schermo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 25 Dec 2024 21:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La perdita dello sguardo nell’era della te(o)cnocrazia https://www.carmillaonline.com/2022/07/01/la-perdita-dello-sguardo-nellera-della-teocnocrazia/ Fri, 01 Jul 2022 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71991 di Gioacchino Toni

Riflettendo sul rapporto tra essere umano e realtà ipertecnologizzata contemporanea, Yuri Berio Rapetti, La società senza sguardo. Divinizzazione della tecnica nell’era della teocnocrazia (Mimesis, 2021), ricorre al termine “teocnocrazia” per riferirsi a quella peculiare forma di idolatria della tecnica e dell’ipersviluppo che contraddistinguere i più entusiasti apologeti dello sviluppo tecnologico ma che non manca di riverberarsi sempre più diffusamente sull’immaginario collettivo.

Senza voler far proprie tendenze tecnofobe, Rapetti ritiene che, in taluni casi, si sarebbero già pericolosamente varcate le soglie critiche del ribaltamento dei mezzi in fini: anziché essere la macchina a porsi al servizio dell’essere umano parrebbe [...]]]> di Gioacchino Toni

Riflettendo sul rapporto tra essere umano e realtà ipertecnologizzata contemporanea, Yuri Berio Rapetti, La società senza sguardo. Divinizzazione della tecnica nell’era della teocnocrazia (Mimesis, 2021), ricorre al termine “teocnocrazia” per riferirsi a quella peculiare forma di idolatria della tecnica e dell’ipersviluppo che contraddistinguere i più entusiasti apologeti dello sviluppo tecnologico ma che non manca di riverberarsi sempre più diffusamente sull’immaginario collettivo.

Senza voler far proprie tendenze tecnofobe, Rapetti ritiene che, in taluni casi, si sarebbero già pericolosamente varcate le soglie critiche del ribaltamento dei mezzi in fini: anziché essere la macchina a porsi al servizio dell’essere umano parrebbe essere quest’ultimo ad assoggettarsi ad essa.

L’autore esplicita sin dalle prime pagine del volume come le sue riflessioni muovano dalla convinzione che esista un principio nell’essere umano che trascende la pura materialità o la sfera biologica. «Questa apertura verso una realtà spirituale e trascendente non implica per forza un’adesione ad una specifica forma religiosa ma sicuramente una qualche forma di apertura ad una dimensione “altra” che non può essere completamente ricondotta ai meri dati di ordine fisico o biologico» (p. 21).

Rapetti riprende letture che vogliono il processo di divinizzazione della tecnica, che ha portato alle attuali forme di tecnocrazia e idolatria della macchina, derivare dalla tendenza dell’essere umano contemporaneo a cercare nei prodigi tecnologici, anche quando non crede fino in fondo alle loro promesse, un sostituto alle forme di culto religiose tradizionali in cui gli umani avevano cercato consolazione e una possibilità di riscatto.

La tesi principale attorno a cui muovono le riflessioni dello studioso

è quella di una graduale deumanizzazione o meccanizzazione dell’umano e una rispettiva antropoformizzazione della macchina le cui cause più profonde sono individuate in una graduale perdita del senso della trascendenza e del centro spirituale da parte dell’uomo contemporaneo. Egli è così portato a cercare un nuovo centro e finanche sicurezza e salvezza nel mondo levigato e rassicurante dell’inorganico e del macchinale in un disperato tentativo di sottrarsi al ciclo di vita e rifugiandosi in un grottesco surrogato di eternizzazione che viene offerto dal modello della perfezione tecnica (p. 19).

Analizzando l’interazione tra l’essere umano e il prodotto tecnico, lo studioso individua alcune tendenze di fondo tra cui la graduale perdita dello sguardo, l’antropomorfizzazione della macchina «nel (vano) tentativo di dotarla di un suo proprio sguardo (lo schermo), una sua intelligenza e finanche coscienza (l’algoritmo) e infine una sua personalità specifica (il design)» (p. 20).

In un’epoca ipertecnologica caratterizzata dal trionfo del visivo, Rapetti individua una vera e propria “perdita dello sguardo” nelle forme di interazione in quando la mediazione tecnologica contemporanea sembrerebbe votata a rimuovere il contatto visivo tra gli interlocutori indirizzando i loro occhi verso «un “oltre” privo di corpi e di sguardi e privo addirittura di apparecchiature tecnologiche che, per così dire, “amano nascondersi”, si sottraggono allo sguardo e lo inghiottono. Veri e propri ladri di sguardi questi oggetti tecnici introducono – o meglio fagocitano – gli interlocutori in carne ed ossa in un mondo privo di “carne” dove l’interazione avviene senza il bisogno – almeno in apparenza e nella percezione dei partecipanti – di un’interazione corporea concreta» (p. 123).

Un’interazione che prescinde dallo scambio di sguardi con l’altro/a può sicuramente dirsi un’interazione impoverita di uno degli aspetti essenziali che fanno del rapporto tra esseri umani un rapporto tra persone e non tra cose; non a caso l’assenza corporea, di soggetti interagenti anche attraverso sguardi diretti, contribuisce a far cadere i più elementari freni inibitori di rispetto reciproco tra gli individui permettendo loro di disumanizzare l’altro/a da sé, dunque di esercitare su di esso/a forme di violenza altrimenti impensabili. Tali mutamenti di relazione che si strutturano in ambienti tecnologici sempre più pervasivi, sottolinea l’autore, non mancano di debordare nel quotidiano mutilando e compromettendo i tradizionali rapporti umani.

Il rischio di disumanizzazione che secondo Rapetti è individuabile nella struttura stessa dei social network deve a suo avviso essere arginato attraverso il recupero di ambiti di interazione genuinamente umana necessariamente faccia a faccia. «Cercare di ricostruire artificialmente il volto dell’altro all’interno del mondo virtuale o addirittura provare a dotare la macchina di un suo volto ed uno sguardo propri sono tentativi nobili e quasi commoventi che però […] non possono compensare l’uomo della perdita di una dimensione genuinamente e integralmente umana come quella della presenza spirituale e “incarnata” della relazione con altri individui in carne ed ossa» (p. 126).

«Ad una graduale e spietata meccanizzazione (ma meglio sarebbe dire macchinalizzazione) dell’umano, dal luogo di lavoro alle relazioni interpersonali, sembra quasi fare da contrappeso, forse in un inconscio e disperato tentativo di compensazione, un’umanizzazione del mondo della macchina» (p. 128); non a caso l’essere umano sembra voler compensare l’eliminazione del proprio sguardo introducendone uno all’interno dell’universo delle macchine conferendo un “residuo di umanità” in quelle macchine che percepisce sempre più avviate ad avere il sopravvento su di lui.

Rapetti si dice convinto che più di ogni altra cosa, ciò che spinge l’essere umano a tentare di preservare qualche “residuo di umanità” nel vano tentativo di ricostruire artificialmente l’essenza umana, a partire dal suo sguardo perduto, è in fin dei conti «la speranza di riottenere da materiale di scarto e frantumato l’integrità dell’idea del principio che si è voluto ad ogni costo negare in una sfrenata rincorsa della volontà di potenza, o meglio della volontà di essere Dio» (p. 129).

Lo schermo dello smartphone, così come quello di altre apparecchiature, rappresenta una sorta di confine che «introduce sulla soglia di un nuovo mondo e come ogni soglia tende a scomparire, a sottrarsi allo sguardo. Ma mentre la soglia tradizionale è un non-oggetto, un non-spazio vuoto che fa da confine tra due spazi collegati appunto da una soglia, lo schermo è dotato di una sua materialità (non lo si può attraversare) ed è normalmente una superficie piana. Altra caratteristica dello schermo è quella che chi lo guarda in realtà non lo guarda, ovvero lo trascende e punta verso un “oltre” che è il mondo aperto da esso» (p.131).

Già il dipinto vanta qualità analoghe; anche questo si propone come uno spazio che introduce in un mondo “altro” e cattura lo sguardo oltre sé nascondendosi allo sguardo nel momento in cui proietta verso un “oltre”. Se la mancanza di movimento delle immagini proposte dal dipinto è stata compensata successivamente dall’avvento del cinema e dalla televisione, è con l’arrivo sulla scena del computer che diviene possibile interagire con lo schermo conquistando un controllo diretto sul mondo che esso dischiude e ciò sembra indirizzarsi verso modalità sempre meno fisiche. Anche le dita che comandano ora gli schermi touch sembrano destinate ad essere soppiantate da un tipo di controllo mentale capace dunque di bypassare l’interazione corporea e ciò, sottolinea lo studioso, potrà avvenire «soltanto quando anche lo schermo corporeo scomparirà e lo strumento cibernetico sarà impiantato direttamente all’interno del corpo umano per introdurlo direttamente nei sui mondi virtuali e finire per eternizzarlo nei flussi di informazioni della rete» (p. 132).

Man mano che «all’interno dell’interazione tra esseri umani, ma anche con altri organismi viventi, ci si allontana dalla situazione in carne ed ossa per affidarsi all’intermediazione della macchina», sostiene Rapetti, «cresce la distanza dal livello dell’esperienza spirituale e insieme il grado di oggettivazione e deumanizzazione» (p. 135).

Lungi dall’essere qualcosa di neutro, la mediazione della tecnica

impone in modo crescente la sua logica, che è quella del meccanico-inorganico, su quella dell’organico-spirituale. La tendenziale scomparsa dello sguardo dal nostro mondo, […] intesa qui come categoria esemplare dell’interazione genuinamente umana e spirituale – e denunciata da molti acuti osservatori dell’evoluzione del tecnocapitalismo a partire da Marx – è una necessaria conseguenza del massiccio impiego degli strumenti tecnologici nella nostra vita e in modo ancor più essenziale dell’estensione della tecnica manipolatoria e reificante a tutti gli ambiti della vita (pp. 135-136).

Il volume di Rapetti si concentra sulle grandi trasformazioni in corso a partire da una prospettiva dichiarata, come detto, sin dalle prime pagine, che può essere più o meno condivisa, ma ha di certo il merito di evidenziare come le analisi che si concentrano su quanto tali trasformazioni risultino funzionali o siano determinate dall’egemone sistema vigente non esauriscano la complessità e la portata dei cambiamenti in atto.

