sanzioni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 20: Guerra santa (subito?) https://www.carmillaonline.com/2023/01/11/il-nuovo-disordine-mondiale-20-guerra-santa-subito/ Wed, 11 Jan 2023 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75603 di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili [...]]]> di Sandro Moiso

In quelle folle doveva esserci qualcosa di diverso. Che cosa? Ve la dirò a bassa voce, la terribile parola, che viene dall’inglese antico, dal tedesco antico, dall’antico norreno. Morte. Gran parte di quelle folle si raccoglievano in nome della morte. Erano lì per partecipare a una cerimonia funebre. Processioni, canti, discorsi, dialoghi con i morti, recitazioni di nomi di morti. (Rumore bianco, Don DeLillo)

Mentre le pornografiche cronache mediatiche della morte provenienti dal fronte ucraino, con i loro rosari di soldati russi ammazzati e massacrati oppure di civili uccisi e brutalizzati, cercano di convincere un’opinione pubblica sempre più stanca e distratta della necessità di “partecipare” alla guerra con l’invio di armi all’esercito di Zelensky ormai “avviato alla vittoria”, l’analisi dei fatti a livello internazionale suggerisce che la vittoria ucraino-occidentale sia ben lontana e che, anzi, questa sia fortemente inficiata da un ampliamento delle aree di conflitto che non fa altro che giustificare il titolo di questa serie di articoli, iniziata su «Carmilla online» esattamente il 25 febbraio 2022.

Da Taiwan alle isole Curili, dall’Artide all’Antartide passando per parti significative dell’Africa Sub-sahariana, il Mar Cinese meridionale e il quadrante dell’Indo-Pacifico, sono tantissimi i punti di frizione in cui le maggiori potenze e i loro alleati locali potrebbero accendere la scintilla di un conflitto devastante che più che in una terza guerra mondiale “a pezzi”1, probabilmente già in atto, potrebbe rapidamente trasformarsi in una guerra totale su larghissima scala. A conferma di ciò occorre sottolineare che in ogni area di frizione e possibile confronto militare si addensano tutti i fattori possibili di competizione: dalla concorrenza economica al controllo delle risorse (sia naturale che tecnologiche, come nel caso della produzione di microchip a Taiwan) fino a quelli riconducibili alle esigenze di carattere strettamente militare e geo-politico. Tutte situazioni in cui i possibili antagonisti sono numerosi e talvolta alleati o nemici sul luogo mentre invece possono avere posizioni rovesciate in altre situazioni di disequilibrio.

A tutto ciò vanno ad aggiungersi le mai sopite contraddizioni intereuropee intorno al ruolo di chi deve comandare in Europa (Francia? Germania? Gran Bretagna? Stati Uniti?)2, quelle interne agli Stati Uniti3 e, last but not least, le differenti posizioni in sede di Alleanza atlantica e Unione Europea rispetto all’invio di armamenti e aiuti all’Ucraina di Zelensky e le posizioni da tenere nei confronti delle sanzioni riguardanti gas, petrolio e commercio con la Russia.

Le folle di cui parla DeLillo nel suo Rumore bianco sono quelle che si riunivano nelle adunate del Terzo Reich, soprattutto in quelle in cui a parlare fosse il Fürher: «Accorrevano folle a sentirlo parlare, folle in preda a carica erotica, le masse che un tempo aveva definito la sua unica sposa […] Quelle folle accorrevano per fare da scudo alla propria morte. Farsi folla significa tener lontana la morte. Uscire dalla folla significa rischiare la morte individuale, affrontare la morte solitaria. Quelle folle accorrevano soprattutto per questa ragione. Erano lì proprio per essere folla»4.

In piazza San Pietro il Papa emerito non poteva più parlare, ma altri lo hanno fatto per lui e lo faranno ancora. Annunciando una nuova stagione di guerra. Non più solo al di fuori della Chiesa, ma anche al suo interno. Non solo per motivi teologici o di forma (la messa in latino), ma ben più sostanziali, concreti e terreni. In un momento in cui, nonostante la strombazzata unità di intenti e di stili di vita, l’Occidente non trova un attrattore degno di questo nome, tanto meno fatale, per riunire nuovamente insieme grandi folle inneggianti alla Patria e alla Nazione, come sarebbe in realtà necessario per proseguire con successo nella guerra dei mondi che è già iniziata.

«Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce […] Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere»5. Oggi le cattedrali del consumo, i social network, la Rete, i media riescono a ricreare solo in parte tale tipo di assembramento unitario. Vale per coloro che convocano su Facebook o TiKTok e WhatsApp manifestazioni e flash mob cui di solito non partecipa nessuno o pochissimi oppure si trasformano in assalti spettacolari ma privi di risultato alle istituzioni del potere, ma anche per le grandi reti di vendita di dati e merci che iniziano a dover licenziare i dipendenti a migliaia o decine di migliaia. Manca il collante comune, il minimo comune denominatore che la tanto decantata società aperta si è persa da qualche parte per strada.

Ammesso che tale idea di società, formulata prima da Henri Bergson nel 1932 e successivamente sviluppata da Karl Popper, sia realmente esistita in qualche momento della storia compresa tra la fine del secondo conflitto mondiale e il tempo attuale, certo ha fatto sì che nel definire le politiche sociali e globali degli ultimi settant’anni, al di là di ciò che è stato ed è ancora dettato dalle esigenze immediate del capitale, all’interno delle società occidentali e del loro modo di produzione dominante a regnare sia stata più la termodinamica del non equilibrio che i principi della meccanica classica. Che necessita di forze, poli e campi tali da poter definire con certezza esperimenti sia nell’ambito delle discipline naturali che sociali (e politiche).

La celebre massima di Margaret Tatcher, la società non esiste esistono solo gli individui, si è sostanziata nella realtà attuale, ma il risultato “politico” è stato che, mentre un tempo le grandi folle si radunavano per perdere la propria individualità in nome di un’identità comune, semplicemente, oggi le “masse” hanno perso qualsiasi tipo di identità, sia individuale che comune. Senza nemmeno trasformarsi in quelle moltitudini costituenti che han fatto gran parlare di sé fino a qualche anno or sono e senza alcun costrutto materiale. Se non l’esser fondato sulla costante e instancabile ricerca di un “nuovo soggetto” che ha sempre caratterizzato certe teorizzazioni dell’operaismo italiano (di derivazione più gramsciana che marxiana).

Per dirla in altro modo: la progressiva vittoria del capitale sulle barriere opposte prima dalle comunità e dalle classi poi degli stati nazionali e dei nazionalismi ha permesso che la sfera di valori in cui milioni, o meglio miliardi di persone nel mondo globalizzato, fin dagli albori dello sviluppo del capitalismo industriale, si muovono sia di fatto andata riducendosi a sole due triadi. Quella dell'”investi, produci/vendi e ricava profitto” (magistralmente riassunta dalla formula marxiana D – M – D1) valida per i funzionari del capitale e quella rappresentata da “lavora-produci, consuma e crepa” sussunta in pieno da ciò che rimane della classe lavoratrice o aspirante ad esser tale.

Al di fuori di ciò, potenzialmente, non dovrebbero sussistere altri valori morali, politici, di classe, nazionali od altri che possano mettere i bastoni tra le ruote alla progressiva espansione del capitale e delle sue regole elementari. Fatto che, soprattutto in Occidente, con il trionfo della società dei consumi dalla fine del secondo conflitto imperialistico in poi e con l’avvento del “secolo americano” a seguito di quello, ha avuto come conseguenza il progressivo superamento mercantile dei confini e delle istituzioni parlamentari nazionali a vantaggio del predominio del capitale finanziario. Dando di fatto vita a comunità d fatto reggentisi unicamente sulle leggi dello sviluppo e dell’interesse capitalistico.

Come chi scrive ha già avuto modo di sottolineare nella prefazione al testo, di Gioacchino Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, (Il Galeone Editore, Roma 2022), citando Jacques Camatte6:

In realtà fu già intuizione di Marx il fatto che il capitale tende a farsi comunità, poiché un modo di produzione non è altro che una forma di vita e riproduzione comunitaria basata su determinate regole. In questo caso basate ormai da più di due secoli su quelle della valorizzazione e accumulazione capitalistica. Attraverso il movimento della società, il capitale si è accaparrato tutta la materialità dell’uomo il quale non è più altro che un soggetto di sfruttamento, un tempo determinato di lavoro: «Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa (carcasse) del tempo» (Karl Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 48). Così il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra il movimento della società e il movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio perché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità7.

Non solo:

(Il capitale) si è impadronito dello Stato, comunità alienata degli uomini o, se si vuole, tentativo di conciliazione degli antagonismi, al punto che può apparire come la negazione del potere (Macht) di una classe dal momento che non ne ha nemmeno più bisogno per assicurare il proprio dominio (Herrschaft); anche la classe dominante viene dominata. Ormai il capitale ha bisogno solo di schiavi8.

Ecco allora che la classe al potere inizia a saggiare sulla propria pelle il fatto che, secondo Marx (nel III libro del Capitale), «il vero limite al capitale è il capitale stesso». Limite non soltanto più produttivo, come si intendeva principalmente nelle pagine incompiute del Moro di Treviri, ma anche politico ovvero di gestione dello Stato e della società divisa in classi.

Una società frammentata ma, allo steso tempo, organizzata intorno alla fascinazione delle merci e suddivisa in infiniti rivoli “identitari” che vanno dall’appartenenza alle tifoserie sportive alle identità di sesso e genere dei singoli come di quelle etniche e razziali, talvolta sovraniste (ma basterebbero i risultati elettorali ottenuti in Italia da Italexit o dalle parallele liste “di sinistra” o di estrema destra a far comprendere l’inessenzialità delle stesse per un discorso socialmente più coesivo) fino a quelle definite da singole sette religiose, politiche o mercantili (leggi follower di pubblicità di merci e “artisti” o presunti tali di ogni settore dell’intrattenimento commerciale). Un enorme supermercato di merci scintillanti e idee opache in cui, come si diceva all’inizio, a predominare è ancora la necessità di riproduzione del capitale e di estrazione di plusvalore estorto dal lavoro coatto, ma travestita da scelte e gusti “personali”.

In cui anche i rappresentanti politici e di governo son finiti col rassegnarsi ad essere null’altro che prodotti commerciali, possibilmente ben confezionati, da vendere agli elettori. Promoter e spin doctor son diventati così, insieme agli algoritmi che interagiscono nei e con i social, i veri “comitati elettorali” delle competizioni politiche travestite farsescamente da elezioni. Tendenza che ha almeno una data e un luogo di origine: il 1960 e naturalmente gli Stati Uniti, quando ebbe inizio la campagna elettorale che avrebbe portato alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy e la consorte Jacqueline (poi Onassis). Giocata in gran parte sulla giovane età del candidato e la bellezza della coppia. Oltre che su uno slogan da cui Trump ha poi ancora rubato l’ispirazione per il suo Make America Great Again: A time for greatness.

In quel contesto e a quell’epoca, la logica dello star system hollywoodiano sostituiva la logica politica con la promozione di un desiderio dal sapore vagamente erotico, ancor più che liberal. Cui, in fin dei conti, hanno dovuto pur qualcosa l’elezione di Bill Clinton, Barak Obama e anche il successo di certi “giovani” politici italiani o altri/e ancora.
Ma tale, oscena, macchina del controllo, che ha funzionato nel cancellare ogni reale identità di classe tra la maggior parte dei lavoratori dipendenti, ed per esaltare il consumo di ogni genere di merce, materiale o immateriale che sia, in realtà diventa anche un ostacolo nell’ambito delle mobilitazioni nazionali e nazionaliste necessarie in caso di guerra. Nessun partito o idea, sia di Destra che della Sinistra liberal-democratica, ha attualmente la forza per mobilitare, in Occidente, grandi masse in funzione bellica: sia dal punto di vista ideologico che militare.

Ce lo ricorda, ad esempio, lo storico Niall Ferguson in un saggio pubblicato su “Bloomberg”:

La guerra è tornata. Anche la guerra mondiale potrebbe tornare? Se è così, influenzerà tutte le nostre vite. Nella seconda era tra le due guerre (1991-2019), abbiamo perso di vista il ruolo della guerra nell’economia globale. Poiché le guerre di quel tempo erano piccole (Bosnia, Afghanistan, Iraq), abbiamo dimenticato che la guerra è il motore preferito della storia dell’inflazione, dei default del debito – persino delle carestie. Questo perché la guerra su larga scala è simultaneamente distruttiva della capacità produttiva, perturbante del commercio e destabilizzante delle politiche fiscali e monetarie. […] Il problema con le guerre prolungate è che gli Stati Uniti e gli europei tendono a stancarsi di loro ben prima che lo faccia il nemico9.

Non si elencheranno qui nuovamente tutti gli elementi di difficoltà nel “vincere” questa guerra che l’Occidente sta incontrando sul piano economico ancor prima che militare, ma certo la scarsa partecipazione emotiva dell’opinione pubblica occidentale ai fatti ucraini costituisce pur sempre motivo di interesse (o di relativo imbarazzo), nonostante la propaganda continua e costante dedicata al tentativo di catturarne l’attenzione (e la passione). Ma è a questo punto che è tornata in gioco la pedina ”Chiesa cattolica”.

Proprio a partire dalla morte del ex-Panzerkardinal Ratzinger si è sviluppata una battaglia, per ora, senza esclusione di colpi, che sembra vertere, più che sulle questioni dottrinarie, su come la dirigenza della più importante componente della cristianità occidentale, ovvero la Chiesa cattolica facente capo a Roma, dovrebbe comportarsi nei confronti di una guerra e dei futuri confronti militari e politici destinati a mettere in crisi, secondo la vulgata mediatica corrente, quelli che sono considerati i sacri valori della libertà e della democrazia occidentale (oltre che il predominio economico dell’ultima qui citata).

Indipendentemente dai risultati dell’incontro “privato” tra la premier italiana e papa Francesco, l’equidistanza ”pacifista” di Bergoglio non sembra più sufficiente ai fautori della “guerra per la libertà”, motivo per cui viene richiesto e suggerito al soglio pontificio di cambiare registro e trasformare l’attuale programma pastorale in un più marcato accompagnamento del gregge al macello. Che tale intento si sia maggiormente manifestato su organi di stampa di destra non colpisce, ma certo gli omaggi tributati al Papa emerito nei giorni delle sue esequie anche dai media considerati liberal o di sinistra potrebbe far pensare ad un riposizionamento degli stessi in chiave sempre più bellicista (se mai ce ne fosse ancora bisogno).

Il quotidiano della Conferenza episcopale italiana ha cercato in ogni modo di mediare e ammorbidire le differenze tra la visione di papa Ratzinger e di papa Bergoglio su varie questioni, non soltanto inerenti alla guerra senza abbandonare il percorso fin qui seguito da papa Francesco:

Nella guerra d’Europa, e per il nuovo (dis)ordine mondiale, che si combatte da più di dieci mesi in terra d’Ucraina il giorno che per gli ortodossi è la vigilia di Natale e per il resto della cristianità l’Epifania è stato un giorno pessimo, triste e feroce persino più di altri di questa carneficina – parola di papa Francesco – folle e sacrilega. Perché quando si trasforma una pur fragile occasione di tregua, comunque sia balenata, da chiunque sia stata offerta, in un nuovo terreno di battaglia – a suon di dichiarazioni sferzanti, di atti ostili e di ordigni letali scaraventati contro le vite degli altri – il giudizio deve essere netto. Così come dev’essere netto il rifiuto della logica politica e bellica e la morale distorta che impediscono di frenare il massacro10.

Appena il giorno prima, però, un quotidiano ritenuto “laico” e liberal-democratico come «Domani» aveva pubblicato una lettera di aperto sostegno all’arcivescovo di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, del 7 marzo 2022, scritta da Ratzinger: «Un messaggio di forte vicinanza all’arcivescovo ucraino che di sicuro mostra una certa distanza dalle posizioni di Francesco che, dall’inizio del conflitto, ha sempre invocato la pace ma cercando sempre di mantenersi equidistante rispetto alle parti in causa»11.

Nulla da stupirsi, quindi, se un giornale di destra, nello stesso giorno, scrive nel suo editoriale:

…poi accade che muore un Papa, nel caso emerito, il mondo si commuove e a Roma va in scena un funerale che è un gigantesco omaggio alle radici cristiane della stessa sciagurata Europa di cui sopra. E allora, al netto delle polemiche tra papi regnanti e non […] ti viene il dubbio che l’Europa non sia quella cosa là ma quella cosa lì, e lo sia anche per un laico convinto come me e immagino come molti di noi. Ma allora, se è quella cosa lì vista in Piazza San Pietro non possiamo chiamarci fuori pena perdere non solo un ruolo ma pure una identità. Ebbene sì, spiace dirlo ma noi siamo europei fino al midollo e lo siamo perché siamo figli di una storia cristiana, la quale no è esattamente ciò che oggi per lo più ci raccontano. Lo disse anche Ratzinger: «Non deve nascere l’impressione che la fede si esaurisca in una specie di moralismo politico, la Chiesa non è un’organizzazione per il miglioramento del mondo». Inutile e complicato rivangare una storia millenaria ma in estrema sintesi senza il cristianesimo oggi non ci sarebbe l’Europa12.

Al di là del triplo salto mortale messo in atto dal direttore del quotidiano per giustificare un ritorno all’Europa da parte di forze di Destra, soprattutto Lega salviniana e Fratelli d’Italia, che sulla critica della stessa e delle sue istituzioni hanno fondato le proprie ipotesi politiche e le proprie campagne elettorali, e trasformare l’identitarismo razzista e populista in una forma di identitarismo cristiano-medievale, quello che è possibile qui individuare è il disperato bisogno di ridurre qualsiasi tendenza pacifista, fosse anche del papa, a qualcosa che non è più utilizzabile ai fini della salvaguardia degli interessi dell’Occidente e soprattutto della parti più frammentate di quest’ultimo: l’Europa e l’Italia.

Tutte le linee di demarcazione (nazionali, politiche, sociali) sono saltate, così, senza disturbare l’inconsistente raccolta di pettegolezzi e gossip rappresentata dal libro, di 336 pagine, di Georg Gänswein, il segretario personale di Benedetto XVI, falco dichiarato e arcinemico di papa Bergoglio13, varrebbe la pena di sottolineare che ciò che non vale per certa destra italiana ed europea vale, però, per quella americana.

Si è detto all’inizio che l’elezione alla quindicesima votazione di McCarthy a portavoce del congresso degli Stati Uniti è stat una dimostrazione dell’influenza che Trump e la parte più “conservatrice “ del Partito Repubblicano avrebbe ancora sullo stesso e sulla vita politica e sociale americana, ma occorre qui sottolineare che uno dei punti di attrito più forte tra i trumpiani e il governo di Biden e l’”altro” partito repubblicano è stato quello rappresentato dall’invio degli armamenti a Kiev e della spesa necessaria per tale programma.

Infatti, tra le richieste di Trump e della sua fazione che Mc Carthy avrebbe dovuto accettare per giunere ad un accordo che ne permettesse l’elezione vi è stata quella della promessa di un «taglio alle spese per la difesa da 75 miliardi di dollari promesso da McCarthy proprio nel giorno in cui il presidente americano Joe Biden ha annunciato un nuovo ingente pacchetto di armi da 3 miliardi di dollari all’Ucraina»14.

Pochi media mainstream hanno, poi, ricordato che la visita al Senato degli Stati Uniti di Zelensky, avvenuta a fine dicembre 2022, sia stata una delle meno acclamate e proficue poiché, immediatamente dopo il suo discorso, la votazione sull’appoggio degli USA al governo ucraino ha visto 29 senatori repubblicani (più della metà di quelli in carica per il GOP) votare contro. Rivelando così che il vero argomento del contendere tra democratici e repubblicani oltranzisti è su ben altro che non i diritti riguardanti donne e minoranze di ogni genere.

In fine, occorre ricordare che anche sul fronte ucraino le forze in campo, da una parte e dall’altra, dopo aver inutilmente sbandierato su entrambi i fronti la frusta parola d’ordine dell’”antinazismo”, son dovute ricorrere alla religione come ultima ratio dello scontro con risultati che, soprattutto in Ucraina dove la secessione dalla chiesa ortodossa di Mosca si è avuta a seguito della repressione dei preti e dei monasteri non ancora apertamente schierati con il governo Zelensky, sembrano essere ulteriormente divisivi sul piano politico e sociale.

