scrittore – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Due anni senza Philip Roth https://www.carmillaonline.com/2020/05/11/due-anni-senza-philip-roth/ Mon, 11 May 2020 21:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59910 di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Sono già passati due anni da quando Philip Roth ha abbandonato questo mondo. Aveva già lasciato da tempo il suo mestiere di romanziere, continuando a scrivere per sé, in una specie di esercizio automatico e quasi impersonale. Scrivere senza una ragione, senza un obiettivo, con la stessa naturalezza con cui un amante del legno pialla nel suo laboratorio, prima di cena. Scrivere perché non hai mai fatto altro, non puoi fare altro, per continuare a dare un senso vero, profondo, a quel che resta della tua vecchia vita.

Molto di quel materiale, prevalentemente saggistico, è stato raccolto e pubblicato un anno prima che morisse. Ma quello che Roth aveva davvero da dire lo aveva già scritto nei suoi romanzi: l’ultimo suo lavoro, Nemesi, è del 2010 . L’anno dopo dichiarò che si sarebbe ritirato perché continuando “avrebbe potuto fare solo disastri”: momento topico, il raggiungimento del punto di saturazione, dopo una vita interamente spesa “a rigirare parole”. E anche quello che c’era da scrivere, su di lui – presenza mondana ingombrante, spesso al centro di polemiche feroci e autentici atti di culto – è già stato scritto, tra biografie autorizzate e non – ottima quella di Claudia Pierpont Roth, a cui l’autore collaborò volentieri, nonostante il tono franco e non elegiaco dell’opera.

Ma qual è il lascito vero, ultimo, di questo gigante della letteratura americana contemporanea? Forse la sensazione che ha lasciato, nei suoi lettori più attenti, di non riuscire mai ad afferrare il segreto lontano di quella scrittura, qualcosa di nascosto, indefinito, pur nella estrema evidenza della pagina scritta, qualcosa di non catalogabile nei canoni tradizionali della critica. Philip Roth lascia sempre una domanda sospesa nell’aria: perché i suoi libri, le sue storie, i suoi personaggi, sono quasi tutti segnati da una cifra memorabile, imperitura, perché esercitano una fascinazione che solo i grandi classici riescono a impiantare nell’anima dei lettori?

In fondo Roth non era “il più bravo” della sua generazione. Riconosceva l’inarrivabile primazia di Saul Bellow; ammetteva pubblicamente che Updike – amico, poi nemico, sempre competitor –, con la sua saga del Coniglio, si era dimostrato tecnicamente superiore per la profondità descrittiva dell’America wasp sconvolta dal boom e dalla rivoluzione sessuale; sapeva di doversi misurare con un gigante come Don De Lillo – che pubblica Underworld lo stesso anno di Pastorale Americana. Lui stesso era consapevole di non essere il migliore, e lo ammetteva. Eppure: perché i suoi libri, almeno alcuni, danno l’idea di essere il lascito “del migliore”? Qual è l’ingrediente segreto di una scrittura potente, ironica, ma anche contorta, personalissima, colloquiale fino allo stremo, allergica alle esigenze di sobrietà che da sempre gli editor vanno predicando, senza mai sfociare nello sperimentalismo bislacco oggi di moda? Non era il “number one” ma dalle sue pagine si sprigiona una misteriosa scintillanza che tutti gli altri non possono non avergli invidiato. E questo a dispetto delle malriuscite trasposizioni cinematografiche (Dio ci preservi dall’ultima, la serie HBO ispirata alla geniale ucronia di Complotto contro l’America).

Fu un personaggio famoso, decisamente non schivo, anche se mai in cerca di pubblicità o visibilità gratuita. Rilasciava interviste, ebbe amicizie prestigiose con il gotha della cultura americana e si concesse più di uno sprazzo mondano – compreso un breve flirt con Jaquie Kennedy. Più di De Lillo, riusciva a unire pubblico e critica, ma la sua carriera letteraria non fu sempre rose e fiori.

Dopo l’esordio pruriginoso del Lamento di Portnoy, che tanta popolarità gli aveva dato consacrandolo come il più interessante dei giovani della sua generazione, affrontò una ventina d’anni di scrittura dalle alterne fortune. In questa fase si annoverano gioielli come Lo scrittore fantasma (in cui osa resuscitare l’icona santificata – e mummificata – di Anna Frank, immaginando di incontrarla negli anni ’60, confusa e attraente giovane donna di cui invaghirsi, in mezzo alle memorie ancora fumanti dell’Olocausto e l’ebbrezza di quel decennio pirotecnico, facendo incontrare nella finzione narrativa due universi lontanissimi). Ma anche anni di solenni stroncature, in cui le grandi aspettative sollevate agli esordi parevano non concretizzarsi mai pienamente, lasciandolo nel limbo degli “ex giovani” di talento tristemente inespressi.

Fu al giro di boa dei sessant’anni che Roth infilò la sfilza dei suoi capolavori, talmente letti e famosi – come La macchia umana – da suscitare lo snobismo di quei critici che lo avevano atteso al varco per anni, e adesso guardavano diffidenti agli enormi successi di pubblico.

Cosa era scattato, in quegli anni, per dargli la spinta decisiva? La vecchiaia incipiente – che con pudore chiamiamo maturità? Lo sblocco emotivo di alcuni nodi esistenziali, la sua uscita, come ha scritto qualche critico, dalla fase di “eterno figlio”, dal ribellismo emotivo e identitario, per entrare dentro – lui e il suo alter ego Nathan Zuckerman – la fase malinconica dei capelli bianchi, degli acciacchi, delle disillusioni? Probabilmente è questa condizione che lo porta a usare al massimo la sua forza, la chiave di lettura di ogni storia e ogni suo personaggio: il paradosso – l’incongruente, l’inatteso, lo sconcertante – portato allo stremo, con coraggio, risolutezza, senza le speranze giovanili a mitigarlo, con la spietatezza di chi non perde più tempo a dare un senso alla vita.

E proprio la sua identità ebraica, è il terreno di fondo del suo spirito di paradosso: mai uno scrittore ebreo, ufficialmente ateo e allergico alle rivendicazioni identitarie di molti suoi correligionari, aveva passato tanto tempo a parlare e fare i conti con la “sua” ebraicità. E questo con una ossessione, un puntiglio, uno scrupolo psicologico, da far invidia a un rabbino. La sua pretesa di essere considerato “un ebreo” senza tanti altri aggettivi, “come essere qualsiasi altra cosa, come essere una mela”, si scontrava con il suo continuo battere e ribattere su quel medesimo tasto irrisolto. Come il prurito della pelle segnata dalle ortiche: anche se sai che non fa bene, continui a grattare fino al sangue, se necessario – questo significava ebraicità per il laicissimo e peccaminoso Roth.

Lo stesso esordio di Portnoy fu traumatico, con le accuse pubbliche rivoltegli da ambienti religiosi, circa il presunto “odio di sé”, tipico delle minoranze vogliose di assimilazione, che la scrittura del giovane Roth, dietro spregiudicatezze e oscenità, in realtà pareva rivelare agli occhi dei suoi detrattori. Forse fu proprio quello shock a chiarirgli le idee: non doveva ritrarsi dalle polemiche, doveva scavare e scavare e ancora scavare dentro il filone aurifero della suo ebraismo, perché lì dentro c’era l’arte, lì c’era la vita, lì c’era il fuoco, e le ferite aperte che germinano letteratura.

E negli anni sfornerà una galleria di “moderni tipi ebraici” assolutamente non stereotipati, problematici, contemporanei, eppure segnati da un qualche arcaico rimando tradizionale: i vecchi padri ebrei, laboriosi indomiti e premurosamente oppressivi verso il destino dei figli; e figli come Seymour Levov, l’eroe di Pastorale Americana, che ha realizzato il sogno dell’integrazione americana persino nella eccellenza genetica, meritandosi l’appellativo di “svedese”, genitore e imprenditore modello a cui toccherà la più feroce delle nemesi paterne; e Sabbah l’ebreo gaudente, ripugnante e pure a suo modo romantico, che incarna il “perturbante”; e Rita Cohen, l’enigmatico spiritello ebraico che disorienta i lettori di Pastorale, con le sue maligne apparizioni agli snodi cruciali della storia, simbolo dell’insopprimibile pulsione critica, feroce, erotica, oppositiva, che pure é stata una componente dell’anima della diaspora. Il filo conduttore dell’ebraismo afferra Roth e lo conduce nei labirinti oscuri della vita e del romanzo.