 

]]>
Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale https://www.carmillaonline.com/2022/05/11/pratiche-e-immaginari-di-sorveglianza-digitale/ Wed, 11 May 2022 20:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71738 di Gioacchino Toni

[Di seguito una breve presentazione del volume in uscita in questi giorni – Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Prefazione di Sandro Moiso, Il Galeone, Roma, 2022, pp. 220, € 15.00 – Disponibile in pre ordine direttamente presso l’editore e presto in tutte le librerie on line e di fiducia – ght]

Ad un certo momento la finzione cessò di preoccuparsi di imitare la realtà mentre quest’ultima sembrò sempre più voler riprodurre la finzione, tanto che si iniziò ad avere la sensazione che le immagini si stessero sostituendo al reale. Ciò che abitualmente [...]]]> di Gioacchino Toni

[Di seguito una breve presentazione del volume in uscita in questi giorni – Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Prefazione di Sandro Moiso, Il Galeone, Roma, 2022, pp. 220, € 15.00 – Disponibile in pre ordine direttamente presso l’editore e presto in tutte le librerie on line e di fiducia – ght]

Ad un certo momento la finzione cessò di preoccuparsi di imitare la realtà mentre quest’ultima sembrò sempre più voler riprodurre la finzione, tanto che si iniziò ad avere la sensazione che le immagini si stessero sostituendo al reale. Ciò che abitualmente si chiamava realtà, sembrò divenire una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione e dalla pubblicità. L’impressione era quella di vivere ormai all’interno di un grande racconto in cui i personaggi che popolavano la fiction hollywoodiana sembravano ormai più reali dei vicini di casa. La finzione giunse così ad affliggere la vita sociale, a contaminarla e a penetrarla al punto da far dubitare di essa, della sua realtà e del suo senso. La televisione continuava a raccontare la sua storia come si trattasse della storia di chi stava di fronte allo schermo; d’altra parte gli spettatori sembravano ormai da tempo vivere per e attraverso le sue immagini. Le stesse guerre smisero di essere viste per quello che erano e assunsero l’aspetto di un videogioco, così da risultare meglio sopportabili da chi ancora poteva viverle dal divano di casa.

I nuovi media digitali permisero agli esseri umani di farsi produttori e distributori di immagini, consentendo loro di costruirsi testimonianze di esistenza e così le metropoli iniziarono a essere attraversate da zombie dall’aspetto ben curato dotati di potenti attrezzature tecnologiche tascabili sempre più disinteressati della realtà che si trovavano di fronte intenti a immagazzinare senza sosta immagini da condividere sui social con comunità digitali composte da persone pressoché sconosciute. Il mondo, con i suoi parchi di divertimento, i club vacanze, le aree residenziali, le catene alberghiere, i centri commerciali riproducenti il medesimo ambiente, venne dunque organizzato per essere distrattamente filmato e condiviso, più ancora che visitato e vissuto.

La visione umana si era ormai assoggettata a una visione tecnologica capace di riscrivere le modalità di comprensione del mondo filtrandola attraverso schermi di computer, bancomat, smartphone e smart-tv che offrivano procedure operative già pronte, cui non restava che adeguarsi. Questa nuova visione guidava ormai i percorsi di soggettivazione, determinando le modalità con cui gli esseri umani si rapportavano nei confronti degli oggetti e degli altri individui fruiti quasi esclusivamente attraverso una visuale inorganica dell’occhio tecnologico.

Nei dibattiti, ormai svolti quasi esclusivamente attraverso sistemi digitali, raramente gli interlocutori entravano nel merito di ciò che commentavano, solitamente si limitavano a sfruttare l’occasione per ribadire fugacemente punti di vista e credenze già posseduti: l’importante era restare aggrappati alla bolla comunitaria in cui si era inseriti. La logica della spettacolarizzazione e dell’esibizione merceologica finì con l’estendersi dalle vetrine dei negozi agli individui obbligandoli a creare e gestire la propria identità al fine di catturare l’attenzione altrui adeguandosi agli standard di rappresentazione sociale prevalenti. I processi di digitalizzazione sembrarono disattendere le promesse di potenziare le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune per trasformarsi in amplificatori di fragilità, isolamento e alienazione sociale.

Le pratiche di sorveglianza raggiunsero livelli prima impensabili. Alcune corporation iniziano a tradurre l’esperienza privata umana in dati comportamentali da cui derivare previsioni su di loro. A molti tale trasformazione dell’esperienza umana in materia prima gratuita per le imprese commerciali, capace di rendere obsoleta qualsiasi distinzione tra mercato e società, tra mercato e persona, sembrò non procurare grandi fastidi. Si diceva che tutto ciò fosse potuto accadere anche grazie a una certa propensione alla servitù volontaria scambiata volentieri dagli individui con qualche servizio offerto dal Web e dai social, ma la carenza di rapporti sociali fuori dagli schermi e la dipendenza dalla Rete derivavano in buon parte dallo smantellamento delle comunità e dei rapporti sociali tradizionali operato da un sistema che aveva fatto dell’individualismo più cinico e spietato il suo filo conduttore e l’asservimento digitale sembrava piuttosto la logica conseguenza di quella ricerca spasmodica di nuovi ambiti di sfruttamento giunti a coinvolgere anche gli aspetti più privati dell’individuo.

Questo sistema economico fondato sulla sorveglianza iniziò a incidere sul reale attraverso le applicazioni, le piattaforme digitali e gli oggetti tecnologici utilizzati quotidianamente sfruttando i tempi ristretti imposti agli individui dalla società della prestazione, la propensione a ricorrere a comodi sistemi intuitivi e pronti all’uso, l’accesso selettivo alle informazioni utili a esigenze immediate di relazione, il desiderio di aderire a una visione certa di futuro pianificata a tavolino dagli elaboratori aziendali. Insomma ci si trovò di fronte al più sofisticato sistema di monitoraggio, predizione e incidenza comportamentale mai visto all’opera nella storia e tali pratiche di controllo e manipolazione sociale erano nelle mani di grandi corporation private che sembravano ormai divenute le nuove superpotenze.

Il confine tra fisico e non fisico, tra online e offline parve annullarsi: Internet divenne lo sfondo invisibile della vita quotidiana trasformando la connettività degli esseri umani da una modalità circoscritta all’uso degli schermi a una modalità diffusa nel quotidiano. Ci si ritrovò online anche senza volerlo o saperlo. Si diceva che tutto ciò serviva per migliorare la vita umana, ma molti di questi miglioramenti riguardavano i tempi e i fini imposti dalla società della prestazione, della mercificazione e del controllo.

La cultura della sorveglianza reciproca venne presto percepita come parte integrante di uno stile di vita, un modo naturale con cui rapportarsi al mondo e agli altri. A differenza delle ansiogene forme di sorveglianza tradizionali, deputate alla sicurezza nazionale e alle attività di polizia, le nuove seppero rendersi desiderabili e farsi percepire come poco invasive, inducendo così ad accettare con estrema disinvoltura di farsi contemporaneamente sorvegliati e sorveglianti. Si diffuse una vera e propria ossessione per la trasparenza e una propensione all’esibizionismo. In cambio di un rassicurante riconoscimento pubblico, sancito dal consenso digitale, si iniziò a mostrarsi e condividersi costruendosi identità adeguate agli standard graditi ai più.

In un tale panorama, invocare libertà impugnando un cellulare mossi dall’urgenza di postare al più presto sulle piattaforme social quel che restava del desiderio di libertà si scontrava con l’impossibilità di liberarsi da quei gratificanti intrattenimenti digitali di cui si continuava, nei fatti, a essere prigionieri nel timore di subire la morte sociale e perdere l’occasione di esprimere dissenso in un contesto che sembrava però ormai irrimediabilmente viziato.

Tutto ciò può sembrare la trama di una fiction distopica ma la realtà in cui viviamo non sembra essere molto diversa. Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale intende dar conto di ciò tratteggiando le trasformazioni in atto senza alzare per forza bandiera bianca e lo fa riprendendo: l’idea di messa in finzione della realtà di Marc Augé; le riflessioni sul visuale contemporaneo di Horst Bredekamp, Nicholas Mirzoeff e Andrea Rabbito; il palesarsi di relazioni sempre più strette tra guerra, media e tecnologie del visibile messe in luce da Paul Virilio, Jean Baudrillard e Ruggero Eugeni; i rapporti tra l’universo videoludico e quello militare suggeriti da Matteo Bittanti; le annotazioni di André Gunthert sull’avvento dell’immagine fotografica digitale e sulla pratica della sua condivisione; il fenomeno della vetrinizzazione e del narcisismo digitale approfonditi rispettivamente da Vanni Codeluppi e Pablo Calzeroni; il capitalismo e le culture della sorveglianza ricostruiti da Shoshana Zuboff e David Lyon; l’affievolirsi della distinzione tra online e offline tratteggiata da Laura DeNardis e Stefano Za a partire dall’internet delle cose; la diffusione dell’intelligenza artificiale, della dittatura degli algoritmi e delle piattaforme digitali di cui si sono occupati Carlo Carboni, Massimo Chiariatti, Dunia Astrologo, Kate Crawford, Luca Balestrieri e il gruppo Ippolita; la privacy digitale e le pratiche di profilazione che coinvolgono gli individui sin da prima della nascita indagate da Veronica Barassi…

Questo volume è dedicato a Valerio Evangelisti

 

 

]]>
Guerrevisioni. Il sangue oltre gli schermi. Uccidere così, come in un videogioco https://www.carmillaonline.com/2021/04/22/guerrevisioni-il-sangue-oltre-gli-schermi-uccidere-cosi-come-in-un-videogioco/ Thu, 22 Apr 2021 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65704 di Gioacchino Toni

Ricorrendo alla definizione di videogioco proposta da Marco Accordi Rickards1 che lo vuole “un’opera multimediale interattiva che richiede l’immersione in un mondo simulato e regolato da leggi tecniche ove le azioni del fruitore attivo siano teleologicamente orientate”, è facile comprendere come il suo sviluppo creativo e tecnologico non potesse che sconfinare il territorio del mero intrattenimento per investire ambiti di carattere artistico, scientifico, didattico, divulgativo e militare.proprio ad alcuni sconfinamenti dell’universo videoludico in ambito bellico [...]]]> di Gioacchino Toni

Ricorrendo alla definizione di videogioco proposta da Marco Accordi Rickards1 che lo vuole “un’opera multimediale interattiva che richiede l’immersione in un mondo simulato e regolato da leggi tecniche ove le azioni del fruitore attivo siano teleologicamente orientate”, è facile comprendere come il suo sviluppo creativo e tecnologico non potesse che sconfinare il territorio del mero intrattenimento per investire ambiti di carattere artistico, scientifico, didattico, divulgativo e militare.proprio ad alcuni sconfinamenti dell’universo videoludico in ambito bellico che si intende qua far riferimento dopo aver visto come più che al semplice ricorso dell’apparato militare a tecnologie sviluppate nell’industria dei videogiochi, sembrerebbe essere di fronte, almeno secondo alcune interpretazioni, a uno scambio determinato da un immaginario condiviso.

Matteo Bittanti, nell’introduzione al voluminoso libro da lui curato, Game Over. Critica della ragione videoludica (Mimesis, 2020), afferma perentoriamente che l’immaginario videoludico contemporaneo risulta dominato da due ideologie solo apparentemente contraddittorie:

il fascismo, che si presenta spesso nella modalità stealth del criptofascismo, e il neoliberismo. Queste due espressioni non sono ravvisabili esclusivamente nei prodotti consumati – i videogiochi – ma anche nei consumatori – i videogiocatori. […] Pur non essendo apertamente fascista, la cultura videoludica manifesta evidenti tendenze totalitariste. Infatti, come spiegano Nick Dyer-Witheford e Greig de Peuter, il videogioco nasce come espressione del complesso militare-industriale nordamericano, a sua volta fondato sull’imperialismo, sullo sciovinismo e sull’iper-mascolinità. Prodotti e consumati in un contesto connotato come essenzialmente maschile, i videogiochi hanno a lungo celebrato le figure del “cittadino-soldato, dell’imprenditore, dell’avventuriero cyborg o del criminale aziendale”.2.

