schiavi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 I don’t live today: scene dalla guerra di classe in America (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/06/24/i-dont-live-today-scene-dalla-guerra-di-classe-in-america-e-non-solo/ Wed, 24 Jun 2020 21:01:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60919 di Sandro Moiso

Will I live tomorrow? Well I just can’t say But I know for sure I don’t live today (I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria [...]]]> di Sandro Moiso

Will I live tomorrow?
Well I just can’t say
But I know for sure
I don’t live today

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)

Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria vittoria definitiva della propria classe su quella degli oppressi.
Le notizie di tali eventi hanno fatto rapidamente il giro del mondo e, esattamente come le lotte contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta, hanno infiammato le piazze dei paesi occidentali e di altri continenti.

La forza delle manifestazioni, il timore suscitato dal loro rapido diffondersi, la capacità di risposta politica dimostrata dai manifestanti (in grado di utilizzare tanto la violenza quanto l’abilità di influenzare mediaticamente e politicamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale), la strategia messa in atto collettivamente nelle strade e nelle piazze hanno costituito una brutta sorpresa per un potere politico e finanziario che da anni si pensava ormai vincitore nel confronto con i subordinati di ogni colore e credo.

La richiesta improvvisa e radicale dello scioglimento delle forze di polizia o almeno di un loro radicale ridimensionamento e di una sostanziale revisione dell’uso della forza ad esse consentito è stato un passo di portata storica, non soltanto per i movimenti americani ma anche per quelli che in ogni angolo del mondo si oppongono ormai da anni alle violenze poliziesche e, più in generale, dello Stato nei confronti di chi difende, sul fronte opposto, gli interessi di classe, ambientali, di genere e appartenenza culturale e etnica. Defund the police è diventato uno slogan politico che potrebbe avere, anche qui da noi, una funzione niente affatto secondaria per rilanciare il dibattito pubblico sul ruolo attivo delle forze dell’ordine nella repressione sociale e nella creazione di autentici casi giudiziari, come ad esempio in Val di Susa nei confronti del movimento NoTav.

La sorpresa con cui è stata accolta la richiesta da diverse amministrazioni locali statunitensi, la confusione in cui sono rimasti intrappolati i vertici militari e politici manifestano non soltanto un vacuo ‘pentimento’ per le violenze subite da secoli dalla comunità afro-americana, ma anche la crisi sociale, politica ed economica in cui si dibatte ormai da tempo la maggior potenza imperialista dell’Occidente. Una crisi di cui abbiamo parlato già più volte su Carmilla, destinata inevitabilmente a sfociare in un nuovo conflitto globale per il contollo dell’economia planetaria oppure in una nuova guerra civile di cui da tempo si parla negli ambienti politici e culturali statunitensi. Guerra civile che già da anni ispira, anche soltanto metaforicamente, molte trame della produzione letteraria, cinematografica e fumettistica statunitense.

Guerra civile a venire (o forse già in atto) che ha prodotto un immaginario che già la “comprende” e che, a sua volta, spinge, nemmeno più troppo inconsciamente, verso una sua concreta deflagrazione.
Guerra civile che, proprio in quanto tale, non può essere animata e agita da due soli attori, come la concezione tradizionale dello scontro di classe vorrebbe. Le guerre civili infatti decidono di come le società e le economie dovranno essere ristrutturate una volta concluse e una volta emerso il vincitore.

Così fu per la guerra civile americana, durante la quale il presidente repubblicano Abramo Lincoln guidò la costruzione di un’America industriale sulle ceneri di un’altra America agricola, schiavista e dipendente dalle esportazioni verso l’impero britannico. In cui la questione della schiavitù e dell’oppressione divenne dirimente soltanto a partire dal 1863, con il proclama con cui il presidente del Nord abolì la stessa nella speranza che la rivolta degli schiavi mettesse in crisi il Sud, fino ad allora vincente nello scontro militare. Vittoria finale del Nord cui la classe operaia dello stesso, anche sotto l’invito dei socialisti ispirati da Karl Marx e Friedrich Engels, aveva dato un significativo contributo in termini di arruolamento e partecipazione, non tanto per la liberazione degli schiavi afro-americani, quanto piuttosto a favore di uno sviluppo industriale nazionale che permettesse e favorisse lo sviluppo della stessa classe e il miglioramento delle sue condizioni di vita e di partecipazione democratica alla vita politica nazionale.

Ecco, proprio quella guerra civile ci permette di cogliere l’essenza di tutte le guerre civili: più attori in lotta sullo stesso campo, divisi oppure uniti da interessi che talvolta coincidono e ancor più spesso divergono.
Capitalisti industriali del Nord, banchieri, grandi proprietari terrieri del Sud, piccoli proprietari terrieri degli Stati confederati, schiavisti, abolizionisti, afro-americani schiavi oppure liberi nelle principali città del Nord, operai industriali, socialisti, repubblicani, democratici (questi ultimi all’epoca rappresentanti della proprietà terriera del Sud) furono infatti gli attori principali di quel dramma.

La vittoria dei primi dell’elenco delineò il destino di grande potenza degli Stati Uniti, gli schieramenti politici successivi, gli allineamenti di classe rispetto agli interessi nazionali, odii e conflitti mai rimarginati ma, soprattutto, non risolse il problema della sottomissione degli afro-americani al potere bianco che, comunque, da quella guerra non fu minimamente scalfito o indebolito, ma piuttosto rafforzato da alleanze (ad esempio quello tra gli interessi economici del gran capitale e quelli dell’aristocrazia operaia del Nord) semplicemente impensabili prima di allora.

No sun comin’ through my windows
Feel like I’m livin’ at the bottom of a grave

(I don’t live today – Jimi Hendrix, 1967)

Anche la Grande Crisi degli anni Trenta non contribuì ad un ravvicinamento tra gli interessi dei lavoratori, dei piccoli contadini bianchi impoveriti e quelli della comunità afro-americana. Troppo vicine risultavano, soprattutto al Sud, le ferite lasciate ancora aperte dalla guerra civile; troppo nazionalista risultava ancora la politica di una sinistra americana che incoraggiava gli operai bianchi a partecipare allo sforzo collettivo in vista dello scontro militare con le potenze del male, rappresentate all’epoca da Germania, Italia e Giappone (anche se ai vertici dell’establishment economico e politico statunitense non poche erano le simpatie per quei regimi politici) mentre lo stalinismo spingeva i ‘neri’ alla creazione di un proprio stato autonomo nel Sud degli Stati Uniti, basato unicamente sul presupposto della maggior presenza di discendenti degli schiavi, in stati come l’Alabama, la Georgia e il Mississippi, rispetto alla popolazione ‘bianca’.

In realtà la crisi della segregazione razziale ebbe inizio soltanto un secolo dopo, negli anni Sessanta del ‘900, a seguito di una crisi di coscienza politica sviluppatasi tra gli anni della Nuova Frontiera di kennedyana memoria e la critica del macello imperialista in Vietnam, che vide comunque protagonisti, oltre agli afro-americani, gli studenti, gli intellettuali e una parte dei reduci di quella guerra più che i lavoratori della classe operaia o della classe media bianca. Ancor aggrappati, questi ultimi, ad un sogno americano che per gli altri andava rapidamente disfacendosi nella repressione poliziesca dei movimenti giovanili, nei ghetti delle metropoli e nelle paludi del Sud-est asiatico. Soltanto là dove la componente afro-americana era predominante, come nel caso di Detroit, la classe operaia bianca si unì ai neri nella lotta, che ebbe comunque sempre al suo centro rivendicazioni inerenti l’autonomia di classe, il lavoro e le sue condizioni salariali ancor più che i diritti civili1.

La vera novità di queste ultime settimane, invece, è data dal fatto che le proteste hanno coinvolto soggetti diversi, sia dal punto di vista etnico-culturale che di classe, vedendo uniti nelle protesta la comunità afroamericana (che rappresenta circa il 12% della popolazione statunitense) insieme a quella ispanica, nativa americana, asiatica e almeno ad una parte di quella bianca. Un fatto sicuramente inedito per le proporzioni che ha raggiunto nella partecipazione alle proteste.

D’altra parte l’omicidio del quarantaseienne George Floyd, seguito a distanza di pochi giorni da quello del ventisettenne Rayshard Brooks da parte della polizia di Atlanta sono stati non soltanto gli ultimi casi di una catena di violenze e prevaricazioni di cui la comunità afroamericana e vittima da sempre, ma anche le classiche gocce che hanno fatto traboccare un vaso già colmo.

La crescita abnorme delle disuguaglianze sociali nel corso dell’ultimo decennio ha cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. La precarizzazione delle vite dei lavoratori e l’impoverimento della middle class sono state ulteriormente aggravate dall’epidemia di Covid-19 che ha colpito in maniera sproporzionata la popolazione nera e, in genere tutte le fasce più deboli della popolazione. Creando le condizioni per una tempesta perfetta.

