Sanremo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immaturi e vivi oppure morti e maturi? Appunti per una mobilitazione studentesca /2 https://www.carmillaonline.com/2022/02/08/immaturi-e-vivi-oppure-morti-e-maturi-appunti-per-una-mobilitazione-studentesca-2/ Tue, 08 Feb 2022 21:30:22 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70444 di Sandro Moiso

Scorre in questi giorni, su Netflix, una serie sudcoreana intitolata Non siamo più vivi (nell’edizione originale All of Us Are Dead) che può costituire, fatte tutte le dovute differenze tra la società e la scuola sudcoreana e le nostre, un’utile ed interessante analogia con le attuali lotte degli studenti delle scuole superiori italiane.

Nella serie, la cui prima stagione è strutturata in dodici episodi, la scuola uccide, come nella attuale realtà degli istituti di istruzione superiore italiani, e di questa violenza non sono soltanto responsabili gli zombi, che nella [...]]]> di Sandro Moiso

Scorre in questi giorni, su Netflix, una serie sudcoreana intitolata Non siamo più vivi (nell’edizione originale All of Us Are Dead) che può costituire, fatte tutte le dovute differenze tra la società e la scuola sudcoreana e le nostre, un’utile ed interessante analogia con le attuali lotte degli studenti delle scuole superiori italiane.

Nella serie, la cui prima stagione è strutturata in dodici episodi, la scuola uccide, come nella attuale realtà degli istituti di istruzione superiore italiani, e di questa violenza non sono soltanto responsabili gli zombi, che nella serie costituiscono la manifestazione epifenomenica della violenza insita nella stessa istituzione, ma ancor di più un mondo adulto fatto di ipocrisia, competizione, obbedienza, supponenza, ordine, militarismo e disciplina oltre che gerarchizzato in una rigida struttura classista.

I giovani protagonisti, quasi tutti appartenenti, per vari e differenti motivi, alla schiera dei reietti della scuola dovranno lottare contemporaneamente contro tutto ciò: contro gli zombi (che oltre tutto riflettono le conseguenze di vite che non è più possibile considerare tali), contro i propri fantasmi e contro il bullismo che si rivela, se osservato in filigrana, essere nient’altro che la proiezione fantasmatica, nel mondo psichico degli adolescenti che lo esercitano, di una sorta di rivalsa nei confronti delle violenze e viltà subite o osservate nel modo “maturo” degli adulti, dei docenti e dei dirigenti della scuola.

Per sopravvivere e crescere dovranno passare attraverso diverse e difficili prove e imparare, nel corso di una durissima e spietata lotta da cui dipende la loro vita o la loro morte, a diventare qualcos’altro da ciò che la società e la famiglia avevano programmato per loro. Finendo col constatare che proprio nel fallimento degli obiettivi e dei risultati ritenuti indispensabili dal mondo “maturo” sta il segreto della sopravvivenza e della crescita, sia individuale che collettiva.

E’ un messaggio forte quello che la serie trasmette, particolarmente adatto ad interpretare metaforicamente anche l’attuale situazione della scuola italiana.
Una scuola classista, lontana e slegata dai bisogni reali dei giovani; basata sulla promozione di una costante competitività tra i singoli e sull’esclusione di chi in tale gara senza scopo si sente a disagio. E in cui l’interesse imprenditoriale prevale su quelli inerenti alla formazione, anche a costo della morte di chi, almeno virtualmente, dovrebbe essere formato.

Una scuola in cui si straparla di bullismo, ma che non ne abolisce le cause nel momento in cui troppo spesso i dirigenti, in un liceo di Cosenza come in tante altre scuole, coprono violenze e metodi intimidatori dei docenti per difendere “il buon nome della scuola”, oppure in cui si denuncia l’eccessiva esposizione sul web degli allievi senza considerare come la stessa dad obblighi i medesimi a relazionarsi sempre più spesso, con gli altri e soprattutto con chi dovrebbe formarli ed istruirli, proprio attraverso la rete.

E’ per questo motivo che il tema dell’immaturità e della maturità degli allievi non può essere affrontato soltanto attraverso il tema dell’ormai pagliaccesco ed inutile esame di maturità. Esame pretenziosamente definito “di Stato” che, però, non è più tale nel momento in cui non garantisce più un titolo sicuro. Né per l’ammissione alle facoltà universitarie (essendo oggi necessario per molte di esse un ulteriore esame di ammissione), né tanto meno a un titolo professionale valido in quanto tale (vista anche l’abolizione degli albi di molti di questi) sul mercato del lavoro.

Maturità che non può passare soltanto per il vaglio di una commissione giudicante nominata ad hoc e nemmeno soltanto per le “virtù” e conoscenze raggiunte per il tramite di un percorso scolastico sclerotizzato da decenni (e che fu parzialmente rinnovato in passato soltanto grazie alle lotte degli studenti, poi rinchiuse in un solido recinto dai “democratici” Decreti Delegati già nel 1974).
Maturità che ancor meno può essere valutata attraverso il raggiungimento da parte degli allievi degli obiettivi prefissati da una società basata sullo sfruttamento del lavoro, manuale o intellettuale che esso sia.

I giovani, da questo punto di vista e ancor di più durante la lotta, potrebbero rivendicare la loro alterità ai fini della società che è alla base del loro disagio, del loro scontento e degli stessi comportamenti violenti che troppo spesso ricadono su di loro.
Non a caso, nel corso della serie sopracitata, per tutto il tempo resta appeso ad una finestra della scuola il cadavere di una giovane studentessa, evidentemente suicidatasi per sfuggire all’orrore che la circondava. Ma vien da chiedersi: soltanto per sfuggire agli zombi? Oppure, soprattutto, a tutto il resto?

Riferimento palese a Giappone e Corea, dove l’elevatissima concorrenzialità tra gli studenti causa un elevato numero di suicidi tra coloro che pensano di non farcela. Una competizione portata all’estremo che, anche qui in Italia, attraverso il sistema dei crediti scolastici ha iniziato ad essere introdotto in forma più evidente, anche se non ancora con pieno successo. Mentre anche da noi, nel corso dei due anni di pandemia e chiusure, i casi di suicidio tra i giovani sono praticamente raddoppiati.

E’ di questi mesi la paura diffusasi, soprattutto tra molti giovani, attraverso il messaggio portato dall’ultimo discendente dei sempre truffaldini Kennedy, Robert jr., alla manifestazione no green pass di Milano di qualche mese fa, dell’introduzione del sistema cinese dei crediti sociali nel nostro paese. Al di là della propaganda anti-cinese contenuta nel messaggio di un rappresentante del mondo politico americano, sempre più determinato ad agitare il fantasma del babau asiatico sia in politica estera che interna, questa preoccupazione da fake è davvero immotivata e fuorviante, una volta considerato che il capitalismo occidentale e nostrano ha già introdotto da tempo, sia nella società italiana che europea, infiniti strumenti di controllo e regolamentazione dei comportamenti di cui il green pass è soltanto l’ultimo e nemmeno più importante1. In un regime in cui la deprimente manifestazione canora di Sanremo funziona molto meglio delle adunate oceaniche di mussoliniana memoria, accompagnata com’è stata dall’Inno di Mameli in apertura ed da una marcia militaresca (titolo: Armi e brio) in chiusura.