Emblematica in tal senso è la campagna d’odio esplosa in ambito videoludico incentrata sul sessismo e, più in generale, su posizioni fortemente reazionarie denominata Gamergate scatenata tra il 2014 e il 2015 negli Stati Uniti da parte di una galassia identitaria che individua il modello normativo del gamer nel maschio bianco eterosessuale, ciò che Andrea Braithwaite e Michael Salter definiscono “mascolinità geek”3.

Secondo quanto ricostruito a posteriori da Sarah Jeong sul “New York Times”4, il Gamergate è stato il primo evento di rilievo a dimostrare come a partire da una discussione priva di rilevanza pubblica, un gruppo di individui, grazie al web, è riuscito a dare vita a una campagna reazionaria di proporzioni spropositate rispetto alla causa scatenate.

La vicenda prende il via nell’agosto del 2014 quando un giovane pubblica su un blog un’invettiva contro l’ex-fidanzata sviluppatrice di videogiochi tirando in ballo anche un giornalista recensore di produzioni videoludiche. Da quel momento numerosi utenti hanno diffuso sul web – sfruttando soprattutto Twitter, 4chan e 8chan – fantasiose ricostruzioni di favori sessuali elargiti dalla ragazza al fine di ottenere dal giornalista una buona recensione (in realtà inesistente). L’episodio è stato abilmente sfruttato da una nicchia di giovani gamer maschi e bianchi per dare vita a un’incredibile campagna votata a denunciare la “corruzione” del mondo dei videogiochi in buona parte, a loro dire, determinata dalla presenza di alcune donne intenzionate, con le loro produzioni, a stravolgere un mondo, quello videoludico, che doveva continuare a restare maschile.

Charlie Warzel ha scritto a tal proposito sulle pagine del “New York Times” che ormai è l’intero web ad essere divenuto una sorta di grande Gamergate.

C’è un fil rouge che collega la pressione su alcune aziende da parte dei seguaci di Gamergate – che ha spinto Intel a ritirare i propri investimenti pubblicitari da siti come “Gamasutra” – alla campagna di Sean Hannity nel 2017 contro il brand Keurig, che ha convinto centinaia di telespettatori di Fox News a gettare dalla finestra le loro macchinette del caffè, filmare il gesto e condividerlo su Twitter. Si tratta del medesimo filo che lega gli youtuber antifemministi che usano Patreon per finanziare i loro massacri e losche campagne di crowdfunding per “costruire il muro” ai complottisti di Pizzagate e QAnon. […] E, naturalmente, c’è la presunta premessa centrale di Gamergate, il bigottismo mascherato da critica ai media5.

Riprendendo il concetto di “razionalità tecnologica” formulato da Herbert Marcuse per denunciare lo svilupparsi, nel corso del Novecento, di una nuova ideologia totalizzante basata sull’innovazione tecnologica, Michael Salter ritiene che il videogioco sia riconducibile alla medesima matrice disumanizzante, pertanto il fenomeno Gamergate confermerebbe come l’universo dei videogame, insieme a quello dei social media con cui si intreccia, sia attraversato da modalità comunicative incentrate sulla prevaricazione e sull’insulto scatenate da quelli che Ian Williams ha perentoriamente definito “soggetti incompleti” dotati di identità fabbricate da aziende che esortano a consumare determinate merci nelle modalità prescritte6, una galassia di individui che riscattano vere o presunte deficienze personali attraverso il surrogato videoludico, dunque privi di reale autorità. Il gamer, sostiene Bittanti, «si serve delle fantasie elettroniche per conferire significato a un’esistenza che considera vuota, deludente o fallimentare»7. Esisterebbe dunque, secondo lo studioso, una sorta di affinità elettiva, di convergenza culturale, tra un certo tipo di gamer e la galassia politica dell’estrema destra.

Aldilà di un’acritica accettazione della logica consumistica – mascherata dalla natura interattiva del videogioco che feticizza il fruitore “attivo”, “partecipativo” e “autonomo” rispetto al presunto consumatore passivo della televisione, del cinema e della letteratura – ciò che preoccupa maggiormente è la convergenza tra l’identità gamer e l’estrema destra8.

A sostengo del proprio convincimento Bittanti ripropone le posizioni di Alfie Bown che ritengono la logica e il tipo di divertimento associati all’attività videoludica come del tutto funzionali alle posizioni politiche di destra per almeno due motivi:

In primo luogo, le ideologie di destra sono pervasive e dominanti nella storia dei videogiochi. Sebbene influenzati dal contesto, i videogiochi hanno a lungo privilegiato temi quali l’espulsione degli “alieni” (da Space Invaders a XCOM), la paura dell’infezione impura (da Half-Life a The Last of Us), il controllo dei confini (da Missile Command a Plants vs. Zombies), la conquista del territorio (da Command & Conquer a Splatoon), la costruzione degli imperi (da Civilization a Tropico), il salvataggio delle principesse (da Mario a Zelda) e la necessità di ripristinare l’armonia naturale (da Sonic a FarmVille). In secondo luogo, i videogiochi spingono l’utente ad agire in modo istintivo, sollecitando un’adesione “spontanea” alle ideologie che essi veicolano. Giocare a Resident Evil non equivale a guardare l’omonimo film, perché il giocatore che impugna il controller percepisce i desideri del videogioco come propri, anziché come i desideri di qualcun altro9.

In un suo recente volume Alessandro Alfieri invita a guardare alla “violenza dell’immaginario” come a una violenza gestita, edulcorata da surrogati utili al mantenimento degli equilibri sociali ma che continua a pulsare sotto la superficie e che, in qualche modo, può farsi violenza agita. «Il web diventa un’ulteriore forma di gestione dell’ira accumulata, che però definisce il passaggio all’azione e perciò stesso alla responsabilità etica: non si tratta più solo di fruire della violenza più o meno palesata nella produzione audiovisiva, ma di partecipare attivamente – anche se “non troppo”»10.

Bittanti ricorda poi come tali derive fascisteggianti non siano tanto diverse da quelle presenti in quel libertarismo estremo che ha definito fin dall’inizio gran parte delle culture videoludiche in rete. Negli ultimi decenni, secondo lo studioso, all’interno della cultura videoludica si è affermata una logica binaria del “noi contro di voi” che si palesa anche nella violenta ostilità che gli hardcore gamer manifestano nei confronti di quanti vengono considerati una minaccia al loro divertimento.

Parafrasando Herbert Marcuse, si potrebbe affermare che il gamer è un uomo a due dimensioni, quelle dello schermo: concepisce infatti la realtà concreta come un’estensione delle fantasie di cui si nutre. Nel momento in cui la realtà smette di conformarsi alle illusioni, le frizioni sono inevitabili. Detto altrimenti, non ci troviamo di fronte a un equivoco epistemologico – la presunta confusione tra reale e virtuale paventata dagli psicologi pop dei talk show televisivi – quanto alla precisa volontà di trasformare dei deliri di onnipotenza in realtà11.

Le parole di Bittanti riferite alla contiguità tra diffusi settori della cultura videoludica e le posizioni politiche dell’estrema destra e della cultura neoliberista sembrano applicabili anche al riversarsi della tecnologia videoludica – intesa non semplicemente come insieme di conoscenze tecnologiche ma, in linea con Michael Salter, come ideologia disumanizzante – direttamente all’interno dell’ambito militare. Vale dunque la pena citare almeno alcuni tra i sempre più numerosi esempi di inquietante sconfinamento videoludico in ambito bellico.

Nel corso di una conferenza internazionale sull’Intelligenza artificiale tenutasi a Melbourne, in Australia, nell’agosto del 2017, più di un centinaio di scienziati ed esperti provenienti da tutto il mondo hanno indirizzato un appello all’ONU per porre fine allo sviluppo dei cosiddetti “robot killer”, sistemi d’arma autonomi in grado di uccidere senza alcun intervento umano. Mentre veniva presa in considerazione l’ipotesi di una moratoria a proposito dello sviluppo di tali armi sia dalle Nazioni Unite che dal Parlamento europeo, che ha votato nel 2018 una risoluzione richiedente la loro messa al bando a livello internazionale12, sono stati diversi gli stati che hanno continuato a sviluppare un arsenale bellico che sembra riprendere quanto introdotto dai videogiochi.

Da tempo l’Israel Aerospace Industries sta sviluppando un particolare tipo di carro armato – denominato Carmel – dotato di sensori, telecamere, completamento privo di finestre visto che l’osservazione dell’ambiente circostante è garantita da uno schermo panoramico che permette di regolare i movimenti e la gestione dell’armamento con i dati che compaiono in costante aggiornamento sul lato dello schermo, proprio come nei videogiochi. Si tratta di un sistema pensato per essere usato da militari giovani che non necessitano di un lungo processo di addestramento essendo abituati alla logica dei videogiochi.

Il Carmel non guarda ai videogiochi solo per l’interfaccia o per quanto riguarda il controllo ma anche per quanto concerne l’implementazione di un’intelligenza artificiale che è stata allenata in larga parte con StarCraft II e che è stata integrata nel carro armato con l’Engine Unity e la piattaforma VBS. StarCraft II viene considerato un allenamento ideale per una IA perché propone situazioni competitive molto varie, in tempo reale e caratterizzate anche da tempi di scontro piuttosto lunghi. Il tutto con informazioni incomplete sui combattenti e con centinaia di variabili. Per migliorare ulteriormente l’IA sono anche stati sfruttati titoli che come DOOM [che] insegnano strategie diverse per gli spostamenti, l’individuazione degli obiettivi, la selezione delle armi e altre capacità autonome. Grazie a queste implementazione si dà vita a un mezzo corazzato che ha modalità completamente autonome, semiautonome e completamente manuali13.

Altro caso di sconfinamento del videogioco in ambito militare riguarda il sistema di gestione dei sottomarini nucleari della US Navy elaborato da Microsoft sull’onda della sua esperienza relativa al controller Xbox dei videogiochi, sistema che è stato preferito al tradizionale joystick realizzato da Lockheed Martin decisamente costoso e non altrettanto intuitivo14. Sempre in ambito statunitense, l’esercito e l’Idaho National Laboratory stanno congiuntamente sviluppando la gestione di robot militari attraverso il controller del popolare sistema di gioco Nintendo Wii (Wiimote) rivelatosi efficace nel ridurre il carico di lavoro dell’operatore e permettere un allargamento dei domini d’impiego.15. In questo caso, attraverso il raggio a infrarossi gestito attraverso un sistema di IA, diviene possibile indirizzare il robot a un luogo specifico ed attendere, al sicuro, che questo svolga il suo compito.