“Nella mia vita mi sono occupato sempre delle stesse cose ebrei, ebrei, ebrei, Newark, Newark, Newark”. Ed effettivamente i nodi identitari e quella “periferia” newyorkese che è considerato il Jersey, sono gli ingredienti immancabili, lo sfondo di ogni sua narrazione: e si sposano meravigliosamente bene. Qual è il luogo d’America dove un ragazzino ebreo piccolo borghese può meglio affrontare gli anni più turbolenti ed eccitanti della storia americana – dalla vittoria della guerra alla crisi del Vietnam? Il Jersey, naturalmente. A un passo dalla grande metropoli ma ancora in una dimensione umana, periferica, in cui quel ragazzino può ben dire di conoscere e identificarsi con ogni marciapiede e ogni vicolo del suo (ebraicissimo) quartiere. L’identità ebraica di prudente ponderatezza, che si dilata e si stiracchia verso la tensione sessuo-politica degli anni ’60, tendendosi senza mai spezzarsi: quanta ricchezza di temi, storie, volti, parabole possono sorgere da un simile calderone?

E poi a venticinque anni il matrimonio con una shiksa conosciuta in un bar dove la ragazza lavora – una bionda non ebrea che gli da l’illusione di avere finalmente conquistato la vera America, l’America profonda del biondismo; ma proprio come l’America, dietro la patina di brillantezza wasp, si nasconde un portato di sofferenza irredimibile e violenta, una sorta di miniera radioattiva. Il matrimonio è un disastro follemente distruttivo, che demolisce la vita di Roth e la condiziona (anche economicamente ) per molti anni, spedendolo in analisi per “recuperare la sua esausta virilità”. La bionda ha un passato terribile, viene da una scassata famiglia di alcolisti, le sono stati sottratti da un giudice due figli ed emana una tale carica di aggressività possessiva, che il giovanotto brillante della Bucknell University ne viene travolto.

Ma che fa uno scrittore – oltre ad andare in analisi, assumere psicofarmaci e lamentarsi del destino? Prende tutto questo veleno, lo mette a macerare nel suo laboratorio segreto e lo trasforma in una saga narrativa potente. Attraverso trasposizioni e finzioni letterarie, continua per anni a raccontare del suo maledetto matrimonio. Dal romanzesco avvio, con la futura moglie che per costringerlo al matrimonio si finge in dolce attesa, dopo aver acquistato in un androne del Bronx le urine di una barbona nera incinta; fino all’inaspettato epilogo: la morte in un banale incidente stradale della donna, che lo libera dalle vessanti condizioni imposte dal divorzio, che avevano ridotto Roth sul lastrico.

Un matrimonio sbagliato, diventa uno scrigno inesauribile di vite e controvite – una devastazione mentale al limite del patologico, si trasforma in una potente macchina narrativa. Anche Roth, alla fine, dovrà riconoscerlo: chi, se non la moglie distruttiva e squilibrata, è stata la vera editor e la vera musa della sua esistenza? Chi ha preso lo studentello presuntuoso innamorato di sé e dei libri e lo ha sbattuto faccia a faccia con la vita vera, fatta di stupri, alcolismo, sofferenze inenarrabili e famiglie devastate? Dopo gli anni passati a lottare con la bionda shiksa, Philip, non può che ringraziare e renderle pubblico riconoscimento (pur specificando che se fosse Dante, saprebbe bene dove collocarne il destino post-mortem).

Negli anni buoni della sua scrittura, questa “domesticità” di ambienti, temi e personaggi, si è fatta più ardita, è andata a porsi in contesti diversi, lontani dalle strade di New York. È il caso di Operazione Shylok, dove i temi classici di Roth vengono calati nel calderone furioso della storia: Gerusalemme diventa il teatro in cui l’autore, passata la mezz’età, si confronta con i suoi nodi irrisolti di uomo, di ebreo, di scrittore progressista. È la Gerusalemme di fine anni ’80, in cui una Corte israeliana processa John Demjanjuk, operaio di Cleveland riconosciuto come il boia di Treblinka. Ma sono anche gli anni in cui l’Intifada palestinese mette Israele sul banco degli accusati della storia, in un rovesciamento schizofrenico e drammatico in cui Roth irrompe portandosi dietro le sue paranoie, le sue domande irrisolte, saltabeccando tra le aule del processo Demjanjuk che lo ipnotizza, l’amico professore palestinese che cerca di tirarlo dalla sua parte, il Mossad che prova ad arruolarlo come doppiogiochista, in un gioco tra finzione e verità storica, prolisso, verboso, ridondante di temi e di parole, ma straordinariamente avvincente.

Ha sempre saputo, giocarci, con la storia, Roth. Come quando racconta, in Complotto contro l’America l’avanzata del fascismo in America. Cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se, alle elezioni presidenziali del 1940, Charles Lindebergh, eroe nazionale germanofilo, avesse battuto Franklin Delano Rooosvelt e si fosse piazzato alla Casa Bianca? Lo sguardo ignaro di un ragazzino di un quartiere ebraico, registra lo smottamento progressivo, la deriva lenta ma inesorabile verso gli scenari peggiori: l’incubo degli ebrei americani che rischiano di ritrovarsi – davvero e in via definitiva – soli dentro il montare della marea antisemita. Ma anche senza complesse evocazioni geopolitiche, a Roth basta raccontare una banale cena di classe tra ex studenti ultra sessantenni, per far fremere le pagine di ironia ed epicità: nel salone del ristorante aleggia l’Angelo della Storia, mentre dentisti, commercianti, carpentieri e casalinghe raccontano la loro normalità, la poderosa ascesa sociale che, grazie al boom del dopoguerra, ha consentito loro di abbandonare i vecchi quartieri ebraici e incarnare il sogno americano della piena assimilazione – salvo accorgersi che alla fine del sogno, ci sono sempre dentiere, prostate infiammate e capelli candidi. È su quelli, che sta svolazzando “l’Angelo della storia”.

Nel 2017, un anno prima che morisse, È uscita in America una ponderosa raccolta di saggi, articoli, recensioni, scritte da Roth. Una specie di suggello “post-romanzo” della sua storia letteraria. Why write? – perchè scrivere – è intitolata. Se ne dovrebbe ricavare una summa delle complesse motivazioni dello scrittore, denudato dai suoi filtri romanzeschi, dai suoi alter ego, dai suoi personaggi. Ma siamo sicuri di volerlo vedere nudo, lo scrittore? E se il misterioso segreto della sua scrittura si rivelasse per quello che è stato – puro talento – non rimarremmo forse delusi, come quando si svela il trucco di un numero di alta prestidigitazione? Perché scrivere? Bella domanda. Se la pongono ogni giorno milioni di scrittori e scribacchini, tutti mossi dalla medesima ansia. Al termine della sua carriera se la pose anche Philip Roth. Ma per lui, ormai acquietato, si trattava della contemplazione postuma di una grande eredità.

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Ultime dal Fantabosco https://www.carmillaonline.com/2020/01/02/ultime-dal-fantabosco/ Thu, 02 Jan 2020 22:00:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57002 di Mauro Baldrati

Nella precedente corrispondenza dal Fantabosco letterario editoriale avevo posto l’accento sulle difficoltà del lettore, ovvero l’utente finale della cosiddetta “filiera”, colui che decide le sorti dei libri. O almeno che crede di farlo, perché il suo libero arbitrio viene omologato dal marketing, dalla pubblicità, e dalla sua mancanza di tempo libero per cercare, per studiare e per decidere.