Il tema della maturità/immaturità così come si presenta in termini meramente scolastici rischia di trasformarsi in un terreno estremamente viscido e fangoso per tutti quei giovani che vogliono, così come stanno già facendo, misurarsi con un sistema di istruzione che, comunque, nella disciplina e nella competizione individuale fonda le sue basi.
Rompere con questa impostazione per andare ben oltre le miserabili concessioni che parte dell’autorità scolastica è pronta già a fare, come sembra dal recente giudizio negativo espresso a proposito della necessità di una seconda prova scritta all’esame di quest’anno, risulta pertanto indispensabile.

Accettare di trattare col ministro su queste semplici e ”scolastiche “ basi significherebbe tralasciare l’altra ben più importante questione dell’alternanza scuola-lavoro e ancor più quella della reale scuola che gli allievi vorrebbero. Non è infatti nella cultura classista, cattolicheggiante e perbenista trasmessa dall’istituzione scuola che gli allievi e i giovani possono trovare risposta alle domande che li assillano.

Chiedere l’abolizione dell’esame di maturità, rifiutare il titolo attestante la maturazione individuale sulle basi dell’ideologia trasmessa dalla società attraverso la scuola, rivendicare una propria immaturità nei confronti di un mondo talmente maturo da essere ormai prossimo alla putrefazione, potrebbe invece rappresentare la vera sfida e la via d’uscita da un possibile impantanamento delle lotte su un terreno falsamente riformistico e privo di prospettive di crescita.

Ritrovarsi come giovani in lotta, rimettere in discussione conoscenze e saperi ossequiati per dovere più che per reale convinzione ed aprire la mente ad una conoscenza non indirizzata soltanto alla carriera e al profitto, potrebbe costituire una reale alternativa. Esaltante ed avventurosa insieme, senza temere di esser definiti immaturi da chi ha sempre trattato come tali i rivoluzionari, gli eretici e i ribelli.


La scuola, attualmente non è degli studenti, inutile illudersi e riempirsi la bocca di discorsi tratti dai peggiori dizionari del politicamente corretto. La scuola va riconquistata in quanto luogo di contraddizioni, di scontro e di lotta. Esattamente come cercano di fare i giovani eroi di Non siamo più vivi, poiché la lotta è, prima di tutto, una battaglia per rimanere vivi e per formare una reale comunità umana, rifiutando di essere destinati a diventare soltanto degli automi a disposizione del capitale e dei suoi funzionari.

(Qui la prima parte)


  1. Si vedano in proposito gli articoli pubblicati da Giacchino Toni, su Carmillaonline, proprio sul tema delle “Culture e pratiche di sorveglianza”  

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Casaleggi Disperati https://www.carmillaonline.com/2019/02/17/casaleggi-disperati/ Sun, 17 Feb 2019 22:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=51143 di Alessandra Daniele

Il Movimento 5 Stelle continua a precipitare, e il mitico Reddito di Cittadinanza potrebbe arrivare troppo tardi per salvarlo. Nelle elezioni abruzzesi, i grillini sono crollati al 19%. Calcolato l’astensionismo al 47%, oggi il M5S ha soltanto il voto di un elettore su 10. A quanto pare, anche il ritorno di Alessandro Di Battista è stato un boomerang. Il Cazzaro Viaggiatore, più che in America Latina, andrebbe spedito in Australia. Luigi Di Maio è sparito 3 giorni, per farsi installare gli aggiornamenti dalla Casaleggio. Quando è tornato online, ha chiesto un’alleanza alle liste civiche che chiamava liste civetta. [...]]]> di Alessandra Daniele

Il Movimento 5 Stelle continua a precipitare, e il mitico Reddito di Cittadinanza potrebbe arrivare troppo tardi per salvarlo.
Nelle elezioni abruzzesi, i grillini sono crollati al 19%. Calcolato l’astensionismo al 47%, oggi il M5S ha soltanto il voto di un elettore su 10.
A quanto pare, anche il ritorno di Alessandro Di Battista è stato un boomerang. Il Cazzaro Viaggiatore, più che in America Latina, andrebbe spedito in Australia.
Luigi Di Maio è sparito 3 giorni, per farsi installare gli aggiornamenti dalla Casaleggio.
Quando è tornato online, ha chiesto un’alleanza alle liste civiche che chiamava liste civetta.
Poi ha definito il Movimento 5 Stelle l’unico argine al berlusconismo. Devono avergli installato gli aggiornamenti del 2009.
La Lega di Salvini, benché primo partito, s’e fermata al 27% dei votanti – parecchi punti sotto i roboanti sondaggi di propaganda – cioè il 13% degli elettori totali.
Quindi, tutto il cosiddetto Governo del Popolo ha ormai soltanto il consenso reale di 2 italiani su 10.
La presunta marea gialloverde, che ci è stata raccontata per mesi come uno tsunami inarrestabile, in realtà si è già ritirata.
A mantenerla al potere è soltanto il patto di sangue per le poltrone che sta costando al Movimento 5 Stelle un’incurabile emorragia di consensi.
Il contratto firmato dal M5S con la Lega somiglia sempre di più a quelli stipulati in Supernatural con un Demone degli Incroci.
E il ministro dell’Inferno non lascerà andare i grillini finché non li avrà dissanguati completamente.
Preoccupato soprattutto di tenere la presa sul governo, Salvini non ha nemmeno festeggiato il risultato dell’Abruzzo secondo l’abituale stile social della Bestia. Invece di lanciarsi in una diretta Facebook di 12 ore in divisa da Imperatore Klingon, s’è precipitato a prendere in ostaggio il primogenito dei grillini, il Reddito di Cittadinanza, con una raffica di emendamenti che lo renderebbero ancora più difficile, se non impossibile, da ottenere.
Poi ha sconfessato l’analisi costi-benefici commissionata da Toninelli, ribadendo che i lavori per il TAV procederanno comunque, come l’Autonomia Differenziata delle regioni più ricche del Nord, la cosa più vicina alla secessione che è riuscito ad ottenere, confermando che il suo patriottismo tricolore non è che un altro dei suoi grotteschi travestimenti.
Benché sia diventato popolare anche al Sud, in realtà Salvini non ha mai cambiato idea sui meridionali.
Vedremo quando i meridionali cambieranno idea su Salvini.
Intanto, questa settimana alla Banda degli Onesti grillina toccherà salvargli il culone dal processo per sequestro di persona.
La base potrà votare sulla piattaforma Rousseau, ma naturalmente alla fine, come a Sanremo, a decidere davvero sarà la giuria di esperti.
E gli salverà il culone, sputtanando definitivamente la Prima Direttiva a 5 Stelle.
Perché Salvini è Salvini.

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LegaLand https://www.carmillaonline.com/2018/03/05/legaland/ Mon, 05 Mar 2018 07:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44045 di Alessandra Daniele

La kermesse politico-canora del 2018 s’è conclusa. Seguendo il fortunato esempio del duo Meta-Moro, che ha vinto a Sanremo con una canzone non inedita, quest’anno tutti i partecipanti si sono presentati con brani già noti.