In Cina, oltre ad una riconversione di parte dei tradizionali carri armati in mezzi corazzati controllabili da remoto in grado di fronteggiare il nemico, sono stati sviluppati robot armati e dotati di videocamere di sorveglianza mobili di forma ovoidale denominati Anbot che ricordano R2D2 di Star Wars e Dalek di Doctor Who.16. In Corea del Sud invece è stato progettato per i suoi confini con la Corea del Nord un robot sentinella prodotto da Samsung denominato Techwin SGR-A1 dotato di sensori infrarossi, videocamere termiche, mitragliatrici e lanciagranate con un raggio d’azione di circa tre chilometri. Sebbene al momento tale dispositivo sembri essere ancora controllato da remoto, risulterebbe già in grado di svolgere la maggior parte dei suoi compiti in piena autonomia17. Tra i robot mobili finalizzati al monitoraggio disponibili alle forze armate statunitensi si può invece segnalare Groundbot, un dispositivo a forma di sfera dal diametro di circa 60 cm dotato di telecamere esterne in grado di muoversi con facilità su diversi terreni18.

Sempre nell’ambito dei robot impiegati in ambito militare, l’esercito iracheno si è dotato di una jeep telecomandata denominata Alrobot19, mentre negli Stati Uniti la Carnegie Mellon University ha sviluppato per il corpo dei Marines un veicolo da combattimento denominato Gladiator, disponibile sia in versione a sei ruote che cingolata, dotato di lanciarazzi e mitragliatrici comandato da remoto ma in grado di lavorare in autonomia. Anche MAARS (Modular Advanced Armed Robotic System) progettato da QuinetiQ Nord America è un robot militare comandato a distanza, dotato di batterie, con una capacità visiva di 360°, armato di mitragliatrice, lanciagranate e in grado di mettere in sicurezza i militari feriti20. La stessa Marina militare nordamericana sta sviluppando navi da guerra prive di equipaggio sia in una versione di ricognizione che in una di combattimento dotata di missili.

Numerosi sono poi i paesi che hanno sviluppato “droni kamikaze” di dimensioni estremamente ridotte, difficilmente individuabili ai radar, attivabili tanto in maniera manuale che automatica: una versione russa è realizzata dalla celebre ditta Kalashnikov, mentre negli USA si lavora a micro-droni come PD-100 Black Hornet, dal peso di soli 16 grammi, equipaggiato con foto e termocamera in grado di agire autonomamente una volta attivato21 e RoboBee sviluppato dall’Università di Harvard, vero e proprio drone-insetto di soli 8 grammi in grado di elevata autonomia di azione e pensato per operazioni di ricognizione o soccorso22.

Riprendendo il progetto “Future Soldier” statunitense che sin dagli anni Novanta intendeva sviluppare equipaggiamenti e tecnologie in grado di amplificare le abilità dei militari sul campo di guerra, anche l’Italia ha stanziato importanti finanziamenti per sviluppare il suo “Soldato futuro” ad opera di Selex (Finmeccanica, Beretta, Sistema Compositi e Aerosekur).23.

Nonostante il progetto statunitense sia stato cancellato nel 2016 e quello italiano sembri aver subito una battuta d’arresto, ingenti somme continuano a finanziare l’ambizione di ibridare macchina e soldato, come testimonia il progetto Next Generation Squad Weapons24 portato avanti dagli Stati Uniti che prevede militari iperconnessi, sostenuti da amplificazione sensoriale e dotati di armi con balistica computerizzata in grado di calcolare in autonomia le condizioni ambientali e la posizione del bersaglio, assistendo il soldato attraverso informazioni proiettate sull’ottica o ricorrendo a realtà aumentata o mista in modo da operare senza esporsi al nemico. Sono in fase di sviluppo anche sistemi di monitoraggio della salute del militare attraverso chip sottocutanei impiantati al polso.

Le possibilità di ibridazione tra l’universo videoludico e quello militare sono dunque molteplici ma aldilà degli elementi di coincidenza culturale tra alcuni settori della galassia dei videogiochi, l’estrema destra, le logiche neoliberiste e l’universo militare, quel che è certo, e inquietante, è che il ricorso alla forza e alla sopraffazione, che si tratti di hater da tastiera o di forze armate in divisa, sembra sempre più disincarnarsi e disumanizzarsi in quanto gli attacchi vengono portati da vere e proprie comfort zone che preservano dai rischi di un confronto diretto con il nemico, ormai percepito come un’incorporea immagine sullo schermo. Insomma, con sempre più “naturalezza” si sarebbe indotti ad agire sulla realtà come si trattasse di un videogioco. Massacrare esseri umani non è mai stato così facile.


Guerrevisioni


  1. Marco Accordi Rickards, Storia del videogioco. Dagli anni cinquanta a oggi (Carocci 2020). 

  2. Matteo Bittanti, Introduzione: Make Videogame Great Again, in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 7-8. Circa le argomentazioni dei due autori citati si veda Nick Dyer-Witheford, Greig de Peuter, Games of Empire: Global Capitalism and Video Games, University of Minnesota Press, Minneapolis, Minnesota 2009. 

  3. Si vedano a tal proposito i saggi di Andrea Braithwaite, Per un’etica del giornalismo videoludico? #gamergate e la mascolinità geek e di Michael Salter, Dalla mascolinità geek a Gamergate: la razionalità tecnologica dell’abuso online, entrambi pubblicati in Matteo Bittanti (a cura di), Game Over. Critica della ragione videoludica, Mimesis, Milano-Udine, 2020. 

  4. Sarah Jeong, When the Internet Chases You From Your Home, “New York Times”, 15 agosto 2019. 

  5. Charlie Warzel, How an Online Mob Created a Playbook for a Culture War, in “The New York Times”, 15 agosto 2019. Riportato in Matto Bittanti, op. cit., pp. 8-9. 

  6. Ian Williams, Death to the Gamer, in “Jacobin”, settembre 2014. 

  7. Matteo Bittanti, op cit., p. 13. 

  8. Matteo Bittanti, op. cit., p. 14. 

  9. Alfie Bown, How video games are fuelling the rise of the far right, in “The Guardian”, 12 marzo 2018. Riportato in Matto Bittanti, op. cit., pp. 17-18. 

  10. Alessandro Alfieri, Video web armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere, Rogas, Roma, 2021, p. 95. 

  11. Matto Bittanti, op. cit., p. 26. 

  12. Risoluzione approvata con 566 voti a favore, 47 contrari e 73 astensioni il 12 settembre 2018: European Parliament resolution of 12 September 2018 on autonomous weapon systems 

  13. Alessandro Baravalle, Xbox controller, StarCraft II e Doom. Non è una console ma Carmel, un carro armatoisraeliano, in “Eurogamer.it”, 31 luglio 2020. Si veda anche Noah Smith, Leore Dayan, A new Israeli tank features Xbox controllers, AI honed by “StarCraft II” and “Doom”, in “The Washington Post”, 28 luglio 2020. 

  14. Si veda, ad esempio, Travis M. Andrews, The Navy’s adding a new piece of equipment to nuclear submarines: Xbox controllers, in “The Washington Post”, 25 settembre 2017. 

  15. Si veda, ad esempio, Eric Bland, Wii-controlled robots made for combat, in “Nbc News”, 19 dicembre 2008. 

  16. Si veda, ad esempio, Jane Wakefield, Tomorrow’s Cities: Dubai and China roll out urban robots, “BBC News” 10 giungo 2018. 

  17. Si veda, ad esempio, Future Tech? Autonomous Killer Robots Are Already Here, in “Nbc News”, 15 maggio 2014. 

  18. Si veda, ad esempio, Rotundus GroundBot spherical surveillance robot broadcasts live in 3D, in “New Atlas”, 24 ottobre 2011. 

  19. Si veda, ad esempio, Mark Frigg, The remote controlled robot tank fighting ISIS: Iraqi military confirms Alrobot has been deployed in Mosul, in “Daily Mail”, 8 novembre 2016. 

  20. Si veda, ad esempio, Heba Soffar, Modular Advanced Armed Robotic System (MAARS robot) features, uses & design, in “Sciences Online”, 19 marzo 2019. 

  21. Si veda, ad esempio, PD-100 Black Hornet Nano Unmanned Air Vehicle, in “Army Technology”. 

  22. Si veda, ad esempio, Giorgio Bellocci, I droni-insetto con laurea a Harvard per situazioni di soccorso, in “Robotica”, 23 maggio 2016. 

  23. Se ne parla anche nel sito dell’Esercito italiano: “Future Soldier” Program, in “Esercito – Ministero della Difesa”. 

  24. Next Generation Squad Weapons (NGSW) – U.S. Army Acquisition Support Center (USAASC). 

]]>
Processi di ibridazione. La carne, lo schermo e l’inner space contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2020/07/13/processi-di-ibridazione-la-carne-lo-schermo-e-linner-space-contemporaneo/ Mon, 13 Jul 2020 21:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61115 di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli [...]]]> di Gioacchino Toni

In Occidente, ove gli esseri umani passano mediamente più della metà del loro tempo di vita connessi ad apparecchiature digitali, finendo per conoscere la realtà sociale soprattutto tramite le sue rappresentazioni mediatiche, sembrerebbe darsi un processo di fusione progressiva tra spettatore e schermo. Già Marshall McLuhan aveva sostenuto il farsi schermo del corpo dello spettatore televisivo in quanto luogo in cui viene a formarsi l’immagine definitiva derivata dal flusso comunicativo del medium. 

Indagando l’epoca contemporanea, caratterizzata da una spiccata digitalizzazione e dalla tendenza a un comportamento para-tecnologico, in cui gli individui tendono a rinunciare a qualsiasi relazione sociale significativa non gestita attraverso i media tecnologici, è su come gli attuali schermi, sempre più piccoli e leggeri, si stiano progressivamente fondendo con il corpo dell’utente perdendo la loro natura di medium, di strumento intermedio tra due diverse realtà, che riflette il sociologo Vanni Codeluppi nel suo contributo Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media – al volume curato da Carlo Bordoni, Il primato delle tecnologie (Mimesis 2020)1, in cui sono raccolti scritti di diversi autori sul rapporto tra tecnologia e individuo.

Nell’epoca della convergenza mediatica, tecnolgica e culturale il messaggio veicolato dagli schermi elettronici non è più vincolato alla superficie del supporto e tende a essere instabile, mutando costanemente sottoposto tanto alle strategie dell’industria dell’intrattenimento quanto ai desideri e all’uso autonomo praticato dagli utenti2.

Con lo schermo elettronico, il “vedere sopra” dei supporti fissi, ma anche il “vedere attraverso” tipico della prospettiva rinascimentale e frutto di una strategia visiva tesa a catturare lo sguardo dello spettatore, vengono sostituiti dalla promessa di “vedere dentro”, cioè all’interno del mondo mediatico. Lo spettatore rimane all’esterno dello schermo, ma si può muovere in sintonia con esso e non è più costretto a rimanere immobile dentro lo spazio, come accadeva con le forme precedenti di schermo, quale ad esempio quella che caratterizzava la televisione tradizionale. Ha così la sensazione di essere costantemente in contatto con lo schermo e di poter esercitare un controllo su quella realtà a cui lo schermo stesso gli consente di accedere3.

Da ciò l’individuo deriva la gratificante sensazione di essere, attraverso lo schermo, in contatto con l’intero mondo e di poter influire su di esso. Tutto ciò è ulteriormente rafforzato dai dispositivi tattili che suggeriscono una fusione tra strumenti e corpo dell’utente richiamando quella “nuova carne” indagata dal cinema di David Cronemberg passando dalla mutazione allucinatoria del corpo (Videodrome, 1983) fino a un interfaccia tra essere umano e game in cui universo reale e universo del gioco si con-fondono definitivamente (eXistenZ, 1999) dando luogo a un vero e proprio nuovo corpo-ambiente.

Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è la realtà e che la realtà è meno della televisione. (Brian O’Blivion, Videodrome)

Come in Videodrome, anche in eXistenz Cronenberg insiste sulla centralità del corpo nella relazione tra essere umano e macchina in quanto luogo in cui si iscrive l’esperienza dell’individuo.

È collegato con te, sei tu l’alimentazione: il tuo corpo, il tuo sistema nervoso, il tuo metabolismo, la tua energia. Quando sei stanco si scarica e non funziona più correttamente (Allegra Geller, eXistenz)

La macchina innestata nel corpo umano risponde tanto alla necessità del capitalismo di estendere gli ambiti da cui estrarre profitto, quanto all’insufficienza della realtà quotidiana percepita dagli individui e al desiderio di un suo superamento alla ricerca di un nuovo mondo. Al regista canadese interessa mostrare la sempre più marcata indistinguibilità tra carne biologica e quella tecnologica, l’ibrido della “nuova carne”.

Se alla sua nascita il surrealismo, attraverso il recupero delle pulsioni vitali rimosse e il dar loro libero sfogo all’interno della realtà quotidiana, mirava al raggiungimento di quella completezza, quello stato di realtà superiore (surrealtà), comprendente tanto il livello conscio quanto quello inconscio, la filmografia cronemberghiana sembra voler rileggere tale ricerca di realtà superiore alla luce dei nuovi tempi contemplando l’interfacciarsi dell’essere umano con le macchine, soprattutto mediatiche.

Tali questioni sono al centro anche di Black Mirror (dal 2011 – in produzione, Channel 4 – Netflix), serie televisiva che forse più di ogni altra induce a riflettere sul rapporto tra individuo e tecnologie e sul pericolo del controllo. Scrive a tal proposito Claudia Attimonelli Corpo in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror (Rogas 2018) – che

il senso del titolo Black Mirror è analogico al finale di Videodrome (1983), quando Max Renn fuggendo lontano crede d’essersene liberato, ma è proprio quando gli schermi sono spenti e i dispositivi dormienti che le pratiche agiscono sui corpi online, a loro insaputa. “Lunga vita alla nuova carne”, esultava Renn, e all’alba del nuovo millennio Black Mirror ripropone i dilemmi della nuova condizione postumana.4

Suggestioni surrealiste sono prensenti anche in James Ballard che nelle sue opere ha indagato l’immaginario contemporaneo individuando proprio nell’inner space il luogo di conflitto tra differenti concezioni di libertà individuale e collettiva in cui si danno i maggiori cambiamenti epocali determinati soprattutto dai media. In un’intervista rilasciata al nostro Sandro Moiso nel 1992, recentemente data alle stampe in una curatissima edizione – J. Ballard, All that Mattered was Sensation (Krisis Publishing 2019)5 –, lo scrittore sostiene che se in generale è difficile definire il confine tra sogno e realtà, ciò lo è a maggior ragione ai giorni nostri:

l’ambiente esterno in cui tutti viviamo, ciò che siamo abituati a chiamare realtà, oggi è una fantasia creata dai mass media, dai film, dalla televisione, dalla pubblicità, dalla politica – che ormai non è altro che un ramo della pubblicità. Ho detto più volte che oggi stiamo vivendo all’interno di un enorme romanzo, come personaggi dentro una storia immensa. È molto difficile dire cosa sia la realtà. Un campo d’erba che cresce ai bordi di un’autostrada è più reale della pubblicità dell’ultimo film di Arnold Schwarzenegger? Quale dei due è la realtà? Io direi che la pubblicità di Schwarzenegger è più reale di un campo d’erba che cresce. Schwarzenegger rappresenta le più grandi mitologie commerciali della fine del XX secolo. Tristemente l’erba potrebbe morire domani a causa dello smog o dei gas emessi dalle macchine che passano lungo la strada. Questa differenza tra realtà e sogno è molto difficile da analizzare e, in diversi modi, il sogno è la nostra realtà. È più sensato pensare che i nostri sogni siano reali6.

Antonio Tursi Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi 2018) – ha approfondito le caratteristiche di tali nuovi scenari concentrandosi in particolare sul loro carattere politico-conflittuale e mettendo in luce come il rapporto tra corpi e immaginario (soprattutto tecnologico) risulti storicamente meno oppositivo di quanto sembri7.

L’intenso ricorso contemporaneo a schermi che tendono ad annullare la distanza che separa lo spettacolo rappresentato al loro interno e il fruitore incide sul modo con cui gli esseri umani conoscono la realtà sociale, dunque su quest’ultima stessa. A proposito dello schermo, nel suo scritto Codeluppi sottolinea come questo sia anche uno strumento di vertinizzazione, di messa in vetrina della realtà, in linea con un modello comunicativo introdotto dalle vetrine dei negozi, imposto socialmente sin dalla prima metà del Settecento8, poi affinato nel corso dei secoli successivi con l’ampliamento degli spazi commerciali e, negli ultimi decenni, con «l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue le modalità comunicative appartenenti alla vetrina, non a caso una specie di grande schermo ante litteram»9.

Seguendo tale ragionamento, gli attuali youtuber, influencer, net attivisti ecc. rappresenterebbero allora alcuni degli esiti contemporanei di quel processo che ha preso via nelle metropoli europee attorno alla metà del XVIII secolo e che ha portato alla ribalta figure provenienti dalla folla generando un processo di estetizzazione del pubblico. Scrivono a tal proposito Claudia Attimonelli e Vincenzo SuscaUn oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale (Mimesis 2020)10 – occupandosi della serie telvisiva di Chris Brooker:

I diversi dispositivi caratterizzanti la vita metropolitana e le sue propaggini mediatiche hanno assecondato la progressiva traduzione del quotidiano e persino del triviale dall’altra parte degli schermi, delle cornici e delle vetrine, confondendoli tra loro in un incidente tanto spettacolare quanto gravido di conseguenze. Tra di esse, la prima e la più importante tra tutte – anche della democratizzazione della politica – è l’estetizzazione delle masse, che siamo stati abituati ad interpretare come la loro definitiva emancipazione, considerandola un affrancamento della cultura bassa nei confronti di quella alta. La sua onda lunga, a ben vedere, ci conduce dalle chiacchiere nei café londinesi costituenti i prodromi dell’opinione pubblica borghese alle chat di Telegram e ai dialoghi di Twitter, dalle prime fotografie raffiguranti gente ordinaria nella seconda metà dell’Ottocento alla celebrazione del quotidiano su Instagram, dalla raffigurazione di donne e uomini senza qualità come comparse nella Hollywood degli anni Trenta alle stories di Snapchat e ai video degli youtuber. Piaccia o meno il suo risultato, è qui in atto il divenire opera del pubblico, una dinamica della quale Black Mirror svela il compimento inatteso, i passaggi oscuri e gli effetti perversi.11

È difficile definire quanto si sia spinto in avanti il processo di ibridazione tra corpo e schermo, quanto l’immaginario contemporaneo risulti plasmato da tale con-fusione e quanto sia sottoposto a un processo di colonizzazione volto a estrarne profitto. Attimonelli e Susca, suggeriscono di

spostare la prospettiva ai bordi dello specchio nero, dove non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali e del gaming. Lasciando proliferare i margini del corpo, estendere i suoi orifizi e cedere le sue parti molli, si sovvertono, nostro malgrado, gerarchia e funzioni tradizionali degli organi e ci vengono restituite immagini oscene, destabilizzanti e triviali. Il nostro corpo abita la diaspora delle istantanee esternalizzate e collocate in memorie digitali accessibili a chiunque, il nostro corpo è irrimediabilmente di Altri. Non tutti sono pronti a questa mutazione.12

In Black Mirror la negatività con cui è spesso presentata la pulsione all’ibridazione del corpo con altro da sé, sostiene Claudia Attimonelli, sembrerebbe derivare dal timore della perdita di centralità dell’umano in una postmodernità segnata da una relativizzazione a cui, non di rado, si tende a rispondere con rigurgiti nostalgici per una fantomatica età dell’oro non più ripristinabile. «Rinegoziare costantemente, così com’è richiesto dalla serialità televisiva, il grado di umanità a partire dalla “fine del corpo umano” sembra essere il movente per Chris Brooker a ogni nuova stagione»13.

Guardando a Black Mirror come a un’anticipazione del nostro futuro, sostiene Attimonelli, sembra di scorgere

il cambio di paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare. A tratti sembra ci si orienti verso scenari diretti da principi tecnocratici e imbevuti di datacrazia […] Intorno a sistemi postmedievali di tortura del corpo si dipana l’immaginario dell’autodeterminazione, confessione, liberazione, valutazione, punizione, sperimentazione e iniziazione. Con l’emergere di queste forme neo-tribali veicolate da totem ad altissima tecnologia e intelligenza artificiale, nel silenzio della cultura scritta, nella sottomissione ai linguaggi elettronici, nell’“emozione pubblica”, sono i corpi a riprendere potere e vantaggio sul linguaggio. Esso, infatti, risulta essere fallimentare nella sua organizzazione tradizionale, non serve più a spiegare e retrocede dinanzi alle reazioni inedite della carne elettronica14.

Con una buona dose di ironia, oltre che di abilità autopromozionale, la notte in cui è stato eletto Donald Trump i produttori di Black Mirror, quasi a far risuonare la voce del professore Brian O’Blivion, predicatore della Chiesa Catodica in Videodrome, hanno lanciato un meme con la scritta “I realizzatori di Black Mirror confermano che l’elezione americana non è un episodio di Black Mirror” facendo seguito al profilo di Twitter della stessa produzione in cui si riportava: “Questo non è un episodio. Questo non è marketing. Questa è la realtà”15.

È andato in loop, non ne uscirà finché non dirai una battuta che appartiene al dialogo del gioco (Allegra Geller, eXistenz)

Di certo l’inner space dell’epoca della vetrinizzazione spinta, derivato (anche) dall’ibridazione corpo-schermo, è un ambito di conflitto. È altrettanto certo che tale conflitto non potrà essere risolto dal messianico arrivo di un eroe coadiuvato dal suo mentore in stile Matrix (1999) di Andy e Larry Wachowski. In qualche modo occorrerà arrangiarsi. In tal caso il vecchio slogan punk Do it yourself andrebbe però declinato al plurale.


  1. C. Bordoni (a cura di), Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020. Testi di: Cosimo Accoto, Carlo Bordoni, Vanni Codeluppi, Derrick de Kerckhove, Lelio Demichelis, Ernesto Di Mauro, Pierpaolo Donati, Adriano Fabris, Ubaldo Fadini, Marcello Faletra, Umberto Galimberti, Domenico Gallo, Riccardo Gramantieri, Giuseppe O. Longo, Michel Maffesoli, Alberto Oliverio, Matteo Rima, Carlo Sini Bernard Stiegler, Stefano Tani. 