Nell’epoca della mediatizzazione e dematerializzazione del sacro, le religioni si riprendono la scena. Scendono in campo verrebbe da dire. La Chiesa Cattolica esce provata dalla fine dello”stato d’eccezione”, tra un “Pontefice dimesso” 600 anni dopo la rinuncia di Gregorio XII e un “Pontefice regnante” che c elo ha avuto al fianco per quasi 10 anni. La Chiesa Ortodossa esce dilaniata dalla guerra, e combatte a sua volta su due fronti contrapposti, tra sacerdoti ucraini cui è revocata la cittadinnza perché troppo vicini al nemico e i pope moscoviti che benedicono i soldati ch ecadranno al fronte15.

Sarà così anche da noi? Tornerà la Chiesa cattolica e romana alla sua antica funzione, ben prima del Jihad islamista, di promozione della “guerra santa” contro eretici e infedeli? Riuscirà il brand del Cristo crocifisso a sostituire quelli dei “gruppi” di ogni risma che popolano i social e delle fashion influencer che si esprimono su ogni aspetto del viver (o non viver in caso di guerra) quotidiano? O rimarrà soltanto un’ipotesi da proporre in alternativa allo scarso fascino esercitato dal binomio Patria e Nazione di cui si è parlato più sopra? E la sinistra antagonista continuerà ancora a rincorrere in rete obiettivi più dettati dagli algoritmi che da effettive lotte reali?

Oppure, nell’ipotesi peggiore, siamo solamente tornati indietro, ad un medioevo mercantile in cui tutti i nodi saranno sciolti soltanto dopo lunghe guerre “di religione” come quelle che anticiparono di trecento anni la Rivoluzione francese16? Tre secoli di interminabili guerre civili e non, destinate a determinare il nuovo assetto politico, sociale ed economico europeo e, successivamente, planetario? Questi sono alcuni dei temi su cui sarà necessario confrontarsi nell’immediato futuro, per non rischiare di predicare nel deserto usando formule dottrinarie che nessuno può più comprendere. In nome di pratiche identitarie e politiche morte da tempo immemore, proprio come il dio crocifisso dei cristiani.


  1. Come l’ha definita Luca Sebastiani sul numero 37 di «Scenari» del 30 dicembre 2022: L. Sebastiani, E’ l’Africa la culla della “guerra mondiale a pezzi”, pp. 12-13  

  2. Cfr. qui

  3. Dove l’elezione soltanto alla quindicesima votazione dello speaker repubblicano al Congresso ha dimostrato ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la persistente influenza di Donald Trump sul partito repubblicano e il suo elettorato.  

  4. D. DeLillo, Rumore bianco, Einaudi 2022, pp. 90-91  

  5. Ivi  

  6. S. Moiso, Un capitalismo totale? Prefazione a G. Toni, Pratiche e immaginari di sorveglianza digitale, Il Galeone Editore, Roma 2022, pp. 18-19  

  7. Jacques Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo libri, Bari 1976, p. 213  

  8. J. Camatte, Il «Capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica (1964-1966), ora in J. Camatte, op.cit., pp. 213-214, ora in S. Moiso, op. cit., p. 24  

  9. N. Ferguson, All Is Not Quiet on the Eastern Front, «Bloomberg» 1 gennaio 2023, qui  

  10. M. Tarquinio, Più ragioni per resistere, «Avvenire» 7 gennaio 2023  

  11. Ratzinger e la lettera di sostegno all’Ucraina, «Domani» 6 gennaio 2023  

  12. A. Sallusti, La nostra Europa è in San Pietro, «Libero» 6gennaio 2023  

  13. Cfr. F. Capozza, Padre Georg rivela gli scontri nella Chiesa, «Libero» 9 gennaio 2023  

  14. Cfr. qui  

  15. M. Giannini, L’atlante occidentale e la cristianità dopo Ratzinger, «La Stampa» 8 gennaio 2023  

  16. Cfr. qui  

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Indipendenza energetica ed altre panzane/3 https://www.carmillaonline.com/2022/09/12/indipendenza-energetica-ed-altre-panzane-3/ Mon, 12 Sep 2022 06:10:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74004 di Alexik

Continua dal capitolo precedente.

Durante il mandato presidenziale di Barack Obama la produzione statunitense di petrolio passò da 5,1 a 8,8 milioni di barili al giorno, mentre quella di gas naturale crebbe da 3.000 a 17.000 miliardi di piedi cubi all’anno. Uno sviluppo che avrebbe avuto conseguenze anche oltre i confini degli Stati Uniti. Come disse all’epoca il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Thomas Donilon: “l’aumento della produzione energetica statunitense permette di ridurre la nostra vulnerabilità alle interruzioni di approvvigionamento [...]]]> di Alexik

Continua dal capitolo precedente.

Durante il mandato presidenziale di Barack Obama la produzione statunitense di petrolio passò da 5,1 a 8,8 milioni di barili al giorno, mentre quella di gas naturale crebbe da 3.000 a 17.000 miliardi di piedi cubi all’anno. Uno sviluppo che avrebbe avuto conseguenze anche oltre i confini degli Stati Uniti.
Come disse all’epoca il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Thomas Donilon: “l’aumento della produzione energetica statunitense permette di ridurre la nostra vulnerabilità alle interruzioni di approvvigionamento nel mondo e (…) ci dà delle carte migliori per perseguire e per raggiungere i nostri obiettivi di sicurezza internazionale”.1

Il primo paese a fare le spese della rinnovata produzione energetica statunitense e dei suoi corollari in termini di “sicurezza internazionale” fu l’Iran.
Fino al 2011 le sanzioni delle amministrazioni USA contro Teheran, imposte formalmente per fermare lo sviluppo del nucleare iraniano, si erano concentrate principalmente sul settore nucleare e militare.
Nel 1995 l’amministrazione Clinton aveva vietato alle società americane ogni transazione che riguardasse il petrolio iraniano, ma è con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca e di Hillary Clinton alla Segreteria di Stato che si venne a determinare un salto di qualità, spostando l’asse principale delle misure punitive sugli idrocarburi e sulle banche (in particolare quelle utilizzate per i pagamenti delle esportazioni petrolifere iraniane), ed estendendo le sanzioni contro l’Iran a tutto il mondo.

Un salto di qualità che sarebbe stato più difficile se gli USA non avessero potuto contare su una produzione interna di gas e petrolio di scisto, tale da ammortizzare gli effetti di una contrazione dell’offerta sui mercati internazionali.
Nel dicembre 2011 gli Stati Uniti imposero l’embargo internazionale sulle esportazioni di greggio iraniano2, seguiti pedissequamente dagli europei che decretarono un mese dopo il blocco totale dell’import di petrolio e gas da Teheran3.
L’embargo venne assicurato anche grazie alle sanzioni secondarie, quelle che colpiscono i soggetti non statunitensi che intrattengono relazioni economiche e commerciali con il paese bersaglio, e che possono venir puniti con l’imposizione di multe pesanti o con l’esclusione dal mercato degli USA4.
E’ in questo modo, infatti, che gli Stati Uniti declinano il concetto di “indipendenza energetica” applicabile al resto del mondo.

Le esportazioni di petrolio iraniano in due anni vennero dimezzate a causa delle sanzioni, con conseguenze sulla popolazione del paese colpito, sul prezzo internazionale del petrolio e sulle economie importatrici5. Conseguenze che in parte toccarono anche agli Stati Uniti, dove l’aumento della produzione ancora non riusciva a soddisfare completamente il consumo interno.
Ma ormai questa forma di aggressione era stata sdoganata, e andava solamente messa a punto dalle amministrazioni successive, che dimostrarono in maniera bipartisan una straordinaria continuità in merito allo sviluppo della produzione interna di idrocarburi ed al suo uso come “energy weapon”.

Donald Trump spinse ulteriormente avanti le trivelle, abrogando normative di protezione ambientale e tutelando il fracking a colpi di ordini esecutivi6. Sotto la sua amministrazione gli USA diventarono esportatori netti di idrocarburi, superando l’Arabia Saudita sui mercati internazionali del petrolio7
Nel 2018 Trump scatenò contro l’Iran la politica della “massima pressione”, una nuova campagna punitiva che fece seguito al ritiro degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano, rendendo esplicito come il vero obiettivo di Washington non fosse la minaccia nucleare ma la caduta del regime degli ayatollah8.
Le nuove sanzioni petrolifere, ancora più pesanti delle vecchie, contribuirono a un’altra impennata del prezzo del petrolio di cui però, questa volta, gli Stati Uniti poterono avvantaggiarsi, grazie alla loro nuova condizione di esportatori netti9.
Gli USA scoprivano di poter guadagnare dalla guerra dell’energia, ed è per questo che da allora la prospettiva di scatenarla non gli fa più paura.

Rileggendone la storia a distanza di qualche anno, le sanzioni contro l’Iran assumono le forme di una prova generale, di una sperimentazione, da parte degli Stati Uniti, di nuove inedite potenzialità offensive.
Una prova generale che prelude all’uso dell’arma dell’energia nel contesto di un livello più alto dello scontro, che oggi vediamo dispiegarsi.

Uno dei vari elementi di continuità che unisce trasversalmente le amministrazioni USA, repubblicane o democratiche che siano, è la tensione a dare profittevole sbocco sui mercati internazionali alla produzione degli Stati Uniti di gas naturale.
Abbiamo già visto come Donald Trump abbia sfoderato tutte le sue innate capacità di persuasione affinché gli europei scegliessero volontariamente e liberamente fra l’alternativa di subire i suoi dazi e quella di comprare il suo gas naturale liquefatto (GNL).
Ma per creare un mercato del gas naturale liquefatto  non basta la “persuasione”: ci vogliono, fra l’altro, infrastrutture e  i capitali per costruirle. E i capitali si muovono in base a prospettive di profitto che non sempre il contesto garantisce.

Durante l’amministrazione Trump si sono moltiplicate le richieste di autorizzazione per la costruzione di nuovi terminal per l’export del GNL.
Fra queste, ventuno – ereditate da Biden – riguardano progetti ancora fermi, non solo perché in attesa della fine della procedura autorizzativa, ma perché in attesa di finanziatori10.
La scarsa propensione ad investire su questi impianti veniva motivata citando la volatilità del mercato del GNL (che mette in forse la remunerazione del capitale investito sul lungo termine); gli accordi internazionali sul clima; l’opposizione delle comunità locali; le forti oscillazioni dei prezzi sui mercati spot, capaci di vertiginosi crolli durante la pandemia e vertiginosi aumenti con la ripresa.
O almeno, queste erano le problematiche prima della guerra in Ucraina.

Per gli stessi motivi nella vecchia Europa erano in forse diversi progetti per la costruzione di terminal per la ricezione del GNL.
Per esempio, nel settembre 2021, il progetto del Rostock LNG Terminal era stato annullato per “condizioni di mercato sfavorevoli”11
Nel novembre 2020, una società commerciale tedesca, citando la mancanza di interesse da parte degli acquirenti, aveva annunciato che stava rivalutando i suoi piani per costruire un nuovo terminal di importazione di GNL a Wilhelmshaven12.
Nel gennaio 2022 i tre terminali di importazione di GNL proposti dalla Germania, finalizzati alla ricezione del gas di scisto degli Stati Uniti, si trovavano ad affrontare ritardi a causa delle forti oscillazioni dei prezzi e, in generale, della continua incertezza sul futuro dei combustibili fossili13.
Non che il mercato internazionale del GNL fosse in crisi, ma la ripresa asiatica attirava le metaniere da quella parte del mondo, con una tendenza che le previsioni davano di lungo periodo.

Dalla fine di febbraio la costruzione di questi impianti in Europa è tornata all’ordine del giorno.
RePower EU, il piano della Commissione europea per eliminare le importazioni di idrocarburi dalla Federazione Russa, ha aggiunto nuovi terminal GNL ai Progetti di priorità europea.
La Germania ha appena programmato l’ormeggio di sei rigassificatori galleggianti14, che si aggiungono ai progetti per due Floating Storage and Regasification Units (FSRU) greche, per il Paldiski FSRU Terminal in Estonia, e per due rigassificatori olandesi (Gate LNG Terminal e Eemshaven FSRU). In Irlanda il terminal GNL di Shannon è in costruzione, mentre in Polonia viene allargato quello di Świnoujście. In Italia incombono nove progetti di cui le FSRU di Piombino e Ravenna sembrerebbero i più imminenti.

Ci è voluta la guerra per sollevare le sorti del GNL americano in Europa, e per spazzare via dal tavolo ogni obiezione sulla pericolosità dei rigassificatori, sull’inquinamento che generano, sulla follia di continuare a costruire nuove dipendenze da combustibili fossili nonostante la crisi climatica.
Sulla follia di continuare a costruire, in particolare, nuove infrastrutture del metano, ben sapendo che:

Il metano è  un potente gas serra. In un periodo di 20 anni è 80 volte più potente dell’anidride carbonica in termini di riscaldamento globale.
Il metano ha rappresentato circa il 30 per cento del riscaldamento globale dall’epoca preindustriale e sta proliferando più velocemente che in qualsiasi altro momento dall’inizio della registrazione negli anni ’80. Infatti, secondo i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration degli Stati Uniti, anche se le emissioni di anidride carbonica sono diminuite durante i blocchi legati alla pandemia del 2020, il metano atmosferico è aumentato vertiginosamente.
L’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C non può essere raggiunto senza ridurre le emissioni di metano del 40-45% entro il 2030. Una riduzione di questa entità eviterebbe quasi 0,3°C del riscaldamento entro il 2045 e integrerebbe gli sforzi di mitigazione del cambiamento climatico a lungo termine
15

Questa dichiarazione del United Nations Environment Programme si riferisce al metano incombusto, che ha fra le sue varie fonti le emissioni dei processi di estrazione, trasformazione, trasporto e distribuzione del gas naturale.
Quegli stessi processi su cui si è deciso di investire, anche grazie alla decisione della Commissione Europea di inserire il gas naturale (assieme al nucleare !) nella tassonomia degli investimenti “sostenibili”, “come mezzi per facilitare la transizione verso un futuro prevalentemente basato sulle energie rinnovabili”. 
Una evidente fake, funzionale a convogliare sulle infrastrutture del gas (GNL compreso) fiumi di denaro pubblico e privato. (Continua)

Immagini:

DSC_1203.jpg, di Paulann_Egelhoff . Licenza: CC BY-ND 2.0.
President Trump Visits Cameron LNG Export Terminal. Fonte: The White House. Foto di pubblico dominio.
Mappa europea delle infrastrutture per il gas – Progetti di priorità europea e progetti aggiuntivi identificati attraverso REPowerEU. Fonte: Commissione Europea
Molecola di metano. Fonte UNEP.


  1. In: Michael Klare, Washington, game master Le Monde Diplomatique, giugno 2022, p.11. 

  2. Con poche eccezioni. Venne permesso solo a Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Turchia di acquistare petrolio iraniano a un livello fisso. 

  3. Harvard Kennedy School, Belfer Center for Science and International Affairs, Sanctions Against Iran: A Guide to Targets, Terms, and Timetable, 2015, pp.60. 

  4. Marco Valsania, Sanzioni Usa a chi compra dall’Iran, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2012. 

  5. Il petrolio supera i 100 dollari al barile. Greggio alle stelle per le tensionicon l’Iran nel Golfo Persico, La Stampa, 03 Gennaio 2012. 

  6. Nadja Popovich, Livia Albeck-Ripka, Kendra Pierre-Louis, The Trump Administration Rolled Back More Than 100 Environmental Rules. Here’s the Full List, The New York Times, 20 gennaio 2021. Trump ha firmato un ordine esecutivo per tutelare il fracking in Pennsylvania, AGI, 31/10/20. 

  7. Riccardo Barlaam, Gli Usa di Trump superano i sauditi: primi al mondo per l’export di petrolio, Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2019. 

  8. Pompeo outlines ‘maximum pressure’ plan for Iran, Al Monitor, 21 maggio 2018. Annalisa Perteghella, Iran: tornano in vigore le prime sanzioni USA, Ispionline, 05 Agosto 2018 

  9. Gli impatti del barile in rialzo per le sanzioni Usa all’Iran, Quale Energia, 24 aprile 2019. 

  10. Global Energy Monitor, Gas Run Aground, marzo 2022, pp.35. 

  11. Global Energy Monitor, Europe Gas Tracker Report 2022, aprile 2022, pp.23. 

  12. Uniper to Reconsider Plans for LNG Terminal in Germany, Hydrocarbons Technology, November 9, 2020. 

  13. Vanessa Dezem and Anna Shiryaevskaya, German Natural Gas Import Terminal Delayed by Market Volatility, BNN Bloomberg, January 13, 2022. 

  14. Germania, arriva il sesto rigassificatore, Focus Energia, 2 settembre 2022. 

  15. Da: United Nations Environment Programme

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Il nuovo disordine mondiale /17: storia breve di una débâcle inevitabile https://www.carmillaonline.com/2022/09/07/il-nuovo-disordine-mondiale-17-cronaca-di-una-debacle-annunciata/ Wed, 07 Sep 2022 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73890 di Sandro Moiso

La peggior campagna elettorale di sempre, forse l’unica che nel giro di qualche settimana è riuscita a far passare il numero degli astenuti e degli indecisi dal 40 al 42%, oltre a nutrirsi del solito e farraginoso strumentario ideologico di bassa lega, sia a destra che a sinistra, ha rimpinguato il proprio verboso arsenale propagandistico di tutto quanto proviene dalle fake news che, come in ogni conflitto che “si rispetti”, riguardano la guerra in corso e le sue conseguenze militari, geopolitiche e, soprattutto, economiche.

Così, mentre Giorgia Meloni fa [...]]]> di Sandro Moiso

La peggior campagna elettorale di sempre, forse l’unica che nel giro di qualche settimana è riuscita a far passare il numero degli astenuti e degli indecisi dal 40 al 42%, oltre a nutrirsi del solito e farraginoso strumentario ideologico di bassa lega, sia a destra che a sinistra, ha rimpinguato il proprio verboso arsenale propagandistico di tutto quanto proviene dalle fake news che, come in ogni conflitto che “si rispetti”, riguardano la guerra in corso e le sue conseguenze militari, geopolitiche e, soprattutto, economiche.

Così, mentre Giorgia Meloni fa a gara con Enrico Letta nel tentativo di dimostrare di essere più servilmente atlantista dello stesso PD, il povero “ex-capitano” de noantri, si è visto messo alla berlina, sia dagli avversari che dagli alleati, per aver ribadito ciò che da mesi è possibile riscontrare sulla stampa economica internazionale e nazionale: ovvero che fino ad ora le sanzioni hanno danneggiato l’economia europea ancor più di quella russa e che la “serrata del gas” da parte di Gazprom e di Putin può costituire un pericoloso innesco per un incendio che potrebbe rivelarsi disastroso sia sul piano industriale che sociale.

Ma, prima che il genio giornalistico di Natalie Tocci accomuni chi scrive agli “utili idioti di Putin”1, proviamo a fare qualche passo indietro e, soprattutto, nella realtà. Partendo proprio dalla questione “gas”, inseparabile dalla condizione di esistenza fondamentale di un sistema che, non ci vuole un genio per capirlo, è sostanzialmente energivoro.

Tale passo, prima di ricondurci alla situazione creatasi a livello globale, come conseguenza della guerra in Ucraina, nel settore dei prezzi e dei rifornimenti di gas e idrocarburi, vede costretto l’autore di questo intervento a ricordare come l’avvento della Rivoluzione Industriale, alla metà del XVIII secolo, abbia visto un passaggio epocale dal consumo di energie che oggi si direbbero “rinnovabili “ (vento, acqua, animali e umane) a quello di un’energia che rinnovabile non era, ma che per il tramite della macchina a vapore prima e del motore elettrico o a scoppio poi, forniva alla nascente produzione industriale, e al suo modello di organizzazione sociale, una continuità e regolarità di utilizzazione che le altre non potevano fornire.