Ora vorrei spostarmi verso la parte iniziale, cioè la genesi: l’autore. E’ da lui che viene la materia prima, il progetto dal quale parte la lavorazione [...]]]> di Mauro Baldrati

Nella precedente corrispondenza dal Fantabosco letterario editoriale avevo posto l’accento sulle difficoltà del lettore, ovvero l’utente finale della cosiddetta “filiera”, colui che decide le sorti dei libri. O almeno che crede di farlo, perché il suo libero arbitrio viene omologato dal marketing, dalla pubblicità, e dalla sua mancanza di tempo libero per cercare, per studiare e per decidere.

Ora vorrei spostarmi verso la parte iniziale, cioè la genesi: l’autore. E’ da lui che viene la materia prima, il progetto dal quale parte la lavorazione del “prodotto” che poi viene proposto al lettore. Il quale compra, e paga. E i suoi soldi servono per pagare i vari operatori della catena: l’editore, la tipografia, il distributore, l’ufficio stampa. Tutti ricevono il dovuto compenso per l’opera prestata.

Tutti meno uno. Chi non viene pagato? Proprio colui dal quale dipende tutta l’operazione: l’autore. Senza l’autore nulla verrebbe pubblicato. Invece lui è l’anello debole. Ma vediamo di chiarire perché.

Ovviamente da questa considerazione sono esclusi gli autori famosi, che hanno degli agenti particolarmente agguerriti che mettono in riga gli editori, e se ci sono dei ritardi sollecitano, e risolvono.

Ma la situazione cambia per le creature cosiddette “minori” del Fantabosco: gli scoiattoli, i topolini, gli uccelli, i ricci, le bisce, gli scarabei, i conigli, le talpe, i fagiani. Ovvero la massa di scrittori non famosi, o semplicemente “conosciuti”, che pubblicano per gli editori indipendenti, alcuni con l’agente altri no.

E qui iniziano i problemi. Sappiamo che ormai lo scouting è quasi estinto, ora gli agenti per ricevere un testo chiedono di essere pagati. 400 o più euro per la lettura di 200 cartelle e poi, se funziona, lo prendono in carico. Almeno in teoria. Non c’è una vera logica, né una scadenza. E’ tutto molto vago, le attese possono essere molto lunghe, anche anni. Diciamo che chi riesce ad affidarsi a un agente riuscirà a incassare l’anticipo che alcuni editori indipendenti prevedono nei contratti, ovviamente decurtato della sua percentuale. E qui c’è il secondo problema: solo una parte degli editori indipendenti prevede l’anticipo, diciamo quelli di pesatura media, mentre i più piccoli mettono subito in chiaro che, per le tirature modeste, non possono permetterselo. Tutti lo sappiamo, e tutti sanno che lo sappiamo, per cui in molto casi la questione non si pone. Inoltre, e qui entriamo nel terzo problema, anche alcuni editori di pesatura media che prevedono l’anticipo poi al momento di versarlo non lo fanno. Non vogliamo generalizzare ma succede spesso, pare. Gli agenti hanno una lista di editori famosi per la loro insolvenza. “No, a quello no, tanto non paga”. A nulla valgono i solleciti. Sì, certo, stiamo per versarlo. E invece niente. Se l’autore è senza agente può non vedere un euro. Anche se è nel contratto. Che si fa, una causa? 1000 euro di anticipo meno il 20% per 3000 minimo per le spese legali, e anni di attesa? Tutti lo sanno, e tutti sanno che lo sappiamo. Per cui questo è l’andazzo.

Quindi lui, l’autore, è l’unico che resta al verde, benché rappresenti la genesi. E’ questa la sua difficoltà, la sua sofferenza.

Ma è giusto? E’ ingiusto? Concetti che oggi hanno un valore relativo. L’obiezione è semplice e prevedibile. L’editore dice: siamo al limite della copertura delle spese, se pago te dovrei abbassare i compensi degli altri, e quindi non potrei pubblicare il libro. Perché se non li paghi quelli non stampano, non distribuiscono, non promuovono. Ed è vero. Gli editori non fanno così perché sono delle creature uscite da Underworld. E’ tutto tirato all’osso. Proprio un editore, Giulio Milani, l’ha spiegato qualche tempo fa: oggi, con le nuove tecnologie, anche con una vendita di 100 copie si coprono le spese. Per questo bisogna stampare tanto, per non perdere gli spazi presso i distributori, e gli sconti, ecc. Pubblicare tanto, con poche copie, e pochi soldi. E in questo meccanismo non è presente l’autore. Il suo compenso sarebbe una spesa aggiuntiva, non gestibile.

Ma come? replica l’autore, lo stampatore non stampa se non lo paghi? E se io non scrivo?

No, risponde l’editore, tu scrivi lo stesso. Perché devi. Sei costretto a scrivere. Non puoi vivere senza. E quindi lo fai anche gratis. E’ questo il tuo vero compenso. In realtà non lo dice così apertamente, ma noi lo sappiamo, e lui sa che lo sappiamo.

A questo punto si porrebbe un’altra questione: Perché l’autore deve scrivere a tutti i costi? E’ malato? Sì, è una forma di malattia. Ma qui entriamo in un campo minato, qualcosa che affonda nel pozzo della psicanalisi, dell’incapacità di vivere la vita reale, e della trasfigurazione di tutti questi demoni nella scrittura. Qualcuno obietterà: Che? Sofferenza? Malattia? Ma che dici? A me scrivere piace. Già. Ma ti piace troppo. Altrimenti non accetteresti di essere l’ultimo dei paria. Insomma, è un’altra storia, una storia per certi versi tremenda, da affrontare per tentativi, per ipotesi ed esperienze. Non qui. Non ora.

Invece qui e ora ci interessa l’altro aspetto, quella della sofferenza materiale, che è quella che conta perché si riflette sull’atto del pubblicare, sul mercato drogato e le “specie protette”. Ovvero il mondo reale. Non quello trasfigurato.

Una soluzione iniziale, un rimedio, sarebbe pubblicare meno. Togliersi da questa ossessione del catalogo. Cercare la qualità disgiunta dalla forza contrattuale del personaggio, dei vincitori dei premi importanti ospiti da Fabio Fazio e così via. Una concezione diversa della scrittura stessa, forse una guarigione parziale dalla malattia. Pubblicare meno, e a costi inferiori che permettano di inserire anche l’autore nel procedimento. E col libro che non avrebbe una scadenza ravvicinata, due mesi e via.

Ovvero, un sistema diverso. Nuovo, in sostituzione di quello decrepito attuale. I costi di pubblicazione inferiori, i vari operatori della catena editoriale con paghe decenti. E i lettori più curiosi, più attenti, con più tempo libero. E quindi la mente più sgombra.

Ma qui torniamo al predicato iniziale: un cambiamento sociale. La lotta va indirizzata al Sistema madre/padre, perché concentrarsi solo su quello editoriale non serve a nulla. E’ contenuto nell’altro, quello principale che determina i prezzi alti, lo sfruttamento del lavoro, la suddivisione in classi o addirittura in caste. E’ questo che bisogna abbattere. Qui è l’impegno politico, non l’adesione a un partito. Gli autori hanno il talento? Hanno gli spazi, per quanto limitati? Li usino. Denuncino. Partecipino. Creino un cartello di opposizione. Per esempio, giorni fa un TG nazionale ha detto, mostrando delle foto: “Queste sono le prime immagini scattate dagli americani quando hanno liberato Auschwitz”.

Gli americani. Non bastava la disinformazione pelosa e in malafede. Anche l’ignoranza brutale. Ammesso che di questo si tratti, perché c’è chi parla di fake voluta, in nome del nuovo revisionismo di destra. Questi sono i media che comandano sull’Immaginario. Sono quelli che influenzano i gusti dei lettori. Non si cambiano i gusti dei lettori (e quindi non si cambia il sistema editoriale) se non si cacciano questi “influencer”. E se non si abbattono le disuguaglianze sociali, che creano sacche di disoccupazione, di precariato e di lavoro schiavistico.