Al 21 giugno gli Stati Uniti risultano essere infatti il paese maggiormente colpito dall’epidemia con con 2.255.119 casi e 119.719 decessi. In un contesto in cui il settore dell’assistenza sanitaria costituisce:

il più grosso fallimento del sistema economico americano. Un disastro che, oltre a provocare un numero infinito di drammi individuali, lacera pericolosamente il tessuto sociale mettendo con le spalle al muro un ex ceto medio già molto impoverito e accentua ulteriormente le disuguaglianze estreme dell’America del Ventunesimo secolo. E quando le disuguaglianze si misurano non con gli squilibri di reddito ma con la differenza tra vivere e morire, le cose, evidentemente, cambiano.[…] I racconti commoventi o che suscitano rabbia sono infiniti: Pazienti in lotta con il cancro che si sono visti negare la chemioterapia per via di una polizza sanitaria che copriva solo il primo ciclo; malati terminali costretti, tra mille sofferenze, a combatter con i call center della propria assicurazione per negoziare qualche rimborso; migliaia di famiglie andate in bancarotta perché non in grado di pagare il prezzo esorbitante dei trattamenti medici erogati dal pronto soccorso. Il motivo è che in America, oltre alle aziende, possono dichiarare fallimeto anche i singoli individui: l’impossibilità di far fronte alle spese mediche è la prima causa di bancarotta2

Immaginiamo come tutto questo si sia incrociato con la pandemia e aggiungiamo il video di nove minuti girato da una ragazza di 17 anni che in poche ore ha fatto il giro del mondo con un effetto dirompente e, circa 48 ore dopo, il fuoco che ha distrutto il terzo distretto di polizia a Minneapolis, che ha invece prodotto l’immaginario della protesta contro le ingiustizie e il razzismo.

“Col passare dei giorni e delle settimane, la narrazione della vera natura della rivolta continuerà a essere discussa” scrive un cronista che ha seguito da vicino la prima settimana a Minneapolis. “[…] Non puoi fare un censimento durante una rivolta, ma il mio resoconto personale è che i giovani in prima linea sono stati sproporzionatamente neri e marroni, per lo più non affiliati a un’organizzazione ufficiale.“
Ma la vera importante novità sono le seconde linee: li’ trovi anche ispanici, latinos, bianchi, asiatici, nativi americani, donne e persone anche anziane3.

A tutto ciò va poi ancora aggiunto che:

Tra il 1998 e il 2015 gli stabilimenti manifatturieri negli Stati Uniti sono passati da 366.249 a 292.825; soprattutto, il numero delle fabbriche con più di 1000 dipendenti si è quasi dimezzato
(da 1504 a 863) e quello delle fabbriche con 500-999 dipendenti si è ridotto di un terzo (da 3322 a 2072). A sua volta il numero dei posti di lavoro nel settore manifatturiero è passato da 18.640.000 alla fine del 1980 a 17.449.000 nel dicembre 1998, a 12.809.000 nel dicembre 2018, mentre la popolazione passava da poco più di 227 milioni nel 1980 a quasi 276 milioni nel 1998 e a 327 milioni nel 20183.
La seconda rivoluzione industriale aveva creato le grandi città statunitensi, la terza le ha distrutte.
[…] Tra il 1975 e il 2017 il PIL reale degli Stati Uniti è passato da quasi 5500 miliardi a poco più di 17.000 miliardi e la produttività è cresciuta di circa il 60%, ma i salari orari reali di gran parte dei lavoratori sono rimasti invariati o si sono addirittura abbassati. In altre parole, «per quasi quattro decenni una minuscola élite si è accaparrata quasi tutti i guadagni derivanti dalla crescita economica». Il che testimonia, tra l’altro, che i partiti che si sono alternati al potere negli ultimi decenni – «la politica», con poche eccezioni individuali – hanno avuto la non volontà di legiferare a protezione degli strati mediobassi, cioè della maggioranza della popolazione, e hanno mostrato subalternità agli interessi della piccola minoranza dei potentati economici e finanziari.

L’impressionante aumento di ricchezza dei ricchi[…](ha) cancellato molte certezze su presente e futuro di singoli e famiglie. E l’insicurezza prolungata ha prodotto a sua volta estraniamento, isolamento e disperazione. I suicidi sono aumentati del 24% tra il 1999 e il 2014; nello stesso arco di tempo, il tasso di suicidi è cresciuto del 63% per le donne tra i 45 e i 64 anni e del 43% per gli uomini della stessa età. Il loro numero è passato da 29.199 del 1999, a 42.773 del 2014, a 47.173 nel 2017 (quando le morti per alcol e droghe sono state più di 100.000). Infine, il fatto che l’arricchimento dei ricchi sia continuato durante la cosiddetta Grande recessione iniziata nel 2008, ha generato nuove frustrazioni, suscitato risentimenti e minato i pilastri della stessa tradizionale fiducia degli statunitensi nella loro democrazia in quanto prassi sociale informale e condivisa, prima ancora che impalcatura istituzionale.4

A questo punto è facile comprendere come le proteste e i riot che sono seguiti al brutale omicidio di George Floyd in quasi tutti gli stati della federazione, vanno ben oltre la pur fondamentale lotta contro la discriminazione razziale e pongono, invece e in maniera lampante, una questione socio-politica che, forse per la prima volta nella storia americana, potrebbe unificare le differenti componenti etniche in unico, autentico melting pot di classe.

Naturalmente, si è cercato fin da subito di vedere nelle rivolte un complotto dei suprematisti bianchi (tornando all’inveterata tradizione degli opposti estremismi che serve sempre a dipingere come fascista o populista qualsiasi forma di lotta non immediatamente inquadrabile nelle maglie istituzionali)5, ma è indubbio che la pressione sociale negli USA è salita a livelli critici a causa della crisi economica da Covid-19, che ha prodotto nel giro di poche settimane un aumento vertiginoso di richieste di nuovi sussidi di disoccupazione, aumentate di circa 40 milioni.

Anche se la maggioranza dei nuovi disoccupati è probabilmente da ricercare nei settori lavorativi contraddistinti dal precariato e vedono coinvolti soprattutto lavoratori e lavoratrici appartenenti alle minoranze etniche e ai millennial bianchi (i quali ultimi hanno visto ridursi del 16% le loro possibilità occupazionali soltanto tra marzo e aprile6), è altrettanto indubbio che tale situazione ha aperto un ulteriore baratro di fronte agli occhi di quella classe media bianca, operaia e non, che già dal 2008 ha imparato cosa significhi perdere rapidamente non solo il posto di lavoro, ma anche la casa e qualsiasi altro tipo di garanzia sociale ed economica (risparmi e investimenti nei fondi pensionistici privati in primis).

Ecco allora che se nel Michigan lavoratori e miliziani bianchi armati avevano occupato il parlamento dello Stato armi alla mano, nei giorni successivi alcuni gruppi di boogaloo boys (militanti di formazioni armate di varia natura e non sempre apparteneti soltanto alla destra bianca) hanno manifestato solidarietà con la morte di George Floyd, in nome di una comune lotta (boogaloo è, né più né meno, che un sinonimo gergale per guerra civile) contro lo Stato federale, le sue leggi, i suoi apparati di sicurezza e la sua volontà di controllare la diffusione delle armi a discapito del secondo emendamento della Costituzione americana7.

Certo in tale manifestazione di “solidarietà” sono rintracciabili elementi di opportunismo e di provocazione, forse solo un autentico bluff, ma non dimentichiamo mai che, soprattutto tra le frange impoverite dei piccoli farmers tali posizioni estreme, di destra e armate, hanno preso piede da decenni8 proprio a partire dal venir meno di qualsiasi speranza in un ulteriore miglioramento delle proprie condizioni economiche a seguito di un sempre maggior indebitamento nei confronti delle banche, oggi accompagnato spesso dai danni causati in molti territori, ancora utilizzati per l’agricoltura e l’allevamento, dalla pratica del fracking, ovvero della fratturazione idraulica del sottosuolo per la ricerca e l’estrazione del petrolio e dello shale gas.

E’ una geografia politica, mentale e spaziale estremamente frantumata quella degli Stati Uniti attuali.
Un mosaico impressionista di emozioni, rivendicazioni, miseria e rabbia che spesso assume i contorni della dichiarazione di zone liberate. Dalla attuale Zona Autonoma di Capitol Hill a Seattle alla ciclica dichiarazione di indipendenza di zone rurali, caratterizzate dalla rivolta contro il prelievo fiscale e l’austerity di stampo governativo, che hanno contraddistinto la storia della federazione americana dalla Shay’s Rebellion del 3 febbraio 1787 fino ai giorni nostri9.

Stiamo attenti, molto attenti, la creazione di un fronte comune tra bianchi impoveriti, armati e arrabbiati e movimenti afro-americani, ispanici o altri ancora è altamente improbabile, ma come scriveva l’ultimo maestro dello haiku: Eppure, eppure10.
La situazione negli USA è altamente esplosiva e sicuramente i vertici politici, finanziari e militari del paese non possono escludere alcuna possibilità di sollevamento e rivolta sociale. Non a caso gli stessi vertici sembrano aver formalmente “abbandonato “ Trump per concedere ai movimenti ben più di quanto il presidente avrebbe voluto (ovvero nulla o quasi), mentre continua ad abbaiare il suo slogan di Law and Order e le sue minacce di dieci anni di galere per chi imbratta o abbatte le statue del passato colonialista e schiavista.