Vento, acqua, fatica dell’animale e dell’uomo dovevano infatti sottostare a limiti “naturali” (di carattere stagionale e di tempi di rinnovo) che la macchina a vapore e tutti i suoi derivati (fino all’uso dell’energia nucleare) non dovevano rispettare. Il vento poteva infatti essere troppo (nel caso della stagione invernale o degli urgani estivi) o troppo poco (come nel caso delle bonacce atlantiche, durante le quali una nave a vela poteva dover attendere per settimane il ritorno di condizioni di vento favorevoli) così come l’acqua che faceva funzionare mulini, macine oppure i primi telai meccanici. L’uomo e gli animali, per quanto messi alla catena per remare oppure far girare una macina oppure ancora per trainare strumenti agicoli di un certo peso (ad esempio aratri ed erpici), oltre a dover interrompere il lavoro per i suddetti limiti fisici naturali (si legga “fatica”), finivano comunque col consumare, per quanto in quantità minime nel caso di schiavitù e maltrattamenti connessi all’uso della forza animale, una parte del prodotto che contribuivano a creare.

Per capirci: gas, petrolio, energia elettrica non consumano il prodotto (ad esempio la farina) che concorrono a realizzare. Inoltre sono fonti di energia o energie sempre disponibili nella giusta quantità necessaria, sia di notte che di giorno, in inverno che in estate, senza forzose interruzioni. Inevitabile quindi che, per il “buon funzionamento” della macchina industriale capitalistica e i suoi ritmi produttivi, la scelta si indirizzasse sempre più verso il loro diffuso e devastante utilizzo.

Sistema che nel divenire “energivoro” ha finito col dar vita a una serie di conflitti sempre più intensi, ravvicinati e distruttivi, per l’appropriazione di materie prime di origine fossile che, se ai tempi di Marco Polo potevano costituire una semplice curiosità o una mercanzia tra le altre2, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e, in particolare, dal Primo macello imperialista diventano il premio di ogni guerra, allargata, coloniale e non3. Prova ne sia il fatto, qui citato a solo titolo di esempio, che la marcia delle truppe dell’Asse verso i territori sud-orientali dell’URSS, interrottasi forzatamente a Stalingrado, poco aveva di “ideologico”, ma molto di pratico vista la cronica fame di risorse energetiche e di petrolio della Germania. Cosa che aveva spinto Hitler a spostare un congruo numero dei tre milioni di soldati inviati sul fronte orientale con l’Operazione Barbarossa sul fronte del Caucaso; nel tentativo di appropriarsi sia delle regioni petrolifere là presenti che delle aree petrolifere incluse dai dominion inglesi in Iraq ed Iran. Come sia andata a finire ce lo dicono i libri di storia. Stesso discorso vale per la campagna d’Africa condotta con l’alleato Mussolini, alla ricerca della conquista o del mantenimento del controllo del petrolio libico e dell’interruzione dei traffici marittimi e commerciali inglesi dall’India e verso la stessa.

Ma è necessario interrompere qui il Bignami della storia del ‘900 e dei suoi devastanti conflitti, per tornare ai problemi attuali, che dimostrano, comunque, come tale secolo sia stato tutt’altro che breve e si prolunghi ancora nel nostro disastrato presente. Compresa la scarsa passione del capitalismo industriale per l’uso delle fonti energetiche alternative, nonostante la predicazione greenwashing dei media falsamente progressisti.

E visto che si parlava di Germania del Reich, proprio dalla (ex-?) locomotiva d’Europa occorre ripartire per la riflessione sulle sanzioni, e poiché il danno causato all’economia europea dalle sanzioni alla Russia e dal taglio delle forniture di gas sembra appartenere, all’interno della propaganda bellico-politica in cui siamo immersi, soltanto alle fake messe in campo dal Cremlino e dalla sua portavoce Maria Zakharova, torneremo al 30 marzo di quest’anno, quando il quotidiano tedesco «Handelsblatt», l’equivalente dell’italiano «Il Sole 24 Ore», scriveva:

L’industria tedesca ad alta intensità energetica avverte con urgenza il rischio di una possibile interruzione della fornitura di gas naturale russo. Anche il razionamento potrebbe portare a perdite di produzione, che avrebbero conseguenze per l’intera industria di trasformazione in Germania, spiegano ad esempio i manager dell’industria chimica. Laddove è necessario molto gas come fonte di energia e materia prima, le aziende sono minacciate di estinzione in caso di restrizioni.
Mercoledì, il ministro federale dell’Economia Robert Habeck (Verdi) ha annunciato il “livello di allerta precoce” del cosiddetto piano di emergenza gas, avvertendo così l’economia di un significativo deterioramento dell’approvvigionamento di gas. L’ industria che sarebbero più colpita da un’interruzione dell’offerta o dal razionamento è quella chimica che per Christian Kullmann è il “cuore dell’economia tedesca”. In questa frase Boss è contenuto un avvertimento: se non batte più, ha gravi conseguenze per tutte le industrie. E questo è uno scenario realistico in caso di fallimento delle forniture di gas all’industria4.

Per poi continuare il giorno successivo con un’intervista al Direttore delle poste tedesche, in cui si affermava:

Un embargo sarebbe devastante per la Germania e l’Europa, ha detto il manager in un’intervista a Handelsblatt. “Ci sarebbe la minaccia di un collasso di parti del nostro settore”.
Un tale passo non garantirebbe in alcun modo la fine della guerra in Ucraina. “Se ti indebolisci in modo massiccio, non vincerai”, ha detto Appel. Ha anche accolto con favore il fatto che il governo tedesco non stava saltando immediatamente su ogni questione nel conflitto ucraino, ma stava prendendo decisioni “con calma e chiarezza” […] Frank Appel teme un collasso di parti del settore in caso di boicottaggio e si oppone anche a un disaccoppiamento dalla Cina.5.

Mentre, sempre negli stessi giorni, «Die Welt», un altro importante quotidiano tedesco equivalente del «Correiere della sera» italico, occupandosi dell’inflazione, scriveva:

Un mese dopo lo scoppio della guerra, i tedeschi stanno vivendo uno shock storico dei prezzi: al 7,3%, l’inflazione a marzo è stata più alta che mai nella Germania riunificata. Secondo l’Ufficio federale di statistica, la vita nei vecchi Stati federali era aumentata così tanto solo nel novembre 1981.
[…] La Repubblica Federale ha registrato l’inflazione più forte nel dicembre 1973 con il 7,8 per cento. E questo segno potrebbe presto essere rotto se la guerra in Ucraina dura ancora più a lungo o la disputa energetica con la Russia si intensifica.
Perché è l’improvviso aumento del prezzo dell’energia che farà salire il tasso di inflazione nel 2022. “È principalmente energia, ma anche cibo, che ancora una volta si è rivelato un driver di prezzo. L’aumento di quasi il 40% dei prezzi dell’energia spiega più della metà dell’inflazione attuale”, afferma Sebastian Dullien, direttore dell’Istituto per la macroeconomia e la ricerca economica (IMK). […] “Non si prevede che i mercati dell’energia allenteranno le tensioni nei prossimi mesi: i prezzi all’ingrosso del gas e dell’elettricità indicano che l’energia domestica in particolare rischia di diventare ancora più costosa per i clienti finali”. Nel caso del carburante, c’è un certo sgravio, anche perché temporaneamente le tasse su di esso devono essere ridotte.
Tuttavia, queste riduzioni sono matematicamente troppo piccole per compensare l’aumento dei prezzi dell’energia delle famiglie nel tasso di inflazione. “Tutto sommato, l’inflazione rimarrà alta per il resto dell’anno”, è certo Dullien.
L’IMK ha aumentato le sue stime in risposta agli eventi. […] “Se l’energia dovesse diventare ancora più costosa, ad esempio in caso di interruzione della fornitura di energia russa, l’inflazione potrebbe essere di nuovo significativamente più alta”, afferma Dullien.
[…] E oggi non sono solo i prezzi dell’energia a guidare l’inflazione in questo paese. Ad eccezione degli affitti, l’intero carrello della spesa dei tedeschi sta diventando più costoso della media.
“Il rollover a tutti i settori possibili è in pieno svolgimento. Aggiungete a ciò i ricarichi aggiuntivi nei settori dell’ospitalità, della cultura e del tempo libero, una volta terminato l’attuale ciclo di restrizioni, ed è difficile immaginare che l’inflazione diminuirà in modo significativo nel prossimo futuro “, afferma Carsten Brzeski, capo economista di ING.
[…] Gli alti tassi di inflazione stanno mettendo sotto pressione la Banca centrale europea (BCE). Perché mentre gli economisti aumentano le loro previsioni di inflazione, tagliano le loro previsioni di crescita. Il Consiglio tedesco degli esperti economici ha più che dimezzato le sue previsioni di crescita economica quest’anno all’1,8%.
Nelle loro precedenti previsioni di novembre, gli esperti economici avevano promesso una crescita del 4,6% per il 2022. Una tale combinazione di stagnazione economica e alta inflazione (chiamata anche stagflazione) è temuta perché getta le autorità monetarie in un dilemma.
“Per la BCE, questo alto rischio di stagflazione nell’eurozona metterà sotto pressione la prevista normalizzazione della politica”, afferma Brzeski. Mentre la crescita è recessiva, almeno nella prima metà dell’anno, l’inflazione complessiva sarà significativamente più alta nel lungo termine.
In un tale contesto macroeconomico, l’attenzione della BCE sembra spostarsi dalla crescita all’inflazione. “Ma per quanto la BCE possa contribuire a far arrivare i container dall’Asia più velocemente e più a buon mercato in Europa o ad aumentare la produzione di microchip a Taiwan, non può porre fine alla guerra o abbassare i prezzi dell’energia”, afferma Brzeski.
Quanto sia profondo il dilemma è reso chiaro da un’altra cifra: quando l’inflazione in Germania era del 7,3 per cento, il tasso di interesse di riferimento fissato dalla Bundesbank era dell’11,4 per cento. In questo modo, le autorità monetarie volevano contrastare massicciamente ulteriori aumenti dei prezzi. Oggi, d’altra parte, il tasso di interesse di riferimento in tutta Europa è pari a zero.
Gunther Schnabl, professore di politica economica all’Università di Lipsia, critica la BCE. A differenza della Federal Reserve statunitense, l’istituzione di Francoforte ignora il fatto che la stabilità valutaria è minacciata a lungo termine.
[…] Secondo la sua stima, le radici sono più profonde che nella crisi attuale. “Indipendentemente dalla ragione dell’inflazione, la BCE deve agire per contenere i cosiddetti effetti di secondo impatto”, afferma l’economista.
Gli effetti di secondo impatto si verificherebbero se i sindacati chiedessero una compensazione salariale a causa delle pressioni inflazionistiche, che a loro volta costringevano le aziende ad aumentare i prezzi. “Tali spirali salario-prezzo osservate nel 1970 manterrebbero alta l’inflazione per lungo tempo. Ciò sarebbe rischioso a causa della crescita negativa e degli effetti distributivi dell’inflazione dei prezzi al consumo e degli asset” 6.


La citazione può apparire troppo lunga, ma è importante perché rivela come tutto quanto sta accadendo a livello europeo e italiano fosse ampiamente prevedibile fin dall’inizio del conflitto in Ucraina. Non solo, ma anche che i paletti per la risposta all’inflazione erano già stati messi dalla BCE, insieme alla necessità, per il capitale, di contrastare qualsiasi richiesta proveniente dai sindacati o da movimenti sociali auto-organizzati per aumenti salariali o aiuti di altro genere, non alle imprese, ma alle famiglie e ai lavoratori in difficoltà.

Ma anche su altri quotidiani europei, in quei giorni si sottolineavano le conseguenze, presenti e future, dei processi inflattivi messi in atto a partire dal conflitto e dalle politiche adottate dall’Unione Europea e dell’Occidente per “contrastarlo”. Ad esempio il quotidiano spagnolo «Cinco Días», sempre in data 31 marzo, scriveva:

L’inflazione si rivela sempre più come una tassa per i poveri e i lavoratori. I prezzi hanno iniziato a salire in Spagna a cavallo dell’estate del 2021, trainati principalmente dal prezzo dell’energia, con il quale l’IPC medio annuo ha chiuso lo scorso anno al 3,1% […]. Ma quello che sembrava un aumento molto congiunturale i cui effetti sarebbero scomparsi in primavera, secondo i primi calcoli degli analisti, è diventato un vero incubo per il paniere della spesa, a causa degli effetti della guerra in Ucraina, che ha già completato un mese.
I dati sull’inflazione anticipata pubblicati dall’Istituto Nazionale di Statistica (INE) per il mese di marzo, sono arroccati ad un tasso su base annua del 9,8%, molto vicino al livello psicologico delle due cifre, dopo un aumento mensile del 3%, che colloca questa cifra tra le più alte da quella registrata nel maggio 1985. Ci sono voluti 36 anni per vedere questa mancanza di controllo dei prezzi in Spagna, anche se tutto indica che questa escalation non si fermerà qui, in quanto potrebbe persino raggiungere due cifre a breve e persino superarle.
[…] Dietro questa evoluzione continuano a pesare fattori geopolitici esterni come la durata della guerra in Ucraina e la tensione nei prezzi di prodotti strategici come il petrolio o il gas, che distorcono completamente i prezzi della componente energetica, che si manifesta in aumenti dei prezzi di elettricità, combustibili e per effetto indotto cibo e bevande analcoliche. […] Da qui la continuità dei messaggi del governatore della Banca di Spagna per raggiungere un patto di reddito che mitighi questa escalation.
Il tasso sottostante, che misura l’evoluzione dei prezzi, eliminando i prodotti alimentari freschi ed energetici, ha raggiunto un tasso su base annua del 3,4% a marzo, aumentando di quattro decimi in più rispetto a febbraio. Un fatto che lungi dall’essere rassicurante sull’evoluzione futura, anticipa le tensioni rialziste nell’indicatore generale per tutti i prossimi mesi.
Lo tsunami a cui sono sottoposti i prezzi di tutti i prodotti del carrello ha come effetto più diretto sui cittadini una netta e sempre più profonda perdita di potere d’acquisto. […] Questo calo del potere d’acquisto è particolarmente sentito nei redditi salariali e nei risparmi delle famiglie e delle imprese.
Quindi è relativamente facile fare un’approssimazione quantificabile del denaro che potrebbe supporre questo impatto dell’escalation inflazionistica in questi redditi e che potrebbe essere di circa 70.000 milioni di euro di riduzione del potere d’acquisto di salari e depositi. Come ci si arriva?
La prima cosa che bisogna specificare per fare questo calcolo è quanto i prezzi siano diventati più costosi e per questo, la cosa più giusta è prendere non solo i dati del mese – in questo caso marzo, 9,8% – ma determinare quanto i prezzi sono aumentati in media negli ultimi dodici mesi. Ciò produrrebbe un aumento misurato dell’IPC che tocca il 4,9% tra aprile 2021 e marzo 2022.
Una volta calcolata questa domanda, vengono presi i dati sul reddito salariale inclusi nei dati dei conti nazionali trimestrali, anch’essi preparati dall’INE, e mostrano che la massa salariale annuale del paese ammonta a circa 600.000 milioni di euro. Tenendo conto che l’aumento salariale medio concordato nei contratti collettivi alla fine dello scorso anno per 8,3 milioni di dipendenti – che salirà a circa 10 milioni nel corso di quest’anno a causa dei ritardi nella registrazione dei contratti – è stato dell’1,47% e che finora quest’anno questo aumento supera leggermente il 2%, si potrebbe dire che questi lavoratori secondo l’inflazione media degli ultimi dodici mesi (che sfiora il 5%) stanno perdendo tra i 3 e i 3,5 punti di potere d’acquisto. Ciò si traduce in una perdita di potere d’acquisto compresa tra 18.000 e 21.000 milioni di euro.
Inoltre, le prospettive salariali non sono molto migliori e, nel migliore dei casi, se i datori di lavoro e i sindacati raggiungessero l’accordo pluriennale di accordi di cui stanno parlando, la raccomandazione di un aumento salariale per quest’anno sarebbe di circa il 3 per cento, in modo che di fronte all’incertezza di come si evolveranno i prezzi, se la spirale inflazionistica continua, quel piccolo miglioramento dei salari potrebbe essere azzerato già nel corso di quest’anno. Pertanto, la suddetta perdita vicina a 20.000 milioni di reddito salariale a causa dell’impatto dell’inflazione sarebbe possibile anche nella fascia bassa di perdite.
Il conto successivo è ancora più semplice, la Spagna ha poco più di un trilione di euro di risparmi depositati in conti correnti. Questo denaro non è praticamente remunerato, quindi l’impatto vicino al 5% sarebbe completo, riducendo un importo approssimativo a 50.000 milioni di euro della capacità di acquisto dei risparmi degli spagnoli. Con la somma di entrambi gli importi, si ottiene il suddetto costo di 70.000 milioni di reddito e risparmio salariale.
[…] Jakob Suwalski e Giulia Branz, analisti di Scope Ratings, prevedono entro il 2022 che il tasso di inflazione supererà il 5% “anche in uno scenario di graduale convergenza verso l’obiettivo della BCE del 2% entro la fine dell’anno”. Se lo scenario è quello di una continuazione delle pressioni sui prezzi, il tasso annuo sarebbe in media dell’8%. Ritengono che un rialzo dei tassi da parte della BCE non affronterebbe direttamente gli effetti inflazionistici7.

Si è continuato citando giornali stranieri e titoli di diversi mesi or sono proprio per dimostrare come quanto recentemente affermato sul peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione dell’Europa e dell’Italietta, sempre falsa e buonista, non appartenga ad un immaginario distorto dovuto soltanto alla abilità russa nel produrre disinformatja, ma alla realtà di ciò che era ampiamente prevedibile fin dall’inizio del confronto militare, economico e politico con la Russia di Putin. Non un imprevedibile svolto di una situazione altrimenti normale, ma una conseguenza “certificata” per tempo delle scelte operate a livello politico ed economico dalla UE e dagli USA.
I quali ultimi, con il loro ruolo nel settore del controllo, produzione e vendita del petrolio e del gas, non potevano mancare in questo excursus a ritroso. Come affermava infatti il «Financial Times», giornale notoriamente filoputiniano, nei primi giorni di aprile di quest’anno:

Prima la crisi finanziaria, poi la pandemia globale e adesso la guerra in Europa spingono i governi a cambiamenti inediti, che prima sembravano impensabili. L’ultimo in ordine di tempo è costituito dalla decisione degli Stati Uniti di attingere a 180 milioni di barili di greggio dalle loro riserve petrolifere strategiche: il più grande ricorso alle scorte nazionali mai avvenuto nella storia. Tuttavia, la reazione del mercato suggerisce che anche una mossa di così ampia portata potrebbe non essere sufficiente a ridurre la spirale dei prezzi del carburante come era nelle intenzioni di Biden.
[…] Un problema della decisione di Washington è che rischia di apparire come disperata, e quindi ottenere il risultato opposto di quello desiderato. Questi sei mesi di utilizzo delle riserve nazionali lasceranno le scorte petrolifere di emergenza più grandi del mondo ai livelli più bassi dal 1984, per di più in una fase in cui l’offerta di greggio è in una situazione di grave instabilità.
Questo milione di barili in più al giorno non basterà a risolvere la crisi, comunque. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha segnalato che la produzione russa potrebbe diminuire di tre milioni di barili al giorno, a causa non solo dell’embargo statunitense sul greggio e delle altre sanzioni stabilite dai Paesi occidentali, ma anche di quella sorta di “auto-sanzione” applicata indirettamente dagli acquirenti cominciano a rifiutarsi di comprare i prodotti russi. C’è anche il rischio che il prolungamento della guerra spinga definitivamente l’Ue a limitare i suoi acquisti di petrolio russo.
Biden ha anche rivelato un piano per fare pressione sui produttori statunitensi e spingerli a pompare di più, imponendo tasse su quelli che non trivellano dove hanno licenze sulle terre federali. Affermare che le scorte torneranno a essere riempite quando i prezzi scenderanno a 80 dollari al barile è un tentativo di fissare un prezzo minimo a lungo termine per il greggio più alto di quello degli scambi futures attuali. Ma gli addetti ai lavori ritengono che gli azionisti potrebbero cercare prezzi ancora più alti prima di portare i nuovi flussi a regime. Ci sono poi dei vincoli oggettivi all’aumento della perforazione americana da considerare, non da ultimo la carenza di materiali, mezzi e uomini per comporre le squadre addette al fracking (la perforazione idraulica delle rocce).
Se gli Stati Uniti intendevano scalare posizioni per diventare il produttore di greggio più importante del mondo, in realtà il loro annuncio potrebbe avere l’effetto di rinforzare ancora di più il peso dell’Opec. Secondo le stime, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti insieme avrebbero una capacità inutilizzata di oltre 2 milioni di barili al giorno. Ma il cartello mediorientale si è mantenuto prudente rispetto alla guerra e non ha dato seguito alla richiesta di Biden di aumentare l’offerta.
[…] La Casa Bianca affronta anche un altro dilemma. Biden ha cominciato il suo mandato assumendosi l’impegno di portare avanti una politica vigorosa sul clima, ma rischia di perdere entrambe le camere del Congresso alle elezioni di mid-term di novembre. Il balzo del 50% dei prezzi della benzina in un anno fa arrabbiare soprattutto gli elettori repubblicani8.