Silvio Berlusconi con Nostalgia Canaglia. L’ex Cavaliere ha puntato tutto sul pubblico degli anziani, e in particolare su quelli che non assumono integratori per la memoria. Tuttavia per ottenere il livello d’oblio che gli serviva per riconquistare la popolarità perduta gli sarebbe stata necessaria un’epidemia d’encefalite spongiforme suina. Il Polipo delle Libertà ha però vinto comunque in tutto il Nord [...]]]> di Alessandra Daniele

La kermesse politico-canora del 2018 s’è conclusa. Seguendo il fortunato esempio del duo Meta-Moro, che ha vinto a Sanremo con una canzone non inedita, quest’anno tutti i partecipanti si sono presentati con brani già noti.

Silvio Berlusconi con Nostalgia Canaglia.
L’ex Cavaliere ha puntato tutto sul pubblico degli anziani, e in particolare su quelli che non assumono integratori per la memoria. Tuttavia per ottenere il livello d’oblio che gli serviva per riconquistare la popolarità perduta gli sarebbe stata necessaria un’epidemia d’encefalite spongiforme suina. Il Polipo delle Libertà ha però vinto comunque in tutto il Nord e il Centro grazie alla Lega.

Matteo Salvini con L’Italiano
Sostituito il Federalismo con la Difesa della Razza, la Lega s’è proposta come l’autentica interprete dell’italianità in tutte le sue fondamentali caratteristiche. A cominciare dal trasformismo. E dal fascismo. La scelta ha pagato: la Lega oggi sembra essere il mattoncino verde imprescindibile di qualsiasi futura architettura governativa d’intese più o meno larghe, e più o meno trasversali.

Giorgia Meloni con Oro Nero
Pur non essendo già stato presentato al Festival, il brano di Giorgia è fin troppo noto agli italiani, che sono stati costretti a cantarlo per un ventennio.

Luigi Di Maio con Terra Promessa
Il Movimento ha passato tutta la campagna a cercare di galvanizzare i suoi elettori promettendogli che un governo 5 Stelle avrebbe cambiato quasi tutto, e contemporaneamente a cercare di conquistare nuovi elettori assicurandogli che in realtà un governo 5 Stelle non avrebbe cambiato quasi niente. Questa doppiezza gli ha fruttato una clamorosa vittoria in tutto il Sud, consentendogli un’apertura ad alleanze Urbi et Orbi in nome del Bene del Paese. 

Pietro Grasso con Ti lascerò
Nonostante il miserrimo risultato elettorale, gli scissionisti possono comunque festeggiare: il PD è distrutto.

Matteo Renzi con La Solitudine
L’ennesima, umiliante, totale disfatta di Capitan Boomerang porterà a un ulteriore e terminale spappolamento del PD, dalle cui macerie tenteranno di strisciare fuori i nuovi scilipoti pronti a Servire il Polipo delle Libertà e/o il M5S, mentre Renzi cerca di trattenerli per la coda.

La parabola del Cazzaro fiorentino è finita.
Avanti il prossimo.

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HARD ROCK CAFONE #5 https://www.carmillaonline.com/2016/04/14/hardrockcafone5/ Thu, 14 Apr 2016 20:00:35 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29537 di Dziga Cacace

hrc501Gimme Five! (Storie di chitarristi senza dita) Chitarristi ce ne sono milioni. Ma originali, inventivi e unici, pochini. Del resto, esaurite tutte le scale possibili o l’onanismo più debilitante sul manico, cosa serve per emergere dalla folla e risultare felicemente diverso? Maltrattare lo strumento? Ma va’, son già trent’anni che qualcuno, la chitarra, l’ha sfasciata (Townshend), le ha dato fuoco (Hendrix), l’ha suonata coi piedi (Blackmore) o con un violino (Nigel Tufnel degli Spinal Tap, il record). Per cui, banalmente, certe volte l’impresa si compie suonandola [...]]]> di Dziga Cacace