Lo stesso presidente, però, è ben conscio della situazione altamente instabile con cui ha a che fare e, dal chiuso del suo bunker assediato non solo metaforicamente, non smette di soffiare sull’unica risorsa che gli rimane, almeno apparentemente, per vincere le prossime elezioni: ovvero quello del razzismo e dell’odio viscerale che molti lavoratori, piccoli proprietari agricoli e membri impoveriti di una classe media un tempo fiorente, nutrono nei confronti delle banche, dello Stato federale e di una upper class di cui lo stesso Trump è, in fin dei conti, il più agguerrito rappresentante.

L’elastico delle contraddizioni sociali è ormai teso allo spasmo e qualsiasi errore tattico da parte della classe al potere e dei suoi apparati militari e repressivi potrebbe tracimare in uno scontro il cui finale sarebbe ancora tutto da scrivere. Non a caso Obama, sotto la cui presidenza gli omicidi di afro-americani non sono certo diminuiti, e tutto l’apparato del Partito Democratico spingono per cercare di racchiudere la protesta in un ambito puramente elettorale, in cui la questione dei diritti civili sia l’unica componente unificante.

Fin dalla seconda metà dell’Ottocento, a proposito dei lavoratori irlandesi sfruttati dai padroni e maltrattati dagli operai inglesi, Marx aveva ammonito i secondi, affermando che chi non è in grado di difendere i diritti altrui non è neppure in grado di difendere poi i propri. E tale monito deve continuare a splendere come una stella polare per chiunque abbia a cuore la trasformazione e il superamento del modo di produzione vigente, ma allo stesso tempo occorre che chi vuole lottare efficacemente contro lo stesso tenga presenti tutte le contraddizioni e i bisogni che lo stesso suscita tra segmenti diversi di classe e/o di classi sociali differenti.

Per fare uno scomodo esempio, riferibile all’attuale situazione italiana, sia durante l’epidemia da Covid, con l’obbligo di lavorare per i dipendenti di migliaia di imprese che non si sono mai fermate, che dopo, è qui utile ricordare quanto affermato Sergio Bologna in una recente intervista:

Bisogna inquadrare il problema nella crisi generale della middle class, il richiamo al binomio catena di montaggio/rifiuto del lavoro non serve. I giochi sono cambiati, la classe operaia industriale, si tratti di Rust Belt americana o di Bergamo e Brescia, è uno dei terreni di coltura del populismo trumpista o leghista. Qualcuno pensa di evangelizzarli predicando l’amore cristiano per i migranti, ma bisogna proprio avere la mentalità da Esercito della Salvezza per essere così imbecilli. Lì si tratta di riaprire il conflitto industriale, il tema della salute riproposto dal coronavirus può essere il perno su cui far leva.11

Ecco: il conflitto, industriale e/o sociale, può essere il terreno di coltura di una nuova e allargata strategia di classe che veda finalmente riuniti i differenti temi che agitano le rivolte di ogni tipo in nome di un superamento dell’esistente e non del suo mantenimento in vita in chiave green o pseudo-democratica e liberal. A costo di riprendere l’unico illuminista in grado di proiettarsi oltre l’Illuminismo, Jean Jacques Rousseau, occorre ancora ricordare che l’unica vera disuguaglianza tra gli uomini è quella economica, tra chi ha e chi non ha12. E che da questa, fondamentale a partire dall’invenzione della proprietà privata della terra e dei mezzi di produzione, derivano tutte le altre.

Superare la prima significherà travolgere le altre, anche se secoli di abitudini sedimentate e di incrostazioni ideologiche e religiose avranno bisogno di un certo tempo per essere cancellate del tutto. Cercare di farlo significa però, in maniera tutt’altro che utopistica, cercare di riunificare ciò che il capitale e lo Stato tendono continuamente a dividere per distogliere la rabbia dal conflitto reale e volgerla ad uno più utilmente sfruttabile ai fini del mantenimento dei rapporti di forza attuali tra le classi.

Come ha recentemente affermato Angela Davis:

“Dal mio punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla rimozione della statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza”.[…] Di recente Nancy Pelosi, presidente della camera dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi di partito hanno indossato indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano che gli era stato regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il loro obiettivo era mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale decisiva su cui il candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a far presa. “Lo hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della storia, ma non è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis con un certo distacco13.

Sia Trump che i democratici stanno soffiando su un fuoco che, però, non è soltanto elettorale, visto che chiunque dei due vinca alle prossime elezioni, avrà grosse difficoltà nel mantenere le promesse fatte e in ogni caso dovrà fare i conti con una rabbia sempre meno celata e sempre meno rimovibile dalle coscienze.

Abbiamo, come già affermato, qui su Carmilla nella serie di articoli sull’Epidemia delle emergenze14, una grande possibilità da cogliere oggi, in America e non solo, a patto di non ridurre il tutto ad una serie di sardineschi inchini e saper invece affrontare la catastrofe che già è in corso, di qua e di là dell’Atlantico.
Perché l’impossiblità di vivere oggi, per la maggior parte della specie umana, è anche la vera ragione della nostra insopprimibile forza.

I don’t, live today
Maybe tomorrow, I just can say
But a, I don’t live today
It’s such a shame to waste
your time away like this
Existing


  1. Sull’eperienza del DRUM (Dodge Revolutionary Union Movement) si veda qui  

  2. M. Gaggi, Crack America. La verità sulla crisi degli Stati Uniti, RCS Media Group, Milano 2020, pp. 57-59  

  3. https://www.infoaut.org/conflitti-globali/dollari-e-no-gli-stati-uniti-dopo-la-fine-del-secolo-americano-intervista-a-bruno-cartosio  

  4. B. Cartosio, Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del «secolo americano», DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 6 – 23  

  5. Come ha affermato il governatore del Minnesota in un articolo di R.J. Armstrong, Minneapolis senza pace: dietro la rivolta, la mano dei suprematisti, la Repubblica, 30 maggio 2020  

  6. F. Rampini, “Generazione sfortunata”. E i Millenial bianchi si saldano alla rivolta, la Repubblica, 9 giugno 2020  

  7. Si veda R. Menichini, Camicie hawaiane e mitra: la destra dei “Boogaloo Bois” in piazza per Floyd (e per la seconda guerra civile), la Repubblica, 16 giugno 2020 oppure anche https://www.bellingcat.com/news/2020/05/27/the-boogaloo-movement-is-not-what-you-think/  

  8. Si pensi soltanto al bellissimo film Betrayed (Tradita), diretto da Costa-Gavras, autore tutt’altro che di destra, nel 1988. Si consultino, inoltre: J. Dyer, Raccolti di rabbia. La minaccia neonazista nell’America rurale, Fazi Editore, Roma 2002 e J. Bageant, La Bibbia e il fucile. Cronache dall’America profonda, Bruno Mondadori, Milano 2010. Infine, per un autentico ed importante case study sulla trasformazione dal punto di vista sociale e politico di un territorio un tempo caratterizzato da una grande tradizione di lotta di classe, si veda A. Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli Editore, Roma 2011  

  9. Di cui uno dei casi più drammatici è rappresentato dalla violenta repressione della comunità “indipendente” di Waco nel Texas avvenuta nel 1993, sotto la presidenza di Bill Clinton. In tale occasione 76 persone, tra cui molte donne e bambini, bruciarono vive nel rogo che seguì all’assalto delle forze federali alla comunità, dopo un assedio durato 51 giorni. Si veda in proposito C. Stagnaro, Waco, una strage di stato americana, Stampa Alternativa, 2001  

  10. «è di rugiada / è un mondo di rugiada / eppure, eppure» scriveva Kobayashi Issa (1763-1827), dopo aver perso il figlio  

  11. S. Bologna, «E’ giunta l’ora di invocare il diritto di resistenza», il Manifesto, 25 maggio 2020  

  12. J.J. Rousseau, Origine della disuguaglianza (1754), Feltrinelli, Milano 1997  

  13. https://www.infoaut.org/approfondimenti/angela-davis-it-s-about-revolution  

  14. Oggi raccolti in Jack Orlando e Sandro Moiso (a cura di), L’epidemia delle emergenze. Contagio, immaginario, conflitto. Testi e riflessioni di Maurice Chevalier, Fabio Ciabatti, Giovanni Iozzoli, Sandro Moiso, Jack Orlando e Gioacchino Toni, Il Galeone Editore, Roma 2020  

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Pastorale emiliana https://www.carmillaonline.com/2017/11/09/41628/ Thu, 09 Nov 2017 22:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41628 di Giovanni Iozzoli

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Da qualche tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese. O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova da almeno due decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione. Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia compreso tra Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre miliardi di euro, realizzati da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina produttiva potente che importa dagli allevamenti del nord Europa 200 camion di suini macellati ogni giorno – la materia prima che, lavorata in loco, rifornirà tutti i grandi marchi nazionali ed esteri.