Escluso il fallimento dei rapporti tra USA e Opec, messo in risalto anche dal rifiuto degli ultimi giorni da parte dei principali produttori di gas e petrolio di incrementare l’offerta per abbassarne i prezzi9, e sconfitta la speranza di coinvolgere Cina e India nelle sanzioni alla Russia10 non è difficile vedere che quanto previsto dal Ministro Cingolani per affrontare la prossima crisi nell’autunno-inverno 2022/2023, non è affatto lontano da quanto prospettato dalla BCE o desiderato dagli USA. Indipendentemente dall’uso che farà di tutto questo la propaganda russa.

D’altra parte, va ancora qui ricordato che una parte degli aumenti del costo del gas è da attribuire alle manovre speculative in atto sul mercato di Amsterdam, tanto da far pensare, alla Commissione europea di mettere il Ttf olandese sotto il controllo dell’Esma (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati)11, confermando così l’analisi marxiana del fatto che «l’unico limite del capitale è il capitale stesso». In questo caso inteso non come controllo sulla libera definizione dei prezzi in Borsa, ma per l’intralcio che gli interessi del capitale finanziario e della rendita finiscono col creare alla produzione industriale, peggiorandone le condizioni incrementandone i costi.

Infine, per non fare troppo torto alla stampa nazionale, val la pena di ricordare che già in data 18 marzo 2022, poco più di venti giorni dopo l’inizio delle operazioni militari in Ucraina e delle prime decisioni prese in ambito europeo e atlantico, il «Sole 24 ore» titolava in prima pagina: Ocse: la guerra costa all’Ue l’1,4% del Pil. Dal neon al grano, l’Italia più esposta.

Mentre ancora pochi giorni or sono, poteva denunciare i paesi della Nato che guadagnano con la crisi del gas, dalla Norvegia agli Usa12. Sottolineando come gli Stati Uniti esportino in Europa il triplo di Gazprom e come la Norvegia abbia scalzato la Russia come primo fornitore. Ma non solo, poiché anche la Cina starebbe facendo affari d’oro rivendendo all’Europa Gnl, mentre la Russia ha visto aumentare i profitti sul gas nonostante, e forse grazie, le sanzioni13.

La ciliegina sulla torta del disastro l’ha messa però Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, che nel corso di un’intervista concessa a Rai News24 il 7 settembre ha esordito affermando seccamente: «Noi ormai siamo sconfitti».
Giustificando tale affermazione col fatto che se non ci sarà una “rcessione” i prezzi del gas e del petrolio, e perciò dell’energia, continueranno a crescere. Anche l’incremento dell’utilizzo delle centrali a carbone, ha continuato lo stesso Tabarelli, non porterà a decisivi miglioramenti, poiché non solo la maggior parte del carbone utilizzato in Italia proviene comunque dalla Russia, ma anche perché pur utilizzando le stesse al massimo si passerebbe da un 6 al 13% dell’energia elettrica prodotta. Concludendo poi col dire che, questo inverno, se la Russia continuerà a tagliare o azzerare le forniture di gas, si dovranno fare sacrifici da tempi di guerra e che, se non ci saranno significative riduzioni dei consumi e i prezzi continueranno a salire, ci saranno inevitabilmente chiusure di stabilimenti industriali e licenziamenti.

Ma allora perché sforzarsi di spiegare ad ogni costo che le cose «andranno bene», come nei primi giorni della pandemia per gli Italiani e gli Europei e male per i Russi14? Forse in grazia di un accordo stilato da Draghi con uno stato, l’Algeria, che è in attesa di entrare a far parte dei Brics e che nei giorni scorsi ha affiancato Russia, Cina, India, Corea del Nord e altri partner ancora nelle manovre militari Vostock 2022 tenutesi nelle vicinanze del Mar del Giappone?

Non è che tutta questa propaganda militar- parlamentare sia destinata soltanto a tenere buona quella parte di opinione pubblica che prima o poi sarà portata ad esplodere imprevedibilmente per le conseguenze coincidenti di pandemia, guerra, crisi ambientale ed energetica? E’ così che i governi dei migliori o dei peggiori, fa lo stesso, pensano di poter affrontare la crisi sociale, politica ed economica che inevitabilmente verrà? Con bonus ridicoli, ristori indirizzati solo alle aziende, la promessa della riduzione di un solo grado delle temperatura domestiche e il ritardo nell’accensione dei riscaldamenti privati e pubblici? Senza mai parlare seriamente dell’inevitabile disoccupazione e miseria che conseguirà a tutto ciò? Oppure, come è successo in questi ultimi giorni a Torino con la società Iren, accontentandosi di staccare il teleriscaldamento a coloro e ai condomini che sono già in difficoltà con il pagamento delle bollette arretrate15?

Speriamo di sì, a patto che chi rifiuta il nefasto modo di produzione attuale rinunci a qualsiasi illusione parlamentaristica e voglia tornare all’organizzazione dal basso e alla lotta di strada. In modo da poter rivendicare, ancora una volta con forza, come negli anni ’70: le bollette e la crisi le paghino i padroni!


  1. Si veda: Natalie Tocci, Lo Zar, le sanzioni e gli “utili idioti”, «La Stampa» 6 settembre 2022  

  2. Nel XIII secolo Marco Polo narrava di cammellieri che esportavano un liquido nero e puzzolente, da Baku, nella zona del Mar Caspio, una regione al centro di contese belliche fin dai tempi di Alessandro Magno. Una sostanza densa, non raffinata, esportata in tutto il Mediterraneo e fino a Baghdad, per essere usata come mezzo di illuminazione e come balsamo o unguento. Sostanza che in quella localita’ era particolarmente abbondante, fino al punto di sgorgare naturalmente dal terreno, formando autentici laghi.  

  3. Si veda in proposito: Daniel Yergin, Il premio. L’epica storia della corsa al petrolio, Biblioteca Agip, Sperling & Kupfer Editori, 1996  

  4. Livello di allerta precoce dichiarato: queste industrie sarebbero le più colpite da un congelamento della fornitura di gas. Le imminenti strozzature di approvvigionamento di gas stanno allarmando l’economia. Per molte aziende, un arresto delle forniture dalla Russia minaccerebbe la loro esistenza, «Handelsblatt», 30 marzo 2022  

  5. INTERVISTA A FRANK APPEL: Il capo delle poste avverte dell’embargo sul gas: “Se ti indebolisci in modo massiccio, non vincerai”, «Handelsblatt», 31 marzo 2022  

  6. Daniel Eckert e Holger Zschäpitz, Inflazione senza fine? Siamo intrappolati nella trappola dei tassi di interesse chiave, «Die Welt» 30.03.2022  

  7. JESÚS GARCÍA – RAQUEL PASCUAL CORTÉS, L’inflazione inghiotte 70 miliardi di euro di salari e risparmi in 12 mesi, «Cinco Días», 31 marzo 2022  

  8. Citato in Financial Times: effetto Ucraina, gli Usa vogliono diventare il primo produttore di petrolio, «il Fatto Quotidiano» 4 aprile 2022  

  9. Matteo Meneghello, L’Opec+ taglia la produzione, «Il Sole 24 ore» 6 settembre 2022  

  10. Sissi Bellomo, Sfida dell’India sul gas: noi con Mosca, «Il Sole 24 ore» 6 settembre 2022  

  11. Gas, la Ue vuole mettere la piattaforma Ttf sotto l’ombrello dell’Esma, «Il Sole 24 ore» 7 settembre 2022  

  12. Sissi Bellomo, Gas, emergenza ma non per tutti. Eldorado per alcuni paesi della Nato, «Il Sole 24 ore» 2 settembre 2022  

  13. Riccardo Sorrentino, In sei mesi l’Ue ha versato 85 miliardi alla Russia, «Il Sole 24 ore» 7 settembre 2022  

  14. Si veda ancora Natalie Tocci, cit., «La Stampa» 6 settembre 2022  

  15. cfr. PIER FRANCESCO CARACCIOLO, L’incubo di un inverno al freddo: a Torino boom di morosità nelle bollette e LODOVICO POLETTO, Termosifoni chiusi per morosità, la rabbia di Mirafiori contro l’Iren: “Questi rincari sono un salasso”, entrambi su «La Stampa», 8 settembre 2022  

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Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money! https://www.carmillaonline.com/2022/05/18/il-nuovo-disordine-mondiale-15-follow-the-money/ Wed, 18 May 2022 20:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72027 di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è oltre la tua frontiera; il nemico non è, no non è al di là della tua trincea (Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, [...]]]> di Sandro Moiso

Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea

(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)

Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,

Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.

Per cui, nonostante le ultime dichiarazioni rilasciate dal comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, riferentisi alla necessità di obbedire agli ordini del comando supremo, e le divisioni intercorse tra gli stessi soldati sulla resa o meno, appare evidente che in realtà la trattativa per la resa e l’evacuazione dei feriti sia iniziata sul campo e in seguito alle proteste dei famigliari dei soldati del battaglione e dei marines ucraini ancora lì asserragliati, represse e disperse a Kiev nelle settimane precedenti, prima che a livello governativo e diplomatico.

Ora Zelenky deve far buon viso a cattivo gioco, ma è evidente che la completa soppressione dei combattenti del battaglione avrebbe permesso al governo ucraino di ottenere due piccioni con una fava ovvero trasformare i militari in eroici “martiri della Patria” e allo stesso tempo liberarsi dell’ingombrante bagaglio rappresentato, agli occhi dell’Europa più restia all’intervento, da una formazione militare ispirantesi all’iconografia e all’ideologia nazista.

Anche se tale resa è stata accompagnata dalle fotografie di unità ucraine giunte in qualche punto non meglio precisato del confine con la Russia, è chiaro che la situazione militare sul campo più che di stallo è ancora di lento ma progressivo avanzamento delle forze russe.
L’uso massiccio dell’artiglieria2 e le lente e costose, in termini di vite umane, avanzate delle fanterie, contraddistinguono da sempre, o almeno dalle campagne anti-napoleoniche in poi, le tattiche dell’esercito russo, imperiale un tempo poi staliniano e oggi putiniano.

Tattiche che in un momento in cui, come rilevano molti osservatori militari occidentali, la guerra si sta nuovamente trasformando in una guerra di trincea3, come quella del primo conflitto mondiale e del secondo sul fronte orientale, tornano a far pesare una tradizione militare che più che sulla velocità di azione conta sul territorio conquistato e solidamente fortificato per essere mantenuto nel tempo.
Mentre, al contrario, la guerra condotta con i droni danneggia gravemente il nemico, come le perdite russe in uomini e mezzi dimostrano, ma non permette di occupare o rioccupare saldamente i territori .

E’, in fin dei conti, il solito vecchio problema dei boots on the ground (scarponi sul terreno), che assilla soprattutto le forze armate USA successivamente alla guerra in Vietnam, il cui numero di vittime americane (70.000 morti e diverse centinaia di migliaia di soldati feriti o profondamente scossi sul piano psicologico) non potrebbe più essere sopportato dall’opinione pubblica di un paese sempre più diviso e impoverito. Lo stesso che, solo per fare un esempio, spinse il presidente Bill Clinton ad abbandonare la missione Restore Hope in Somalia, nel 1993, dopo poco più di due decine di caduti nella battaglia di Mogadiscio4.

Come ha affermato l’ex-generale Fabio Mini, sulle pagine del «Fatto Quotidiano»:

Ci viene detto che le forze russe sono state respinte a Kharkiv e la città è “liberata”. Non era mai stata occupata dai russi, bombardata sì ma occupata no. Come a Kiev, i carri armati russi se ne sono andati a fare altro e le forze ucraine in città sono rimaste esattamente dov’erano […] Sempre che Kharkiv sia un obiettivo che i russi vogliano veramente acquisire. E’ certamente un centro nevralgico delle comunicazioni tra Russia e Ucraina ed è una regione di confine parzialmente occupata dai russi fino a Izyum, dove da settimane risiede uno dei bracci della morsa sull’area di Kramatorsk […] Cosa facciano le forze armate ucraine in quest’area non è chiaro. Da un lato dichiarano che si riprenderanno anche la Crimea già annessa alla federazione russa, dall’altro si dedicano a lanci sporadici di missili sugli obiettivi navali individuati daglli americani (del Pentagono o della Raytheon) e all’uso maniacale delle sirene d’allarme aereo, come in tutto il resto del territorio ucraino. Una misura che ormai sembra più rivolta al controllo interno della popolazione attraverso la paura che protettiva […] La situazione tattica è quindi rallentata, ma non è di stallo e chi auspica una interruzione dei combattimenti o la loro escalation “una volta per tutte” dovrà pazientare5.

Se sul campo la situazione è quanto meno di stallo, non evolve certo in direzione favorevole all’Occidente, alla Nato e agli Usa neppure quella diplomatica e internazionale.
Basti pensare alla durissima presa di posizione di Erdogan e della Turchia rispetto all’ingresso nell’Alleanza Atlantica di Finlandia e Svezia. Con tale mossa il sultano di Istanbul opera sui tre fonti che lo vedono impegnato al rilancio di un nuovo impero ottomano: non allontanarsi troppo da Putin, favorendone le mosse senza rafforzarlo troppo; colpire sempre più duramente i curdi del Rojava per ottenere il controllo definitivo di buona parte della Siria e far pesare il ruolo politico, diplomatico e militare di un paese che è la seconda potenza militare della Nato dopo gli USA6.

Per autoritaria e reazionaria che sia la figura del capo di Stato turco, è evidente che, come si dice da tempo su queste pagine, la crescita esponenziale del ruolo della Turchia nel quadrante mediorientale e nordafricano e, in un futuro neppur troppo lontano, centro-asiatico rivela uno degli aspetti importanti di quel nuovo disordine mondiale, causato dalle disordinate e ingovernabili politiche di globalizzazione volute e dirette da Washington, che sta alla base del conflitto in corso.

Uno dei tanti aspetti da sempre poco sottolineati dai media mainstream e dai funzionari del capitalismo liberal e falsamente democratico, che avrebbe fatto dire a Fabrizio De Andrè: anche se non ve ne siete accorti, siete lo stesso coinvolti. Con buona pace di tutte le anime belle che ancora si interrogano se davvero sia già in corso una guerra tra Nato, Russia e, andrebbe ancora detto, tutti gli altri.

Una guerra che se da un lato rivela il sogno neo-imperiale di Putin, dall’altra vede gli USA cercare di ottenere diversi risultati, non tutti solo a scapito della Russia o della Cina, ma anche degli “alleati europei”. Una imposizione di politiche economiche e militari devastanti per l’economia delle principali nazioni europee, cui evidentemente Francia e Germania cercano di opporsi, seppure ancora con guanti di velluto.

Una politica che cerca di sostituire petrolio e gas russi con quelli estratti negli o dagli Stati Uniti, molto più costosi, nel tentativo di creare un’ulteriore dipendenza economica e strategica dell’Europa Unita in chiave americana. Scelta che sta frantumando non solo il fronte europeo, ma anche quello delle sanzioni e che in data 16 maggio ha visto, al momento dell’insediamento del nuovo governo Orban in Ungheria, una autentica, anche se interessata alla possibilità di ottenere una maggiore assegnazione di fondi (dai 2 miliardi di euro ai 15 richiesti), dichiarazione di alterità rispetto alle politiche e alle sanzioni messe in atto della UE, soprattutto nel settore delle importazioni di petrolio dalla Russia.

Occorre notare poi ancora come queste scelte politiche ed economiche già dividono l’Europa dei 27 tra Est e Ovest forse in maniera ancora maggiore che ai tempi della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro, poiché penetrano in profondità negli interessi dei singoli paesi, frantumandone la coesione sociale e politica non soltanto, o almeno non ancora, sul piano della lotta di classe, ma soprattutto su quello degli interessi delle varie branche e settori produttivi oppure politico-elettoralistici.

Come, nell’italietta da sempre giolittiana, dimostrano gli altalenanti e preoccupati giudizi di una parte dei rappresentanti dell’industria7 e i mal di pancia elettorali di Conte, Salvini, Giorgetti e Berlusconi. Che hanno portato il 16 maggio alla mancanza, per ben tre volte, del numero legale in aula per l’approvazione del Dl Ucraina bis8.

E’ un’Europa che si sfalda in maniera evidente sotto gli occhi di tutti, al di là delle vuote frasi di principio di Ursula von der Leyen, Sergio Matterella, Enrico Letta o di qualunque altro illusionista di un’unità che, se c’è mai stata, oggi è sempre meno viva ed efficace. Sfaldatura e sbriciolamento che non può fare a meno di riflettersi pesantemente sull’euro, ovvero la moneta che avrebbe dovuto garantire l’unità politico-economica europea stessa e la sua indipendenza rispetto al “re dollaro”.
Re, quest’ultimo, la cui autorità viene oggi severamente messa in discussione non tanto da un euro esangue e sconfitto su tutti i piani, ma dalle stesse sanzioni che avrebbero dovuto indebolire gli avversari e rafforzare il ruolo degli USA e della loro moneta.

Se, infatti, nell’analisi della guerra fosse più frequentemente adottata una concezione materialistica accompagnata da un saldo riferimento all’inevitabile scontro tra le classi da un lato e a quello tra le nazioni e gli imperi dall’altro, più che porre l’attenzione su inutili disquisizioni sui diritti liberali o il diritto alla resistenza degli Stati, si coglierebbe tra gli elementi che hanno contribuito a scatenare il conflitto, con il suo corollario di morte e distruzione, quello dello scontro di carattere monetario ovvero dettato dalle necessità non soltanto di ordine geopolitico ed egemonico dal punto di vista militare, ma anche da quella di dar vita ad un nuovo ordine multipolare monetario destinato a sopravanzare e sostituire quello sorto a Bretton Woods nel 1944.

Con gli accordi siglati nella località statunitense, per la prima volta nella storia, si erano stabilite delle regole internazionali per i commerci e i rapporti finanziari fra le principali potenze economiche mondiali. Gli USA, che meno di dodici mesi dopo sarebbero usciti come assoluti vincitori dal conflitto mondiale, imposero al resto del mondo la loro valuta, il dollaro.
Venne infatti stabilito che il dollaro diventasse la valuta di riferimento per i commerci mondiali. Grazie a quegli accordi gli Stati Uniti imposero il dollaro, che era dipendente dalle decisioni prese dalla Federal Reserve e dal dipartimento del Tesoro Usa, al resto del mondo.

E’ chiaro che tale situazione, che favoriva l’utilizzo del dollaro per tutte le principali transazioni finanziarie internazionali riguardanti sia il mercato azionario che quello dei beni e delle materie prime, avrebbe nel tempo suscitato rivalità e tentativi di scalzare una supremazia della moneta americana che, contemporaneamente, favoriva sia una facilitazione per le transazioni economiche che il predominio degli USA sul mercato mondiale. Principalmente finanziario, ma non solo.

Prima dell’avvento dell’euro che, nel corso dei venti anni dalla sua adozione, si era ritagliato una quota del 20%, la percentuale degli scambi in dollari era ancora più alta, con lo yen giapponese, la sterlina inglese e il marco tedesco a giocare il ruolo di debolissimi comprimari. La nascita dello stesso aveva eliminato un concorrente nazionale, il marco tedesco, e fortemente ridimensionato il ruolo delle altre due monete.

Così, in realtà tale contrasto tra il dollaro e le altre valute scorre sotto gli occhi degli spettatori distratti da diversi anni a questa parte, almeno fin dall’entrata in vigore dell’euro. Valuta che fu creata, ancor prima che per unire monetariamente l’Europa, proprio per dare all’economia europea una moneta comune in grado di scalzare il potere del dollaro sul mercato mondiale. Motivo per cui, però, tardando ad affermarsi come moneta di scambio e di riserva, pari o di poco inferiore al ruolo svolto dalla moneta americana, ha per un certo periodo contribuito al mantenimento del ruolo centrale svolto da quest’ultima.