Abbattere il sistema che ha al centro il profitto di pochi e sostituirlo con uno nuovo con al centro le donne, gli uomini e l’ambiente. Questa è l’unica rivoluzione possibile. Altrimenti, come dicevano i nostri nonni (i bisnonni per i più giovani) ogni altra forma di protesta equivale a inseguire se stessi correndo intorno alla tavola.

[Le immagini: in apertura, Salgado; al centro, Ligabue; in fondo, Avedon]

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Antonio Merola incontra Fitzgerald in Italia https://www.carmillaonline.com/2018/07/08/46358/ Sat, 07 Jul 2018 22:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46358 di Iuri Lombardi

Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l’Italia, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2018, € 10,00

Interessante e molto approfondito è il saggio di Antonio Merola su Fitzgerald in Italia e i rapporti che lo scrittore statunitense ebbe con il bel paese. Non è un caso che un letterato italiano, della capitale, parli e si metta a studiare e ad approfondire l’opera di colui che fu, a suo tempo, definito “poeta in prosa” se questo, colui che scrive il saggio, è uno scrittore anche lui e quindi non un saggista.

Prima di [...]]]> di Iuri Lombardi

Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l’Italia, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2018, € 10,00

Interessante e molto approfondito è il saggio di Antonio Merola su Fitzgerald in Italia e i rapporti che lo scrittore statunitense ebbe con il bel paese. Non è un caso che un letterato italiano, della capitale, parli e si metta a studiare e ad approfondire l’opera di colui che fu, a suo tempo, definito “poeta in prosa” se questo, colui che scrive il saggio, è uno scrittore anche lui e quindi non un saggista.

Prima di parlare del saggio e sviscerare le peculiarità che presenta è d’uopo, secondo il mio parere, sottolineare l’aspetto tecnico ossia di lavoro di uno scrittore e non di uno studioso quando si approccia ad un saggio. Occorre, quindi, fare una premessa propedeutica al concetto di “igiene letterario” e distinguere, non certo a cuor leggero, la saggistica di uno studioso e quella di un narratore.

C’è differenza?

A parere mio sì e non poca. Come nel caso di Antonio Merola uno scrittore si avvicina al saggio per una questione esistenziale ma non spicciola, direi quasi per sospensione ontologica al da farsi suo quotidiano. Il ruolo di uno scrittore non è quello di fare saggi o scrivere biografie o studiare il percorso di un classico e metterlo nero su bianco. Il ruolo di uno scrittore è di fare letteratura e quindi di scrivere racconti, stendere romanzi; si tratta di agire come modus operandi sul piano della fiction e non su quello documentaristico; sarebbe a dire come se un regista narrativo si mettesse a dirigere un documentario. A volte questo avviene e succede nel caso che lo scrittore trovi una via di fuga verso il reale, quando esso di discosta dalla fantasia e con un intento democratico si approccia, quasi a voler ricomporre un puzzle, alla saggistica. Ma la saggistica di uno scrittore è arte e non è un prodotto per accademie o un pamplhet buttato giù per una conferenza o un seminario. In poche parole il saggio di un letterato – in senso di scrittore- nasce come un tentativo demistificatorio nei confronti del proprio vissuto ma tale intenzione si spegne al suo albeggiare e l’opera scritta è un saggio di fatto ma anche un’opera d’arte: una prosa che presagisce qualcos’altro.

Questo è avvenuto anche nel caso di Antonio Merola, giovane scrittore romano, autore di racconti, di poesie, operatore culturale ma direi protagonista della vita culturale giovanile della città eterna, e il mistero, l’enigma di sorta, presto è squarciato: Antonio pare identificarsi così bene in Fitzgerald che diventa quasi, indossandone i panni, forse inconsciamente, il romanziere scoperto da Pavese e dalla Pivano.

Nel saggio in cui analizza tutto il percorso dell’autore statunitense, scovando sin dalle viscere gli aspetti più minuti, contestualizzando la figura del grande Scott nell’America del proibizionismo, in quell’epoca che Fitzgerald amò definire dell’età del jazz, il giovane scrittore romano avanza delle ipotesi, ri-legge a suo modo lo Scott conosciuto da tutti e in particolare la sua opera in merito al rapporto con l’amata Zelda e poi il demone dell’alcolismo e in fine, ma non per importanza, il rapporto tormentato con l’Italia e l’amicizia inconsapevole degli italiani nei confronti di Scott. Di una amicizia nata per caso durante la stagione bellica quando Fernanda Pivano e Cesare Pavese decidono di tradurre le opere di questo americano sconosciuto e, come lo definisce in genere Merola, “romantico” in quanto lontano, se pur apparentemente, da ogni corrente letteraria del suo tempo. Si tratta di una scoperta coraggiosa visto i tempi, siamo in pieno fascismo e anche per l’editoria vige la ferrea legge autarchica e male erano visti gli autori esteri; per non dire che fosse per loro precluso ogni valico di accesso. Scott per via di Cesare e Nanda entra, clandestino tra di noi, varca le Alpi, oltrepassa l’oceano e giunge con le prime storie dell’America dei benestanti, dei festini hollywoodiani, del mondo fatto di abiti da sera e cene di gala. Già cosa strana per un autore d’oltreoceano cui era solito parlare di vagabondaggi ai margini delle strade o metropolitani e di sobborghi e malavita. La prosa di Scott pare sorprendere, sembra che lo scrittore camuffi la sua vocazione di poeta e la poesia trapela in quelle pagine quanto intenso fu l’amore per Zelda e il delirio che accompagnò i due, causa della malattia psichiatrica di lei, per l’intera vita.

Ma mi sembra marginale parlare di Fitzgerald e per ovvie ragioni.

In primo luogo perché è bene che uno ne approfondisca la conoscenza leggendone il saggio e in secondo luogo perché ritengo che un saggio non sia recensibile. Mentre è oggetto di recensione, ma direi di analisi, il rapporto tra l’autore dell’opera saggistica, se questi è appunto uno scrittore, e la figura analizzata. E questo caso, come suggerivo poco sopra, la figura di Merola si sovrappone a quella di Scott diventandone, all’unisono, una sola persona. Ma da cosa nasce questa identificazione?

Le ragioni possono essere molteplici a cominciare dalla sfera privata dell’autore che, per ovvie motivazioni, non sarà oggetto del mio intervento. La seconda e più probabile ipotesi è appena stata detta: Merola è uno scrittore che cerca di trovare una messa tra parentesi, cerca di evadere dal suo operato e si mette all’opera, si cala nei panni dello studioso. In altre parole, senza nutrire o avanzare pretese da accademico (il ruolo di uno scrittore è dieci volte più importante di quello di un semplice studioso), intavola una sorta di eterotopia come direbbe Foucault, nella quale si avvia la dinamica della identificazione. Si tratta quindi di un processo fisiologico per uno scrittore riconoscersi in un altro, classico o moderno, amico o collega che sia, contemporaneo o moderno.

Un processo identificativo che fa del saggio edito da Giuliano Ladolfi Editore un libro unico nel panorama monografico e di documenti del nostro tempo. Ogni riga del saggio, ogni passo è il testamento di due vite che paiono intrecciarsi, vivere assieme un’eterna primavera, o forse un autunno primordiale. Antonio calandosi nei panni di Scott vede gli stessi colori, le medesime miserie e vittorie; l’arena della vita incendiarsi nel pomeriggio di un giorno x sotto il cielo dell’Italia e prima ancora di Roma. La Roma stessa di Merola può essere la metropoli americana, un labirinto di passioni e drammi, di messe tra parentesi per l’appunto, di digressioni anche piacevoli: la giovinezza, la sapienza, il cuore ma soprattutto la statura umana ed artistica che fa di Antonio un grande scrittore protetto, forse chissà da dove, dal grande Scott Fitzgerald.