Il monoteismo del prosciutto regna sovrano, in questi luoghi; tra i miasmi degli stabilimenti aleggia un vago sentore calvinista – impresa e denaro come manifestazioni della benevolenza divina. Un maialino bronzeo troneggia nella piazza centrale di Castelnuovo Rangone – omaggio a se stessa, di una comunità sobria, laboriosa e danarosa, che vede il suino come metafora della vita.

Quello che è successo, negli ultimi vent’anni in questo comparto, è la nota accelerazione globale di mercati, merci e processi produttivi, che si è abbattuta drasticamente su un distretto che un tempo si sentiva vincente per qualità e specializzazione: concorrenza sempre più feroce, prezzi al ribasso, qualità a picco e pressione sempre più distruttiva sul lavoro vivo. Appalti, sub appalti, spezzettamenti, la filiera che si slabbra e si allunga come un verme. Migliaia di lavoratori, principalmente stranieri, collocati nei gironi via via più degradanti del lavoro in appalto, tra cooperative spurie, terziarizzazioni, consorzi fittizi creati dalle stesse imprese appaltatrici – ovviamente nei segmenti produttivi dove regnano fatica, nocività, rischio per la salute. Insaccati, polpettoni, prodotti precotti e surgelati di ogni ordine e grado: tutto passa dalle mani di queste migliaia di pseudofacchiniquasialimentaristi, dalla salute spesso compromessa – abbondano problemi muscolo scheletrici, polmoniti, ferite da taglio, perché qui le lavorazioni più essenziali si fanno ancora di gomito e coltello.

Ma quella del distretto carni non è la solita minestra avvelenata del panorama italiano – cooperative che non sono cooperative, facchini che non sono facchini, contratti che non sono contratti. Non è solo una storia di appalti fasulli, elusione fiscale e capannoni della logistica persi nelle nebbie brumose della campagna padana. No, qui si sta parlando di un palcoscenico rinomato, dove va in scena ogni giorno la farsa dell’eccellenza agroalimentare italiana: un concentrato di bugie, affarismo, arroganza e retorica tricolore – straprovinciale e global, allo stesso tempo.

Il distretto carni rappresenta la vetrina delle scelleratezze italiane degli ultimi due decenni, un esempio della svalorizzazione del lavoro, della mortificazione operaia. E delle viltà, delle complicità, della subordinazione della politica e del sindacato, della retorica del primato dell’impresa come valore unanimemente condiviso. Perché questi territori, nell’immaginario, amano rappresentarsi come i luoghi dell’eccellenza alimentare, il richiamo ancestrale e fasullo alla terra, alla genuinità della tradizione, al mangiar sano, al mulino bianco e al vivere comunitario.

Tutta fuffa, tutto marketing. In questo comparto (come ovunque) la risorsa essenziale non è la genialità imprenditoriale o il retaggio di mestiere: il fattore chiave è il lavoro vivo, le braccia, l’intelligenza e la disperata disponibilità indotta dalla miseria. Si, la miseria, la vecchia, cara indispensabile miseria, altro che eccellenze: perché solo la miseria può indurre migliaia di nuovi schiavi a rinchiudersi in capannoni e celle frigorifere a rifilare, disossare, tagliare – ballando, a salario pieno, intorno alla soglia di povertà. La miseria è il miglior motivatore professionale, la leva perenne di ogni intrapresa economica. Industria 4.0? Da queste parti si preferiscono ingredienti antichi e tradizionali: sfruttamento, gerarchia, ricatto e sottomissione. Un tempo, per i locali, l’industria norcina fu davvero elemento di elevazione sociale: macelli, laboratori e fabbriche furono tra i templi del compromesso sociale emiliano. Oggi non c’è tempo per favole rassicuranti. Sei euro lorde all’ora, una settimana a casa l’altra lavorare 60 ore – anche 12 ore filate, fino a pisciarsi addosso o mangiare in piedi come i cavalli. E a ogni cambio appalto si sfoltiscono i ranghi dei sindacalizzati e dei riluttanti.

È una storia di pervicace illegalità, quella del distretto carni. Un morto ammazzato nel 2001 (fanno capolino anche i soliti servizi segreti), pestaggi, minacce, auto bruciate, criminali di ogni risma che attraversano la vita, e spesso i cancelli, di aziende prestigiose. Una pastorale emiliana (e segnatamente modenese) dove molti attori diversi continuano immutabilmente a cantare la loro parte – incassando milioni o sputando sangue -, comunque seguendo una partitura criminale efficace, per quanto tremendamente precaria. Il giorno che qualcuno si decidesse ad applicare (almeno un po’) le leggi della Repubblica, il mito dell’eccellenza agroalimentare italiana crollerebbe miseramente – e questo vale per tutta la cigolante catena nazionale, dai raccoglitori di pomodori del foggiano a questi strani facchini ghanesi, cinesi, filippini e albanesi, le cui mani callose (senza retorica) custodiscono il buon nome e la credibilità del marchio made in Italy che finisce sulle tavole di mezzo mondo. E allora, vediamoli, i protagonisti di questa moderna pastorale di provincia.

I PADRONI
Qualcuno è di nobile schiatta imprenditoriale, qualcuno è diventato un global player, qualcuno è un artigiano arricchito, qualcuno ha la mentalità truce del macellaio che sorveglia il negozio: tutti devono correre al ritmo spietato della concorrenza, che significa spremere lavoro e abbassare costi, pretese e qualità. Negli anni 90 hanno venduto tutti l’anima al diavolo, anche se oggi si ostinano a firmare protocolli etici. Aumentare i margini intensificando lo sfruttamento, è l’unica arma rimastagli. Sanno fidelizzare la gente, pagando in nero gli accoliti per scagliarli contro i lavoratori in appalto. Pagano anche giornalisti, pubblici funzionari, eserciti di consulenti, finanziano iniziative pubbliche, civiche, sportive, foraggiano sindaci costantemente distratti, rispetto alle brutture sociali che amministrano. Non sono mai stati soli, nella continua opera di evasione, elusione, violazione di norme e contratti. Queste pratiche non sono invenzione estemporanea di qualche imprenditore spregiudicato: mamma Confindustria veglia su tutti loro e non si è mai dissociata da nessuno dei suoi prosciuttai.

LE CENTRALI COOPERATIVE
Prendono le distanze dal sottobosco malavitoso, per tutelare il buon nome della “vera cooperazione”. Ma se il termine cooperativa è diventata una parolaccia è anche colpa loro, delle loro omissioni e complicità. Del resto i grandi gruppi cooperativi ufficiali hanno da tempo “marchionnizzato” le loro relazioni interne e i rapporti sindacali. Le cooperative spurie sono solo il bordo sfrangiato e impresentabile di un mondo geneticamente modificato, che comincia già dietro i banconi della Coop. Non è un caso che il Ministro del Lavoro nell’epoca del Jobs Act, venga da quella giungla.

LE COOPERATIVE SPURIE
Le mafie hanno scoperto questo mondo negli anni 90 e se ne sono innamorate. Costruire aziende cooperative, riciclare, vincere finti appalti, infilare al lavoro i picciotti in semilibertà. E finalmente entrare a testa alta, senza estorsioni, dentro i circuiti ufficiali del settore, insediarsi legittimamente in territori floridi, sottraendosi ai capricci mutevoli del ciclo dell’edilizia. Una volta i gruppi dirigenti di queste cooperative erano composti direttamente da pregiudicati casertani e calabresi. Oggi hanno imparato meglio a usare i prestanome, anche se magari le sedi legali sono gli studi di avvocati specializzati nel 416 bis. Naturalmente non tutte queste cooperative hanno origine e matrice criminale; nell’affare ci si è buttata tanta gente sveglia che da anni alimenta un tourbillon inafferrabile di sigle, consorzi, concordati, fallimenti, spesso riconducibili agli stessi capicordata e alle medesime aziende appaltatrici. Tecnicamente una “cooperativa spuria” è un’associazione a delinquere. Non dovrebbe occuparsene l’Ispettorato del Lavoro.

I SINDACALISTI
Ne sono passati tanti, dentro e davanti quei cancelli. Non si deve essere ingenerosi o qualunquisti, molti danno l’anima per organizzare e dare sbocco alla rabbia sorda della gente – se si va domattina, alle 5, ai cancelli della Castelfrigo o della Alcar, li si trova là davanti, col megafono e la bandiera. Ma tanti sono stati anche i vili, gli imboscati, gli impotenti che allargavano le braccia davanti a ogni abuso, quelli che limitavano la loro funzione alle denunce e agli esposti. Per non parlare di quelli che si sono prestati a fare da consulenti occulti nell’interesse delle aziende. Se avesse incontrato davanti a sé, il muro di un movimento sindacale serio e autorevole, tutta questa metastasi non si sarebbe mai estesa negli anni.