Non a caso, solo per fare un esempio, agli occhi americani si rivelò particolarmente perniciosa la proposta di Saddam Hussein di accettare il pagamento in euro del petrolio iracheno. Motivo che rese l’ex-alleato inviso agli Stati Uniti ben più delle sue presunte frequentazioni terroristiche e delle sue mai trovate armi di distruzione di massa.

La finanza, la weaponizing finance, è diventata così un’arma che al momento attuale sono principalmente gli Stati Uniti a voler utilizzare, contando sullo strapotere del dollaro nel sistema monetario internazionale. Applicata alla Russia, nel breve periodo e fino ad ora, non ha però ottenuto l’effetto devastante che ci si aspettava, anzi, come vedremo tra poco, ha danneggiato più i suoi utilizzatori, in termini di inflazione, aumento del valore delle materie prime e beni di prima necessità come il grano. Iniziando già a contribuire sia ad uno sviluppo delle contraddizioni tra le classi, come in Sri Lanka e Tunisia, sia tra gli interessi degli Stati presunti alleati, come l’impossibile accordo sul tetto al costo del petrolio e del gas e la posizione di diversi stati europei sulle sanzioni alla Russia cominciano a dimostrare ben al di là della semplice sfera economica.

Se per alcuni anni l’indebolimento dell’euro rispetto al dollaro è stato sfruttato in maniera concorrenziale dall’industria europea per favorire le proprie esportazioni, oggi con il cambio euro-dollaro giunto a 1,04 rispetto a quello di 1,20 di un anno fa o a quello di 1,45 di circa dieci/dodici anni fa, inizia a preoccupare seriamente gli investitori che prevedono che nel giro di qualche mese il ribasso potrebbe giungere ad una quasi parità tra moneta unica e dollaro (1,02 circa).

In altre parole, poco importa se l’inflazione nell’Eurozona sia schizzata al 7,5% in aprile, record storico da quando esiste l’euro. L’istituto non riesce ad alzare i tassi, perché teme che ciò provochi un innalzamento del costo del debito insostenibile per paesi come l’Italia. D’altra parte, la guerra in Ucraina sta colpendo direttamente il Vecchio Continente e per il momento non l’America. Dunque, la Federal Reserve sta alzando i tassi d’interesse e continuerà a farlo a passo veloce nei prossimi mesi per battere l’inflazione. La BCE ritiene di non poterselo permettere.
Per questo il cambio euro-dollaro sarebbe destinato a restare debole e a contrarsi maggiormente nei prossimi mesi. L’Eurozona rischia di entrare in recessione, per cui la BCE tentennerà sul rialzo dei tassi. Nel frattempo, la FED sarà pressata per battere l’inflazione, anche perché questo è diventato il capitolo più spinoso per l’economia americana prima delle elezioni di metà mandato a novembre. L’amministrazione Biden non può permettersi i lusso di lasciar correre ulteriormente i prezzi al consumo, altrimenti rischia una batosta storica in occasione del rinnovo del Congresso9.

Però il processo inflattivo acceleratosi a partire dall’inizio del conflitto ucraino ha fatto sì che la debolezza dell’euro si accompagnasse alla crescita dei prezzi del petrolio. Un anno fa, il Brent sui mercati internazionali era quotato meno di 68 dollari al barile. Allora, poi, il cambio euro-dollaro era di circa 1,21. E così un barile costava 56 euro. Ora le quotazioni salite, in aprile, sopra i 104 dollari e con il cambio euro-dollaro sceso a 1,06, un barile costa sui 98 euro, il 75% in più su base annua. Con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare sia a livello di consumi privati, deprezzamento delle retribuzioni dei lavoratori e aumento generale del costo della vita accompagnato, in un prossimo futuro, da pesanti perdite, chiusure e licenziamenti in diversi settori industriali.

Ma fin qui ci porremmo ancora e soltanto sul piano dei conti della serva o di un ragionier alla Mario Draghi, poiché la weaponizing finance ha ottenuto anche ben altri risultati sul piano monetario.

Alla fine di gennaio, la Russia deteneva riserve in valuta estera per un valore di 469 miliardi di dollari. Questo tesoro è nato dalla prudenza insegnata dal suo default del 1998 e, sperava Vladimir Putin, anche una garanzia della sua indipendenza finanziaria. Ma, quando è iniziata la sua “operazione militare speciale” in Ucraina, ha appreso che più della metà delle sue riserve erano congelate. Le valute dei suoi nemici hanno cessato di essere denaro utilizzabile. Questa azione non è significativa solo per la Russia. Una demonetizzazione mirata delle valute più globalizzate del mondo ha grandi implicazioni […] Un denaro globale – uno su cui le persone fanno affidamento nelle loro transazioni transfrontaliere e nelle decisioni di investimento – è un bene pubblico globale. Ma i fornitori di quel bene pubblico sono i governi nazionali. Anche sotto il vecchio gold exchange standard, era così. […] Nel terzo trimestre del 2021, il 59% delle riserve globali in valuta estera era denominato in dollari, un altro 20% in euro, il 6% in yen e il 5% in sterline. Il renminbi cinese costituiva ancora meno del 3% delle riserve globali. Oggi, i fondi globali sono emessi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, compresi quelli piccoli. Questo non è il risultato di una trama. I fondi utili sono quelli delle economie aperte con mercati finanziari liquidi, stabilità monetaria e stato di diritto. Eppure l’armamento di quelle valute e dei sistemi finanziari che le gestiscono mina quelle proprietà per qualsiasi detentore che teme di essere preso di mira. Le sanzioni contro la banca centrale russa sono uno shock. Chi, si chiedono i governi, sarà il prossimo? Cosa significa per la nostra sovranità? Si può obiettare alle azioni dell’Occidente per motivi strettamente economici: l’armamento delle valute frammenterà l’economia mondiale e la renderà meno efficiente. Questo, si potrebbe rispondere, è vero, ma sempre più irrilevante in un mondo di gravi tensioni internazionali. Sì, è un’altra forza per la deglobalizzazione, ma molti si chiederanno “e allora?”. Un’obiezione più preoccupante per i politici occidentali è che l’uso di queste armi potrebbe danneggiarli. Il resto del mondo non si affretterà a trovare modi per effettuare transazioni e immagazzinare valore che aggira le valute e i mercati finanziari degli Stati Uniti e dei loro alleati? Non è questo che la Cina sta cercando di fare in questo momento? Lo è. In linea di principio, si potrebbero immaginare quattro sostituti delle odierne valute nazionali globalizzate: valute private (come bitcoin); moneta merce (come l’oro); una valuta globale (come i diritti speciali di prelievo del FMI); o un’altra valuta nazionale, più ovviamente quella cinese10.

Ma un opuscolo recente di Graham Allison, dell’Università di Harvard, su The Great Economic Rivalry conclude che la Cina è già un formidabile concorrente degli Stati Uniti. La storia suggerisce che la valuta di un’economia delle sue dimensioni, sofisticazione e integrazione diventerebbe un denaro globale. Finora, tuttavia, questo non è accaduto. Questo perché il sistema finanziario cinese è relativamente poco sviluppato, la sua valuta non è completamente convertibile e il paese manca di un vero stato di diritto. La Cina è molto lontana dal fornire ciò che la sterlina e il dollaro hanno fornito nel loro periodo di massimo splendore. Mentre i detentori del dollaro e di altre importanti valute occidentali potrebbero temere sanzioni, devono sicuramente essere consapevoli di ciò che il governo cinese potrebbe fare loro, se lo scontentassero. Altrettanto importante, lo stato cinese sa che una valuta internazionalizzata richiede mercati finanziari aperti, ma ciò indebolirebbe radicalmente il suo controllo sull’economia e sulla società cinese. Questa mancanza di un’alternativa veramente credibile suggerisce che il dollaro rimarrà la valuta dominante del mondo. Eppure c’è un argomento contro questa visione compiacente, esposta in Digital Currencies, un opuscolo stimolante della Hoover Institution. In sostanza, questo è che il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (Cips – un’alternativa al sistema Swift) e la valuta digitale (l’e-CNY) potrebbero diventare un sistema di pagamento dominante e una valuta veicolo, rispettivamente, per il commercio tra la Cina e i suoi numerosi partner commerciali. A lungo termine, l’e-CNY potrebbe anche diventare una valuta di riserva significativa. Inoltre, sostiene l’opuscolo, ciò darebbe allo stato cinese una conoscenza dettagliata delle transazioni di ogni entità all’interno del suo sistema. Sarebbe un’ulteriore fonte di potere. Oggi, il dominio schiacciante degli Stati Uniti e dei loro alleati nella finanza globale […] conferisce alle loro valute una posizione dominante. Oggi non esiste un’alternativa credibile per la maggior parte delle funzioni monetarie globali. Oggi, è probabile che l’alta inflazione sia una minaccia maggiore per la fiducia nel dollaro rispetto alla sua militarizzazione contro gli stati canaglia. A lungo termine, tuttavia, la Cina potrebbe essere in grado di creare un giardino recintato per l’uso della sua valuta da parte di coloro che le sono più vicini. Anche così, coloro che desiderano effettuare transazioni con i paesi occidentali avranno ancora bisogno di valute occidentali. Ciò che potrebbe emergere sono due sistemi monetari – uno occidentale e uno cinese – che operano in modi diversi e si sovrappongono a disagio. Come per altri aspetti, il futuro promette non tanto un nuovo ordine globale costruito intorno alla Cina quanto più disordine. Gli storici futuri potrebbero vedere le sanzioni di oggi come un altro passo in quella direzione11.

Non soltanto le sanzioni nei confronti della Russia possono dunque contribuire allo sviluppo di un autentico avversario valutario con la crescita della Cina e del suo peso finanziario, oggi non ancora pari a quello produttivo, ma hanno già contribuito ad un rafforzamento dello stesso rublo che, dall’inizio della guerra, non soltanto ha raggiunto, nei confronti del dollaro, un valore di scambio precedentemente mai conseguito12, ma si è di fatto anche imposto come moneta per le transazioni riguardanti l’acquisto di petrolio e gas da parte dei paesi occidentali13.

Nonostante i balletti e le recite a soggetto messe in atto formalmente da Bruxelles, è chiaro e sotto gli occhi di tutti che, al momento attuale, i paesi europei, Germania e Italia in testa ma anche Austria, Ungheria e altri, non possono fare a meno del petrolio e del gas russo (che solo per l’Italia costituisce il 38% delle importazioni energetiche) e che per tali motivi sono disposti a pagare in rubli, pur facendo finta di niente. Oppure ricorrendo all’escamotage proposto loro dal governo russo e dal colosso Gazprom di poter indifferentemente accedere a due conti del gigante russo del gas, uno in rubli e uno in euro/dollari poi riconvertibili in rubli dalla stessa Gazprom.

Insomma dopo giorni e settimane e mesi di discussioni su sanzioni e pagamenti, alla fine ad uscirne rafforzata è stata la Russia che per la prima volta può ottenere il pagamento delle sue materie prime in rubli, prima ancora che in dollari. Se questa la si vuol chiamare sconfitta lo si faccia pure, magari in omaggio all’Eurovision Song Contest e alla società dello spettacolo che in tal modo vuole farci intendere il mondo, ma perché allora in un recente editoriale il direttore della «Stampa» si è dimostrato così preoccupato da scrivere quanto segue:

L’euro ha forgiato un nucleo duro di paesi. L’Unione monetaria ci ha illuso di poter far da traino a tutto il resto, dalla difesa al Welfare. E di poter diventare , addirittura, valuta di riserva su scala globale. Oggi naufraga anche quella illusione sotto i colpi dei missili Kalibr e delle bombe al fosforo di Mosca. C’è un altro conflitto che non stiamo vedendo […] è la guerra per l’egemonia valutaria, che potrebbe spazzar via il poco che resta del pur già instabile “ordine finanziario” nato dagli accordi di Bretton Woods del luglio del ’44, quando il mondo incoronò Re Dollaro come moneta di riferimento dei commerci internazionali […] Oggi quel Regno, già periclitante, è insidiato dagli stravolgimenti geo-politici innestati dalla guerra santa di Putin. E l’America, che attraverso il dollaro controlla il 90% degli scambi globali e il 59% delle riserve delle banche centrali del mondo, combatte a distanza al fianco di Zelensky anche per difendere il suo trono valutario.
[…] Per togliere ossigeno allo Zar e al suo esercito, Washington e Bruxelles hanno varato sanzioni che hanno colpito finora 5.500 obiettivi russi […] Putin ha risposto imponendo l’obbligo del pagamento in rubli su tutte le forniture di gas e petrolio. USA e UE, dopo un secco rifiuto iniziale, stanno gradualmente cedendo al ricatto […] Questa escalation sancisce già l’inizio della fine di un sistema monetario “aperto”. L’uso massiccio ed esteso delle sanzioni è un formidabile dissuasore non solo politico, ma anche finanziario e commerciale […] Ma ora il fenomeno si sta allargando ed elevando a sistema. Ma proprio perché elevate a sistema, le sanzioni contribuiscono a minare la fiducia nel dollaro e spingono a cercare soluzioni valutarie alternative o parallele. Sta già succedendo. La Cina ha avviato trattative con l’Arabia Saudita, per convincere Riad ad accettare renmimbi al posto dei dollari nel pagamento delle forniture petrolifere. Pechino ha anche avviato lo sviluppo dello “e-yuan”, la sua moneta digitale, e del “China Interbank Payment System”, piattaforma autonoma per i pagamenti internazionali, con l’obiettivo di staccarsi il prima possibile dal circuito occidentale Swift. A Erevan, a metà marzo, si è svolto il meeting “Nuova fase della cooperazione monetaria e finanziaria tra l’Unione Economica Euroasiatica e la Repubblica Popolare Cinese” […] L’idea di Eurasia è esattamente questa: costruire un sistema monetario e finanziario internazionale “post-americano” […] Secondo Mosca e il cartello euro-asiatico il congelamento delle riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali , da parte degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito, ha incrinato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globale. Ed è questo che impone un’accelerazione verso lo smantellamento dell’ordine economico mondiale imperniato sul biglietto verde.
Ecco dunque l’altra posta in gioco della guerra ucraina, che fa convergere Putin e XiJinping. L’attacco all’egemonia americana attraverso il dollaro […] Ovviamente non è detto che riesca. Ma il tentativo è avviato. E come minimo produrrà una riaggregazione tra società “chiuse” e una de-globalizzazione per zone di interesse […] In questa terra incognita, va da sé, chi rischia di cadere e farsi male è ancora una volta l’Europa con la sua moneta zoppa. Nell’ultimo anno l’euro si è già deprezzato del 15%. Nelle ultima settimane è scivolato a quota 1,04 contro il dollaro […] Un disastro, visto che il grosso della nostra inflazione è importata e deriva soprattutto dai costi proibitivi delle risorse energetiche14.

Bene, dopo questa autentica “confessione” di un rappresentante dell’informazione mainstream, è giunto il momento di tirare alcune prime conclusioni.

La prima è che non vi possono essere più dubbi sulla gravità del conflitto militare in atto e sull’inevitabilità del suo allargamento su scala mondiale, visto che è destinato ridefinire ruoli e posizioni di comando all’interno del controllo dei mercati, delle ricchezze e delle risorse mondiali.

La seconda è costituita dal fatto che tutte le attuali alleanze, soprattutto in Occidente, sono destinate a sfaldarsi e a diventare motivo di conflitto più che di mantenimento di un ordine qualsiasi o della pace.

La terza è che l’Europa ancora una volta sarà al centro del conflitto, con tutte le conseguenze che da ciò deriveranno.

La quarta, e per ora ultima, è che i giovani, le donne, i lavoratori, i ceti medi impoveriti, le classi che non hanno mai neppure potuto intravedere una possibilità di miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali e gli stessi soldati non hanno e non avranno alcun interesse a schierarsi e a combattere per l’euro, il dollaro, la sterlina, il rublo o lo yuan.

Non avranno alcun interesse a schierarsi con sistemi che attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e dei corpi, l’estrattivismo, la proprietà privata, il Dio denaro e l’accaparramento nelle mani di pochi delle ricchezze socialmente prodotte hanno creato le condizioni del conflitto militare e di quello di classe in ogni angolo del globo.
E proprio su quest’ultimo punto si giocherà la sopravvivenza dell’intera specie e il suo divenire.

il nemico è qui tra noi,
mangia come noi, parla come noi,
dorme come noi, pensa come noi
ma è diverso da noi.
Il nemico è chi sfrutta il lavoro
e la vita del suo fratello;
il nemico è chi ruba il pane
il pane e la fatica del suo compagno;
il nemico è colui che vuole il monumento
per le vittime da lui volute
e ruba il pane per fare altri cannoni
e non fa le scuole e non fa gli ospedali
e non fa le scuole per pagare i generali, quei generali
quei generali per un’altra guerra…

N. B.
La canzone “Il monumento” è firmata per il testo e la musica da Jannacci, ma una nota all’interno del disco in cui era pubblicata nel 1975, “Quelli che…” , dall’etichetta Ultima Spiaggia di Nanni Ricordi, segnalava che il testo antimilitarista, era tratto da un volantino trovato durante l’inaugurazione di un monumento ai caduti; nella realtà era invece tratta da una poesia di Bertolt Brecht (pubblicata tradotta in italiano nel settembre del 1965 nel numero 6 della rivista Nuovo Canzoniere Italiano a pagina 32).

(Fine prima parte )


  1. Sull’argomento si potrebbe rivelare utile la lettura di Domenico Quirico, Azov, gli eroi impossibili serviti per la propaganda di russi e ucraini, «La Stampa», 18 maggio 2022  

  2. “Kiev deve fronteggiare le operazioni a sud e a est, settori in cui l’artiglieria ha un ruolo predominante, per le caratteristiche del territorio e perché i russi l’hanno sempre considerata una specialità: la stanno usando infatti in modo massiccio per «arare» le posizioni della resistenza. Vogliono distruggere le trincee ben costruite, ma anche piegare il morale. L’artiglieria permette infatti di colpire da lontano, rallentando o distruggendo le forze nemiche e consentendo al tempo stesso a fanteria e blindati di avanzare. I russi sono dunque incessanti nei tiri, come loro stessi raccontano nei bollettini ufficiali: soltanto martedì sono stati colpiti 400 siti, sostiene la Difesa russa.
    Dalla sua, Mosca ha l’esperienza, i numeri, la potenza: l’artiglieria è il cuore dell’esercito russo già dai tempi dell’Impero, nota l’Economist. Durante il precedente conflitto nel Donbass i suoi soldati erano in grado di agire nell’arco di 4 minuti dal momento in cui veniva identificato il target. Quell’operazione ha infatti avuto successo, anche grazie ad un arsenale vasto. Un suo lanciatore multiplo Smerch di progettazione sovietica può arrivare a 70 chilometri di stanza, un pezzo D-30 a 22, quindi i mortai pesanti trainati da mezzi (il Tyulpan) tra 9 e 20 chilometri, i veri semoventi corazzati capaci di arrivare fino a 30 chilometri. Le batterie inquadrano un’area, gli uomini sono assistiti dai droni e dalla ricognizione, quindi iniziano a martellare. Possono continuare per giorni, a patto di avere scorte a sufficienza, ma anche una rete logistica di livello: una singola «bomba» da 155 mm può pesare 50 chilogrammi”, da Andrea Marinelli e Guido Olimpio, La potenza russa contro gli aiuti esterni ucraini: il ruolo dell’artiglieria nella seconda fase della guerra, «Corriere della sera», 5 maggio 2022

     

  3. Si veda qui  

  4. Si veda in proposito il sempre utile e dettagliato film di Ridley Scott, Black Hawk Down, del 2001  

  5. Fabio Mini, Kharkiv né occupata né liberata. A Mariupol niente più resistenza, «il Fatto Quotidiano», 16 maggio 2022  

  6. Si veda, a titolo di esempio, Steven A. Cook, Ukraine’s War Is Erdogan’s Opportunity. «Foreign Policy», 29 marzo 2022  

  7. Si veda l’intervista a Paolo Agnelli, industriale leader nel settore dell’alluminio e presidente di Confimi Industria – associazione che raccoglie 45milaimprese e 650mila dipendenti – sulle pagine di «Verità & Affari» del 15 maggio 2022: Maurizio Cattaneo, «Draghi non faccia il ragioniere. Materie prime ed energia? Si rivede il baratto»  

  8. qui  

  9. Giuseppe Timpone, Cambio euro-dollaro sulla parità entro fine anno, ecco perché, «Investire oggi», 12 maggio 2022  

  10. Martin Wolf, Un nuovo mondo di disordine valutario incombe, «Financial Times», 29 marzo 2022  

  11. Martin Wolf, cit.  

  12. Si veda qui  

  13. Vanessa Ricciardi, Putin sta vincendo almeno la guerra del gas. Anche l’Italia si piega, «Domani», 12 maggio 2022  

  14. Massimo Giannini, L’Occidente prigioniero e il trono di Re Dollaro, «La Stampa», 15 maggio 2022  

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Il nuovo disordine mondiale / 12: Vittorie perdute*. https://www.carmillaonline.com/2022/04/28/il-nuovo-disordine-mondiale-12-vittorie-perdute/ Thu, 28 Apr 2022 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71617 di Sandro Moiso

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo) “Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod)

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata. Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del [...]]]> di Sandro Moiso

“Siamo in guerra. Ma per quale vittoria? E se non lo sappiamo, come potremo stabilire se avremo vinto o perso, quando mai finirà?” (Lucio Caracciolo)
“Questo è il futuro, sorellina…” (La canzone del tempo – Ian R. MacLeod)

Ci siamo. Dopo più di sessanta giorni dal suo inizio, la guerra nei fatti è dichiarata.
Non quella della Russia con l’Ucraina, ma quella che fino ad ora si è manifestata, nemmeno troppo, sottotraccia: Biden contro Putin, Nato contro Russia e contro gli alleati recalcitranti, Occidente “democratico” contro resto del mondo “autoritario”.