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Pasolini, Volponi e altri sguardi sul Novecento: un’immersione critica fra arte e letteratura https://www.carmillaonline.com/2017/01/26/pasolini-volponi-e-altri-sguardi-sul-novecento-unimmersione-critica-fra-arte-e-letteratura/ Thu, 26 Jan 2017 22:45:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36157 di Paolo Lago

cover_pasolini_volponi_Guido Santato, Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, pp. 341, euro 28,00

Nel suo volume Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), edito recentemente per i tipi di Mucchi, Guido Santato, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Padova, raccoglie sedici studi, usciti in sedi diverse fra il 1981 e il 2015, tutti dedicati ad autori del Novecento. Se la prima e la seconda parte – le più corpose del libro – sono rispettivamente dedicate a due scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, la terza [...]]]> di Paolo Lago

cover_pasolini_volponi_Guido Santato, Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), Mucchi, Modena, 2016, pp. 341, euro 28,00

Nel suo volume Pasolini e Volponi (e variazioni novecentesche), edito recentemente per i tipi di Mucchi, Guido Santato, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Padova, raccoglie sedici studi, usciti in sedi diverse fra il 1981 e il 2015, tutti dedicati ad autori del Novecento. Se la prima e la seconda parte – le più corpose del libro – sono rispettivamente dedicate a due scrittori e poeti come Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, la terza parte, significativamente intitolata Variazioni novecentesche, raccoglie saggi su Pascoli (l’unica ‘incursione’ tra fine Ottocento e inizio Novecento) e su tre artisti contemporanei, due pittori e uno scultore: Renzo Vespignani, Alberto Sughi e Augusto Murer. Lo sguardo dell’autore si focalizza perciò, con lo stessa competenza critica, sull’analisi di romanzi, di raccolte poetiche, di opere pittoriche e di sculture. Questa sicura ‘navigazione’ fra generi diversi rappresenta indubbiamente il più affascinante punto di forza del volume: la scrittura critica e saggistica di Santato prende per mano il lettore e lo guida attraverso autori anche molto diversi tra loro. La ‘navigazione’, soprattutto per quanto riguarda i primi due autori trattati, Pasolini e Volponi, legati da reciproca stima e amicizia, si trasforma in una vera e propria ‘immersione’: i diversi saggi ci conducono infatti all’interno di un’analisi rigorosa, scandita dall’approfondimento di alcune tematiche principali, che non trascura nessuna opera dei due poeti e scrittori.

Numerosi, nel volume, sono i saggi dedicati a Pasolini, autore già ampiamente studiato da Santato: bisogna ricordare, infatti, che lo studioso (il quale già nel 1980 aveva dedicato una monografia al poeta e scrittore bolognese, con il preciso intento di reagire al ‘biografismo’ all’epoca dominante negli studi pasoliniani) ha recentemente pubblicato un’ampia monografia pasoliniana dal titolo Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, indispensabile strumento per chi voglia comprendere interamente, a trecentosessanta gradi, la variegata opera di Pasolini. Santato è inoltre il fondatore e direttore della rivista internazionale «Studi pasoliniani» che, dal 2007, raccoglie contributi di natura critica e bibliografica dedicati al poeta, scrittore e regista.

Il primo saggio, Pasolini e i Canti del popolo greco di Tommaseo, si concentra sulla presenza di Tommaseo soprattutto nelle prime poesie e nei primi scritti critici di Pasolini, il quale rimase profondamente affascinato dalla lettura dei Canti del popolo greco. Addirittura, Pasolini tradusse in friulano uno dei canti di Tommaseo, Alla Dalmazia, ‘riadattandolo’ all’ambientazione del Friuli e cambiando anche il titolo: A la so Pissula patria. Alcune modalità traduttive messe in atto dal giovane Pasolini – soprattutto modifiche e semplificazioni atte a ‘traghettare’ il testo verso la nuova ambientazione friulana (secondo Foucault, infatti, il traduttore è sempre un «traghettatore notturno») – verranno riproposte successivamente nella traduzione dell’Orestiade di Eschilo realizzata nel 1960 su richiesta di Vittorio Gassman. Anche in questo caso, il traduttore ‘semplifica’ e modifica il testo di Eschilo ‘traghettandolo’ verso lo spettatore di teatro del 1960 (sia la traduzione da Tommaseo che la versione dell’Orestiade si presentano infatti come «ri-creazioni» che producono significative metamorfosi del testo). La presenza dei Canti del popolo greco, all’interno dell’opera pasoliniana, si fa sentire anche ad un livello intertestuale: ad esempio, all’interno della tessitura narrativa del romanzo Amado mio (scritto in Friuli fra 1947 e 1948 e ripreso a Roma intorno al 1950), mentre in alcune poesie degli anni Cinquanta e Sessanta non mancano diversi riferimenti a Tommaseo.

San Lorenzo Il sole del 19 luglio 1943

Renzo Vespignani, San Lorenzo, il sole del 19 luglio 1943

Il secondo saggio proposto nel volume, «L’abisso tra corpo e storia». Mito, storia e Dopostoria, offre un excursus attraverso l’opera pasoliniana dal tempo del «mito», fino alla «storia» e al «Dopostoria». Il tempo del «mito» è collocabile nel periodo friulano: «Nella poesia friulana di Pasolini il tempo è una dimensione, mitica, ideale: è un tempo interiore, una durata del sentimento» (p. 43). Con il trasferimento a Roma, nel 1949, nella poesia pasoliniana (dalle Ceneri di Gramsci, del 1957, in poi) si ha l’incursione della storia, la quale provoca un’«impossibile sincronia fra il tempo vissuto e il tempo storico» (p. 49). L’analisi di Santato prosegue attraverso le successive raccolte di versi, soprattutto La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma di rosa (1964), La nuova gioventù (1975, una riscrittura ‘in negativo’ delle sue poesie friulane), fino ad abbracciare con lo sguardo critico il tempo della «Dopostoria», una sorta di epoca ‘infernale’ che il poeta preconizzava dopo l’avvento della società dei consumi, come leggiamo nella poesia Io sono una forza del Passato (da Poesia in forma di rosa): «O guardo i crepuscoli, le mattine, / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti della Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età / sepolta». Infatti, «la realtà storica contemporanea è per Pasolini solo inferno. Il solo paradiso è quello del passato, del mito, ed è dunque un paradiso perduto» (p. 59). Tale visione infernale si paleserà nel romanzo postumo Petrolio, pubblicato nel 1992, con la «Visione del Merda», una lunga sezione in cui un personaggio soprannominato «il Merda», un borgataro degli anni Settanta, ormai ‘imbruttito’ e ‘degenerato’, compirà una lunga catabasi infernale ricalcata sul modello dantesco. Alla fine della «Visione», culmine simbolico della nuova società dei consumi del neocapitalismo, la città di Roma viene significativamente rappresenta con la forma di una croce uncinata.

Il terzo saggio – Paesaggio simbolico, paesaggio poetico ed echi provenzali nell’immagine del Friuli – ci riporta al mondo incontaminato friulano, quel lontano tempo del «mito»: «La regressione al dialetto attua linguisticamente la nostalgia di un mondo perduto: il mondo delle origini» (p. 85).

Questo «mondo perduto», legato inesorabilmente al passato, secondo la concezione pasoliniana, si oppone al futuro, il quale si trasforma – ed è questa la tematica affrontata nel saggio successivo del volume – in una sorta di «non tempo». Se nel poemetto delle Ceneri di Gramsci, Il pianto della scavatrice, Pasolini scrive: «Piange ciò che muta, anche / per farsi migliore. La luce / del futuro non cessa un solo istante / di ferirci […]», in diverse poesie di Poesia in forma di rosa, «il futuro viene identificato apertamente come il tempo del Potere, come la programmazione del destino dell’umanità da parte del Nuovo Potere neocapitalistico, assumendo connotati sempre più negativi e apocalittici» (p. 107).