I QUESTORI
Hanno messo le forze di polizia al servizio delle aziende, a presidio della santa continuità produttiva, come se la Questura fosse l’Agenzia Pinkerton (che almeno non era pagata dai contribuenti). Se avessero “attenzionato” seriamente il comparto carni, oggi nelle carceri di Sant’Anna dovrebbe esistere un “padiglione cooperatori”. Particolarmente deplorevole il metro e la misura delle scelte di ordine pubblico: perché da queste parti, di solito, non si usano i manganelli contro I presidi sindacali; ma se a farli sono questi lavoratori un po’ scurotti (e si presume, meno tutelati), la celere si sente autorizzata a rompere ogni tabù – e anche qualche testa. Come se a questi proletari non si riconoscesse neanche il diritto minimo di sentirsi pienamente classe operaia.

I PM
Hanno lavorato con foga, nei mesi scorsi, per liberare le aziende dalla morsa dei sindacalisti molesti. L’inchiesta contro Aldo Milani, di quale dispiegamento di uomini e mezzi ha potuto giovarsi? Telecamere nascoste, microfoni, intelligence, agenti provocatori e trame raffinate. Chi ha mai visto un magistrato indagare con la stessa determinazione sul settore carni e le sue derive criminali? In occasione dell’arresto del leader del SI Cobas, la Procura ha ufficialmente esposto anche il suo teorema: lo sciopero e il picchetto, in una certa misura, possono essere inquadrati sotto il profilo criminale dell’estorsione. Bloccare un’azienda per spillare quattrini a un padrone, è un’azione delittuosa. Quando la politica muore, entrano in scena i corpi armati dello Stato (tale è la magistratura, non dimentichiamolo mai), che vanno a prendersi il loro spazio di supplenza e direzione politica, rilasciano proclami a reti unificate, scavalcano l’ectoplasma di amministratori e partiti, stabiliscono in proprio ciò che è lecito fare o non fare, nella Repubblica del Maiale.

I CONSULENTI
Ogni mafia ha bisogno dei suoi colletti bianchi. La mafia delle cooperative – e dei suoi committenti industriali – può contare su una pletora di avvocati, consulenti, commercialisti, facilitatori di ogni tipo. Parassiti ben pagati che studiano giorno e notte il modo per eludere leggi, fisco e contratti. Sono professionisti seri, sobri, abituati al basso profilo; magari vivono in questi stessi territori, dentro villette a schiera senza pretese. Fingono di ignorare quello che succede concretamente dietro le piramidi societarie e le trappole antioperaie che progettano. Probabilmente, per giustificare se stessi, nutrono anche una qualche confusa idea di progresso e di necessità dello stato di cose presenti. Una lumpen-borghesia delle professioni che spiega molto di questo paese, da Sud a Nord.

I DIRETTI
Sono I lavoratori assunti dalle imprese, magari con contratti stabili a tempo indeterminato. Sono quelli che fanno più pena di tutti sul piano morale. Ormai si tratta di minoranze dentro aziende che realizzano i volumi produttivi solo grazie al personale delle finte cooperative. Stanno abbarbicati ai loro lavoretti, al loro minuscolo privilegio, guardando ai colleghi del piano di sotto, come mine vaganti che possono mettere in discussione tutto il baraccone. Sono spesso immigrati anche loro, meridionali piovuti qui nei tristi anni 80, con mutui pesanti e figli precari da mantenere. Entrano a testa bassa, la mattina, davanti ai cancelli presidiati dalle lotte. Sanno che quei loro quasi colleghi hanno ragioni da vendere. “Ma così va il mondo: e meno male che non tocca a me…”. La mancanza di dignità a cui questi padri di famiglia egoisti si sottopongono è la parte peggiore della storia.

GLI AUTOCTONI
Sono commercianti, impiegati, spesso anziani pensionati che nella vecchia industria norcina hanno lavorato duramente e guadagnato onorevolmente. Quando i cortei dei nuovi schiavi del prosciutto passano in centro, li guardano, dalle soglie dei bar e dei negozi e scuotono la testa; pensano che questi nuovi arrivati abbiano poca voglia di lavorare, accampino troppe pretese, reclamino troppi diritti. Intanto gli affittano a caro prezzo stamberghe umide in centro, o vecchie masserie in campagna – perché del facchino “non si butta via niente”, si deve spremerlo in fabbrica e fuori, con metodo e scrupolo.

I POLITICI
Pallide figure che cominciano ad affacciarsi ai cancelli degli stabilimenti in lotta, in vista delle prossime elezioni. Sanno di non contare più niente – dichiarazioni di intenti, tavoli, protocolli – , un vecchio mondo caduto in disuso. Esprimono la pochezza caotica dei tempi: un esponente può esprimere “preoccupazione per i licenziamenti” e un altro può tuonare contro le “illegalità dei picchetti”, magari stando nello stesso partito. I facchini ghanesi o filippini, li guardano con perplessa ironia.

LE ROTATORIE
Sono l’elemento più innocente della zona, non fanno male a nessuno, non possono neanche tanto peggiorare la tragica bruttezza dei luoghi. Chissà com’erano le campagne, qui, un po’ di decenni fa, si fa fatica anche a immaginarlo. Dopo aver infilato capannoni grigi dappertutto, negli anni scorsi, oggi prevale la passione per le rotatorie di ogni ordine e grado. Danno al forestiero l’idea di un moto perpetuo in cui non ci si muove mai davvero. Non servono a niente. Sono buone solo per farci dei blocchi stradali.

GLI SCHIAVI RIOTTOSI
E poi c’è finalmente la contropastorale, il coro stonato e furente di Ahmed, Tashi, Antonu, Chen, Salvatore, Frank e molti altri pirati del prosciutto che, coltello in mezzo ai denti, si stanno lanciando contro le vestigia scassate del modello emiliano. Si ribellano perché non hanno altra scelta. Sono le vittime sacrificali del futuro luminoso che ci attende, i neo-schiavi dell’economia servile 4.0. Perché non c’è sviluppo o rivoluzione produttiva senza un esercito di servi pronti a tutto (è per quello che i ricchi, di solito, sono genuini no border e sostenitori dell’Open Society). Ma questi ragazzotti hanno la testa dura, non sono venuti fin qui per immolarsi sull’altare del Made in Italy, se ne fottono del Gran Biscotto, dei sofficini e del polpettone italiano. Hanno già dato abbastanza. Nel centesimo anniversario dell’Ottobre, stanno imparando a volgere le loro baionette da disossatori verso i generali. In questo momento sono loro l’unica vera eccellenza che esprime il territorio.

 

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Nemico (e) immaginario. Da dove diavolo vengono e cosa accidenti sono tutti questi zombi? https://www.carmillaonline.com/2017/03/29/36629/ Tue, 28 Mar 2017 22:01:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36629 di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha [...]]]> di Gioacchino Toni

zombie-handDai ribelli haitiani al Manifesto di Marx ed Engels fino al desiderio di un apocalittico isolamento radicale

«Il morto mostra come saremo; lo zombi ci mostra come siamo, o quantomeno, a seconda se si è più o meno pessimisti, come rischiamo di diventare […] È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» Cateno Tempio

«Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è […] un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» Tommaso Ariemma

«la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima […] quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e […] allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla» Rocco Ronchi

Riprendiamo, ancora una volta, il volume AA.VV., Critica dei Morti Viventi (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già preso in esame nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“] per soffermarci sui alcuni scritti che, in un modo o nell’altro, vanno alla ricerca delle radici dell’immaginario zombi (Cateno Tempio e Tommaso Ariemma) e tentano di definire cosa i living dead siano (Rocco Ronchi).

  • Dalla parte degli zombi

«Lo zombi è una figura endemica della nostra epoca e si è diffuso proprio come l’epidemia che lo vede di solito protagonista: in maniera capillare, in ogni angolo del mondo, cangiante, pervasivo, inquietante, senza lasciare via di scampo» (p. 92). L’epidemia zombi, sappiamo, fa la sua comparsa al cinema nei primi anni Trenta grazie ad Victor Halperin per poi esplodere sui grandi schermi nel 1968 con il primo film-zombi di George Romero ma, sostiene Cateno Tempio nel suo “Dalla parte degli zombi”, si potrebbe affermare che la figura dello zombi sia nata ben prima di assumere i connotati di figura horror propria dell’età contemporanea. «Pare infatti che la dialettica servo-padrone della Fenomenologia hegeliana sia compenetrata di spirito haitiano. La rivoluzione di Haiti fu quasi un corollario di ciò che avevano dimostrato i francesi nel 1789. O forse ne fu un effetto collaterale indesiderato, visto che alla fine si ritorse contro l’impero coloniale francese e a farne le spese fu in qualche modo addirittura Napoleone, che nel 1802 vi aveva mandato un contingente militare guidato dal cognato Leclerc. Gli schiavi neri s’erano ribellati e ambivano all’abolizione della schiavitù e all’indipendenza di Haiti, che finalmente, dopo proteste, manifestazioni e ribellioni a partire sin dal 1790, fu ottenuta nel 1804» (p. 93).