  2. Sulle questioni concernenti la convergenza mediatica, tecnolgica e culturale si vedano i lavori di Henry Jenkins, in particolare il volume H. Jenkis, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007. L’idea che vedeva nella digitalizzazione un viatico per potenziare enormemente le capacità umane dispensando libertà, informazione e una generale propensione al bene comune viene contestata da vari studiosi. Pablo Calzeroni sostiene che i media digitali tendono ad amplificare gli effetti più alienanti del mezzo televisivo; interattività e connettività, anziché migliorare la qualità delle relazioni sociali, sembrano piuttosto averle ulteriormente impoverite incrementando isolamento ed alienazione sociale. P. Calzeroni, Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano Udine 2019. Sul volume si veda: G. Toni, Nemico (e) immaginario. Desoggettivazione ed immaginario antisociale, Carmilla, 20 gennaio 2020. Altrettanto impietoso nei confronti delle possibilità emancipatorie digitali è Jonathan Crary che accusa il sistema tecnologico-mediatico attuale non solo di esercitare una funzione di sorveglianza e di indirizzo di tutte le informazioni prodotte on line, ma anche di intercettare e sfruttare la destabilizzazione umana dilatando i tempi e i modi di comunicazione, lavoro e consumo. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 

  3. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, in C. Bordoni (a cura di) Il primato delle tecnologie, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 33-34. 

  4. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror. Glossario su immagini, culture e media della società digitale, Rogas, Roma 2018, p. 101. 

  5. James Ballard, All that Mattered was Sensation, Krisis Publishing, Brescia 2019. Testo bilingue con intervista e prefazione di Sandro Moiso e un saggio critico di Simon Reynolds. Sulle tematiche affrontate nel volume si vedano: G. Toni, J.G. Ballard e l’immaginario come luogo di conflitto, Il lavoro culturale, 18 dicembre 2019; S. Moiso, Un profeta per il XXI secolo, Carmilla, 8 gennaio 2020; S. Moiso, Leggere J.G. Ballard al tempo della pandemia, Scenari, 16 aprile 2020; S. Moiso, Wonderland, puntata del 16 gugno 2020, Rai 4, visibile su Rai Play

  6. James Ballard, All that Mattered was Sensation, op. cit., pp. 37-38. 

  7. A. Tursi, Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica, Meltemi, Milano 2018. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2]

  8. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 

  9. V. Codeluppi, Vivere negli schermi. La nostra nuova esistenza all’interno dello spazio dei media, cit. p. 35. 

  10. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, Mimesis, Milano-Udine 2020. Al volume sono stati dedicati due scritti su Carmilla: [1] e [2] 

  11. Ivi, pp. 273-274. 

  12. Ivi, p. 175. 

  13. C. Attimonelli, Corpo, in M. Trino, A. Tramontana, I riflessi di Black Mirror, cit. p. 97. 

  14. Ivi, pp. 102-103. 

  15. C. Attimonelli, V. Susca, Un oscuro riflettere. Black Mirror e l’aurora digitale, cit., p. 141. 

]]>
Nemico (e) immaginario. Il senso dell’esistenza davanti allo specchio nero https://www.carmillaonline.com/2019/04/12/nemico-e-immaginario-il-senso-dellesistenza-davanti-allo-specchio-nero/ Thu, 11 Apr 2019 22:01:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51942 di Gioacchino Toni

«Black Mirror piazza lo spettatore davanti allo specchio nero. Alla fine di ogni episodio, lo schermo si spegne diventando riflettente e il soggetto si ritrova solo davanti alla sua immagine, al suo Sé da cui non può fuggire e che non può costruire. Lo specchio (nero) incatena lo spettatore con se stesso e lo porta ad interrogarsi sul significato profondo della sua vita, della sua esistenza. Tutto ciò che l’individuo fa serve a riempire di senso la propria esistenza» Fausto Lammoglia e Selena Pastorino

La complessità narrativa di diverse serie audiovisive recenti richiede allo spettatore un coinvolgimento attivo [...]]]> di Gioacchino Toni

«Black Mirror piazza lo spettatore davanti allo specchio nero. Alla fine di ogni episodio, lo schermo si spegne diventando riflettente e il soggetto si ritrova solo davanti alla sua immagine, al suo Sé da cui non può fuggire e che non può costruire. Lo specchio (nero) incatena lo spettatore con se stesso e lo porta ad interrogarsi sul significato profondo della sua vita, della sua esistenza. Tutto ciò che l’individuo fa serve a riempire di senso la propria esistenza» Fausto Lammoglia e Selena Pastorino

La complessità narrativa di diverse serie audiovisive recenti richiede allo spettatore un coinvolgimento attivo al fine di comprendere, ricostruire, interpretare e prendere posizione, magari condividendo con altri spettatori ipotesi, anticipazioni, riscritture ed ampliamenti del testo originario. Con “complex TV” si fa riferimento proprio a questo tipo di produzioni televisive che incorporano al proprio interno la complessità, tanto a livello di narrazione che di fruizione. Black Mirror appartiene sicuramente a questo genere di programmi ma lo fa con alcune sue peculiarità che, secondo il recente volume di Fausto Lammoglia e Selena Pastorino, Black Mirror. Narrazioni filosofiche (Mimesis, 2019), rendono la serie una narrazione filosofica che si impone agli spettatori come una domanda di senso.

Lo schema narrativo di molte serie televisive si articola su più livelli: l’episodio, che tende a concentrarsi sugli aspetti di uno specifico evento o di un personaggio; la stagione, che conclude un determinato aspetto affrontato; la serie nella sua interezza, a cui spetta il compito di trasmettere il significato profondo dell’intera produzione. In Black Mirror, invece, il susseguirsi degli episodi non è finalizzato alla costruzione di una storia ma alla creazione di un mondo. Le diverse e, salvo rare occasioni, slegate puntate della serie contribuiscono a creare un’atmosfera generale, un continuum di esperienze accomunate da una visione del mondo, da universo tecnologico simile e da alcuni fatti che si legano tra loro soltanto attraverso piccoli dettagli, richiamanti altri episodi, disseminati discretamente dagli autori.

La serie è caratterizzata, oltre che da un evidente apparato allegorico (diversi significati sono veicolati attraverso le colonne sonore ed i nomi), anche dal ripetuto suggerire allo spettatore di non fidarsi delle apparenze ed a differenza di quanto accade con i colpi di scena cinematografici classici, le trasformazioni nella serie riguardano il modo di guardare le cose: ad essere rivoluzionato è il punto di vista.

Gli episodi della serie sembrano ambientati in un “domani tecnologico” di cui, sostengono Lammoglia e Pastorino, non viene tanto criticata la tecnologia, quanto piuttosto l’uso che di essa viene fatto, inoltre si tratta di un domani caratterizzato da una sorta di contrapposizione tra “futuristico” e “vintage”. «Tutta la tecnologia o le parti di realtà che non costituiscono una novità vera e propria sono rappresentate nella serie come strumenti superati, stracci vecchi che andrebbero buttati o cambiati ma, al contempo, rimangono sempre attuali, poiché la ricerca si spinge verso la novità assoluta lasciando da parte l’innovazione e miglioramenti» (p. 18).

L’analisi di Black Mirror proposta dal libro è votata a riconoscere il potenziale filosofico della sua narrazione privilegiando quattro direttive a cui sono dedicati altrettanti capitoli: il primo, Commemorare, affronta la questione della “memoria aumentata” grazie alla tecnologia e quella che potrebbe sconfiggere la morte; il secondo, Giudicare, è dedicato all’impatto che ogni parola può avere una volta raggiunta la dimensione pubblica del social(e); il terzo, Esprimere, si occupa delle modalità di comunicazione interpersonale mediatizzata; il quarto, Controllare, affronta la pervasività dello Stato tecnologico e l’ossessione del comando sul “reale”.

Secondo gli autori è possibile leggere l’intera serie come grido di dolore contro la mancanza di significato della vita in un mondo post-umano, immerso nei social. Diversi protagonisti sembrano «dei moderni Amleto costretti a confrontarsi con il dubbio ontologico tra essere e non essere, tra l’esistenza faticosa, dolorosa ma finalizzata alla pienezza di significato e la non esistenza, la resa che sembra possa portare alla tranquillità attraverso l’inazione […] Questo bisogno di senso si cala nella realtà attraverso due riflessioni ulteriori inerenti l’autenticità del significato. Da un lato il significato profondo dipende dall’immersione della vita nel tempo; dall’altro, il rischio è perseguire uno scopo strumentale perdendo di vista il vero fine della propria azione» (pp. 191-192)

Lasciare, alla fine di ogni episodio, chi lo ha seguito davanti allo schermo che si spegne, lo specchio nero, pone lo spettatore davanti alla sua immagine invitandolo ad interrogarsi circa il significato profondo della sua esistenza. Ma la serie, suggeriscono gli autori del saggio, «come ogni altra narrazione filosofica, non è fatta per restare nel campo dell’astratto ma trova la sua ragion d’essere nel mondo. Non basta capire, perché lo scopo è sempre e comunque l’azione, la praxis. Contemplare la realtà, conoscere se stessi, individuare le falle del sistema sono i passi propedeutici ad una ricaduta concreta nel reale che avvenga tramite l’azione diretta del soggetto il quale dovrà impegnarsi in ogni modo perché la realtà che lo circonda sia adatta, sia vivibile, diventando il campo in cui realizzare il significato profondo del suo Sé. Al contrario, se il soggetto resterà spettatore, seduto sul divano e volto all’inedia, ogni significato che assumerà la sua vita dipenderà da altro o da altri fuori di lui. La potenza della narrazione di Black Mirror è questa, in fondo. Chiede al soggetto di tramutare la sua essenza di spettatore per trasformarlo in attore» (p. 196).

Attraversare lo specchio, sottolineano Lammoglia e Pastorino, «significa allora abbandonare l’esteriorità di una teoresi sterile e ordinata per abbracciare la realtà dell’esperienza vissuta di fronte allo svolgersi degli eventi, darle una forma e agirla in una pratica in cui sia possibile riconoscere noi stessi. Perché se anche lo specchio nero può funzionare come una mirror box in cui le nostre convinzioni falsate vengono corrette da una visione attiva, è solo la prassi del pensiero, in ogni sua dimensione, a permetterci di nuotare nell’abisso che siamo. Ogni volta di nuovo» (p. 203).


Serie completa di “Nemico (e) immaginario”

]]>
Estetiche del potere. Il sangue e lo schermo. La mercificazione della paura nell’era dei media spacciatori di assenze https://www.carmillaonline.com/2017/12/29/42201/ Thu, 28 Dec 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42201 di Gioacchino Toni

Dopo essersi occupato – Clinica della TV (2015) [su Carmilla] – delle logiche e delle estetiche televisive che allontanano dalla comprensione della realtà, Carmine Castoro torna sul luogo dei delitti con il suo nuovo lavoro: Il sangue e lo schermo. Spettacolo dei delitti e del terrore Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, 2017). In questo caso Castoro si preoccupa di «mettere in evidenza quel cuore malato dei media mainstream di oggi che di fantasmizzazione (assenza di storia), finzionalizzazione (assenza di realtà) e frammentazione (assenza di unità) hanno fatto i volani di una forma-flusso che fa [...]]]> di Gioacchino Toni

Dopo essersi occupato – Clinica della TV (2015) [su Carmilla] – delle logiche e delle estetiche televisive che allontanano dalla comprensione della realtà, Carmine Castoro torna sul luogo dei delitti con il suo nuovo lavoro: Il sangue e lo schermo. Spettacolo dei delitti e del terrore Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, 2017). In questo caso Castoro si preoccupa di «mettere in evidenza quel cuore malato dei media mainstream di oggi che di fantasmizzazione (assenza di storia), finzionalizzazione (assenza di realtà) e frammentazione (assenza di unità) hanno fatto i volani di una forma-flusso che fa girare vorticosamente due ratio superiori: la fossilizzazione e la futilizzazione dell’essere umano nel suo tragico apparire, l’era glaciale di un eterno presente e l’irrilevanza di ogni sua manifestazione» (p. 17).