hrc501Gimme Five! (Storie di chitarristi senza dita)
Chitarristi ce ne sono milioni. Ma originali, inventivi e unici, pochini. Del resto, esaurite tutte le scale possibili o l’onanismo più debilitante sul manico, cosa serve per emergere dalla folla e risultare felicemente diverso? Maltrattare lo strumento? Ma va’, son già trent’anni che qualcuno, la chitarra, l’ha sfasciata (Townshend), le ha dato fuoco (Hendrix), l’ha suonata coi piedi (Blackmore) o con un violino (Nigel Tufnel degli Spinal Tap, il record). Per cui, banalmente, certe volte l’impresa si compie suonandola con le dita, specie se ve ne manca qualcuna: il sacrificio estremo al dio della sei corde.
Ha cominciato il primo chitarrista jazz di fama mondiale, quel Django Reinhardt dalle mani veloci come saette. L’avrete sentito senza saperlo nei film di Woody Allen e in diverse pubblicità, ma la sua faccia tzigana da Nino Frassica non è popolare come meriterebbe. Eppure la chitarra swing gli deve tutto da quando incendiava i club di Pigalle negli anni Trenta. E con l’handicap. Già indiavolato entertainer a diciotto anni, lo zingaro fa vita grama e vive nel suo carrozzone, in un campo di nomadi a Parigi. Una notte casca una candela ed è il disastro: divampa un incendio e Django riesce a fuggire, ma la gamba destra è paralizzata (rifiuterà l’amputazione e userà il bastone tutta la vita) e anulare e mignolo della mano sinistra – quella con cui fare gli accordi – sono gravemente ustionati, rimanendo deformati e inutilizzabili. La testa però è dura e allora Django ripensa la sua tecnica solo in funzione di indice e medio.
hrc502Sorretto dal quintetto Hot Club de France, va veloce come Yngwie Malmsteen plettrando accordi impossibili per i quali ai comuni mortali, di dita, ne servirebbero otto. E non farebbe male anche un’estensione della mano degna di Mr.Richards dei Fantastici Quattro. Django muore presto (a 43 anni), per una congestione. Tipico di chi è quasi bruciato vivo e, da zingaro che suonava la musica dei neri, è sopravvissuto al nazismo.
Grazie a Django non abbiamo solo pletore di jazzisti manouche, ma insospettabilmente anche un rocker che ha fatto la storia dell’hard. Tony Iommi ha inventato i riff massicci dei Black Sabbath e nessun chitarrista metal può prescindere da quel suono cupo e distorto. Per un pelo, però: il giovane Iommi è al suo ultimo giorno di lavoro prima di diventare musicista professionista. Lavora in fabbrica e si occupa del taglio di fogli di alluminio. Esattamente come succede a tappezzieri, falegnami e addetti ai telai meccanici, piagati dalla malattia professionale del dito mozzato, anche a lui basta un attimo di disattenzione e, voilà, sotto la pressa, rimangono le due ultime falangi di indice e medio della mano destra. Lui è mancino e con quelle dita lì, tiene le corde. Dramma. Depressione. Finché in ospedale, un amico lungimirante gli porta a sentire un disco di Reinhardt. Se ce l’ha fatta lui, ce la faccio anch’io, si dice Iommi. Ma come, con due dita mozzate? Tony non è inventivo solo sullo spartito e si costruisce delle protesi di plastica e gomma che attacca ai suoi moncherini. Alle estremità aggiunge delle pezzuole di cuoio, per ottenere il classico tocco della pelle. Certo, la sensibilità è nulla, ma a quella supplisce l’orecchio. E se le corde sono troppo dure, facile rimediare: la chitarra viene scordata, allentandole. E nasce così quel suono profondo e oscuro su cui l’imberbe Ozzy urlacchierà tutta la sua angoscia. Insomma, se non era per il destino infausto, niente doom e rock sepolcrale.
HRC503È andata meglio a Jerry Garcia, l’orso buono hippie, l’interprete carismatico delle epiche (e talvolta un po’ scoglionanti) cavalcate lisergiche dei Grateful Dead, jam siderali dove le dita si arrampicavano sulle corde per delle buone mezz’ore. E di dita gliene mancava pure una. Jerry era un pacioccone profeta antiautoritario e pacifista e nessuno ha mai potuto vederlo mostrare il dito medio perché il suddetto volò via all’età di quattro anni. Colpo d’accetta ad opera del fratello, mentre si tagliava allegramente la legna in famiglia. E vabbeh, s’è detto Jerry, si può arpeggiare anche con quattro dita e l’impronta della sua grassoccia mano destra, senza le due falangi del medio, è diventata il suo emblema anche sulla copertina di un album.
Per tre illustri mutilati, abbiamo rischiato grosso anche con quello che è probabilmente il miglior chitarrista rock dalla morte di Hendrix: Jeff Beck le dita le ha ancora tutte ma per qualche ora ha avuto il pollice destro ridotto come una piadina. Innovatore a qualunque costo, mai adagiato su formule remunerative (pur avendole lanciate lui stesso), ha praticamente inventato l’hard rock con l’album Truth – del quale i Led Zeppelin han preso nota, forse più di una – e poi ha reso il jazz rock palatabile con Blow by Blow, l’unico album del genere che – per arrivare a fine ascolto – non richiede una laurea in astrofisica e due Aulin. Ultimamente sintetizza tutto lo scibile chitarristico su basi ritmiche alla Prodigy o ariose atmosfere sinfoniche, con avare uscite discografiche perché preferisce dedicarsi al suo hobby: Jeff Beck è (stato) un ricco misantropo che vive in campagna, godendo solo delle macchine custodite nel suo garage e passando il tempo a costruirle, ripararle, oliarle e lucidarle.
hrc50trisEd è proprio questa passione che gli ha fatto passare un pessimo quarto d’ora, quando una tavola di quercia, che Jeff usa per coprire la buca nella quale si sdraia per riparare le sue adorate macchinine, gli scivola sul pollice destro con vettura al seguito. Il sandwich tra quercia e chassis della macchina in riparazione gli appiattisce il pollicione come nei cartoni animati. Risultato: falangi spezzate e unghia sfasciata. Che la cosa sia dolorosa lo dimostra il fatto che è una tecnica di tortura consolidata (anche se non per lo stato italiano: vedremo quando ci penserà qualcuno, mah). Ma Jeff non ha nulla da confessare e siccome è un uomo all’antica si beve subito una litrata di whisky per tollerare il dolore. Invece si addormenta e solo alcune ore dopo riesce a raggiungere un pronto soccorso dove lo ingessano, ovviamente in maniera da non compromettere la sua capacità di suonare. Del resto c’è l’illustre precedente di Les Paul (che non è solo una chitarra, ma anche il genio che l’ha inventata): col braccio destro rotto, se lo fece ingessare con l’angolazione giusta per imbracciare lo strumento. Lieta fine: Jeff dopo qualche mese di comprensibile convalescenza torna a suonare meglio di prima.
hrc50bisMa parlando di dita sfasciate, la migliore riguarda un cantante, Ronnie James Dio, peraltro personaggio di tutto rispetto: di età indefinibile (sembra che sia del 1942), era già rugoso a metà anni Settanta e oggi è incomprensibile se sia già iniziato il processo di rattrapimento tipico degli anziani perché è alto quasi un metro e cinquanta (nelle foto coi Black Sabbath post Ozzy, usufruiva di uno spessore a terra per arrivare almeno alle spalle degli altri). Attivo fin dalla fine degli anni Cinquanta è diventato un vero Dio come voce epica dei Rainbow e, dopo la parentesi Black Sabbath, con il suo omonimo gruppo. Il vero cognome è Padovana e il nome d’arte viene da quello di un boss mafioso di Brooklyn che gli piaceva un mucchio, tal Johnny Dio responsabile di chissà quante teste rotte e gente cementata. Ad ogni modo, causa pratiche di giardinaggio estremo, Ronnie James ha rischiato di non poter più fare il gesto che l’ha reso popolare sui palchi di tutta la terra, le corna. Imparato dall’italica nonnina e popolarizzato tra gli yankee come “maloik”, è il suo autentico marchio di fabbrica. Sennonché zappettando in giardino nella sua magione, Ronnie James ha provato a spostare un pesantissimo e infido gnomo in marmo. Che s’è ribellato, è scivolato trascinandosi dietro lo gnomo in carne e ossa e s’è abbattuto sulla sua mano destra, staccandogli l’estremità del pollice. Dio confessa di aver subito pensato: e ora, come farò le corna? Uomo pratico, s’è presentato in ospedale con la mano sfasciata e il pollice mozzato nell’altra. Gliel’hanno subito riattaccato e tutto è bene quel che finisce bene: vedremo ancora Ronnie James fare il maloik. Tiè. (2009)

HRC504Hey Dude: hai presente i Beatallica?
A me le cover band che imitano anche l’abbigliamento, la gestualità e i vezzi di chi omaggiano mettono infinita tristezza. Quando ho visto (a tradimento) gli Stupido Hotel col cantante che introduceva i pezzi con le stesse identiche parole usate da Vasco sui vecchi dischi live, accento modenese compreso, ho avuto il magone per una settimana. Mi danno invece allegria estrema le cover band estrose, che affrontano i classici altrui con uno scatto creativo. Facendo un paragone pittorico: di contadini dipinti da Teomondo Scrofalo son piene le bancarelle, la Gioconda coi baffi di Duchamp è un pezzo unico. Mi divertono i Kiss nani (il nome dice tutto), i Nudist Priest (che suonano cover dei Judas Priest esibendosi nudi), i Gabba (che rifanno gli Abba alla Ramones) e i miei vent’anni sono stati allietati dai Dread Zeppelin, che suonavano cover reggae dei Led Zeppelin con un Elvis impersonator come cantante. Ma il top, oggi, è il riuscitissimo e per niente blasfemo incrocio tra Beatles e Metallica. Prendete le immortali melodie dei primi, come direbbe Mollica, e rivisitatele con le sonorità e il gergo dei secondi: risultato, i Beatallica. Ovviamente un quartetto, coi nomi dei componenti che mixano quelli dei baronetti con quelli dei quattro ex metal kid: Grg Hammetson alla solista, Jaymz Lennfield alla voce e alla ritmica, Ringo Larz alla batteria e Kliff McBurtney al basso. E pensare che tutto è nato per scherzo: per una festa di pesce d’aprile del 2001 viene prodotto un CD con delle cover dei Fab Four come se le avessero suonate i Four Horsemen (che già avevano realmente licenziato due edizioni di Garage Inc., raccolte di omaggi e rivisitazioni di brani altrui). Qualcuno abbocca allo scherzone ma soprattutto qualcuno mette i pezzi in Rete e cominciano downloading e popolarità. A quel punto si pensa a una band vera e dal 2004 si va on the road, con ottimi riscontri in America e Giappone. Ma per arrivare al successo (e al divertente Sgt. Hetfield’s Motorbreath Pub Band, oggi in vendita legalmente) si son dovuti affrontare anche alcuni discreti casini. Quando la Sony ha provato a fermare i Beatallica c’è stata una mezza sollevazione: qui da noi si sono sbattuti i Wu Ming, la nostra migliore band letteraria, mentre oltreoceano Mike Portnoy dei Dream Theater ha messo su il sito savebeatallica.com per dare assistenza legale ed economica alla band, tanto che pure Lars Ulrich ha dato il benestare all’operazione, facendosi perdonare la vicenda (tecnicamente: l’umiliante figura di merda) della causa con Napster. Lo avranno sicuramente convinto l’ascolto di Hey Dude e di I Want to Choke Your Band! (Febbraio 2009)