La studiosa americana Susan Buck-Morss (Hegel, Haiti and Universal History, 2009) sostiene che Hegel conoscesse le vicende haitiane e se così stanno davvero le cose «ancor più della rivoluzione francese, il movimento dialettico che ha improntato la storia politica da Hegel in poi trae origine proprio dai fatti di Haiti, ossia dalla rivolta degli schiavi neri contro i padroni bianchi. I servi sono non solo i contadini e i proletari; i servi sono soprattutto gli schiavi veri e propri, sfruttati dalla borghesia rampante dell’Europa che si dilata “spiritualmente” fino a diventare Occidente, in una determinazione concettuale che travalica i confini geografici per comprendere luoghi collocati in ogni parte del globo. Il destino storico-mondiale – temporale – della nostra cultura è questo: l’Occidente è la distensio animi del capitalismo borghese. La dialettica servo-padrone ne è la figurazione più icastica e spietata. Nella battute finali del Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels ricalcano la dialettica hegeliana, sostituendo al servo e al padrone rispettivamente la classe oppressa e la classe dominante. Ciò che per Hegel era, diciamo così, un fatto di coscienza individuale, per Marx ed Engels diventa un fatto di coscienza di classe. Ai singoli si sostituiscono le categorie di appartenenza. Ma il meccanismo rimane intatto. Per Hegel, il servo si sottomette per non morire. Tuttavia, non può essere più riconosciuto come “persona” perché nella rinuncia alla propria libertà – a vantaggio del salvare la pelle – non ha raggiunto la verità del riconoscimento della propria persona come autocoscienza autonoma, in quanto sottomessa al padrone. Il servo non è una “persona”: è solamente un non-morto. Il padrone, per contro, finisce con il trovare la verità della propria coscienza autonoma nella coscienza servile, perché è da essa che trae sostentamento e godimento. Così ogni coscienza passa nel suo opposto: il signore si fa non autonomo, quindi servo; quest’ultimo si convertirà nella vera autonomia. Quasi alla fine del Manifesto si assiste a un processo analogo. Alla classe oppressa devono essere assicurate le condizioni di sussistenza. Tuttavia, con il proletariato moderno si assiste al fenomeno per cui esso cade sempre più in basso e diventa sempre più povero. Per questo motivo, secondo Marx ed Engels, la borghesia non può più essere la classe dominante, perché non è in grado di garantire la vita ai propri schiavi, ai proletari. Questi ultimi hanno dovuto provvedere a “nutrire” la classe dominante dei padroni. Ma ora, gli schiavi proletari sono talmente poveri da essere sprofondati in condizioni tali che i padroni si vedono costretti a doverli nutrire anziché essere nutriti da loro. I padroni nutrono i servi. Ossia, i servi, metaforicamente, si nutrono dei padroni» (pp. 94-95).

Sarebbe dunque grazie alla ribellione haitiana degli schiavi che l’Occidente ha iniziato a considerare il servo come un “non morto” che il padrone si trova a dover nutrire. A partire dalla ribellione haitiana, attraverso Hegel, Marx ed Engels, si arriva agli zombi come “non morti” che si nutrono di altri individui. «Lo zombi, dunque, è uno schiavo di tipo particolare che si ribella a una classe dominante di tipo particolare, ossia uno schiavo moderno (nero o proletario) che si ribella alla classe dei padroni bianchi, borghesi e capitalisti. Il concetto di zombi, così come inteso nella cultura occidentale, nasce circa un secolo prima della sua rappresentazione artistica in senso lato. Il rivoluzionario è un non morto» (p. 95).

intheflashDunque, continua Cateno Tempio, nella contemporaneità il comunista è un morto vivente e con la progressiva scomparsa dei partiti comunisti, a partire dal crollo sovietico, il contesto zombi muta e le narrazioni sugli zombi spesso danno l’apocalisse come già avvenuta ed il risultato è la convivenza con i living dead.

Nella serie In the Flesh (ideata da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell, 2013-2014) è stata trovata una “cura” per i “risvegliati”, si tratta dunque di scongiurare l’apocalisse/rivoluzione attraverso la reintegrazione dei “parzialmente morti” non soggetti ad invecchiamento ed ormai privi di appetito. «È questo il sogno ultimo del capitalismo: scongiurare l’apocalisse comunista, reintegrare i lavoratori fuoriusciti, assorbirli all’interno del sistema e non doverli neppure nutrire. L’ideale capitalista è avere lavoratori parzialmente morti» (p. 95).

  • Immaginario zombi e desiderio di un apocalittico isolamento radicale

Tommaso Ariemma, nel suo “Archeologia zombi”, parte dalla constatazione che buona parte delle rappresentazioni dei morti viventi non motivano la loro comparsa; essi “ci sono già”. Da dove vengono allora questi zombi? Affermando che essi “ci sono sempre stati” si mette in discussione l’assunto di base che li vuole legati al contemporaneo ed al connubio tecnologia-capitalismo. Indipendentemente dal significato che oggi possiamo dare alla figura dello zombi non è possibile ridurre tale figura esclusivamente a tale connubio; il morto vivente ha una lunga tradizione che, suggerisce lo studioso, non può essere disgiunta dalle origini della cultura filosofica occidentale.

La figura del morto vivente è conosciuta nell’antichità. «Gli antichi filosofi ricercavano una forma di “morte in vita” – ciò che in fin dei conti era la vita contemplativa – distinta, se non addirittura opposta a un’altra forma di “morte in vita”, rappresentata dalla vita quotidiana. Un’analogia fatta dal giovane Aristotele è decisamente istruttiva su questo punto» (p. 36). Al fine di chiarire il rapporto tra anima e corpo Aristotele fa riferimento ad un tipo di tortura praticata dai pirati etruschi che prevedeva che un vivo venisse legato in maniera speculare ad un cadavere in putrefazione. L’individuo ancora in vita veniva alimentato fino a quando la superficie del suo corpo, a causa del contatto coi vermi, diventava indistinguibile da quella del cadavere. I due corpi venivano slegati soltanto quando apparivano anneriti dalla putrefazione e per gli etruschi tale annerimento superficiale segnalava un’esposizione ontologica di un processo di decomposizione già iniziato dall’interno. Il giovane Aristotele, facendo riferimento a tale macabro supplizio, comparava il legame tra l’anima ed il corpo al legame esistente nella tortura etrusca tra corpo vivente e corpo morto. «Per il giovane Aristotele, ancora legato alla filosofia platonica, il corpo vivente non è mai semplicemente vivente. L’anima che si rapporta a tale corpo, inoltre, si trova nella stessa situazione del supplizio etrusco. In fin dei conti, per Aristotele, ogni vivente umano è un morto vivente» (p. 37).

Il pensiero antico, continua Ariemma, ha risposto alla condizione umana con «una vita contemplativa – separata il più possibile dalle perturbazioni offerte dal corpo – che è, a tutti gli effetti, un’altra morte in vita» (p. 37). Nel Fedone di Platone è ravvisabile la ricerca di una vita contemplativa «secondo la quale la morte stessa veniva intesa come una sorta di purificazione dal corpo e quindi gradita» (p. 38). A tale idea il pensiero occidentale si è ispirato per secoli e l’ideale della vita contemplativa «si è spinto al punto da decretare letteralmente una condizione dei “non contemplativi” che non può non ricordare quella degli zombi» (p. 38).

Il filosofo idealista Fichte capovolge il rapporto viventi / morti apparenti: i morti sono i non-idealisti nel loro trascinarsi per il mondo nell’involucro biologico, mentre gli autenticamente viventi sono coloro che si sono ridestati all’idealismo reale. Dunque «la vita contemplativa, l’ideale della conoscenza separata dai disturbi e dai fastidi del corpo, uno stato di morte apparente, “inventa” la morte vivente degli altri, dei non contemplativi, come stato catatonico, inautentico e ferino, proprio di chi non si è convertito alla vita per la teoria» (p. 38). Dunque, secondo Ariemma, l’immaginario degli zombi può essere considerato «il prodotto esasperato ed eccessivo, fantasia horror per eccellenza, proprio dell’ideale di vita che per secoli l’Occidente si è dato» (p. 38).

Il manifestarsi di tale immaginario ha certamente a che fare con gli sviluppi tecnologici tendenti a disincarnare gli esseri umani ma l’origine di tale sviluppo tecnologico, soprattutto nell’ambito del visivo, deriva da quella concezione greca nei confronti della vita.

zone_one_coverL’origine metafisica del fenomeno è ravvisabile secondo lo studioso tanto nel romanzo Zone One (2012) di Colson Whitehead, ove si narra di una pandemia che ha devastato la Terra trasformando gli esseri umani, che nella rappresentazione cinematografica preromeriana di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin.