L’analisi critica di Santato si sposta agevolmente dalla poesia alla narrativa, fino al cinema e al teatro. A quest’ultima espressione artistica è dedicato il successivo saggio del libro: una disamina delle tragedie pasoliniane (Pilade, Orgia, Calderόn, Affabulazione, Porcile, Bestia da stile) dal punto di vista del «rifiuto della nuova storia», identificata con il livellamento delle coscienze operato dalla neocapitalistica società dei consumi. Soprattutto nella tragedia Pilade, pubblicata su «Nuovi argomenti» nel 1966, che si pone come una continuazione dell’Orestiade di Eschilo tradotta da Pasolini nel 1960, la rivoluzione operata da Atena e dalle Eumenidi (la costruzione di fabbriche e palazzi, la creazione di nuove tecniche produttive), «è una trasparente allegoria della rivoluzione antropologica prodotta dal consumismo e dal neocapitalismo, che costituisce l’oggetto di numerose polemiche sviluppate da Pasolini tra gli anni Sessanta e Settanta e in particolare di alcuni famosi articoli giornalistici raccolti in Scritti corsari» (p. 121). Se «Oreste è il politico cinico che opera in sintonia con la storia che gli dà il potere», «Pilade è l’intellettuale disorganico, anzi il poeta che vive in un proprio mondo irrimediabilmente diviso da quello che si afferma nella storia» (p. 122).

Veri e propri luoghi del «mito» da opporre all’universo devastatore del consumismo e del neocapitalismo sono l’Oriente e l’Africa (all’analisi di essi nell’opera letteraria e cinematografica pasoliniana sono dedicati i saggi che – prima di un ultimo articolo sulla poesia dialettale di Eugenio Ferdinando Palmieri nella raccolta Poesia dialettale del Novecento, curata da Pasolini – chiudono la sezione pasoliniana del volume di Santato). L’Oriente esercita «un’autentica fascinazione» (p. 132) su Pasolini. Ne L’odore dell’India (che raccoglie sei articoli giornalistici scritti durante un viaggio in India, nel 1961, con Alberto Moravia e Elsa Morante), lo scrittore è letteralmente sedotto e affascinato da quel mondo, conosciuto soprattutto tramite la camminata solitaria nei luoghi più poveri delle città – un movimento ‘picaresco’ che permette la conoscenza diretta di quella nuova realtà – come egli aveva fatto, all’inizio degli anni Cinquanta, per scoprire l’universo delle borgate romane. Sempre legati alla scoperta dell’India sono gli Appunti per un film sull’India (1967), dei sopralluoghi svolti in funzione di un «film da farsi» in futuro. Pasolini tornerà in Oriente nel corso della realizzazione del film Decameron (1971), per ambientare nello Yemen l’episodio di Alibech. Quest’ultimo, nel montaggio definitivo del film, verrà escluso: solo di recente, nel 2012, è uscito un audiovisivo curato da Roberto Chiesi (Il corpo perduto di “Alibech”) che, grazie ad alcune foto di scena e immagini di scene di esterni, ci permette di ricostruire la struttura dell’episodio. Mentre si trova nello Yemen, Pasolini gira il cortometraggio Le Mura di Sana’a, concepito come «documento in forma di appello all’UNESCO». La fascinazione per l’Oriente prosegue nella realizzazione del film Il Fiore delle Mille e una notte (tratto dalla celebre raccolta di novelle), il quale «si svolge attraverso una sospesa alternanza fra sogno e realtà: è un film onirico scandito musicalmente dalla melodia dei canti popolari orientali» (p. 137). Verso Oriente si srotola anche il viaggio neopicaresco del solamente progettato film Porno-Teo-Kolossal, del quale conserviamo la sceneggiatura, in cui un Re Mago (Eduardo De Filippo) e il suo servitore (Ninetto Davoli), si muovono alla ricerca dei luoghi dove è nato il Messia attraverso città europee rivestite di connotazioni allegoriche. L’Oriente, infine, è assai presente anche in Petrolio: gli Appunti dal 36 al 40 (il romanzo è infatti costituito da una congerie di appunti), intitolati gli Argonauti, sono dedicati ad un viaggio in Oriente del protagonista Carlo, ingegnere dell’Eni e, nel progetto definitivo dell’opera, avrebbero dovuto costituire una rilettura in chiave anticolonialista e anticapitalista delle Argonautiche di Apollonio Rodio, dove il Vello d’oro sarebbe stato sostituito dal petrolio, ‘motore’ del neocapitalismo maturo.

Vespignani Il cappotto blu

Renzo Vespignani, Il cappotto blu

Altrettanto rilevante è la presenza dell’Africa (sondata accuratamente anche da Giovanna Trento in una monografia uscita per Mimesis nel 2010) nell’opera pasoliniana. In una delle poesie che chiudono La religione del mio tempo, Frammento alla morte, così Pasolini scrive: «E ora… ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell’Africa che illumina il mondo. / Africa! Unica mia / alternativa…». L’analisi di Santato, a partire da questi versi in cui l’Africa viene presentata come unica alternativa alla società dei consumi, ci conduce attraverso le opere di Pasolini fino agli Appunti per un’Orestiade africana, un documentario girato fra il 1968 e il 1969 che opera una contaminazione fra il modello classico (quella trilogia eschilea che, come già ricordato, Pasolini aveva tradotto) e una sua reinvenzione nell’Africa moderna, più precisamente in Tanzania. Nel documentario sono coinvolti anche alcuni studenti africani dell’Università di Roma ‘La Sapienza’, con i quali Pasolini avvia una discussione sulle problematiche dell’Africa contemporanea. In Petrolio, nell’Appunto 41, Acquisto di uno schiavo, l’Africa degli anni Sessanta e dei primi Settanta appare come un territorio ‘di conquista’ da parte di qualsiasi ricco turista del sesso occidentale, in cui vengono negati i più elementari diritti umani (nello stesso Appunto di Petrolio, con piglio giornalistico, Pasolini scrive, riguardo al regime del generale Abboud in Sudan: «Tali mercati di schiavi sono al margine della legalità, ma sotto il regime di Abboud sono più o meno tollerati. Insomma, chiunque voglia può riuscire a trovare il modo di arrivare clandestinamente all’asta degli schiavi, e comprarsi una ragazza o un ragazzo per una cifra corrispondente, credo, a tre o quattrocentomila lire»). L’Appunto, sotto la forma di apologo, narra infatti la vicenda di un intellettuale inglese di nome Tristram (con un palese riferimento al Tristram Shandy di Sterne) che, recatosi a Khartoum per comprare una schiava, sulla via del ritorno si converte al marxismo.

Non meno importante della pasoliniana prima parte, nel volume, è la seconda, dedicata ad un altro importante scrittore del Novecento, Paolo Volponi, che considerava Pasolini come «maestro e amico». Il primo saggio è dedicato all’analisi del linguaggio volponiano «tra poesia e romanzo»: nello scrittore urbinate, poesia e narrativa sono strettamente connessi. Nella sua prosa, Volponi, secondo Santato, inserisce «un linguaggio che, nella sua cangiante mobilità e densità, conserva intatte le virtualità figurative e le polivalenze metaforiche del linguaggio poetico» (p. 175). Infatti, la prosa volponiana è caratterizzata da uno «strumento linguistico eminentemente antirealistico» che fa emergere un’ottica radicalmente ‘altra’, venata di un’alterazione lirico visionaria e allucinatoria. Fin da Memoriale (1962), la scrittura di Volponi è «eversiva», poiché «agisce all’interno dei conflitti tra ordine istituzionale e società reale, nelle lacerazioni aperte da questo conflitto dentro e intorno all’uomo» (p. 176).