HRC505In preda al Delirium: Jesaheeeeeeeeel
È il 24 febbraio1972 e 25 milioni di italiani sono davanti allo schermo, rapiti dal Festival di Sanremo. I bambini hanno avuto il permesso: stasera “dopo Carosello” si fa un’eccezione. Mike Bongiorno, con paurosi basettoni, introduce i Delirium sul palco dell’Ariston e una compagnia di venti hippie con caffettani, collane, gilet e flauto magico strega il pubblico col canto corale di Jesahel. Cominciano così i due anni di straordinario successo del gruppo genovese. C’era già stato Il canto di Osanna, ma i Delirium non compongono solo pezzi che avete sentito suonare alla noia dagli scout in gita; nei loro album c’è uno strano impasto di pop, rock, folk e jazz che poi i critici avrebbero chiamato prog. Quando a Ivano Fossati tocca la naja, il gruppo si reinventa con Martin Grice, da Birmingham. Due album e poi i Delirium appassiscono, finché arriva il nuovo millennio e tre superstiti di quella gloriosa formazione decidono di tornare. Il promotore è Peppino Di Santo, grande batterista che fu testimonial assieme a Carl Palmer (di Emerson Lake & Palmer) del primo gong per suonare rock della Paiste. Oggi la reliquia fa bella mostra (e ottimo suono) sul palco dei rinnovati Delirium. C’è sangue fresco ma alle tastiere impazza sempre Ettore Vigo: ha suonato coi Ricchi e poveri e coi fantastici Kim and the Cadillacs (un altro Sanremo, nel 1979, e finalmente un dubbio fugato: la benda da pirata del chitarrista era solo di scena!) e ancora oggi ricama fraseggi jazz o costruisce imponenti architetture sonore col suo organo. Mi racconta di come Bongiorno avesse rifiutato di citare, in quel Sanremo, il Mellotron che Ettore aveva avuto in prestito. L’avesse fatto, gli sarebbe stato regalato: altri tempi, altri sponsor, ma soprattutto un altro Bongiorno. Frontman della band è sempre Martin Grice. Oggi vive dietro Genova, a Sant’Olcese, paesino rinomato per dei salami da urlo. Questo zingaro del rock mi racconta in anglo-genovese del suo arrivo in Italia dopo aver suonato al Marquee coi grandi dell’epoca, da Hendrix ai Faces a Otis Redding. Preso al volo per la defezione di Fossati, prestò sax e flauto alla maturazione definitiva del sound del gruppo, un sound che ancora oggi fa faville. Hanno appena licenziato un ottimo live che ripercorre la storia della band, Vibrazioni notturne, ma in cantiere c’è pure un Delirium IV atteso da più di trent’anni. Vigo, Grice e Di Santo nella vita hanno anche fatto mestieri diversi, ma si capisce che sono musicisti veri quando gli si parla degli incontri che li hanno segnati. Come quello col maestro Severino Gazzelloni che concesse il suo flauto d’oro massiccio al coraggioso Fossati. Andò bene. E risentendoli oggi, è chiaro perché: sono maledettamente bravi. (Aprile 2007)

Private PressingForza Islanda!
C’era una volta, quando ancora batteva il Cuore di Michele Serra, una rubrica utilissima e formidabile: con un riassunto e la pagina citabile, ti permetteva di millantare letture mai avvenute. Oggi, secondo le statistiche, leggere libri è praticamente una malattia rarissima e allora – piuttosto – fa tendenza vantare ascolti musicali remoti. E più sono remoti, più farete bella figura. Grazie a una poderosa menata firmata da Wim Wenders a un certo punto andava la musica cubana. E siamo ancora nel potabile e nel probabile. Poi il grande Kusturica ci ha rimbambito di fanfare balcaniche rubacchiate dal repertorio popolare da quel geniaccio di Bregovic. E infine – e ignoro il motivo – sono arrivati gli islandesi, ‘sti stramaledetti islandesi. Mi hanno intossicato prima coi Sugarcubes; poi, in pieni anni Novanta è toccato a Bjork: sguardo allucinato e manine inquietanti, menava di brutto i giornalisti e girava film folli con Von Trier. Adesso, per darsi un tono, niente fa colpo come proclamare la propria scoperta dei Sigur Rós; “Che pace, che melodie… sembrano i Pink Floyd con una spolverata di Nick Drake!”. Appunto: ho gli originali e dormo benissimo senza ottundenti vari. Che poi a me l’Islanda è pure simpatica (anche i Sigur Rós, via): fino a due mesi prima del crollo dei mercati era un’isoletta tranquilla. Poi è venuto giù tutto quando in qualche posto sperduto nel cuore degli USA un poveretto non ha trovato i soldi per pagare il mutuo. Effetto domino e i numeri, bit immateriali, si sono trasformati magicamente in solenni inculate, fisicissime queste. Ma torno in Islanda, perché nell’isola che era felice senza petrolio, dove son tutte dottir e un golf di lana costa come un straccio di panno, han pure fatto della musica che a me piace: per esempio gli ottimi Svanfridur. Nel 1972 hanno pubblicato un unico rarissimo album, un mischione originale di hard e prog cantato in inglese, con azzeccate intuizione di basso e archi. Proprio niente male. Anni fa, quando Bregovic era il non plus ultra, gelavo la conversazione citando i Bjelo Dugme del 1975, col giovane Goran che svisava blues. Oggi, alla bestia leghista che si lamenta degli immigrati sudamericani cui piace troppo la cerveza, rispondo con i dignitosi equadoregni Mozzarella (giuro). Assaggiati, sono altamente digeribili e, se vi piace il rock FM, valgono la pena. Ma la vera soddisfazione arriva quando saltan fuori i Sigur Rós. Sono troppo avanti: ascolto anche gli Svanfridur, io. (Dicembre 2009)