«A completamento delle radici metafisiche della figura dello zombi è mancato, tuttavia, sempre un elemento: finora, infatti, le rappresentazioni che esplicitavano il morto vivente (romanzi, film, serie tv, videogiochi) mancavano di una fantasia spaziale implicita nell’avanzata degli zombi. Cosa desiderano, in realtà, coloro che sfuggono agli zombi? Desiderano un’isola. Un pezzo di terra puro, incontaminato e di difficile accesso per gli zombi. In fin dei conti, l’immaginazione di queste creature non è separabile dall’immaginare isole o posti che fungono da isola» (p. 40). Ebbene, tale esplicitazione è presente in Zone One ed essendo gli zombi «proiezioni negative della vita contemplativa, ne consegue che quest’ultima, così come l’istituzione della metafisica stessa, sono possibili e compresi proprio all’interno di una teoria dell’isola […] Il desiderio sotteso all’immaginario zombi è allora un desiderio di isolamento radicale, che ha come presupposto l’apocalisse» (pp. 40-41).

  • Ma che cosa sono i living dead?

Nello scritto “L’immagine omonima” – che funge da introduzione all’intero volume – Rocco Ronchi più che chiedersi da dove vengono i living dead, cerca di definire cosa essi siano. Secondo lo studioso i living-dead non sono definibili in base alla negazione, essi sono neutri, né vivi né morti, del vivente il dead è l’omonimo. Non essendo né vivo né morto, né umano né non umano, il dead non è identificato da nessuna negazione; del vivente il dead non è il contrario, la sua natura è pienamente affermativa ma quello che afferma è la differenza pura.

I dead sullo schermo sembrano dare immagine a quanto vi è di liminare nell’esperienza umana. Molti dei casi metaforizzati dai living dead sono accomunati dall’affiorare di «una esperienza pura, che non è esperienza di niente e di nessuno e che, non è nemmeno esperienza, almeno nel significato abituale del termine. Quando l’esperienza va in stallo, i dead possono insomma pretendere al titolo di metafora. Non diciamo forse di un uomo molto malato che è divenuto la sua ombra? Di che stiamo parlando se non del morto-vivente che albeggia in lui, ormai divenuto irriconoscibile? Se allora dovessimo rendere intuibile questa esperienza desoggettivizzata che appare in margine ad una vita che declina […] dovremmo immaginarla come un’esperienza ridotta alla sola dimensione del trauma. I dead, del resto, non hanno né corpo né volto ma solo una carne tumefatta e una faccia piagata. La violenza nei loro confronti non è forse legittimata per il fatto che tutta la loro risibile esistenza consiste, dopotutto, nel subire insensatamente dei colpi?» (p. 13).

Il motivo per cui probabilmente i dead ci sono così familiari è forse dovuto al percepire «che la nostra vita è rosa al suo interno dalla (propria) immagine omonima, che quell’immagine presto o tardi ci raggiungerà e che allora noi saremo solo immagine, cioè non saremo “noi” e nemmeno “saremo”, senza per questo essere un nulla. Il cinema ci aspetta al varco, perché già da sempre siamo fatti di cinema, cioè dell’affermazione di una differenza pura. Non è forse questa la ragione per cui gli antichi immaginavano il morire come quel quell’istante in cui l’anima, spirando, si congeda dal corpo trasformandosi in pura immagine? E si trattava di un’immagine solamente omonima, differente per natura dall’originale, un’immagine a cui, dopo l’Ade, solo il cinema ha saputo dare un’immaginaria consistenza» (pp. 13-14).


A questo link le uscite precedenti di Nemico (e) immaginario

 

 

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Nemico (e) immaginario. I living dead come prodotto di scarto del capitalismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/13/nemico-immaginario-living-dead-prodotto-scarto-del-capitalismo/ Tue, 13 Sep 2016 21:30:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33093 di Gioacchino Toni

wd-zombies56Rocco Ronchi, Zombi outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus edizioni, L’Aquila, 2015, 96 pagine, € 8,50

«Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è […] il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. […] Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (pp. [...]]]> di Gioacchino Toni

wd-zombies56Rocco Ronchi, Zombi outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus edizioni, L’Aquila, 2015, 96 pagine, € 8,50

«Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è […] il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. […] Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (pp. 49-51).

La figura dello zombi è particolarmente efficace nel dare immagine ad uno scenario apocalittico e nonostante i morti viventi della prima generazione siano lenti nei movimenti (poi si faranno ben più dinamici), la velocità di dissoluzione del mondo da essi portata è rapidissima tanto che si può affermare che la comparsa del primo morto vivente segna la fine di tutto.

Il saggio di Ronchi offre diversi spunti di analisi interessanti a proposito dei morti viventi di cui abbiamo già esaminato altri aspetti nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“. In apertura di Down of the Dead (2004) di Zack Snyder, remake del celebre film di George Romero del 1978, viene mostrato il repentino passaggio dalla tranquillità borghese ad uno scenario catastrofico che, durante i titoli di testa, si palesa attraverso un serrato montaggio di immagini di reali rivolte urbane (comprese le immagini del G8 di Genova del 2001) intervallate da alcuni fotogrammi di fiction. Gli inserti tratti dalla realtà contribuiscono a creare nello spettatore la percezione di trovarsi davvero in un mondo sull’orlo del collasso ed è per tale motivo che diversi film zombi «si aprono ricordando allo spettatore che quando nella terra dei vivi i morti cominciano a camminare, l’apocalisse è già in corso, il mondo dell’uomo è già finito» (p. 18).

Secondo l’autore se in molti film appartenenti al genere apocalittico epidemiologico persiste una speranza di risoluzione, nel cinema zombi appare tutto deciso sin dalla prima sequenza in cui compaiono i morto viventi: la loro comparsa palesa che la fine è già in corso. Ma attenzione, avverte lo studioso, gli zombi non sono una malattia ma il rovescio del mondo, sono la sua contraddizione in atto.

Nel film Day of the Dead (1985) di Romero viene chiaramente esplicitato come per eliminare il morto vivente sia necessario distruggergli la testa; qualsiasi altra amputazione non è sufficiente a toglierlo di mezzo. «Lo zombi non è un organismo, perché non è uno. È un simulacro di unità […] qualcosa che solo da lontano è, appunto, qualcosa, è una sostanza» (p. 24).

Nella sua versione americana, il living dead è l’altro, il nostro prossimo, che, da Romero in avanti, raggiunto da un morso di uno zombi diviene esso stesso uno zombi. «Lo zombi è l’altro che non partecipa più dell’unità, che ha perso, a causa di quel morso, ogni ‘comunità’ con me, un altro che non ha più nulla di comune pur essendo apparentemente simile a quello di prima» (p. 25).

In realtà, sostiene Ronchi, non esiste “lo zombi”, così come, invece, esiste “il vampiro”. Esistono “gli zombi”, al plurale «ma a un plurale che non ha più l’uno come unità di misura. Gli zombi sono ‘molteplicità senza uno’, massa oncologica» (pp. 25-26). Il vampiro, invece, compare al singolare, è un eroe romantico nato dal crollo del mondo feudale, si tratta dell’avanzo di uno splendore tolto di mezzo dall’età della macchina a vapore e dal trionfo della borghesia. Il vampiro non sopporta la luce perché è alla luce che ha luogo l’attività produttiva del mondo borghese. È un romantico, dicevamo, dunque un loser, un perdente. Al contrario lo zombi non è mai solo, è parte di una molteplicità informe in decomposizione. I morti viventi, inoltre, sostiene lo studioso, seppure spesso lenti nei movimenti, almeno originariamente, sono sempre in movimento, e questo dinamismo esprime il loro “non poter stare”. Non abitano il mondo né hanno luogo in esso.

Dunque, la differenza principale tra vampiro e zombi pare proprio essere di classe; il vampiro sarebbe un signore decaduto, mentre gli zombi sono degli schiavi. Una figura catapultata nella modernità borghese la prima, una figura costretta alla servitù la seconda. Gli zombi, sottolinea l’autore, nascono lavoratori, «sono schiavi neri probabilmente drogati per sopportare il lavoro disumano a cui vengono sottoposti per assicurare il godimento al loro padrone» (p. 33).

zombie_outbreak_coverRonchi recupera la distinzione hegeliana (Fenomenologia dello spirito) tra Signore e Servo, tra godimento e lavoro. «Lavorare è sostanzialmente trasformare per un certo tempo la propria vita in una funzione, lavorare è mettere il proprio corpo (e la propria intelligenza) all’opera. L’opera è la produzione di valore. Quando si lavora il fondamento del proprio essere è fuori di sé, è per-altro. Dove? Nel godimento del padrone, appunto. Cosa significa, allora, godere? Vuol dire emancipare il presente dalla spada di Damocle che il futuro, il futuro dell’opera, fa gravare su di esso. Si gode ‘qui e ora’. Si gode nel consumo. Si gode quando la vita assume se stessa come scopo. Si gode quando la vita vive, quando non è subordinata ad altro, ma solo a se stessa in quanto vita vivente: quando, per dirla ancora con Hegel, è per-sé» (pp. 33-34).