Nel secondo saggio Santato analizza «follia e utopia, poesia e pittura nella narrativa» (come suona il titolo). La narrativa di Volponi è infatti caratterizzata dalla drammatica specularità tra patologia individuale e alienazione sociale e dal «rovesciamento di quest’ultima in razionalità altra, antagonistica» (p. 195). Come lo stesso Volponi afferma in un’intervista rilasciata nel 1984 a Peter Pedroni, la sua predilezione è per i personaggi «atipici», «nevrotici», perché «più dolenti, più sensibili registratori della carica d’infelicità che scuote la terra», ma anche per questo, «più ribelli» e «fuori dalla norma». Il primo romanzo di Volponi, Memoriale (1962), infatti, rappresenta la «progressiva emarginazione del ‘diverso’ ad opera dei meccanismi della società industriale» (p. 215). Il protagonista del romanzo, Albino Saluggia, è un operaio che racconta in prima persona la sua condizione di ‘alienazione’ all’interno degli implacabili meccanismi della società industriale. Egli, tuttavia, non agisce passivamente ma si scontra con tali meccanismi difendendo il «suo diritto di esistere, trasformandosi così in un ribelle sociale» (p. 216). Nel secondo romanzo, La macchina mondiale (1965), protagonista è il contadino Anteo Crocioni, «un filosofo utopista che progetta una trasformazione dei sistemi di produzione e dell’intera organizzazione sociale» (p. 216), il quale, considerato come pazzo, reagisce con un suicidio che non rappresenta un gesto di sottomissione ma, anzi, «un gesto liberatorio orgogliosamente lanciato contro la mostruosa normalità che lo circonda» (p. 217). Gerolamo Aspri, protagonista di Corporale (1974), è invece un intellettuale borghese in crisi con alle spalle una travagliata militanza politica. Anche questo personaggio è continuamente in rotta con le strutture sociali e le loro continue imposizioni di regolarità e di ordine; anch’egli è un ‘folle’ ossessionato, in questo caso, dalla paura della morte atomica. Singolare per l’ambientazione, nonché per la scelta dei personaggi, è il romanzo Il pianeta irritabile (1978): le vicende narrate si svolgono infatti nell’anno 2293 in un mondo devastato dalla catastrofe nucleare, solcato dai protagonisti che sono una scimmia, un elefante, un’oca e un nano. In essi, «trasposti in un’iconografia allegorico-grottesca», confluisce «l’intera tradizione dei ‘diversi volponiani» (p. 220). La critica verso la società industriale, si fa particolarmente violenta nell’ultimo romanzo di Volponi, Le mosche del capitale (1989). Al centro del romanzo vi è l’esperimento di «fabbrica comunitaria» avviato da Adriano Olivetti nel 1945. I protagonisti sono il giovane dirigente di formazione umanistica, Bruto Saraccini, che coltiva il sogno olivettiano, e l’operaio Tecraso (anagramma di Socrate) «che dà voce all’altra parte della fabbrica e della città (Bovino, ridenominazione allegorico-grottesca di Torino» (p. 222).

Dopo una rigorosa analisi del romanzo Il lanciatore di giavellotto (1981), in cui protagonista è un’altra figura di ‘emarginato’ volponiano, il giovane Damìn, che vive un processo di formazione al contrario, volto cioè verso la ‘distruzione’, Santato ripropone nel suo volume la pubblicazione di un inedito di Volponi (già uscito nell’ambito di un «omaggio a Volponi» pubblicato dalla rivista «Studi Novecenteschi» nel 1998), L’acqua e il motore. Film sull’Umbria, un racconto scritto probabilmente nel 1981 in funzione della sceneggiatura di un film poi non realizzato. La storia è ambientata tra 1910 e 1911 sulle colline preappenniniche vicino a Gubbio: protagonista è il venditore ambulante Gigler, così soprannominato a causa della sua passione per i motori e per la meccanica (il gigler è un componente del carburatore). Gigler propone ai contadini il suo progetto di una pompa a motore: il progetto sembra funzionare e viene costruito l’acquedotto. Il padrone dei terreni, successivamente, distrugge il motore e l’acquedotto mentre Gigler, per nulla intimorito, lo ripara. Contemporaneamente, cominciano ad organizzarsi i primi gruppi socialisti e si susseguono le manifestazioni indette dalle leghe bianche e rosse. Le ragioni di questo ritorno a un’estetica ideologica – nota Santato – vanno ricercate «nella volontà di offrire una rappresentazione esemplare delle prime lotte di quell’Appennino contadino che costituisce il primo e fondamentale mondo poetico di Volponi» (p. 254).

Lo scrittore e poeta urbinate, secondo Santato, «più d’ogni altro ha saputo rappresentare la contraddittoria condizione dell’uomo moderno che conduce la sua ansiosa ricerca di un’impossibile felicità all’interno della società industriale» (p. 230).

Le successive «variazioni novecentesche» iniziano con un saggio dedicato a Pascoli (Per una semantica del ‘mio’ pascoliano. Eros e linguaggio nei Primi poemetti), volto ad analizzare le ricorrenze, in funzione di una tipologia semantica, dell’aggettivo «mio» nelle poesie pascoliane. Come l’autore scrive nell’introduzione, si tratta del testo di più antica datazione fra quelli raccolti: «è legato da un lato alla sperimentazione di una metodologia statistica di analisi dei testi, dall’altro all’applicazione di alcuni strumenti dell’ermeneutica psicanalitica alla lettura dei testi stessi. Erano anni in cui ci si poteva muovere disinvoltamente tra Rosiello e Sanguineti da un lato e Lacan e Derrida dall’altro» (p. 8).

Vespignani La borghesia incontra l'orrore

Renzo Vespignani, La borghesia incontra l’orrore

Successivamente, come già osservato, la scrittura critica di Santato si rivolge alle arti figurative. A chiudere il volume sono infatti tre saggi dedicati rispettivamente alla pittura di Renzo Vespignani e Alberto Sughi e alla scultura di Augusto Murer. Di Vespignani, Santato prende in esame soprattutto il ciclo Tra le due guerre, una serie di ottanta dipinti di carattere storico realizzati tra il 1972 e il 1975, al cui centro il pittore «ha posto l’immagine dell’uomo, quella dei protagonisti così come delle folle anonime: compaiono i dominatori e i dominati, i carnefici e le vittime» (p. 302). La pittura storica di Vespignani riesce a rappresentare ciò che rimane inaccessibile alla parola; la pittura rende presente, come nota lo stesso Vespignani, «ciò che la parola allontana»: «una cosa è dire sangue, un’altra vederlo», continua il pittore. Infatti, come nota Santato, «nessuno storico o cronista di guerra avrebbe potuto rappresentare la violenza del bombardamento di Guernica con maggiore efficacia rispetto alla drammatica forza espressiva del grande quadro di Picasso» (p. 305). L’opera, divisa in diverse sezioni, è connotata, non a caso, dalla forza espressiva del sangue, immagine che ricorre in maniera ossessiva all’interno della sua pittura, «una “reliquia” di traumi mai superati né nascosti» (p. 302). La sezione più inquietante e dal maggiore impatto visivo è probabilmente quella finale, dal titolo Mythus, dedicata al dramma vissuto dagli ebrei nei campi di concentramento nazisti. La scrittura critica dell’autore, allora, descrive in modo espressionistico le terribili sofferenze raffigurate dalla pittura di Vespignani, diventando quasi essa stessa reportage pittorico di un dolore e di una profonda ferita impressa nel corso stesso della Storia:

Compare a questo punto una serie impressionante di dieci dipinti, sette dei quali intitolati Carne di ebreo, dedicati alla rappresentazioni di parti del corpo, in particolare gambe e braccia, marchiati dai segni di riconoscimento impressi sulla carne (la stella di Davide e i numeri di matricola che venivano tatuati sull’avambraccio degli ebrei internati). È una sequenza di studi di anatomia dell’umanità offesa, raffigurati con una spietatezza che fa di questi quadri una violentissima denuncia della barbarie nazista. Le cicatrici che spaccano in verticale le gambe deformi sembrano crepe aperte nella carne. Sfumature gialle e verdastre si sovrappongono alla gamma dominante, azzurrognola, violacea, accentuando l’aspetto cadaverico dei corpi (pp. 309-310).