HRC507Shel Shapiro è immortale, parola mia
Se dovessi elencare tutte le canzoni che hanno reso popolare Shel Shapiro, il pezzo sarebbe già bello e concluso. Ha alle spalle una carriera pazzesca, ricca di collaborazioni, scoperte, produzioni e riconoscimenti (e se dovessi fare tutti i nomi… vedi sopra), ma quando gli parli è sempre rivolto al futuro. La sua autobiografia è uscita l’estate scorsa e fa i conti con una vita, ma senza rimpianti o nostalgie, anzi, ed è tale la tensione verso i prossimi impegni che il titolo è programmaticamente Io sono immortale. Ci sono l’infanzia nella Londra del dopoguerra immersa nello smog, l’arrivo e la liberazione del corpo e della mente grazie al rock, la vitalità ingenua ma sinceramente energica dei Rokes, la tensione politica che è maturata nel tempo, le vicissitudini sentimentali e le gioie paterne, la frustrazione del successo di massa e il passaggio dietro le quinte per dedicarsi alla scrittura e alla produzione negli anni seguenti, rifiutando ad ogni costo la nostalgia televisiva (“piuttosto muoio di fame!”) alla corte di Baudo, Conti, D’Urso & company. La cosa gli avrebbe pur fatto fare qualche soldino ma lo avrebbe anche reso prigioniero di Bisogna saper perdere e delle domeniche pomeriggio via etere assieme ad altre cariatidi. Nel suo libro trovi la Roma dei Sessanta e la Milano dei Settanta solo come un inglese te le può raccontare e scopri anche liason inaspettate (l’amicizia con Mario Capanna) e altre più logiche ma mai sfruttate nel senso deteriore del termine (le sue interpreti Mina, Vanoni e Mia Martini, per dire), tutto permeato da uno humour che non sai se più british o yiddish. Shel è ribelle e capellone “oggi più di ieri e domani più di oggi”: non ha perso alcun entusiasmo e lo dimostra discorrendo davanti a una pasta col ragù e un bicchiere di rosso. Andiamo avanti per ore e confermo: è immortale e la sua saggezza non è data dall’età, ma dalla leggerezza e dall’ironia. Poi è tempo di farla finita, perché questo talentaccio è atteso da delle prove teatrali: già attore per Mario Monicelli in Brancaleone alle crociate, Shel adesso recita sul palco con Moni Ovadia. Dopo il successo di Sarà una bella società scritto col compianto Edmondo Berselli, è in tour fino a tutto marzo con Shylock: il mercante di Venezia in prova dove interpreta il personaggio eponimo. E non canterà Che colpa abbiamo noi, state sicuri. (Febbario 2011)

(Continua – 5)

Qui altre storie di Hard Rock Cafone

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Hard Rock Cafone #2 https://www.carmillaonline.com/2015/09/10/hard-rock-cafone-2/ Thu, 10 Sep 2015 20:36:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24770 di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways  California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in [...]]]> di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways 
California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in tempesta ormonale. E non solo: etero e omo, rimangono tutti soggiogati dallo sguardo strafottente e dai corpi in fiore della band, in un’epoca in cui la maggiore età non era considerata un vincolo sessuale. Dopo gli assestamenti iniziali le Runaways presentano in formazione la superdotata (anche tecnicamente) Lita Ford, che secondo il dittatoriale producer è “Ritchie Blackmore e Sophia Loren fuse in un’unica persona”. Alla voce c’è Cherie Currie, una minorenne che sale sul palco vestita soltanto di sottoveste e calze con giarrettiera. All’altra chitarra Joan Jett che tutti conosciamo per l’inno universale che ha regalato qualche anno dopo: la cover di I Love Rock’n’Roll. Completano basso e batteria di Jackie Fox e Sandy West. L’impatto visivo e musicale è clamoroso e anche le polemiche e le virgulte rispondono alle accuse di bieco marketing sessista con un rock semplice e trascinante: vagamente punk e con la schitarrata hard quando serve. Vanno in tour coi grandi dell’epoca, fanno le cattive ragazze e finiscono in carcere in Gran Bretagna e diventano big in Japan dove registrano anche il loro album migliore, un live. Poi la rottura col maligno produttore guru, che sarà anche accusato a più riprese di abusi sessuali (con le ex Runaways reticenti o mute, anche se la violenza carnale sulla Fox, drogata, sembrerebbe inequivocabile) e il via alle defezioni, a partire dalla Currie. Che oggi fa la scultrice con la motosega (potete verificare su chainsawchick.com) ma è stata anche attrice e ha scritto un’autobiografia che non le ha però evitato di essere mandata a cagare dalle altre ex compagne. La band va in malora nel 1978 e Joan Jett prova la carta solista. Deve insistere un po’ ma poi ottiene successo con i suoi Blackhearts e ancor oggi – da autentica icona – è spesso in tour. Intanto la chitarrista Lita Ford, da ragazzina che era, diventa una bella donna con abnorme testata di capelli vaporosi e orecchini simili a lampadari, e si dedica al metal per scalare le classifiche col disco di platino Lita dove duetta con Ozzy Osbourne. Oggi omaggiate da biopic vezzose e assurte a status di superstar post-mortem, durarono poco, le Runaways, ma ruppero apparentemente il tabù machista del rock, anche se esattamente plagiate da quell’atteggiamento. La recente morte della batterista Sandy West sembra aver riavvicinato quelle che fecero da battistrada a tutto il rock femminile di là da venire, buono o cattivo, Bangles, Hole, L7 e Bikini Kill comprese, ma ci sono ancora troppi scheletri nell’armadio e non c’è da temere alcuna reunion nostalgica.
(Marzo 2007)

hrc202Milano imbevibile 
Milano la cosmopolita, Milano al centro dell’Europa, Milano ombelico del Mondo. Ha il traffico di Calcutta, l’inquinamento di Shangai, l’allegria di Bucarest e i servizi di Kinshasa. Senza offesa (per gli abitanti di Kinshasa, ovvio). È amministrata da decenni da gente che non ha mai preso un tram in vita sua e che pensa solo a riempire i vuoti urbanistici e gli ultimi residui di verde (avete capito di cosa canta Elio in Parco Sempione?) per fare felici palazzinari, archistar cialtroni e complici e pure i poveri muratori che, se non muoiono prima in cantiere, almeno hanno un po’ di lavoro. Avrà le sue ragioni Manuel Agnelli degli Afterhours a dirci che Milano è una città vitale, ma, sarà che non porto pantaloni attillati di pelle e non uso creme di bellezza, io l’unica vitalità che vedo è quella del sacco edilizio continuo di questa metropoli. A scapito di spazi, anche musicali. Nel mio isolato hanno appena riempito un vuoto tra due case e abbattuto una costruzione aerea ed elegantissima di fine anni Sessanta. Adesso ci sono un 5 piani terrazzato come se fossimo a Miami e un 6 piani monolitico che starebbe bene a Berlino. Gli stessi che grufolano contro le moschee, autorizzano poi questi scempi. L’ultimo assessore all’urbanistica, tal Milko Pennisi assurto a gloria nazionale, ha patteggiato due anni e dieci mesi per tangenti: ma chi patteggia i reati contro la logica e l’estetica? Ma il vero problema è che a un isolato dal mio hanno chiuso il vecchio Transilvania che, dopo un’agonia di neanche tre anni come MusicDrome, tornerà ad essere un’autorimessa. Nessuno mi ridarà la comodità di intervistare un artista e invitarlo a casa a prendersi un caffè, magari avendo nascosto prima i bootleg e i cd masterizzati. Non vedrò più aggirarsi nel mio quartiere gli ultimi dark con gli occhi cerchiati come opossum o i metallari tutti borchie e catene (ed educatissimi). Mi mancherà anche l’invasione degli springsteeniani di tutta Italia come la sera in cui suonò Southside Johnny con gli Asbury Jukes. E per la strada, davanti al cancello del locale, non incontrerò più J. Mascis o Ed Wynne, impegnati a bersi una birra e a parlare coi fan venuti a sentire il soundcheck. Oggi su quel cancello c’è solo un malinconico cartello: ultimi box in vendita. Riposa in pace, Transilvania, garage eri e garage tornerai a essere. Intanto è evaporato anche lo storico Rolling Stone, perché lì conviene tirarci su sei piani, altro che concerti. E prima o poi toccherà al Palasharp, perché anche là c’è la sua convenienza (e pure dell’amianto da smaltire). E in compenso allo stadio di San Siro non si può far casino se non per le partite di calcio, una ogni quattro giorni. Ma il rock no, perché fa rumore. Sporca. Non so cos’abbia in testa il sindaco Moratti – a parte la cofana catarifrangente simil-Mirigliani – ma nella metropoli dell’Expò gli spazi da concerto ormai si contano sulle dita di una mano e il Comune, figurarsi, non ne ha uno suo. Tutto questo mentre il promoter Claudio Trotta rischia una sanzione pesantissima, grazie a fantomatici comitati di quartieri guidati da invasati che lamentano insonnie e crisi di panico per i 22 minuti di rock extra, regalatici dal Boss una sera del 2008, alle 23 e 30, mica alle 4 del mattino. La Milano da bere, decennio dopo decennio, è solo un bel bicchiere di merda.
(Giugno 2010)

