans, Maz

…e stavamo tutti dentro la Storia. La cosa peggiore da fare era rimanere immobili. Quel giorno davano i numeri del 2015 al telegiornale e passavano da un attentato all’altro attraversando il mondo, cronologicamente. A dirla tutta non era il mondo intero a essere citato, ma una sua parte. Il risultato era di 500 morti in una manciata di attentati. Io, ascoltando, [...]]]> di Maz Project 

migrazione[Diffondiamo questa iniziativa dal sito di Maz e invitiamo alla scrittura]

Appunti per un canto blues o della razza migrante – @genusmigrans, Maz

…e stavamo tutti dentro la Storia. La cosa peggiore da fare era rimanere immobili. Quel giorno davano i numeri del 2015 al telegiornale e passavano da un attentato all’altro attraversando il mondo, cronologicamente. A dirla tutta non era il mondo intero a essere citato, ma una sua parte. Il risultato era di 500 morti in una manciata di attentati. Io, ascoltando, rifacevo i conti insieme alla giornalista e mi lasciavo prendere dal fascino malsano della quantità, che serviva a misurare il dramma. E associavo involontariamente queste addizioni ad altre recenti, pure sparse per il mondo, e che parlavano di virus. E accortomi del volo mi domandavo se quella malattia sarebbe stata debellata come le altre, o se invece sarebbe stata amministrata per un tempo tutto da definire. I conti giusti non erano quelli, naturalmente. Perché da quel mucchio di “non più” venivano volutamente espunti molti altri. I trentamila sacrificati nel mar Mediterraneo nei dieci anni precedenti, per esempio. Loro erano, lo sapevamo tutti, quelli che veramente ci davano la misura del dramma storico in corso. Morti tutti sul confine, come accadeva cento anni prima, nella logorante guerra che chiamammo prima e mondiale, combattuta in realtà su un paio di fronti.
Morti, durante la fuga che era la loro unica alternativa alla guerra e al terrore.

Dicembre del 2015. Era una fase di rialfabetizzazione politica, quella. E ci rendemmo conto che non eravamo mai usciti dalla Storia, né eravamo mai stati in pace. Si può morire tutti allo stesso modo, dissero, ma solo per alcuni suonano gli inni. Ci accorgemmo anche di questo.E del fatto che gli inni suonati continuavano a essere nazionali. Non c’era niente che parlasse di noi altri, al di là dei paesi singoli. Che parlasse delle plebi offese, dei disperati, o di quelli sul limite, di quelli che venivano dopo, della manodopera a perdere transnazionale, plurinazionale, internazionale, delle menti in fuga verso l’altrove. Ed era un gran peccato.

Suonò la Marsigliese per giorni e giorni perché Parigi era stata offesa e con lei il mondo. O una fetta grande di. Ma non tutto. Era difficile capire quello che stava accadendo con un nemico pubblico capace di terrorizzare, ma non di produrre conflitto. Quando ci chiesero di “stringerci a coorte” un brivido mi attraversò il corpo e la schiena, era una paura vecchia di normalità e sentimenti mediocri. Ma noi avevamo per fortuna già cominciato l’esodo dalle retoriche e non ci fu difficile fare un passo indietro, o di lato, sottrarci cioè al gioco dei conquistatori e portatori di civiltà. Ma per non essere da meno del nemico redigemmo anche noi una costituzione alla quale non abbiamo ancora messo il punto e selezionammo alcuni testi, per tenere a portata di mano i principi che ci fondavano. Uno di questi testi portava il titolo Le vie dei Canti e faceva riferimento alle strofe che si scioglievano sulle labbra di molte e molte persone. Esse avevano segnato la terra di parole e sapevano dove andare, recitando versi risalenti al tempo del sogno. Lo si poteva leggere in molti modi Le vie dei canti, ma non c’era possibilità alcuna di integralismo. Eravamo noi a dirla tutta, totalmente privi di integralismo. Non avevamo nessuna interezza da costruire e diffondere, nessuna assurda organicità, se non un’appartenenza al mondo per rispettare la quale era necessario muoversi. Col corpo, con il pensiero, con le parole. Erano questi i tre elementi che fondavano i discorsi che facevamo, pilastri da cui costruire le pratiche necessarie a vivere la vita.