Ma guai a parlare di imperialismo, se non è quello russo-putiniano; guai a parlare di pace se non è quella dettata dai cannoni e dall’invio di armi; guai ragionare; guai uscire dal coro; guai smontare la propaganda bellica di entrambi le parti in conflitto.
Guai, guai, guai…
Basti invece cantare come i sette nani disneyani: Andiam, andiam, andiam a guerreggiar… (i nanetti di allora cantavano lavorar, ma che importa ormai ai nano-burocrati rappresentanti del capitale internazionale?). Oppure “Bella Ciao”, contro qualsiasi commemorazione della Resistenza che non si limiti ad esaltare l’unità nazionale e interclassista con i fascisti di un tempo e con quelli di oggi.

Così, nei libri di Storia futuri (stampati, online oppure semplicemente scolpiti nella pietra), come data di inizio vero del Terzo conflitto mondiale potrebbe essere ricordata non quella del 24 febbraio 2022 per l’invasione russa dell’Ucraina, ma quella del 26 aprile dello stesso anno. Giorno in cui, a Ramstein in Germania, il vertice Nato allargato ha, di fatto, dichiarato ufficialmente guerra alla Russia. Zelensky (autentico Renfield del vampirismo occidentale, ma tutto sommato personaggio secondario della catastrofe mondiale cui stiamo andando incontro), Boris Johnson (a caccia di una riabilitazione politica per la propria carriera e di un nuovo ruolo imperiale per il Regno Unito, costi quel che costi) e Sleepy Joe Biden (l’esibizione concreta del sonno della ragione che guida le scelte occidentali e della Nato) hanno scelto per noi, per la specie e l’umanità intera: basti leggere i titoli dei maggiori quotidiani del giorno successivo, il cui significato può essere sintetizzato con una frase di antica memoria: Alea iacta est (il dado è tratto).

Così mentre i russi avanzano poco a poco, conquistando i territori orientali ucraini e procedendo nell’opera di accerchiamento dei quarantamila soldati delle forze armate di Kiev attestati su quel fronte, i leader occidentali promettono, già intravedendola attraverso gli occhi spiritati di Zelensky, una vittoria in realtà piuttosto difficile da raggiungere e, in compenso, gravida di rischi già contenuti nelle stesse scelte che dovrebbero favorirla. Come, a solo titolo di esempio, l’ulteriore stanziamento di 33 miliardi di dollari richiesto da Joe Biden al congresso americano per la fornitura di altre armi all’Ucraina. Richiesta che fa inevitabilmente pensare alla previsione di una guerra di “lunga durata”.

Non tanto e soltanto per le parole già pronunciate in precedenza dal ministro degli esteri russo Lavrov a proposito del rischio di deflagrazione di una terza guerra mondiale e neppure per le minacce contenute nel discorso tenuto da Putin, a Pietroburgo il 27 aprile, con il riferimento al possibile ricorso ad armi per ora impreviste o sconosciute per l’alleanza occidentale. Ma anche, e forse soprattutto, per le crepe sempre più evidenti che tale dichiarazione di guerra aperta alla Russia rischia di aprire non soltanto tra i presunti alleati, ma anche con le altre potenze presenti sul pianeta. Cina e India in testa.

Come si afferma nell’editoriale del primo numero della rivista «Domino»:

Per gli esseri umani cogliere la profondità del momento storico che abitano è esercizio assai complesso. Travolti dalle circostanze, impegnati a sopravvivere, non percepiscono il frangente vissuto. Nel 476 d.C. nessuno si accorse che la deposizione dell’imperatore Romolo Augustolo avrebbe decretato la fine dell’impero romano d’Occidente – ammesso che sia accaduto sul serio1.

Così, se in Europa la questione delle forniture di gas ha già aperto un divario non secondario tra le richieste americane di sanzioni e gli effettivi interessi economici e produttivi di paesi come la Germania, l’Ungheria, la Slovacchia, la “neutrale” Austria e, anche, della timorosa e confusa italietta draghiana (in cui il peso dell’ENI, che avrebbe già deciso di pagare in rubli le forniture, non può affatto essere considerato secondario sia dal punto di vista economico che politico)2, nonostante le dichiarazioni dell’imperturbabile e insignificante Ursula von der Leyen, secondo la quale «l’Europa non si piegherà al ricatto (russo)», nel resto del mondo l’Occidente, per fingere una sua presunta aumentata influenza, ha dovuto accontentarsi di invitare al vertice di Ramstein paesi come la Liberia, la Tunisia, la Giordania, il Kenya e poco altro ancora.

Atterriti dall’aggressività russa, nei prossimi mesi i principali paesi europei aumenteranno grandemente la spesa militare. Su tutti, la Germania. Massimo esportatore relativo al mondo, tra i più capaci soggetti esistenti, da decenni Berlino è priva di reali forze armate – nelle parole dello Stato maggiore britannico, «i soldati tedeschi sono soltanto campeggiatori aggressivi». Dimensione innocua, utile per tranquillizzare i vicini, prossima a scomparire.
[…] Così il Regno Unito vorrà inserirsi nell’estero vicino della Germania, tornando a ergersi a principale sodale di polacchi e rumeni, come capitato in altri drammatici passaggi della storia.

Sebbene in questa fase salutino con soddisfazione il suo nuovo corso, presto gli Stati Uniti inizieranno a sospettare del satellite berlinese, troppo ingombrante per diventare bellicoso. Fino ad accendere la vecchia competizione bilaterale, soltanto parzialmente sopita con la seconda guerra mondiale. Al di là dell’appartenenza al medesimo fronte, Washington conserva una latente ostilità nei confronti della Repubblica Federale, memore d’aver faticosamente avversato ogni crescente potenza teutonica3.

Sbandierando poi la dichiarazione cinese che «nessuno vuole la terza guerra mondiale», i media italiani guerrafondai fingono una sorta di presa di distanza della Cina dalla politica russa, mentre è evidente che, pur nella sua ovvietà, la Cina non condivide l’attuale politica di aggressione verbale e militare portata avanti dai maggiori rappresentanti della Nato (USA e Gran Bretagna) nei confronti dei governanti e dei territori russi.

L’altro tema su cui si glissa, poi, è il fatto che il nazionalista Modi, in India, abbia di fatto respinto per ben tre volte la richiesta portata avanti, al più alto grado di rappresentanza politica, da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea affinché il suo paese abbandonasse la posizione astensionista nei confronti della condanna della condotta russa, tenuta fin dalla prima votazione alle Nazioni Unite nei primi giorni del conflitto russo-ucraino.

Rifiuto che pone l’India, una delle principali potenze economiche del globo e membro più che importante dei BRICS, in una situazione di attesa che, senza manifestare soverchie simpatie per Putin e la sua politica, si rivela comunque minacciosa per la tranquillità occidentale, la cui politica di intervento militare sempre più esteso si accontenta di giustificarsi attraverso la pretesa di un cambio della guardia in Russia, magari con la speranza di tornare ai tempi di El’cin, senza tener conto dell’autentico tsunami geopolitico che sia le scelte di Putin che proprie hanno e stanno contribuendo a sollevare su scala planetaria.

Ha dunque perfettamente ragione chi ponga l’esiziale domanda, al nostro governo come a quelli occidentali coinvolti, talvolta controvoglia come quello tedesco, nelle decisioni prese a Ramstein: quale vittoria si vuole perseguire? Ma, soprattutto: sono state messe in conto le conseguenze di una possibile sconfitta? A quanto pare, come per l’alterigia che accompagnò il generale Custer al disastro del Little Big Horn, NO.

Sconfitta che potrebbe derivare non soltanto dal differenziale bellico intercorrente tra l’arsenale nucleare russo e quello occidentale in Europa (qualcosa come dieci a uno, 2000 armi tattiche contro 200, secondo Lucio Caracciolo), ma anche dal fatto, che pur in caso di pareggio, le condizioni del continente europeo, soprattutto, potrebbero uscirne radicalmente modificate al ribasso (sia sul piano economico che sociale) a causa delle distruzioni che ne conseguirebbero.

Se tali distruzioni potrebbero già essere, in forma minore, anticipate dalla crisi economica derivante da un embargo del gas russo, paventata dalla gran parte degli imprenditori europei4, e dalle proteste sociali che ne deriverebbero, mentre già una parte significativa dei paesi mediorientali o affacciantisi sul Mediterraneo meridionale vede già accrescersi le spinte delle proteste di piazza per le difficoltà alimentari derivanti dal medesimo conflitto5, le conseguenze reali e finali potrebbero andare oltre qualsiasi previsione politica, economica o militare.

In questo senso, nonostante le minacce reiterate dell’Occidente ai due paesi che continuano ad acquistare il 70% delle loro armi dalla Russia e ad approfittare, oggi e in futuro, della necessità della stessa di vendere le risorse energetiche non più richieste da una parte dei paesi occidentali, India e Cina potrebbero uscire vincitrici da un conflitto destinato probabilmente a indebolire fortemente l’Europa, la Russia e, seppur con qualche differenza se riusciranno ad approfittare delle distanza dal teatro bellico, gli Stati Uniti stessi. Vincere senza muover un dito e senza sparare un colpo costituirebbe la massima realizzazione del pensiero militare orientale e cinese in particolare. Mentre, al contrario, si rivelerebbe un’autentica catastrofe per il capitalismo occidentale, i suoi apparati, le sue società, i suoi sistemi produttivi e le sue dottrine belliche.

Ipotesi non così peregrina se si considera come la Cina ha potuto sostituire gli americani in Afghanistan, dopo la loro precipitosa ritirata, occupandone le basi militari più importanti, come quella aerea di Bagram, oppure accaparrarsi i diritti di sfruttamento degli enormi giacimenti di terre rare, di cui quel paese è ricco, senza colpo ferire.

La minaccia poi contenute nelle dichiarazioni della von der Leyen durante il suo recente viaggio in India, nel tentativo di smuovere Modi dalle sue posizioni, ovvero quella che un embargo dei microprocessori prodotti a Taiwan, che realizza in proprio o su licenza più del 60% della produzione mondiale degli stessi, nei confronti della Russia potrebbe far sì che l’India, insieme alla Cina, potrebbe non più ricevere gli armamenti più sofisticati prodotti dall’industria bellica russa proprio per mancanza di quelli, potrebbe ottenere un effetto contrario a quello desiderato. Ovvero spinger la Cina, con l’avvallo indiano cosa impensabile fino a poco tempo fa, ad affrettare i preparativi per un’invasione dell’isola contesa all’influenza occidentale fin dal 1949.

Mentre, con una certa forzatura nel ragionamento, si continua ad affermare che Putin con la sua azione è riuscito a rendere più forte e collaborativa l’alleanza occidentale, ci si nasconde che in realtà è proprio l’azione occidentale a rendere possibili, magari anche solo momentaneamente, alleanze fino ad ora imprevedibili, come quella tra i due colossi asiatici. Soprattutto in un momento in cui, lo capirebbe anche il più asino degli strateghi, gli USA, nonostante la baldanza dei suoi rappresentati e del suo svanito presidente, non potrebbero impegnarsi su tutti i fronti destinati a svilupparsi a seguito del precipitare della situazione attuale. In cui anche il pesante riarmo giapponese, il più importante dalla fine del secondo conflitto mondiale in poi, esattamente come per quello tedesco, non significa soltanto allineamento agli ordini americani e occidentali, ma piuttosto l’apertura di una partita in proprio e a tutto campo.

Come sonnambuli, i rappresentanti occidentali riuniti a Ramstein, si sono avviati sul loro viale del tramonto, contenti oppure inconsapevoli di essere destinati a precipitare nel dimenticatoio della Storia, ma, esattamente come il loro avversario Putin, vilipeso, insultato e demonizzato insieme a tutto il popolo russo, ben determinati a cercare di difendere la propria posizione egemonica anche a costo della rovina e distruzione dei propri governati o di buona parte della specie umana.

Così come l’attorucolo Zelensky persegue orgogliosamente, stupidamente e neppure in nome dei reali interessi del popolo che si è trovato ad amministrare.
Con buona pace di tutti coloro in tutto ciò vogliono cogliere, ad ogni costo, un esempio di Resistenza, piuttosto che la demoniaca competizione imperialista che la sottende. Su ogni fronte.

Con leggerezza si parla della guerra, della sua necessità senza averne mai saggiato la pornografia della morte e la crudezza delle sue perversioni. Senza accorgersi che si lustra così la sua forza di attrazione, le si offre uno scopo, un senso, una dignità, una causa, un quarto di nobiltà. E’ un errore fatale. […] Nell’enunciazione di concetti primitivi, l’onore, il dovere riaffiora soprattutto una perfida tradizione irrazionalistica, uno sconclusionato dannunzianesimo fuori tempo: con la voluttà dell’esser eroe, il culto della morale guerresca, il vivo foco della lotta, e altri intrugli che infiammano i piccoli ribellismi borghesi di ogni tempo6.

* Il riferimento è a Vittorie perdute (Go Tell the Spartans), un film di Ted Post del 1978. Ambientato in Vietnam, nel 1964, narra le vicende di un contingente di soldati sud-vietnamiti e americani che si accingono a occupare la base abbandonata di Muc Wa. Dopo aver affrontato attacchi notturni di piccoli contingenti di Vietcong, vengono sterminati. Se sul Vietnam, fino al 1990, sono stati prodotto negli USA più di 100 film, questo, interpretato da un cinico e disincantato Burt Lancaster, è scritto benissimo, con divertito distacco, da Wendell Mayes, ed è uno dei meno noti, ma dei più sottili e dialettici tra tutti quelli realizzati sull’argomento.

(12 – continua)


  1. Punto di svolta in Ritorno al futuro, «Domino» n° 1, aprile 2022, p.7  

  2. Si veda: Vanessa Ricciardi, Putin comincia a togliere il gas e spacca l’Unione europea, «Domani», 28 aprile 2022  

  3. Punto di svolta, op. cit. p.9  

  4. Si veda anche soltanto il tentativo di tenere aperti i rapporti col mercato russo da parte dei maggiori calzaturifici italiani, che nei giorni scorsi in barba ai divieti hanno inviato una loro nutrita delegazione di rappresentanti in Russia  

  5. Si veda: Francesca Mannocchi, La guerra, la carestia e le rivolte del pane, «La Stampa» 23 aprile 2022  

  6. Domenico Quirico, L’ebbrezza militarista che spinge al conflitto, «La Stampa» 28 aprile 2022  

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Il nuovo disordine mondiale /3: i discorsi della guerra https://www.carmillaonline.com/2022/03/02/il-nuovo-disordine-mondiale-3-i-discorsi-della-guerra/ Wed, 02 Mar 2022 21:00:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70714 di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse [...]]]> di Sandro Moiso

Si è conclusa l’era della pace (Mateusz Jakub Morawiecki, primo ministro polacco – intervista al «Corriere della sera»)

Data per scontata la fine della pace illusoria che ha dominato il discorso politico degli ultimi decenni in Italia e in Occidente, a seguito degli avvenimenti degli ultimi giorni in Ucraina, occorre per meglio comprendere i reali sviluppi degli stessi esporre alcune considerazioni di carattere politico, economico e militare. In particolare sul concetto di guerra-lampo e sulla strategia militare russa; sul riarmo europeo e in particolare tedesco; sull’andamento delle borse che hanno premiato le industrie produttrici di armi o collegate al settore degli armamenti e, infine, sulle ritorsioni di carattere economico adottate dall’Occidente nei confronti della Russia putiniana e delle loro possibili conseguenze sul piano interno russo e su quello militare, guerra nucleare compresa. Compreso, last but not least, un sintetico commento sul linguaggio di guerra dei media di ogni parte coinvolta e di quelli occidentali in particolare.

Linguaggio, propaganda e guerra sono assolutamente indivisibili poiché mentre le esigenze dell’ultima rimodulano obbligatoriamente i primi due elementi, questi, a loro volta, foraggiano e rivitalizzano in continuazione la stessa. In un girotondo in cui i termini tecnici perdono il loro reale significato, distorto a scopo propagandistico, e l’emozionalità sostituisce la razionalità di qualsiasi discorso inerente ai fatti reali. In cui la costante denigrazione e demonizzazione del “nemico” avviene in un contesto in cui, come già affermava Hannah Arendt ai tempi della guerra in Vietnam e dei Pentagon Papers, la “politica della menzogna” è destinata principalmente, se non esclusivamente, ad uso interno e alla propaganda nazionale1.

Iniziamo, quindi, da ciò che con sempre maggior frequenza viene presentato come uno degli elementi certi del fallimento di Putin in Ucraina: la guerra lampo. Dopo sei giorni di guerra infatti, al di là della girandola di cifre, spesso iperboliche, sulle perdite e i danni subiti dai russi, ma molto più “contenute” per quanto riguarda quelle subite dalle forze ucraine, si sentono e si leggono sempre più spesso, ma lo si sentiva già dopo due o tre giorni, affermazioni riguardanti il fallimento militare russo nell’ambito della guerra lampo. Bene, cotali esperti e cronisti dimenticano due o tre cosucce riguardanti la stessa, sia sul piano storico che tecnico.

L’esempio classico di Blitzkrieg è sicuramente quello dell’occupazione tedesca della Francia nella primavera del 1940. Quell’operazione, che costituì l’esemplare applicazione dei metodi appresi dagli ufficiali tedeschi, durante la collaborazione tra Germania nazista e Russia staliniana dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alla scuola di guerra sovietica e da generali innovativi come Michail Nikolaevič Tuchačevskij (poi eliminato durante le grandi purghe staliniste del 1937), iniziò il 10 maggio 1940 e raggiunse il proprio risultato, occupazione del territorio francese a seguito della capitolazione del governo e delle armate schierate sullo stesso, il 22 giugno dello stesso anno.

All’incirca 45 giorni di quella che fu definita la guerra strana, balorda se non addirittura “buffa” (drôle in francese) per assumere il pieno controllo di un territorio appena un po’ più grande di quello ucraino attuale2. Durante la quale le colonne corazzate e meccanizzate tedesche si rifornivano direttamente ai distributori di carburante incontrati e sequestrati sul loro cammino, mentre le truppe britanniche venivano costrette ad evacuare rapidamente e disordinatamente le spiagge di Dunkerque tra il 27 maggio e il 2 giugno.