hrc203Frate Metallo: pace e bene 
Un anno fa, Frate Metallo non se l’è fatto mancare nessuno, la stampa italiana, quella straniera e perfino il perfido Lucignolo televisivo. Ma messi da parte sensazionalismo e bigottismo musicale, che fine ha fatto il fratacchione? Lo chiamo e scatta la segreteria telefonica, la meno ansiosa che abbia mai sentito: “Sono Frate Cesare, pace e bene!”. Qualche giorno dopo sono nel convento dei frati minori a Musocco, Milano. Gli occhi chiari, sinceri, le mani robuste, una certa somiglianza col Santa Claus della Coca Cola, Fra Cesare ha l’entusiasmo di un ragazzino e la saggezza di un uomo che è stato operaio, bersagliere, vagabondo scalzo e infine missionario e cappuccino francescano. Riavvolgiamo il nastro: come giovane assistente spirituale dei tranvieri milanesi capisce che dove non arriva una predica può arrivare la musica. Lui ha una bella voce e un certo orecchio e comincia a scrivere canzoni, alcune religiose, ma perlopiù laiche (nel senso che può intendere un religioso, eh?). Quando canta raccoglie un sacco di offerte ma in cambio dei soldi preferisce dare delle cassette prima e dei Cd poi. 10 anni fa Costanzo lo chiama al suo show e l’esperienza è salutare: da allora rifiuta qualunque apparizione televisiva, rifiutando il ruolo della scimmietta. Ha le idee chiare su tutto: sulla beneficenza (“Vado al concerto se mi piace, non per aiutare qualcuno”), sugli autori musicali cattolici (“Che cosa significa, scusa?”) e sul successo (“Non me ne frega niente: sai quante volte mi hanno offerto Sanremo?”). È sanguigno e pacifico e il rock lo fa scattare in piedi, roteando il cingolo che gli stringe il saio, in estasi metallica. Ma ha cantato anche altri generi, ammettendo il fallimento solo quando ha sperimentato anche il liscio (!). Il suo disco metal è un’opera curiosa dove non senti il Padre nostro o l’Ave Maria al contrario, bensì Cesare che incattivisce la voce su ritmiche hard. Quando ringhia il growl sembra una parodia fatta da Elio, però lode al tentativo, senza pretese e senza presunzione, per divertirsi. Mangiamo assieme (e in modo parco) al refettorio del convento. I confratelli di Cesare sono tutti sorprendentemente simpatici, più o meno coinvolti dalla sua attività canora e c’è chi lo sfotte amabilmente in nome di altri credo musicali. Da questo incontro esco con la convinzione che Frate Metallo non è un furbetto, tutt’altro. Quelli sono gli artisti indie nerovestiti, che poi a Sanremo ci vanno eccome facendo la faccia contrita, o i giornalisti che non potevano credere di avere per le mani un francescano metallaro, due freak in uno. Il top sarebbe stata anche una disgrazia fisica, ma per fortuna Cesare è perfettamente integro. In tutti i sensi. Pace e bene.
(Giugno 2009)

HRC204Aphrodite’s Child: tzatziki rock!
Caldo. Spiagge. Massì, vi racconto due o tre cose della Grecia diverse da quelle che rimbalzano dai giornali, ma prima faccio un brevissimo ma palloso preambolo: il rock progressivo è un’astrazione terminologica. Per alcuni – detrattori ma anche ammiratori – significa solo supergruppi con assoli lunghissimi e clamorose capacità strumentali; per altri critici più elastici è quella musica che progrediva, nel senso che bruciava tappe e superava i confini temporali dei 3 minuti e quelli stilistici del beat. All’origine di tutto ciò ci sono pionieri come Moody Blues, Colosseum o Procol Harum e quando la sbobba non s’è allungata o è diventata autocelebrativa, si sono avuti autentici colpi di genio dove il rock incontrava tempi dispari, nuovi strumenti e contaminazioni coraggiose. Tra i pionieri di questa musica, nel bene e nel male, prima con singoli smielati poi con un’opera epocale, ci sono gli Aphrodite’s Child, trio di figli d’Afrodite che nasce nella Grecia dei Colonnelli e subito si trasferisce a Londra. Vi consiglio di cercarne delle foto, perché per sottolinearne la provenienza ellenica un P.R. in acido fece conciare i tre corpulenti e irsutissimi musicisti come delle comparse di Troy, con tuniche, foglie d’acanto in testa e cetre in braccio. Il gruppo conquista la Francia in rivolta del Sessantotto con Rain and Tears, singolo con più di un’assonanza con A Whiter Shade of Pale. Anche questa è una rilettura di un’aria barocca (là Bach, qui Pachelbel; e – scoop! –gli stessi accordi di Albachiara!) e l’effetto in classifica è immediato. Dopo altri singoli pop di successo, si decide per l’opera definitiva, turgidamente rock: l’album 666, prima bloccato dalla casa discografica, infine uscito a gruppo sciolto nel 1972. Affascinante, eterogeneo e inventivo, spazia dai Beatles a momenti pesanti come un capitello dorico sulle palle: è un sinistro concept sull’Apocalisse che nel tempo otterrà un successo clamoroso, diventando uno dei capisaldi del prog, altro che il sirtaki. E ora la carrambata per i meno avveduti: degli Aphrodite’s Child erano leader il romantico Demis Roussos che ha poi venduto 50 milioni di dischi in Francia, e soprattutto Evangelios Papathanassiou, cioè Vangelis, l’uomo che ha scritto score immortali per Momenti di gloria e Blade Runner o jingle ipnotici per la Barilla. E forse era meglio l’Apocalisse. Ah: se volete altri greci rock settantini, consiglio i santaniani (!) Peloma Bokiou. Buone vacanze.
(Agosto 2010)