Fiumi di parole di esperti a proposito di disastri ambientali o stragi terroristiche, colate di bile anti-immigrati da parte di populisti a caccia di facile consenso, improvvisi allarmi medici che strizzano l’occhio alle multinazionali farmaceutiche, criminologi che con incredibile sicumera pontificano in ogni tipo di trasmissione, programmi d’informazione che insistono con loop di esecuzioni, liti finite nel sangue, cadaveri di cui pateticamente si maschera il volto al pari delle targhe automobilistiche dei vip… Gli schermi televisivi e del web grondano di Male in tutte le sue sfumature. Si tratta di un Male mediatizzato «astorico, vitreo, untuoso, travisato da una precisa congettura: che sia sbarazzabile e barattabile in quanto lembo lercio e putrefatto della nostra vita. Ed è così che circola come moneta sonante nel Sistema, rendendoci rispetto a esso […] solo dei “devianti” o degli “ovvianti”: gente pericolosa, o corpi fiaccati da tempi troppo veloci che però devono aggiustarsi come “si” vuole che “si” sia» (p. 18).

Di certo la paura è diventata una merce, e «anche per la paura, soprattutto per la paura e la malvagità, siamo dentro quella che Lipovetsky [Una felicità paradossale, Raffaello Cortina, 2007] ha battezzato come la fase III del capitalismo. Se la I era caratterizzata dall’inizio della produzione di massa, da oggetti di lusso ancora a preponderanza borghese, con la seconda si entra nella società dell’abbondanza, del desiderio, quella che consolida le marche e il packaging ma su vasta scala e per tutti, dove inizia a prevalere il funny, l’offerta seduttiva e tattile, giovanile, divertente, la logica-moda, gli oggetti-faro, l’ostentazione, la distinzione [Mentre] è nella III che si installa l’Homo Consumericus, intrappolato in una “economia di varietà e di reattività” dove la rimessa e l’assortimento delle merci è massimo, il retail è una garanzia, ma dove lo spirito del consumo attracca e mette tende in ogni ripostiglio, in ogni rimasuglio della vita, diventandone la concimazione, e dove si vagliano molto i tempi, la comunicazione, la soggettività, il conatus verso un certo prodotto, e il maremagno dell’esperienza è oggetto di sempre nuove passioni, tonificazioni, modellistiche, rivelazioni e rilevazioni. “Tutto accade come se, da ora in poi, il consumo funzionasse come un impero, senza tempi morti e senza confini”. La vita, de-simbolizzata, de-socializzata nei suoi legami comunitari forti, de-conflittualizzata si trasferisce armi e bagagli nelle sue effervescenze mediatiche, nel personalismo del mordi e fuggi, dell’usa e getta, nelle accelerazioni frenetiche di ciò che va comprato e sentito intimamente, nelle taglie su misura che di ogni bene e servizio – e stato dell’anima – la Grande Sartoria del Tele-Capitalismo sforbicia, abbozza, delinea» (pp. 12-13).

In tale terza fase del capitalismo, continua Castoro, la cultura si presenta come vero e proprio investimento finanziario obbligato a essere redditizio ed è in tale contesto che «la paura diventa un aggregatore di effetti, un pacemaker, uno dei tanti pneumotoraci che ci aiutano a inspirare, che ci fanno sentire vivi, e che fanno nelle nostre coscienze un baccano tintinnante di quattrini [e il] Male diventa, allora, un circuito parallelo, di modalità, di temporalità, di condizioni d’uso rispetto alla realtà: due linee che procedono all’infinito e che non si incontrano mai. Per questo diventa zimbello, suspense, aspettativa: meglio godersi il fotoromanzo a puntate del furfante di turno o del Man in Black che difende qualche loggia filo-governativa che pensare a sradicarne le fonti di alimentazione e diffusione. Il Male, dunque, soffice pagliericcio su cui si appoggia il Potere, sconfessato finanche dal nostro destino, si riduce a pulsantiera di opzioni pulp» (pp. 13-14).

Nulla deve rovinare al felicità di consumo del cittadino-telespettatore, pertanto è la miseria stessa a essere trasformata in intrattenimento. Se la prima polarità è indicata dallo studioso in Barbara D’Urso – «Mater Lacrimarum italiana per antonomasia, rappresentante più in vista e più costante nei suoi effetti tragicomici di quella “tv del dolore” che ha veramente subornato la nostra cognizione dei drammi umani negli ultimi anni» -, la seconda polarità indicata da Castoro è quella dell’ISIS. Tanto la star della tv del dolore, quanto la compagine fondamentalista dispensatrice di terrore, «sono, nei fatti, l’idea corrente di bene e di male che ci facciamo […] I padroni della videocrazia imperante rincorrono, con una banale iconografia della paura, attentati e calamità che non sanno illustrare – figurarsi prevenire – con un’adeguata informazione civica e poliedrica, e le cui manifestazioni più tremende preferiscono spalmare sul nulla di ore e ore di dirette costellate da racconti-routine, imbarazzanti opinionisti, imbarazzati inviati, cifre e probabilismi, videuzzi di reporter amatoriali trasmessi a go-go come se nella loro oscena ipervisibilità potessimo attingere le ragioni di una violenza che, invece, ancora sfuggono a molti. Si ripetono le solite etichette: tragedia immane, inferno, apocalisse, scenario inquietante, atmosfera irreale, “una triste pagina di storia che rimarrà nella nostra memoria”, immagini che si soffermano su barelle, feretri, gente disperata, familiari impotenti, soccorritori che si sentono male, senza che un bandolo arrivi mai a dipanare una matassa che resta ingarbugliata e autoreferente, dentro un’attesa che risulta ansiogena e stordente» (pp. 18-20).

Nei media mainstream contemporanei prevale una temporalità limitata all’istantaneo o votata al flusso inarrestabile, frammenti privi di storia o scorrimento magnetico ipnotizzante, choc verbali e/o visivi o colata priva di contenuti interessanti. Ciò che manca, sostiene Castoro, è «la temporalità “media”, quella dell’osservazione partecipata, della raffinazione delle emozioni, delle analisi complesse, dei punti di sintesi, delle letture allargate governate dalla serietà e dalla reale competenza di chi parla, e non dei soliti “vip” narcisi e mistificatori a microfono sempre aperto». Ma, soprattutto, continua lo studioso, «manca l’elemento “di fuga”, quello che dopo la comprensione ci spinga a una trasformazione democratica dell’esistente e a un upgrade etico e deontologico di tutti, in tutti i campi della vita pubblica e privata. Vorrei ignorare come funziona la gru che solleva le lamine d’acciaio accartocciato o il macchinario che le trincia – a Corato o in qualsiasi altro deragliamento – e sapere prima, molto prima, delle pastoie che arretrano verso frontiere medievali intere fette del nostro paese o del pianeta in cui ho avuto la sorte di nascere» (p. 21).

]]>
Nemico (e) immaginario. Processi di zombificazione ed umanità 2.0 https://www.carmillaonline.com/2017/02/23/nemico-e-immaginario-processi-di-zombificazione-ed-umanita-2-0/ Wed, 22 Feb 2017 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=35755 di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada [...]]]> di Gioacchino Toni

diaryofthedead«I Veri Zombi non hanno nulla di esteriormente orribile o mostruoso, ma hanno parvenze umane. Sono umani. Gli zombi siamo noi, l’umanità 2.0. Questi, i principali tratti distintivi: indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» Livio Marchese

In diverse produzioni audiovisive recenti il genere zombi sembra essere giunto al capolinea nel suo girare a vuoto e preoccuparsi, quasi esclusivamente, di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore perdendo per strada alcune caratteristiche di critica radicale presenti nel genere sin dall’inizio. Livio Marchese nel suo breve saggio “La fabbrica degli zombi: da Caligari al Grande Fratello”, contenuto nel volume AA.VV., Critica Dei Morti Viventi. Zombie e cinema, videogiochi, fumetti, filosofia (Villaggio Maori Edizioni, 2016) [libro già affrontato su Carmilla nel corso della serie “Nemico (e) immaginario“], con un occhio di riguardo alle responsabilità dei media e dell’audiovisivo, indaga la trasformazione dalla figura del morto vivente alla luce di quella che può definirsi una mutazione dell’essere umano.

Lo scritto prende il via dall’analisi di White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, opera che porta per la prima volta gli zombi sul grande schermo e può essere considerato il film archetipo del genere. In tale film gli zombi sono individui resi dominabili e sfruttabili come forza-lavoro da stregoni vudù che li mantengono in uno stato di morte apparente. L’atmosfera del film, sostiene Marchese, rimanda al cinema espressionista tedesco degli anni Venti ed in particolare a Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, 1920) di Robert Wiene. La relazione tra cinema e zombi, secondo lo studioso, non si risolve però in una mera predilezione tematica o iconografica ma potrebbe, addirittura, essere di natura ontologica.

In una sequenza del film di Wiene ambientata in una fiera all’interno di un tendone nella cui oscurità, che rimanda alla sala cinematografica, «gli spettatori borghesi assistono allo spettacolo del morto vivente e interrogano l’onnisciente sonnambulo sul loro futuro. La risposta è inequivocabile: “morte!”. Vista da questa prospettiva, la sequenza appare portatrice di un presagio agghiacciante: lo spettatore, cercando la risposta alle proprie domande esistenziali nei “morti viventi”, nelle vuote parvenze, ottuse e bidimensionali che infestano lo schermo, va incontro a un destino funesto, finendo per assimilarsi ad esse. In altre parole, il cinema, o meglio, “certo” cinema zombifica lo spettatore, rendendolo un inerte automa. Lo diceva Buñuel, l’immagine in movimento è un’arma potentissima, tanto meravigliosa, quanto pericolosa. Agendo sugli stati psichici più profondi, essa può liberare e prolungare lo sguardo, quanto condizionarlo e obnubilarlo fino allo stupore catatonico. Il cinema è un’arte patogena, l’immagine una spora e il “complesso dello zombi” la malattia che affligge l’umanità del terzo millennio» (pp. 19-20). Da un certo punto di vista White Zombie, sin dai primi anni Trenta, mostra quel che sarebbe divenuta l’umanità.