Vanno sottolineati questi aspetti perché alcune fonti di informazione mainstream hanno sottolineato come i mezzi russi abbiano “razziato” i distributori di carburante ucraini, scandalizzandosene. Mentre il vero scandalo, per l’occhio attento di chi un po’ di storia militare l’ha studiata, è dato dal diffondere l’idea che una guerra lampo possa durare 48 o 72 oppure 150 ore. Fatto ancora più scandaloso se si considera che le stesse fonti hanno appoggiato incondizionatamente guerre come quelle in Iraq e in Afghanistan dover gli occidentali e la Nato sono rimasti impantanati per vent’anni senza ottenere alcun risultato se non la distruzione di economie, Stati e di un numero esorbitante di vite umane, soprattutto civili.

Diffondere, dunque, l’idea di un fallimento della guerra lampo russa a nemmeno due settimane dall’inizio costituisce per questo motivo soltanto un elemento propagandistico ad uso degli spettatori e lettori occidentali per tranquillizzarli sulle possibili conseguenze e i possibili sviluppi di una guerra appena iniziata. Così come l’insistere sulle difficoltà dell’avanzata russa significa nascondere il fatto che, dal punto di vista della dottrina militare russa, un avanzamento di 30-35 chilometri al giorno costituisce di per sé un fattore di successo, mentre nei primi giorni del conflitto le truppe russe hanno, in diversi casi, ampiamente superato le distanze effettivamente percorse. Senza dimenticare, infine, che l’intensificazione dei bombardamenti sulle reti di comunicazione e gli obiettivi sensibili distribuiti sul territorio ucraino potrebbero indicare che la “vera guerra” è iniziata solo ora.

Sullo scandaloso fatto, inoltre, che le operazioni militari russe continuino durante le trattative intavolate tra le due parti a partire del 28 febbraio, occorre semplicemente osservare che, storicamente, è proprio durante le trattative che le operazioni militari vengono intensificate dai contendenti, proprio per portare al tavolo delle stesse risultati destinati a porre i negoziatori su un piano di maggior forza. Naturalmente ignorando sempre il punto di vista della maggioranza dei civili, per cui la soluzione migliore è sempre rappresentata dalla cessazione delle ostilità o, come sta avvenendo anche oggi, dalla fuga per cercare rifugio in aree non ancora coinvolte dagli scontri e dalla guerra, alla faccia della retorica che vorrebbe tutti gli ucraini intenti a fabbricare molotov e ad arruolarsi nelle milizie volontarie. Tutto il resto è chiacchiera e, per giunta, nemmeno così tanto umanitaria come si vorrebbe invece dare a intendere.

Il solito rivoluzionario dagli occhi da tartaro affermava che «la verità è sempre rivoluzionaria» e per una volta tanto non aveva affatto torto. Perciò le righe che precedono e quelle che seguiranno avranno infatti questa intenzione, quella di disvelare, ancora una volta poiché ce n’è purtroppo bisogno, il cumulo di menzogne e falsità che coprono l’attuale conflitto e le sue possibili conseguenze future, mentre non hanno affatto quella di giustificare le imprese militari di Putin oppure enfatizzare le scelte del suo avversario Zelensky.

Se le fotografie dei danni apportati a numerosi mezzi russi attestano un uso massiccio di droni e armi tecnologicamente avanzate impiegate sul terreno dalle forze ucraine, fino ad ora probabilmente fornite dagli americani in precedenza (insieme ai droni turchi forniti da un’azienda specializzata in tale settore tra le più grandi del mondo, di cui proprio il genero di Erdogan è a capo ), è anche vero che la possibilità per i russi di creare colonne di mezzi lunghe decine di chilometri sulle strade ucraine attesta l’inagibilità dello spazio aereo per l’aviazione ucraina, così come dichiarato dalle fonti russe e come attestato dal fatto che alcuni aerei militari ucraina abbiano trovato rifugio in Romania.

Grande è il disordine quindi sul terreno dell’informazione e della propaganda, ma anche su quello delle alleanze, considerato che lo stesso Erdogan, che ha rifornito gli ucraini di droni, ha permesso un abbondante traffico di mezzi navali militari russi nello stretto del Bosforo che attraversa la stessa Istanbul, dividendola in parte europea ed asiatica. Il cui governo, nonostante le dichiarazioni di Zelensky che aveva dato per scontata l’idea di una Turchia vicina all’Ucraina, deve ancora accertare sul piano giuridico se quella in Ucraina sia davvero una guerra, mentre ha già affermato di non voler applicare sanzioni contro la Russia. Questione non del tutto indifferente se si considera che, non soltanto in teoria, la Turchia costituisce la seconda forza militare della Nato.

Rimanendo ancora sul terreno del linguaggio della propaganda e della necessità di creare consenso intorno alla guerra va notato come per Putin stesso le attuali operazioni militari non costituiscano un’aggressione militare, ma un’operazione “speciale” di ordine pubblico e disarmo internazionale, così come già tante guerre dichiarate dalla Nato e dall’Occidente hanno nel recente passato assunto la denominazione di “missioni di pace” oppure di “polizia internazionale”. Cambiano quindi i promotori, ma non il linguaggio utilizzato, cosa che dovrebbe sempre far drizzare le orecchie di chi ascolta tali fandonie, qualsiasi sia la fonte da cui sono espresse.

Il secondo elemento, che è stato prima anticipato, è quello del riarmo europeo, indice sia della frenesia di guerra che è sotteso sia al discorso sulla “pace” che della necessità di trovare uno sbocco produttivo sicuro per settori importanti dell’industria pesante, ma non solo, europea cui evidentemente la promessa del rinnovo del mercato dell’auto attraverso versioni ibride o elettriche della stessa non da ancora sufficienti garanzie di sviluppo dei profitti, mentre, soprattutto in Germania, fa già prevedere un’enorme riduzione di posti di lavoro nel settore, anticamera di possibili conflitti sociali che vanno sopiti ancor prima di un loro possibile inizio.

Da qui discende un passo che non bisogna esitare a definire “storico”: il riarmo tedesco annunciato dal cancelliere federale Olaf Scholz, con una previsione iniziale di spesa di cento miliardi di euro.
Una decisione che non può essere stata presa a sorpresa e soltanto a causa della situazione venutasi a creare sulle frontiere orientali, ma che deve covare da tempo nel governo e nella direzione economica del capitale tedesco. Decisione che prelude non solo alla necessità della “difesa” degli interessi tedeschi ad Est, ma inevitabilmente ad una ripresa, in chiave forse più aggressiva e marcata, della politica di potenza germanica, condotta fino ad ora soltanto con strumenti di ordine finanziario e legislativo oggi forse ritenuti non più sufficienti.

Considerazioni che non possono, oltre tutto, essere slegate dalla lentezza e dalle difficoltà che hanno invece caratterizzato qualsiasi provvedimento economico europeo nei confronti della pandemia e delle spesso drammatiche esigenze sanitarie, sociali ed economiche che ne sono derivate. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’andamento delle borse in questi giorni dove, solo in Italia sia Leonardo che Fincantieri, aziende coinvolte nel settore degli armamenti e della cantieristica militare, hanno visto crescere i loro titoli di più del 15% in un solo giorno.

Ancora più significativi appaiono, poi, i provvedimenti di ordine economico e militare presi da numerosi stati europei della Nato, italietta nostalgica in testa. Un autentico gettarsi a capofitto nella fornace della guerra, che richiama una somiglianza con l’affermazione marinettiana «guerra sola igiene del mondo!», che perde però la carica provocatoria del primo manifesto futurista e sembra assumere una carica messianica di risoluzione e cancellazione dei problemi politici ed economici, oltre che potenzialmente sociali, che attanagliano i governi, e in particolare e su tutti i fronti quello italiano.

Governo che, PD in testa, dopo aver posto ogni possibile e irragionevole fiducia nell’azione di un deus ex-machina come Mario Draghi, l’ha prima affondato nelle elezioni presidenziali e l’ha visto poi sparire dall’orizzonte internazionale, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni a favore del suo operato diplomatico venute da un “genio politico” quale Romano Prodi; unico tra i maggiori leader politici europei a non essersi recato a Kiev e Mosca, per lasciare il posto ad un tizio di nome Luigi Di Maio, inadeguato anche soltanto a preparare un caffè. Atto caratterizzato dalla tipica furbizia gesuitica ed italica che, nella sostanza, avvicina l’operato dell’attuale presidente del consiglio a un servilismo atlantico mai neppure lontanamente immaginato o voluto dalla DC di Giulio Andreotti più che a quello di un grande statista, come egli stesso si vorrebbe invece rappresentare.

Cosa che non gli ha impedito di rivendicare la necessità della riapertura delle centrali a carbone, e forse anche ad oli combusti, e la decisa affermazione della necessità di inviare altri soldati e mezzi ai confini orientali d’Europa e rifornire di armi il regime di Kiev, aggirando la legge 185 approvata nel 1990. Cose che, a parte le finte svenevolezze cattolicheggianti di Salvini sulla questione delle armi letali (ne esistono forse di non letali, a partire da scarponi e manganelli considerate le esperienze della Diaz e d ei detenuti massacrati troppo spesso tra le mura delle carceri italiane?) ha trovato tutti i rappresentanti della democrazia parlamentare uniti e saldi nell’urlare armiamoci e partite!3. Opposizione compresa, anzi più scalpitante che mai nel volersi rappresentare come degna erede del fascismo. E che proprio per questo, messa da parte la stagione della protesta contro il green pass, non si scandalizza certo più per l’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza fino alla fine di settembre per motivi legati alla difesa della sicurezza nazionale.

Andiamo in guerra ma non lo diciamo; spingiamo in quella direzione ma lo facciamo in nome della pace e della democrazia ci dicono i governanti europei ed in primis quelli nostrani. Sventolando un umanitarismo peloso che ricorda troppo le fake news che precedettero l’entrata nel primo conflitto mondiale, quando si raccontava sui giornali italiani che i soldati tedeschi, in Belgio, tagliavano le mani ai bimbi per poi inchiodarle sulle porte delle case. Oppure durante l’azione mercenaria in Congo, contro Lumumba e l’indipendenza africana, nel 1960, quando invece si raccontò che gli aviatori italiani uccisi a Kindu trasportavano giocattoli per bambini invece che armi per i ribelli secessionisti e filo-occidentali del Katanga che già si erano macchiati le mani con il sangue di Patrice Lumumba. Oppure, ancora oggi quando sulle pagine dei nostri quotidiani, appaiono le notizie di giocattoli esplosivi donati dagli “infernali” russi ai bambini ucraini. Benvenuti nel mondo della stampa democratica e liberale. Non soltanto italiana, se questo può consolare il lettore.

Liberale e democratica come l’Ucraina dove immigrati africani, asiatici e sudamericani devono lasciare il posto ai bianchi sui mezzi che possono portarli lontani dalla guerra (qui) oppure come i commenti sulla guerra in Europa, apparsi sui media occidentali, infestati di razzismo esplicito.

BBC: «E’ per me molto commovente vedere gente europea dagli occhi azzurri e dai capelli biondi venire uccisa» ( David Sakvarelidze – Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor,).

CBS News: «Qui non siamo in Iraq o in Afghanista, qui siano in una relativamente civilizzata città europea» (Charlie D’Agata – corrispondente estero)

BFM TV (Francia): «Siamo nel 21° secolo, siamo in una città europea e abbiamo missili da crociera che ci piovono addosso come se fossimo in Iraq o in Afghanista. Riuscite ad immaginarlo?»

NBC TV: «Per dirla schiettamente, questi non sono rifugiati siriani, questi provengono dall’Ucraina… Sono Cristiani, sono bianchi, sono molto simili a noi» (Kelly Cobiella – corrispondente di NBC News dalla Polonia)4.

Benvenuti sotto le bandiere della democrazia e della libertà!
Benvenuti sotto le bandiere dell’umanitarismo e della pace!
Benvenuti sotto le bandiere di un leader, Zelensky, che in nome della patria chiama, di fatto, il parlamento europeo a scatenare un intervento contro la Russia.
Benvenuti sotto le bandiere del reggimento Azov, formato da volontari neo-nazisti e asserragliato a Mariupol.
Benvenuti nella prossima guerra mondiale, che la retorica odierna, da una parte e dall’altra non fa che preparare.
Benvenuti, quindi, all’inferno!
Motivo per cui non vi è modo di sistemarsi a fianco di una delle due parti in lotta, come tanto antagonismo confuso trova spesso così semplice fare, approfittando di discorsi e movimenti già apparecchiati da altri (ma con ben diversi fini).

Detto questo è utile sottolineare come tutte le sanzioni e tutti i provvedimenti presi o previsti fino ad ora dai paesi europei e della Nato, da quelle economiche alle forniture di arsenali militari, dallo schieramento di nuove forze militari ad Est al permesso per il transito di volontari per le milizie ucraine son tutti passibili di essere interpretati come azioni “belliche” di fatto. E la vergogna maggiore è data dal fatto che la stampa nostrana si sia permessa di tracciare paralleli tra l’odierno volontariato nazionalista e mercenario5, di stampo in gran parte fascista, destinato ad essere integrato nelle milizie ucraine e i volontari internazionalisti che accorsero in Spagna non solo in difesa della repubblica, ma anche con la speranza, poi tradita e distrutta dall’azione di Stalin e dei suoi accoliti italiani (Togliatti e Vidali), di portare la rivoluzione in Europa. Dimenticando, inoltre, il trattamento riservato ai volontari italiani tornati dal Rojava, quasi tutti indagati e di fatto trattenuti ai domiciliari per lunghi periodi.

In questo caso lo schieramento è conservativo, non perché si opponga all’autocrate Putin, ma perché intende rafforzare e ristabilire l’ordine europeo ed occidentale del capitale imperialistico. In ogni modo e in ogni caso. Non c’è attualmente alternativa sul campo. Chiunque vinca, marciando sui cadaveri delle vittime civili e degli illusi di ogni tendenza, lo farà in nome di interessi finanziari, militari, geopolitici, economici e militari che rappresentano la negazione di qualsiasi cambiamento radicale degli assetti politico-sociali presenti.

Tutto ciò, compreso l’esplicito tentativo di rovesciare Putin “dall’interno”, costituisce il vero pericolo futuro, ovvero quello di un conflitto allagato a partire da provvedimenti che, minando la stabilità economica ed interna della Russia, potrebbero portare il leader russo a giocarsi il tutto per tutto in una battaglia a tutto campo. Motivo per cui la messa in allarme del sistema di deterrenza nucleare russo, della flotta del Pacifico e dei bombardieri strategici russi, non costituisce soltanto un’ipotetica minaccia come ai tempi dell’affare dei missili di Cuba nel 1962. Allora, infatti, si avevano margini di trattativa e spazi ancora da conquistare che oggi non ci sono più, per nessuna delle due parti in causa.

Tutto si svolge infatti sotto gli occhi di due potenze nucleari ed economiche, Cina e India, che per ora si astengono in attesa di approfittare degli errori dei due contendenti. Non vi sono alleanze sicure date, anche perché il grande blocco asiatico è costretto comunque a fare i conti con la necessaria continuità di presenza sul mercato mondiale. Di modo che se i paesi dell’heartland (Eurasia e Asia continentale) sono oggi interessati a non perdere i vantaggi di una possibile intesa che vada dai confini europei della Russia alla Corea del Nord e dalla Cina all’Oceano Indiano, passando magari per l’Afghanistan, allo stesso tempo, soprattutto la Cina, devono anche tenere d’occhio i loro interessi finanziari e produttivi globali.
Nello stesso tempo, i paesi del rimland (terre che limitano ad Ovest il grande continente euroasiatico e che cercano di limitarlo attraverso il controllo dei mari e degli oceani circondandolo) e della talassocrazia6 hanno ormai troppi punti di frizione da tener sotto controllo. Non ultimi proprio quella Crimea e quella Taiwan di cui tanto si parla quando si parla di guerra.

L’attuale frenesia di guerra da parte europea, ancor più che atlantica, dimostra la debolezza che sta alle basi di tali scelte. Così mentre si parla ad ogni piè sospinto della debolezza e dell’isolamento di Putin, a livello interno ed internazionale, il capitale europeo, schiacciato tra Stati Uniti e Cina, esigenze energetiche e difficoltà di rinnovamento, rivela tutta la sua fragilità7 lanciandosi, quasi inconsapevolmente, in un’avventura che potrebbe deragliare in una catastrofe senza precedenti. Ad accorgersene sembrano essere soltanto alcuni esperti di geo-politica e affari militari, mentre certi filosofi della politica incitano alla creazione di un autonomo arsenale nucleare europeo basato su quello francese, tra gli applausi dei giornalisti embedded dei media nazionali8.

Per noi, a cent’anni dalle mobilitazioni contro la prima guerra mondiale, rimane un’unica certezza ovvero la necessità non di chiedere pace, democrazia e libertà, parole vuote di significato reale se non accompagnate da una reale eguaglianza sociale ed economica, ma di anteporre a tutte le menzogne che la preparano quella spontanea opposizione alla guerra imperialista che mosse i pochi e coraggiosi rivoluzionari anti-militaristi che si incontrarono a Zimmerwal e Kiental, nella neutrale Svizzera, nel 1915 e nel 1916. In tutto 42 delegati nel primo caso e 43 nel secondo, una più che esigua minoranza anche per allora. Ricordando sempre che il primo nemico è comunque e sempre in casa nostra, ma con l’unica e significativa differenza che, oggi, anche la Svizzera non può più essere considerata neutrale dopo i provvedimenti approvati nei confronti della Russia e delle sue banche.

(3 – continua)


  1. Si veda qui  

  2. 675.000 km quadrati per la Francia contro i circa 604.000 dell’Ucraina odierna  

  3. Si veda qui, sulla frenesia europea e italica, un interessante articolo del magazine on line AD Analisi Difesa  

  4. Per altre “perle” del genere si veda qui  

  5. Si veda il tariffario delle ricompense in denaro promesse da Vladislav Atroshenko, sindaco di Chernihiv nell’Ucraina settentrionale: per ogni blindato da trasporto distrutto la ricompensa sarà di circa 4.400 euro, per ogni carro armato il premio sarà di circa 6.000 euro, per una cisterna mobile circa 7.500 euro. Mentre per ogni soldato russo “ucciso o catturato” il primo cittadino promette 300 euro (Fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/ucraina-soldi-a-chi-infligge-perdite-all-esercito-russo-il-tariffario-della-resistenza/ar-AAUsEjw?ocid=msedgntp)  

  6. Si veda qui  

  7. Tipico il caso di Boris Johnson che non esita ad indossare la mimetica da combattimento per far dimenticare ai suoi elettori lo scandalo dei covid party  

  8. Anche se oggi, 2 marzo, sia Olaf Scholz che il ministro della difesa britannico, Ben Wallace, sembrerebbero iniziare a frenare su un più ampio coinvolgimento della Nato in Ucraina poiché, secondo lo stesso Wallace, una scelta del genere porterebbe direttamente alla Terza guerra mondiale. Mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, avrebbe avvertito l’Occidente che una terza guerra mondiale non potrebbe essere che nucleare.  

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Il nuovo disordine mondiale: chi semina vento raccoglie tempesta https://www.carmillaonline.com/2022/02/25/il-nuovo-disordine-mondiale-chi-semina-vento-raccoglie-tempesta/ Fri, 25 Feb 2022 20:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70654 di Sandro Moiso

Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più (Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce [...]]]> di Sandro Moiso

Il mondo è più grande dell’Occidente, che non lo domina più (Dmitrij Suslov, consigliere di Vladimir Putin – intervista al «Corriere della sera»)

Sembrerà un’affermazione cinica, ma per chi, come il sottoscritto, da anni si occupa di guerra come inevitabile punto di arrivo di tutte le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conseguire come fine ultimo l’accumulo privato di profitti e capitali, l’esplodere di un conflitto come quello russo-ucraino (per ora) almeno un merito ce l’ha ed è proprio quello di portare in piena luce e davanti agli occhi di tutti quelle stesse contraddizioni, troppo spesso sommerse da un mare di menzogne e illusioni, cui si è prima accennato.

Contraddizioni di ordine economico, geo-politico, militare, sociale, produttivo e ambientale che di volta in volta vengono segnalate singolarmente, in nome di un’eccezionalità che invece, vista in una dimensione più ampia e completa, dovrebbe essere percepita come norma di un sistema che, dopo aver suscitato appetiti ed aspettative esagerate in ogni settore di una società in/civile basata sull’egoismo proprietario e l’individualismo atomizzante, non può soddisfare le aspirazioni materiali ed ideali che si manifestano globalmente, sia a livello macroscopico che molecolare.