Abbiamo già visto in altri interventi [su Carmilla] il ruolo del libro The Magic Island (1929) di William Seabrook nella diffusione occidentale della figura dello zombie, è interessante notare come in questo libro la leggenda degli zombi si leghi allo sfruttamento dalla Haitian American Sugar Company nei confronti dei lavoratori della canna da zucchero. «È veramente curioso che la fabbrica, il lavoro salariato, lo sfruttamento, la proletarizzazione dei contadini, i problemi connessi allo sviluppo dell’economia capitalistica in un’isola caraibica, siano la cornice nella quale nasce ufficialmente la ‘leggenda’ zombi» (p. 36).

Dunque, sostiene lo studioso, gli zombi «sono l’incarnazione della nozione marxiana di forza lavoro. Ne sono l’incarnazione in senso letterale. Sono forza lavoro allo stato puro. Non sono definiti da nessuna altra caratteristica se non dalla capacità astratta di lavorare per produrre valore. Non pensano, non parlano, non socializzano, non hanno una vita privata, neppure quella residuale che era concessa al proletariato inglese della prima rivoluzione industriale, il quale, una volta rientrato a casa, cessava di essere forza lavoro per diventare un vivente (sebbene un vivente al di sotto della soglia dell’umano modo d’essere e […] dall’aspetto molto linving dead per il borghese beneducato» (p. 37). Gli zombi di Haiti sono “macchine viventi” che simulano la vita al fine di lavorare.

Un essere vivente, sostiene Ronchi, possiede la forza lavoro, non è forza lavoro. «Egli può non disporne liberamente e allora è uno schiavo, oppure disporne in modo formalmente libero e scambiarla con altre merci che gli garantiscono la sopravvivenza, e allora è un proletario. In ogni caso, schiavo o proletario che sia, finché è vivente mantiene comunque una distanza da quella forza lavoro che possiede e che è costretto a cedere in modo coatto o in modo formalmente libero». (p. 38). Lo schiavo obbligato a lavorare può godere della sua vita sfigurata soltanto nei pochi momenti in cui non è al lavoro oppure, si ricorda nel saggio, quando canta sul lavoro. Se da un lato il canto fornisce il ritmo all’attività produttiva, dall’altro però mette in luce come lo schiavo non sia soltanto lavoro, ma anche “vita che vive”. La forza lavoro è «indissolubilmente connessa a un corpo vivente (essa, scrive Marx nel primo libro del Capitale, “esiste soltanto nella sua corporeità vivente”) ma un corpo, se è vivente, non è solo lavoro, non è lavoro astratto, dunque bisogna produrre un corpo attivo come un corpo vivente ma che non sia un corpo vivente» (p. 39). Occorre decontestualizzare un corpo dalla vita senza però renderlo “cosa inerte”, occorre “astrarlo” dalla vita senza ucciderlo. Ecco allora che il morto vivente rappresenta la soluzione perfetta: morto al godimento e vivente per il lavoro.

Se, come abbiamo visto, gli zombi vengono dal mondo del lavoro, nei film di Romero essi non sono più schiavi ma cannibali aggressivi ed insaziabili. Nella leggenda caraibica agli zombi era preclusa la carne (ed il sale), pena la fine dell’incantesimo zombificante, nei film di Romero, invece, i living dead sono pura compulsione a quel godimento interdetto agli antenati haitiani. Tale trasformazione, suggerisce Ronchi, ha una spiegazione materialistica: è dovuta alla trasformazione del capitalismo che è slittato verso il consumo coatto.

I living dead fanno la loro comparsa quando il principio di individuazione entra in crisi. “Individuo”, ricorda lo studioso, significa “ente determinato”, ente diverso dagli altri individui della medesima specie. Secondo la teoria politica liberale gli uomini sono individui ed è in quanto tali che hanno diritti inalienabili.

La filosofia classica spiega il fenomeno di individuazione ricorrendo alla composizione di forma e materia e la tecnica, il creare cose non già presenti in natura, è stata intesa nell’orizzonte del lavoro provocando però il paradosso che per spiegare il processo di individuazione caratterizzante la natura, si è finiti col far riferimento alla categoria della “produzione” così da finire col “retrodatare” alla natura il lavoro umano.

Tutto il pensiero politico moderno è ossessionato dall’idea di costruire attraverso mezzi umani un corpo politico dotato della medesima saldezza e sostanzialità del corpo mistico della Chiesa. Si è parlato a tal proposito di “teologia politica” che trova il suo limite nell’apparizione dei “resti” inincorporabili. Ciò che resta fuori dal corpo sociale, della nazione, della comunità ecc., vi resta come qualcosa di orrendo, di disgustoso: così viene descritto, ad esempio, il proletariato urbano inglese all’epoca della prima rivoluzione industriale. Se nella sua presenza in fabbrica il proletariato riceve un ordine ed una forma dai meccanismi produttivi, fuori dalla fabbrica diviene un’entità mostruosa, non umana. Anche i proletari, ricorda Ronchi, sono solo al plurale, una moltitudine illimitata che minaccia il buon ordine urbano. Fabbrica, prigione e caserma da questo punto di vista sono meccanismi disciplinari.

«Lavorare soggetivizza. Il proletariato non addomesticato, riottoso al lavoro in fabbrica, il proletariato insorto che rivendica il suo diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è allora il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. Il proletariato è l’onkos che minaccia i corpo sociale borghese» (p. 49). La generazione haitiana di zombi incarnava la pura forza lavoro. Non più schiavo ma nemmeno proletario. Si tratta del prodotto del colonialismo occidentale ridotto a pura macchina che produce valore. «I ‘negri’, dopotutto, per il razzista bianco, non sono veri ‘uomini’. Il proletario (bianco) è invece complementare al modo di produzione borghese, è generato dall’incorporazione capitalistica. La fabbrica è il luogo della sua individuazione e soggettivizzazione. Il suo aspetto zombi non sarà quindi più legato alla servitù del lavoro […] ma alla sua pretesa di godimento. A rimanere in eccesso rispetto al corpo sociale (come resto mostruoso e minaccioso) non è la sua umanità di operaio, umanità che si è guadagnato lavorando virtuosamente al servizio del capitale, differenziando cioè la soddisfazione del desiderio, ma questo stesso desiderio sganciato dal lavoro: è la sua fame» (p. 49).

wd-zombies55Ronchi ricorda come lo stesso socialismo nello scegliere nel proletariato organizzato e disciplinato dal partito il soggetto antagonista al capitale, finisce con l’indicare nel sottoproletariato quella massa tumorale di manovra a cui può ricorrere la reazione. Se l’individuazione è pensata sulla produzione, inevitabilmente essa genera dei residui (minacciosi) non assimilabili. «Quando si invocano i ‘tecnici’ per governare la globalizzazione si invocano, in ultima analisi, i tecnici competenti nello smaltimento dei rifiuti, vale a dire coloro che sanno eliminare gli zombi che si replicano tumuralmente» (p. 51). Dunque, secondo Ronchi, si ricorre ai “tecnici” perché tali compiti i “politici” non possono né sanno fare e da qui la loro delegittimazione internazionale.

A nostro avviso si potrebbe sostenere che, con l’egemonia totale dell’economico, il politico è stato totalmente esautorato da qualsiasi funzione che si possa dire politica, appunto. Se il politico è uno dei territori dell’immaginario (come sostiene da tempo Sandro Moiso) allora, in assenza di un immaginario realmente alternativo, il politico è inevitabilmente succube dell’economico. Il politico contemporaneo si è fatto tecnico. Un approccio politico alternativo non può che derivare da un immaginario alternativo, in assenza di quest’ultimo il politico è, inevitabilmente, tecnico.
Tornando ai morti viventi sugli schermi, Ronchi sottolinea come a livello cinematografico il ruolo dei tecnici spetti di diritto ai militari e quando anche questi falliscono nello smaltimento dei living dead, vuole dire che tutto è perduto e non resta che un’ultima illusione: la fuga.

Sappiamo che nella tradizione haitiana il cibarsi di carne o sale pone fine all’incantesimo che ha prodotto lo zombi. Ronchi, nel chiedersi cosa mostri allo zombi quella sorta di “autocoscienza” che acquisisce grazie all’assunzione di questi cibi, giunge a concludere che il morto vivente percepisce soltanto che è uno zombi qualsiasi, un essere-moltitudine. Nessuna emancipazione dalla massa, dunque. Nessuna interiorità. «Dal mondo dei morti lo zombi si è infatti portato dietro l’anonimato che caratterizza per sempre tutti i morti, i quali, in quanto morti, non sono più nessuno. È un uno qualsiasi, ma è uno qualsiasi che è già morto. […] L’autocoscienza pone lo zombi di fronte al suo essere una contraddizione in atto, una contraddizione assoluta che cammina. Lo pone di fronte alla sua atopia, alla sua eccedenza, al suo essere di troppo» (pp. 82-83). È per questo che secondo la legenda haitiana una volta “risvegliati” dal sale (o dalla carne), gli zombi intendono tornare alle proprie tombe, desiderano abbandonare il mondo dei vivi e far ritorno alla terra, a quella terra che però li ha espulsi obbligandoli all’erranza illimitata.

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