Secondo Marchese la portata della mutazione dell’essere umano contemporaneo è esplicitata in maniera esemplare dal film The Last Man on Earth (L’ultimo uomo della Terra, 1964) di Ubaldo Ragona / Sidney Salkow, ispirato al romanzo I am Legend (Io sono leggenda, 1954) di Richard Matheson. Nel film tutto risulta minaccioso e lo stesso dottor Robert, l’ultimo esemplare della vecchia umanità, pur immune alla contaminazione, «è destinato a soccombere ai nuovi mostri eterodiretti, in quanto rappresentante di un passato ormai superato e da cancellare […] La conclusione ultrapessimista del film, che fa di Robert quasi una figura cristologica, suggerisce la tragica considerazione della necessità ma, al tempo stesso, dell’inutilità del pensiero-azione, che nulla può di fronte a un cambiamento così epocale. Da questa prospettiva, L’ultimo uomo della Terra appare come un terrificante apologo sulla Grande Mutazione» (p. 21).

La figura dello zombi irrompe sul finire dei tumultuosi anni Sessanta grazie a Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968) di George Romero; da allora fino agli anni Ottanta del Novecento un certo cinema zombi mantiene la sua feroce critica nei confronti della società, del militarismo e di un certo uso della scienza. Successivamente ecco il rappel à l’ordre normalizzatore, ed al giro di boa del terzo millennio il genere zombie tende ad essere recuperato dal sistema in linea con «quella mutazione conformista che un po’ tutto il cinema di genere – e quello fantastico in particolare – sembra aver pagato all’apocalisse dello sguardo» (p. 22). Tutto ciò in linea con il rappel à l’ordre a cui è sottoposta l’intera società nel corso degli anni Ottanta.

28_DayDunque, sostiene Marchese, al filone haitiano-vudù, esauritosi, salvo qualche rara eccezione, attorno alla metà degli anni Sessanta, ed alla serie di film di (ed alla) Romero, contraddistinti da una feroce critica sociale, succede una terza ondata di cinema zombi inaugurata da 28 Days Later (28 giorni dopo, 2002) di Danny Boyle, film che non manca di richiamare The Crazies (La città verrà distrutta all’alba, 1973) di George Romero. Ad essere messa in scena nel film di Boyle è una realtà in cui gli esseri umani si trasformano in creature antropofaghe non appena venuti a contatto con agenti virali. Tale nuova ondata zombi è spesso associata al clima catastrofico, paranoico e d’incertezza diffusosi soprattutto dopo l’attacco alle Twin Towers, in cui entrano in causa anche l’invadenza dei media e la crisi economica.

Secondo lo studioso nella produzione cinematografica e televisiva dell’ultimo quindicennio, salvo rare eccezioni, la figura dello zombi ha perso tanto il fascino del filone haitiano, quanto la sferzante critica sociale e politica presente nell’ondata romeriana. Marchese accusa le produzioni più recenti di ripetere sostanzialmente il medesimo schema narrativo con poche varianti: l’irrompere dell’orrore nella quotidianità borghese, la catastrofe mostrata in diretta dalla tv, le città evacuate in un clima da fine del mondo, la pandemia, l’incubo del contagio e del contatto con l’“altro”, la dissoluzione di ogni ordine sociale, i problematici rapporti tra i superstiti…

«All’apice del suo successo planetario – la “zombitudine” ha valicato i margini del fotogramma ed è diventata una moda, quasi uno stile di vita (imperdibile l’interessantissimo documentario Doc of the dead di Alexander O. Philippe, 2013) –, bisogna rilevare come il cinema zombi post 11 settembre, sul piano etico ed estetico, si caratterizzi per una piattezza narrativa disarmante e per il conformismo delle soluzioni stilistiche, che sul piano strettamente iconografico appaiono spesso quasi ricalcate, in maniera a dir poco inquietante, sul modello delle riprese televisive di quel tragico evento» (p. 24).

Diary of the Dead (Le cronache dei morti viventi, 2007) di George Romero viene indicato da Marchese come un’interessante riflessione metalinguistica. La storia è quella di uno studente di cinema che, intendendo realizzare un film horror, finisce col trovarsi catapultato in un mondo in cui i morti tornano in vita attaccando i vivi e decide di sfruttare l’occasione per realizzare “un horror in presa diretta”. È il protagonista, Jason, ad essere un vero zombi: «malato di immagine e drogato di virtuale, si relaziona a un mondo che va in pezzi protetto dallo schermo della videocamera. Forte della convinzione di dover informare la gente su ciò che accade, ma non esitando ad aggiungere gli effetti sonori più sinistri al montaggio finale allo scopo di amplificare il terrore, perché “la verità a volte non basta”, Jason sconta il delirio d’onnipotenza e l’egomania di coloro che nutrono una fiducia ottusa nel virtuale, nella falsa democraticità della Comunicazione, credendo di poter salvar l’umanità postando l’ennesimo video su internet, seduti nel buio della loro cameretta» (p. 27). Il film coglie e restituisce il nauseante disorientamento derivato dall’eccesso di immagine a cui si è sottoposti nella società contemporanea contraddistinta da un’ossessione generalizzata per la registrazione di immagini e relativa condivisione attraverso i media.

«Diary of the dead è anche un interrogativo nichilista su cosa significhi fare cinema oggi, all’epoca dell’apocalisse dello sguardo, e su quale senso possa avere continuare a raccontare storie, a inventare immagini, a inflazionare con ulteriori cine-frammenti un mondo nel quale la verità e la realtà fattuale appaiono non più conoscibili e scomposte in innumerevoli e non verificabili ipotesi-di-realtà che si annullano a vicenda, affogando nel vortice costante di un rumore di fondo frastornante che ha come esito ultimo l’indifferenza di fronte al reale, il sonnambulismo percettivo, quella morte dello stupore che coinvolge ormai tutti quanti, produttori e fruitori d’immagini» (p. 28).

Marchese risulta molto severo nei confronti della produzione audiovisiva zombi più recente tanto da salvare quasi soltanto il buon vecchio Romero che, con opere come Land of the Dead (La terra dei morti viventi, 2005) e Survival of the dead (L’isola dei sopravvissuti, 2009), dimostra di saper ancora padroneggiare la metafora del morto vivente per riflettere sulla deriva della società e sulla condizione umana.

only-lovers-left-alive«Spia sintomatica del comune sentire dell’umanità del terzo millennio, il cinema zombi non va oltre la remunerativa ambizione di registi e produttori d’immagini di soddisfare il bisogno di forzare sempre più i limiti della rappresentazione dell’Orrore, da parte di un pubblico che in essa trova sfogo catartico e compiacimento. A fronte di tanto eccesso di ostentazione, vedere tutto per non pensare a nulla, gli zombi più credibili, i Veri Zombi, sono quelli dell’ultimo capolavoro di Jim Jarmusch, Solo gli amanti sopravvivono (2013). Che non si vedono quasi mai e che compaiono solo nei discorsi dei protagonisti, due raffinati vampiri che vivono isolati dal mondo, difendendo gelosamente il loro spazio vitale dalla contaminazione con gli “zombi”, gli esseri umani, che ritengono colpevoli di aver distrutto la natura, rinnegato la vera arte, pervertito la scienza e smarrito il senso del bello» (pp. 29-30). Dunque, gli zombi siamo noi nel manifestare «indifferenza agli stimoli esterni, assenza di volontà, di emozioni e di senso critico, istinto cieco ed egoistico di sopravvivenza, automatizzazione dei gesti e dei comportamenti, decervellamento, deresponsabilizzazione, conformismo, eterodirezione, smarrimento del senso del reale» (p. 30).

Secondo Marchese ormai il cinema che parla di “veri zombi” non ha a che fare tanto con i film, più o meno truculenti, che si ostinano a mettere in scena orrorifiche creature barcollanti, bensì è quello «che racconta gli effetti della Grande Mutazione sull’evoluzione della natura umana, spingendoci a riflettere in particolar modo sulla responsabilità dei media e dell’audiovisivo nel compimento della profezia caligariana» (p. 30) ed a tal proposito si sofferma su tre film: Benny’s video (1992) di Michael Haneke, Tony Manero (2008) di Pablo Larrain e Reality (2012) di Matteo Garrone.

L’opera di Haneke mostra gli effetti del bombardamento d’immagini sul comportamento umano. Benny, il protagonista del film, che mantiene i contatti con mondo quasi soltanto in maniera indiretta attraverso un monitor che riproduce la realtà esterna all’abitazione e passa buona parte della giornata visionando film horror, uccide una coetanea da poco conosciuta, anch’essa del tutto assuefatta alle immagini cruente. «Dopo aver trascinato il corpo inerte per la stanza, Benny asciuga il sangue sul pavimento con un lenzuolo. Quando lo riappende al suo posto, dopo averlo lavato, esso non reca più alcuna traccia: è come uno schermo televisivo sul quale scorrono gli orrori più inenarrabili senza lasciare impronta. Le immagini, nell’era della Comunicazione, scorrono in un flusso costante, amorfo e volatile, ma la loro eredità psichica ed emotiva è persistente ed esiziale» (p. 31).

Il film di Pablo Larrain è ambientato nel Cile di fine anni Settanta e racconta la storia di Raúl Peralta, un ballerino ossessionato dalla figura di Tony Manero protagonista di Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera, 1977) di John Badham. La macchina da presa segue Peralta «per le strade fatiscenti di una città avvolta da una cappa plumbea, opprimente e claustrofobica, in un contesto umano degradato, privo di tessuto connettivo e dedito solo alla sopravvivenza. Il punto di vista dello spettatore coincide con quello di Raúl, che come un animale braccato è indifferente a tutto ciò che non riguarda direttamente il conseguimento del suo scopo» (pp. 31-32). Il ballerino intende partecipare ad uno show televisivo in cui si premiano i sosia perfetti dei personaggi famosi e non esita ad uccidere chi sembra frapporsi alla sua identificazione con Tony Manero. «Identificarsi con i divi dello spettacolo, riprodurne gesti, movimenti e adottarne il look, rappresenta l’unica via di fuga in una società che non lascia spazio all’individuo. La massima mortificazione della libertà individuale provoca schizofrenicamente ulteriore desiderio di omologazione» (p. 32).

Anche nell’opera di Garrone siamo alle prese con un personaggio ossessionato dal raggiungimento della notorietà televisiva. Nel film, ambientato a Napoli, il pescivendolo Luciano decide di partecipare alla selezione per il Grande Fratello e nella snervante attesa di risposta il «sogno di fama e di successo s’impossessa di lui sotto forma di un’ossessione maniacale che può trovare sbocco solo nella dissociazione psichica. Da questo punto di vista, Reality è un film davvero terrificante. Garrone racconta l’alterazione nella percezione della realtà prodotta dalla società dello spettacolo su un’umanità fiaccata da desideri, sogni di successo, frustrazioni, ansie, paure. Non è un film sulla realtà virtuale, ma sulla virtualità della realtà in un mondo dominato dal culto dell’Apparire, in cui il Grande Fratello ha sostituito Dio ed è la televisione a fornire quella speranza d’immortalità che un tempo era promessa dalla fede o dalle ideologie» (pp. 32-33).

È dunque questa “umanità 2.0”, totalmente plasmata dall’immaginario dei media a mostrare, secondo Marchese, i segni inequivocabili della zombificazione in atto, se non avvenuta.

]]>