Tra i versi dei canti che segnavano le vie, ce n’era uno che ripeteva: vidi sopra di me il cielo infinito, vidi sotto di me la valle dorata, questa terra è fatta per te e per me. E via, a tracciare percorsi affinché ogni corpo avesse il diritto di essere. Per meglio affinare la nostra arte prendemmo a prestito alcune abitudini degli uomini e delle donne che abitavano nel deserto. Per camminare e vivere in quegli immensi banchi di sabbia, sapevamo, era necessario uno spirito vasto e accogliente, impossibile da irrigidirsi in presunzioni di superiorità e in aride certezze. Il deserto era al contempo la minaccia che dovevamo tenere a mente, ma anche lo spunto da cui partire, perché il nostro cammino fosse prodigo di creazioni.

Immaginare, nel deserto, è un atteggiamento naturale, diciamo pure un istinto. Niente di ascetico dunque: camminare, immaginare, desiderare, creare. Partimmo così, ognuno dai luoghi in cui era cresciuto e senza destinazione certa, se non l’obbligo di incontrarsi prima o poi, da qualche parte e raccontarsi com’era andato il viaggio, scambiarsi appunti e ipotesi di percorso. Decidemmo in breve anche di rivendicare il nostro diritto all’autodeterminazione, essendo noi un popolo. Senza patrie, è vero, ma non per questo meno popolo di quelli che si erano chiusi in confini incerti, rigati sulle mappe con l’astuzia dei geometri, o arginati da fiumi e monti che li inchiodavano al suolo come arbusti.

Popolo eravamo, di una mescolanza che non saprei da dove cominciare a raccontare e un’imperfezione che quasi metteva paura a noi stessi. Quale dio poteva proteggerci? Nessuno. A nome di quale dio potevamo parlare? Di nessuno. Eravamo una moltiplicazione di minoranze, l’unica certezza era questa: minoranze. E volevamo il diritto all’autodeterminazione. Il nostro inno era un canto che si intonava portando il tempo camminando, lungo una marcia, la nostra, che mai sarebbe stata marziale ma inesorabile, questo sì. Era, il nostro inno, un canto blues, che faceva così…


Cos’è e come si partecipa a #RazzaMigrante

Maz Project è alla ricerca di narrazioni, collettive o individuali, che raccontino una condizione contemporanea e condivisa: la migrazione, intesa sia nella sua accezione letterale sia in quella metaforica. Migrazione come spostamento perpetuo da un paese all’altro per studio, lavoro, e necessità di sopravvivenza, ma anche come odissea del quotidiano, spostamento territoriale alla ricerca di approdi emotivi e materiali. Lo scopo del progetto è quello di tracciare il profilo di un soggetto nomade e inquieto, intrecciando racconti di corpi, luoghi, lotte ed equilibri precari generati dalle esperienze migratorie intra ed extra europee. Un soggetto in movimento, che si riconosce in un comune sentire, orchestra relazioni e produce conflitto. #RazzaMigrante sono gli studenti in fuga nell’europa dell’austerity, sono i lavoratori precari che combattono per un reddito, i profughi dalle guerre in cerca di dignità, le minoranze insorte al tempo di un sistema in crisi. Una razza accomunata non da patriottismi o nazionalismi, ma da percorsi di lotte condivisi, attraversate dalle stesse storie.

Le forme di narrazione: così come abbiamo fatto in questi mesi su Maz, siamo aperti a contributi narrativi sotto forma di racconto, fumetto, produzione audiovisiva (cortometraggi, videoclip, reportage) e multimediale, e in generale a tutti gli “oggetti narrativi non identificati” inerenti al tema proposto. Sfruttando al massimo le potenzialità delle nuove tecnologie, ci lanciamo con la prospettiva di dare vita a contenuti stimolanti, che non hanno la pretesa di essere etichettati in base alla loro forma narrativa.

Le opere e i testi: sebbene siano ammessi contributi individuali, vorremmo dare la precedenza ad opere e testi collettivi, agli incontri di più persone che vogliano sciogliere in un unico oggetto narrativo le loro idee. #RazzaMigrante è un invito alla condivisione di esperienze, alla moltiplicazione, allo scontro dei punti vista, alla sperimentazione.

Le misure: Per racconti, fumetti e testi in generale il limite massimo è di 10 cartelle/pagine (circa 1800 battute a pagina, interlinea 1,5, Garamond 12).
Per le produzioni audiovisive il limite è di 10 minuti.
(Per eventuali eccezioni ne possiamo comunque discutere).

Le scadenze: con una certa costanza, vi stimoleremo, provocheremo, inviteremo a prendere la penna da oggi fino al 31 maggio 2016.

La pubblicazione: tutti i contributi verranno raccolti in un “contenitore multimediale” che verrà edito e distribuito da Maz Project, in collaborazione con i partecipanti e sarà liberamente consultabile e scaricabile su www.mazproject.org.

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