Prima con la spartizione del mondo in due blocchi, definiti più dal punto di vista ideologico che da quello della effettiva struttura economica, poi con il preteso nuovo ordine mondiale a sola guida statunitense dopo il fallimento del blocco definito come orientale o sovietico, era sembrato agli analisti politici ed economici superficiali e agli ideologi da strapazzo come Francis Fukuyama (politologo e teorico statunitense della “fine della Storia”) che fosse possibile un lento e progressivo affermarsi dei valori democratici e liberali occidentali e del conseguente modello di sviluppo e progresso capitalistico, sotteso dagli stessi, a livello mondiale. Il tutto attraverso un costante appiattimento delle contraddizioni residue in funzione di un radioso e felice futuro di sfruttamento e accumulazione di ricchezze (private più che pubbliche e, possibilmente, più nella parte occidentale del mondo piuttosto che in quella orientale e meridionale).

Così, negli ultimi decenni, soprattutto nel paese di Sanremo e delle canzonette politically correct, il lavoro di chi non ha avuto timore di “sporcarsi le mani” con la questione della guerra e di un suo possibile allargamento a livello generale1 è stato visto come un’inutile e superata (forse ridicola per alcuni?) predizione da eterna Cassandra, in un sistema in cui non solo le contraddizioni interimperialistiche, ma anche sociali erano invece destinate a risolversi attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa e della trattativa qualunque essa fosse (diplomatica, sindacale o politico-parlamentare non importa), purché non violenta e rispettosa delle regole del buon vivere in/civile.

Purtroppo per gli illusionisti del capitale e dei loro, talvolta inconsapevoli, seguaci le cose non sono andate affatto così. Anzi, al contrario, gli eventi hanno preso una piega “imprevista” che, a partire dall’11 settembre 2001, ha subito un’accelerazione legata al sorgere del radicalismo islamico (anche e forse in maniera ancor più significativa nelle periferie delle metropoli occidentali), alle lunghe e irrisolte guerre nel quadrante mediorientale e afghano, al progressivo ritorno della Russia sulla scena internazionale sia dal punto di vista militare che diplomatico (proprio a partire dall’era Putin), all’irresistibile ascesa economica e politica della Repubblica Popolare cinese, alle conseguenze della prima gigantesca crisi finanziaria dovuta alle conseguenze della globalizzazione (2008 e anni successivi), ad uno ipertrofico sviluppo della digitalizzazione e dell’applicazione dell’elettronica in un contesto in cui sempre più spesso i metalli e le terre rare di cui si fa uso sono quasi totalmente sotto il controllo della Cina e della Russia e, in tempi ormai recentissimi, alle conseguenze sanitarie economiche e sociali della pandemia oltre che del sempre più drammatico manifestarsi della divisione politica (sociale razziale e di classe) negli Stati Uniti e al precipitoso e infruttuoso ritiro degli stessi e della NATO dall’Afghanistan.

Così, in un articolo del comitato di redazione apparso il 14 febbraio scorso sul «Wall Street Journal», alla fine, una delle voci più importanti del capitalismo statunitense ha dovuto prendere atto di tutto ciò, anticipando i fatti successivi:

Un’invasione russa dell’Ucraina sarebbe un evento fondamentale destinato ad accelerare il nuovo disordine mondiale. I segnali si stanno costruendo da anni, ma l’America e i suoi alleati sono impreparati […] L’amministrazione Biden ha fatto un discreto lavoro di retroguardia nel mobilitare l’Europa e la NATO in opposizione ai progetti della Russia sull’Ucraina […] Gli alleati sono per lo più a bordo della promessa degli Stati Uniti di “conseguenze massicce” se la Russia invade, anche se ci chiediamo per quanto tempo Germania, Francia e Italia manterrebbero la rotta. Le deboli sanzioni occidentali dopo l’invasione russa della Georgia nel 2008 e della Crimea nel 2014, hanno incoraggiato Vladimir Putin a credere che l’Europa non abbia la volontà di resistere con qualcosa di serio.
Quello che Biden non ha fatto è spiegare agli americani i nuovi pericoli globali e cosa deve essere fatto per proteggere gli interessi degli Stati Uniti. Il problema va ben oltre l’Ucraina. La Cina vuole conquistare Taiwan e dominare il Pacifico occidentale. Il nuovo condominio Russia-Cina significa che lavoreranno insieme contro gli interessi degli Stati Uniti. L’Iran è vicino a ottenere un’arma nucleare e i jihadisti sono tutt’altro che sconfitti.
L’avanzamento della tecnologia e la sua proliferazione mettono anche a rischio gli americani, in patria e all’estero. L’attacco informatico al Colonial Pipeline dello scorso anno è stato un modesto spettacolo del danno che un attore straniero può infliggere alla patria degli Stati Uniti. Le armi ipersoniche e antisatellite potrebbero eliminare le difese statunitensi in tutto il mondo in pochi minuti e con poco o nessun preavviso. In una sorta di Pearl Harbor high-tech.
Niente di tutto questo è allarmista o inverosimile per chiunque presti attenzione. Eppure la maggior parte degli americani sembra indifferente o compiacente riguardo ai rischi. In parte questo è il risultato della stanchezza per le guerre in Iraq e Afghanistan. Gli ultimi tre presidenti hanno anche alimentato il desiderio, a sinistra e a destra, di tornare a casa, l’America.
Barack Obama ha risposto docilmente alle avances di Putin e a quelle di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Donald Trump ha assunto una posizione più forte e ha aumentato la spesa per la difesa, ma ha anche alimentato l’illusione che gli Stati Uniti potessero ritirarsi dal mondo e rimanere al sicuro. Biden ha per lo più ignorato il mondo nella campagna del 2020 e il suo fallito ritiro dall’Afghanistan ha convinto gli avversari, e persino molti alleati, che gli Stati Uniti sono in ritirata.
Ma la realtà alla fine morde, e ora lo sta facendo sotto gli occhi di Biden.
[…] La diffusione dell’aggressione e del disordine minaccia la libertà e la prosperità americane. Nessuno sta per invadere la patria, ma gli attacchi informatici potrebbero paralizzare pezzi dell’economia. Gli alleati che sono stati a lungo al nostro fianco potrebbero voltarsi dall’altra parte per compiacere i nuovi stati canaglia. Gli interessi economici degli Stati Uniti saranno a rischio.
Biden dovrà anche spostare l’attenzione della sua presidenza dall’espansione dello stato sociale interno al miglioramento della sicurezza nazionale. Le sue richieste di bilancio per la difesa dovranno aumentare in modo sostanziale.
Soprattutto, Biden dovrà costruire alleanze bipartisan sulla sicurezza nazionale, come hanno fatto Franklin Delano Roosvelt e Harry Truman in altri punti cardine della storia. Le forze isolazioniste emergono sempre quando il mondo diventa più pericoloso, nella speranza che gli Stati Uniti possano nascondersi dietro una Fortezza America. Biden dovrà trovare alleati in entrambe le parti per sconfiggere quel richiamo di sirena.
Nel 1940 Roosevelt nominò i repubblicani Henry Stimson Segretario alla Guerra e Frank Knox Segretario della Marina. Iniziarono a ricostruire le difese degli Stati Uniti in previsione che il paese potesse essere trascinato nei conflitti che infuriavano in Europa e in Asia. Truman lavorò con Arthur Vandenberg, un tempo senatore isolazionista del GOP2, per costruire la NATO e combattere la Guerra Fredda contro il comunismo. Biden dovrebbe portare i falchi del GOP nei ranghi più alti della sua amministrazione per ottenere consigli migliori e sottolineare i pericoli che ci attendono.
Niente di tutto questo sarà facile nella nostra politica divisa […]. Biden ha ancora tre anni di mandato e i nemici del mondo non aspetteranno fino al 2024 perché gli Stati Uniti si mettano d’accordo3.

Non vi può essere dubbio alcuno, scorrendo le righe appena proposte, che la richiesta sostanziale del capitale finanziario (e non) americano al proprio governo sia quella di prepararsi ad una guerra allargata, sostanzialmente mondiale.
Confermando così anche quanto scritto nell’editoriale dell’ultimo numero della rivista «Limes»4 a proposito della spinta che l’attuale politica estera americana ha dato al riavvicinamento politico ed economico, senza escludere al momento quello militare, tra Cina e Russia:

Sulle bandiere di ogni potenza è ricamato il motto romano divide et impera, Washington dissente e incolla i Numeri Due e Tre, forse per noia del suo esorbitante primato. Matrimonio di puro interesse, indissolubile fin quando cinesi e russi non stabiliranno chiusa per palese inutilità la stagione dell’asimmetrica manipolazione reciproca. Portiamo questo argomento a suggestione della tesi per cui non solo l’ordine mondiale inteso ordine americano del mondo è in crisi, ma che qualsiasi altro assetto contrattualizzato del pianeta è improbabile.
Non sappiamo quando il Numero Uno abdicherà. Ci illudiamo di poter stabilire che a succedergli non sarà altro egemone. Più probabile un’età di torbidi…

Per aggiungere poi ancora, poco dopo:

Il generale cinese Qiao Lang5 ha sviluppato nel suo L’arco dell’impero6 la tesi per cui l’errore ormai irrecuperabile di Washington è di considerare Pechino massimo sfidante: «In un futuro non troppo lontano, la vera causa del declino dell’America non verrà dalla Cina, ma dall’America stessa».

Sarà ripreso più avanti il discorso qui accennato sulla rovina proveniente da fattori interni all’America settentrionale7, mentre per adesso occorre sottolineare come il rischio effettivo di una guerra allargata sia entrato di colpo nel discorso mediatico mainstream, come non mai da molti decenni a questa parte. Come ad esempio dimostra il direttore di «La Stampa», Massimo Giannini, nel suo editoriale del 25 febbraio:

Con tutta evidenza, la via delle sanzioni è insufficiente. L’America e l’Europa ne parlano da giorni, ne hanno annunciate “diverse e dolorose” l’altro ieri. Si è visto com’è finita. Putin non se n’è neppure accorto, e 24 ore dopo ha attaccato come se nulla fosse. Ieri sera Biden ha rilanciato, parlando di restrizioni economiche che costerebbero 3 trilioni di dollari al ricco Vladimir e ai suoi “apparatciki”. Armi spuntate, purtroppo. Vuoi perché gli Stati che le dovrebbero applicare sono troppo divisi tra loro (come dimostra il veto italo-tedesco posto al Consiglio europeo sull’ipotesi di esclusione della Russia dal circuito finanziario Swift). Vuoi perché le sanzioni sono una spada senza impugnatura: colpiscono chi le subisce, ma feriscono anche chi le irroga (come dimostrano quelle sulle forniture di gas, infinitamente più pesanti per l’Europa, che grazie a quello russo soddisfa il 90 per cento del suo fabbisogno, di quanto non lo sarebbero per Putin, che può dirottare facilmente l’eventuale invenduto alla “sorella Cina”).
Ci restano solo le armi convenzionali, o magari addirittura nucleari? La prospettiva è agghiacciante in ogni senso, per gli effetti devastanti che avrebbe in termini di costi umani, economici, diplomatici. Ma questo parrebbe il dilemma, oggi. Lo “spirito di Monaco”, che lascia a un altro Fuhrer i suoi Sudeti e getta le basi di futuri stravolgimenti globali. O lo “spirito di Marte”, il dio furente e vendicativo che prepara la Terza Guerra Mondiale. L’alternativa del diavolo. Perché se la seconda è moralmente scandalosa, la prima è maledettamente pericolosa8.

Ciò che è interessante, nell’editoriale di Giannini è che il discorso su una possibile guerra mondiale è definitivamente sdoganato: in entrambi i casi, infatti, il gran finale è costituito da una guerra su larga scala. Al di là degli accostamenti tra Hitler e Putin, oggi così di moda e fuorvianti, non certo sulla base del fatto che il secondo possa essere più accettabile del primo, è però necessario annotare come in entrambi i casi la spinta alle annessioni territoriali e all’espansionismo militare fu ed è determinato da un problema di “spazio vitale” per la nazione ritenuta responsabile dell’aggressione.

Nel caso di Hitler determinato dall’annosa questione del corridoio di Danzica e dalle severe restrizioni territoriali e dalle riparazioni “di guerra” imposte alla Germania dopo il primo conflitto mondiale che, come annotò già ai tempi un osservatore come John Maynard Keynes9, non avrebbero potuto condurre ad altro che ad un nuovo conflitto. Nel caso di Putin da un’arroganza, tipica dell’Occidente americano e della sua cecità prospettica, nel voler imporre basi della Nato, dopo averle distribuite già in tutti i paesi dell’ex-Patto di Varsavia, praticamente alle porte di Mosca, posizionando i missili a poche centinaia di chilometri dalla capitale russa (4 minuti di volo per eventuali missili ipersonici). Dimenticando così la massima del generale inglese Montgomery secondo il quale su ogni manuale di strategia militare si sarebbe dovuto scrivere, fin dalla prima pagina: Mai marciare su Mosca. E autentico casus belli, come ha anche dichiarato il direttore di «Limes», Lucio Caracciolo, alla trasmissione serale condotta dalla Gruber la sera del 24 febbraio: «E’ stata la causa movente. Dal punto di vista russo, la Nato è il nemico che le sta entrando in casa e l’allargamento fatto a partire dagli anni ’90 in maniera sistematica dal punto di vista russo è percepito come una minaccia esistenziale».

Ritornando invece all’editoriale della medesima rivista di geo-politica, può rivelarsi utile riprendere il discorso sulla “debolezza americana”, di cui le accresciute tensioni interne sono una riprova e allo stesso tempo, uno dei principali motivi dell’altalenante azione politica, diplomatica e militare della superpotenza atlantica.

Il fenomeno geopolitico più importante del nostro tempo è la scissione interna alla nazione americana. I tecnici della politica la marchiano “polarizzazione”. Termine anodino. Riduce la scissione a biforcazione, meccanica all’interno di un insieme nel quale si manifestano opinioni e tendenze diverse che si legittimano reciprocamente. Qui però è in questione l’identità collettiva. Postulato non negoziabile[…] Non dunque la classica bipartizione politica. Qualcosa di molto pi intimo e radicale […] Di qui la crescita della violenza in un paese che vi inclina per nascita, come testimoniano proliferare delle milizie e diffusione delle armi. Fra l’etnia repubblicana, certo, ma anche democratica, specie donne e neri che non contano sulla protezione dello Stato. Nelle stesse forze armate, in particolare fra i veterani, serpeggiano intenzioni sediziose. Un assaltatore del Campidoglio su cinque ha una storia militare.
[…] Dal destino manifesto al declino manifesto? […] Washington al bivio: rilanciare o ritirarsi? Istinto e record storico spingono all’offensiva […] I destinisti inconcussi puntano tutto sulla prima scelta, a costo di partire in guerra. Ma guerra vera contro Cina o/e Russia, senza esclusione di colpi. Non l’ennesima guerretta persa o pareggiata dal 1945 in poi. Rien ne va plus? I declinisti timorosi di perdere tutto, perplessi sulla tenuta del fronte interno, invitano a restringere l’angolo d’impegno esterno […] Se l’America scansa la scelta, saranno gli sfidanti a imporle le proprie. Convinti di potersi manifestare molto più aggressivi grazie allo sfasamento del leader. Cina e Russia paiono disposte a rischiare la guerra, quanto meno in retorica (ma in geopolitica la distanza tra parole e cose può svelarsi minore di quanto appaia). Da tre generazioni i pesi massimi non si affrontano più in battaglia, se non per via indiretta. Contingenza fortunosa o nuova legge storica? Preferiremmo non sciogliere la riserva. Ma se il lettore pretende, riluttando, indicheremmo busta numero uno10.

Un altro aspetto importante sottolineato invece da Giannini è quello di una coalizione di alleati, quelli europei, estremamente divisi, la cui dipendenza energetica da Mosca è anche dovuta alle sconclusionate politiche neo-coloniali condotte da nazioni come la Francia che, dopo aver definitivamente minato le basi dell’approvvigionamento energetico italiano in Libia, si è poi trovata a vedersele contese da due avversari dal ben diverso potenziale militare: Turchia e Russia.

Divisioni dovute ad interessi geo-politici, economici e finanziari che restano assopite, nel caso europeo, soltanto per l’ambiguo legame rappresentato dall’Unione Europea e dalla “comune” appartenenza alla NATO. Divisioni che dovrebbero far capire, anche ai più testardi e duri di comprendonio, come il cosiddetto secolo breve si stia invece rivelando come uno dei più lunghi della Storia, considerato che il ‘900 iniziato con il primo conflitto mondiale non è ancora mai finito e che anzi vede tornare ripetutamente alla ribalta gli stessi fattori geopolitici, sociali ed economici che finirono col determinare due guerre mondiali, un numero imprecisato di dittature, di rivoluzioni e controrivoluzioni e, soprattutto di stragi infinite. In ogni angolo del pianeta, ma anche qui in Europa dove le stesse contraddizioni attuali già segnarono il cammino del martirio dei paesi balcanici negli anni ’90. Come, forse, anche il presidente ucraino Zelensky ha iniziato a comprendere di fronte all’attuale disparità che intercorre tra le ridondanti promesse europee e americane ed effettiva volontà di intervento a favore del suo governo.

Per questo motivo le ultime righe di questo primo intervento non sono destinate ad individuare le linee di sviluppo militare, geo-politico e strategico inerenti all’attacco russo all’Ucraina, ma, principalmente, a sottolineare i ritardi e gli errori, troppo spesso clamorosi, di tutti coloro che pur sentendosi parte di un’opposizione all’esistente hanno preferito chiudere gli occhi, illudersi e rivolgersi ad obiettivi apparentemente già belli e pronti, con tanto di simulacri di movimenti nelle piazze, piuttosto che dedicare tempo e attenzione a ciò che da tempo bolliva nella pentola degli apprendisti stregoni del capitale e delle sue esigenze. Perdendo così l’occasione sia di farsi trovare pronti al momento dell’esplodere del conflitto, sia di meritare qualsiasi riconoscimento o merito politico “reale” per poter affrontare i difficili tempi che verranno. Accontentandosi magari e ancora una volta di accodarsi a movimenti pacifisti di stampo umanitario che non serviranno ad altro che a motivare ancor di più la partecipazione a guerre che, sia da un lato che dall’altro del fronte, non appartengono a chi vuole liberarsi da un modo di produzione immondo. Ad Ovest come ad Est, a Nord come a Sud.

Così mentre il capitale riuscirà probabilmente ancora a volgere a proprio favore un’altra situazione difficile, come ha già saputo fare con l’emergenza pandemica, avanzando fin da subito le richieste di riapertura di centrali a carbone o nucleari per far fronte alla nuova emergenza energetica, gli antagonisti da riporto continueranno a discettare, sulle orme di un incartapecorito Agamben, su libertà individuale, democrazia formale ed altre quisquilie, dimenticando che qualsiasi discorso di opposizione all’esistente deve per forza di cose ruotare, senza se e senza ma, intorno ai due assi del conflitto tra capitale e lavoro (guerra di classe) e dell’opposizione alle insanabili contraddizioni interimperialistiche (guerra imperialista) intersecantisi sul piano cartesiano delle possibilità di rovesciamento reale del modo di produzione attuale. Unica bussola possibile per orientarsi nel caos della disinformazione, della propaganda, della paranoia, della drammatizzazione mediatica e della muffa ideologica che vengono propinate come verità assolute da entrambe le parti in conflitto.

(1 – continua)


  1. Si veda in proposito: Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019  

  2. Grand Ole Party, come viene definito il Partito repubblicano  

  3. The New World Disorder, «Wall Street Journal», 14 febbraio 2022  

  4. Cose dell’altro mondo in L’altro virus, «Limes» n° 1/2022, pp. 7-30  

  5. Già autore insieme a Wang Xiangsui di Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica tra terrorismo e globalizzazione (a cura del generale Fabio Mini), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001  

  6. Qiao Lang, L’arco dell’impero. Con la Cina e gli Stati Uniti alle due estremità (a cura del generale Fabio Mini), Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2021  

  7. Già anticipato da chi scrive qui  

  8. Massimo Giannini, L’ora più buia dell’Occidente, «La Stampa», 25 febbraio 2022  

  9. Si veda: John Maynard Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Adelphi, Milano 2007  

  10. Cose dell’altro mondo, «Limes» n° 1/2022, pp. 16-25  

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