Tonalità diverse, caratterizzate da una non minore finezza interpretativa, vengono utilizzate per descrivere i quadri di Sughi. La sua pittura è una costante meditazione sull’uomo, soprattutto «sull’uomo contemporaneo, sul suo malessere esistenziale, tanto più evidente quanto si affollano intorno a lui i simboli del benessere» (p. 317). Due «autentiche metafore ossessive presiedono all’immaginario dell’autore: l’uomo solo e l’uomo di potere» (ivi). Il ciclo di dipinti intitolato La cena (1975-1976) rappresenta il mondo del potere e i suoi gruppi dirigenti, consegnati all’immagine nella posa di una cena in piedi, una «loro quotidiana abbuffata all’ombra del potere» (p. 319). Secondo lo studioso, i toni figurativi dei dipinti possono trovare un corrispondente in alcuni film contemporanei, come Roma e il Satyricon di Fellini o La grande abbuffata di Ferreri. Alla «nevrosi del mondo borghese» viene contrapposta la dignità del mondo contadino: emblematico, in questo senso, è il ciclo Immaginazione e memoria della famiglia dove, con grande capacità narrativa, viene rappresentata la dignità e la compostezza di un nucleo familiare ancora non toccato dalla civiltà dei consumi.

Il denso e ricco volume di Santato si conclude – dopo questo affascinante viaggio-immersione nell’opera di diversi autori, da Pasolini a Volponi, da Pascoli a Vespignani e Sughi – con uno sguardo critico sulla scultura di Murer: l’uomo, ancora una volta, è al centro dell’attenzione dell’artista. Un uomo saturo di fisicità corporea, rappresentato nelle sue radici profondamente terrene, venate di sacrificio e di vera umanità. L’arte di Murer appare dominata «dall’imperativo morale di lasciare una testimonianza della lotta antifascista e degli orrori della guerra» (p. 328): i monumenti alla Resistenza realizzati dall’artista sono allora la testimonianza di immagini di martirio e di dolore lontane da ogni retorica celebrativa, all’interno di un’opera caratterizzata dal richiamo a valori autenticamente umani.

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Fumenti *5 – storie disegnate (stelle) https://www.carmillaonline.com/2017/01/17/fumenti-5-storie-disegnate-stelle/ Mon, 16 Jan 2017 23:01:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35966 di Simone Scaffidi

cosmo-copertinaM. Neri, Cosmo, Coconino, 2015, pp. 182 , € 19.00.

«Mare: vasta distesa d’acqua salata». Arriverà il giorno in cui le stelle saranno talmente lontane l’una dall’altra che gli esseri umani non riusciranno più a distinguersi tra loro. «La gente sottovaluta il problema dell’espansione dell’universo, ma prima del riscaldamento terrestre e dello scioglimento dei ghiacciai viene la questione della fuga delle stelle. Non rimane molto tempo: le stelle più si allontanano più aumentano la loro velocità». Cosmo, un ragazzino di poche parole, lo [...]]]> di Simone Scaffidi

cosmo-copertinaM. Neri, Cosmo, Coconino, 2015, pp. 182 , € 19.00.

«Mare: vasta distesa d’acqua salata». Arriverà il giorno in cui le stelle saranno talmente lontane l’una dall’altra che gli esseri umani non riusciranno più a distinguersi tra loro. «La gente sottovaluta il problema dell’espansione dell’universo, ma prima del riscaldamento terrestre e dello scioglimento dei ghiacciai viene la questione della fuga delle stelle. Non rimane molto tempo: le stelle più si allontanano più aumentano la loro velocità». Cosmo, un ragazzino di poche parole, lo sa, sembra intuire le solitudini dell’essere umano di fronte all’immensità dell’universo e ai misteri della natura. Così, insieme al ragazzo ombra, decide di scappare dal Centro Socio Riabilitativo in cui vive, per raggiungere il deserto di Atacama, «il più arido di tutti i deserti, ma il suo cielo è così limpido che si può osservare l’intera via lattea». Durante il suo viaggio Cosmo avrà la conferma che gli esseri umani non hanno bisogno delle stelle per allontanarsi e non riuscire più a distinguersi l’uno dall’altro. Sono briciole, infinitesima parte di un granello di materia persa nello spazio, ma fingono di conoscere la direzione, di sapere dove andare. «Alcune persone la definiscono come la miglior condizione che si può vivere. Io però penso solo che gli uomini siano animali con molti problemi». Poi appare Ofelia, Cosmo si nasconde nella sua stanza, lei lo scopre, lo costringe in un armadio. Poche battute, un disegno potente e ritmato, e l’umanità riacquista significato nell’incertezza, nel riconoscere il dubbio nella fragilità dei corpi, nella profondità di uno sguardo. All’improvviso le stelle sembrano non voler scappare più via e come nei romanzi dell’islandese Jón Kalman Stefánsson la distanza tra la terra e la luna diminuisce. Ottocentomila chilometri. Gli stessi che suppergiù percorrono le balene in una vita. Sceneggiatura e regia riuscite. Nitidezza del tratto. Testi che colgono l’essenza delle immagini. Colori che assorbono le parole. E la poesia emerge dal nero diffuso. «Ciò che mi affascina di più del fumetto è dire di più con meno» ha raccontato l’autore intervistato da Valerio Stivé per Fumettologica. Marino Neri c’è riuscito, in quel “meno” c’è un universo sommerso che conserva tutto il movimento poetico di Cosmo.

una-stella-tranquilla-coverwebP. Scarnera, Una stella tranquilla. Ritratto sentimentale di Primo Levi, Comma 22, 2013, pp. 236, € 14.00.

«C’è un altro Levi che non conosciamo.. e che probabilmente non conosceremo mai». Pietro Scarnera riesce in una doppia impresa: raccontare la vita di uno scrittore attraverso le sue opere e mappare un’eccelsa produzione letteraria attraverso la vita di uno scrittore. E se quello scrittore si chiama Primo Levi, be’, capite bene che l’operazione è parecchio ambiziosa. Grazie a una sensibilità e un rispetto profondo nei confronti delle vite private dei protagonisti dei suoi lavori, già dimostrata ampiamente nel suo fumetto d’esordio Diario di un addio (in cui racconta l’esperienza accanto al padre in stato vegetativo), Scarnera ribalta la retorica dominante della narrazione biografica fondata sul più subdolo dei vouyerismi e sulla tendenza a calcare i giudizi e sputare sentenze manichee. Sebbene graficamente la narrazione non esca mai dalle guide – eccezion fatta per l’originale irruzione delle tavole ispirate all’opera del pittore sloveno Zoran Music – e sia caratterizzata da un tratto composto e da colori pacati, clinici nel loro bicromismo verdechiaro, l’autore riesce comunque, grazie a un’ottima sceneggiatura dai riusciti rimandi poetici, a restituire la potenza delle opere di Levi. Raccontando il chimico risolutorio, il testimone ai campi di sterminio e lo scrittore quasi esclusivamente attraverso la sua voce: tratte dai suoi libri e dalle sue interviste. L’apparato di note – non un freddo elenco bibliografico ma un compendio ricco di spunti – dimostra quanto Scarnera abbia lavorato con cognizione di causa e conosca a fondo la materia che disegna e rielabora. Anche questo libro, come Levi, è una stella tranquilla con una maschera di fil di ferro poggiata sul volto e un universo che lo circonda, gli entra dentro, fino all’attimo prima che un lampo disegni l’esplosione. Noi lettori e lettrici, di Scarnera e di Levi, non siamo altro che il pianetino accanto a quella stella, lo stesso che l’astronomo peruviano Ramon Escojido – nel racconto omonimo di Levi Una stella tranquilla – osserva impaziente. Scarnera da astronauta-giornalista, ha osservato da vicino quella stella, l’ha esplorata, e ci ha restituito un resoconto importante per comprendere in parte (anche questo è rispetto: fermarsi) le profondità della sua calma apparente.

Cosmo

Cosmo

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Una stella tranquilla

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