hrc205aL’hard de noantri
Nell’Italietta delle bombe fasciste c’è – tra le tante – anche un’esplosione gioiosa, il corrispondente musicale della meglio gioventù, il cosiddetto “pop” o “progressive” italico, quando, a fianco di formazioni come PFM, Banco e Orme, cresce una generazione di rocker, l’hard de noantri: uno spaghetti-rock casereccio ma energico e senza mandolino, se non pesantemente elettrificato. Qui non si rischia l’orchite ascoltando pensosi concept che parlano di un pinguino (esiste, eccome, e non è neanche male); qui si picchia duro: tra riffoni, schitarrate, power chords e cavalcate solistiche, in 35 minuti di LP trovate idee che oggi coprirebbero cinque anni di carriera. Del resto l’imperativo musicale e ideologico era l’originalità e niente era peggio dell’accusa di “venduto”. E mancando il “venduto”, qualche gruppo durava lo spazio di un album… Il primo vagito è del Balletto di bronzo che con Sirio 2222), disco ricco di chitarre e assoli mordaci, cerca un’ingenua ma personale via italiana all’ombra del dirigibile di piombo. Più o meno contemporaneamente, il virtuoso tastierista Joe Vescovi espande volume e improvvisazioni con i suoi Trip, influenzato dai Vanilla Fudge, gruppo seminale che introdusse il concetto della cover stravolta e dell’utilizzo di pieni e vuoti strumentali. Joe compone album bellissimi (partite da Caronte), tant’è che anni avanti verrà convocato a Los Angeles da sua maestà Blackmore per suonare nei Rainbow. “Ma ero troppo morbido!”, mi confessa telefonicamente.
hrc205bUn altro che il rock duro l’ha sempre costeggiato è Alberto Radius, sia con la Formula 3, sia a fianco di Battisti. Radius (1972), prodotto dal Lucio nazionale sotto lo pseudonimo Lo Abracek, è forse il più compiuto hard rock nostrano, registrato in tre giorni di furiose jam con i futuri Area, la sezione ritmica della PFM e altri amici assortiti: rock senza frontiere attraversato da lampi di psichedelia, jazz e boogie, con la chitarra che fa di tutto. Come avrebbe poi continuato a fare, contribuendo in maniera fondamentale al successo di Franco Battiato a inizio anni 80. A chi dubita dell’essenza rock di quei lavori, solo una dritta: la micidiale outro solistica di Strade dell’Est, ne L’era del cinghiale bianco. Oggi Radius è un giovane molto cool di 62 anni con più capelli di Tina Turner. Lo incontro nel suo studio e mi presenta Please My Guitar, il suo ultimo disco. Lo definisce “Un album stradale!”. Mi fa sentire alcune tracce: canzoni solide, senza troppi assoli; per l’improvvisazione c’è tempo dal vivo e del resto Alberto si fa oltre un centinaio di concerti ogni anno, con la Formula 3 o con la Notte delle Chitarre.
Ora dimenticate certe recenti oxate o alcuni coretti beegeeseggianti: i New Trolls sono stati il gruppo che, a tratti, ha saputo fare l’hard italiano più maturo. Hanno flirtato col sinfonico e col beat, ma a trent’anni di distanza la chitarra del “Piccolo Hendrix” Nico Di Palo e la furiosa carica del gruppo genovese bruciano ancora. L’apice improvvisativo è nel lato live del Concerto grosso (1971) quando i nostri eroi fan profumare di basilico il verbo dei Deep Purple. Diverse spinte (hard contro pop e, si dice, anche divergenze politiche) portarono il gruppo a una scissione durata due anni, nei quali Di Palo diede sfogo alla sua Les Paul nei massicci Ibis, prima della riconciliazione con Vittorio De Scalzi e nuove separazioni.
hrc205cAddirittura heavy erano i Rovescio della medaglia che ci han lasciato una Bibbia (1971) registrata in presa diretta e tostissima. Al virulento chitarrista Enzo Vita si attribuisce l’immortale affermazione: “Mo’ che è morto Hendrix, semo rimasti in tre: Page, Blackmore e io!”. Dimenticava per esempio i Campo di Marte (Lp antimilitarista e durello del 1973) o anche Mario Schilirò, uscito da una cantina romana con i ventenni Teoremi, quartetto di geometrica potenza. Il chitarrista – oggi anche produttore – ha poi suonato a lungo con Venditti e da anni presta servizio con Zucchero. L’album eponimo (1972) è una bella botta, per niente derivativo e con una chitarra potente. Un solo album (1973) anche per il Biglietto per l’inferno ed è probabilmente uno dei più bei dischi italiani di sempre, ripubblicato recentemente con Dvd, album inedito e testimonianza live. Il tastierista “Baffo” Banfi ricorda con ironia i suoi vent’anni, quando “In mancanza di una motocicletta, rimorchiavi solo se suonavi in una band”. La sua era formata da cinque amici, trascinati dall’eccezionale frontman Claudio Canali, oggi frate benedettino ma trent’anni fa, altro che Fra Cionfoli: una furia sul palco e in studio.
C’è poi chi al vinile non arrivò neppure, come gli zeppeliniani Crystals (album del 1974 stampato solo ora dalla Akarma) o i Moby Dick, anch’essi profondamente influenzati dal Martello degli dei. Incontro il loro batterista, Adriano Assanti a Chiasso (e dove, se no, per parlare di hard rock?) e davanti a una pizza Adriano ricorda: c’erano una volta quattro ragazzi di Napoli, del Vomero, stufi marci dei soliti tre accordi e abbastanza matti da lasciar perdere le remunerative serate nei night. Altro che Rose rosse con Ranieri, l’imperativo stilistico del gruppo era suonare così forte da incrinare la ceramica dei water (in lingua: spaccamm’ ‘o cess!). Mica facile però: nel 1968 non ci sono Internet né tutorial. Per imparare la “nuova” musica devi svegliarti alle tre di notte, captare Radio Luxembourg e il giorno dopo affidarti alla memoria. Ma suonare i Led Zep nell’Italia del 1970, è come provare a vendere oggi i libri della Fallaci in Iran. Allo storico festival di Caracalla, per dire, gli staccarono l’amplificazione al secondo pezzo. E un disco? I Moby Dick avevano idee molto chiare: o lo si registra a Londra, come si deve, oppure meglio lasciar stare. E accadde il miracolo: il quartetto volò in Inghilterra e in una settimana incise l’album della vita, potente, bellissimo. Solo che l’abitudine di arrangiarsi e farsi prestare gli strumenti, all’Olympic Studios non funzionava: il conto divenne salatissimo e il manager non riuscì a vendere subito i nastri. Passano giorni, mesi, anni e poi c’è la vita, che è dura, con i membri della band ormai sparsi per il mondo e con altri mestieri, pur senza mai abbassare le chitarre. Oggi l’album dei Moby Dick c’è (di nuovo Akarma) ed è un po’ l’epilogo classico di tutte queste vicende: da metà anni Settanta in poi il rock italiano entrò in crisi, tramortito dalle discoteche, falcidiato dal servizio militare o da micidiali furti di strumenti e amplificazioni (giuro). Ma fu solo una ritirata strategica, credetemi: i dischi son lì ad aspettarvi e i musicisti li trovate ogni sera sui palchi di tutt’Italia. A suonarvele.
(Dicembre 2004)

hrc206aIan Gillan, parla con me
Fuori dal camerino, l’avvertimento: “se vi offende la nudità, non entrate!”. Dentro c’è Ian, vestito attillato di nero, come un mimo, che sorseggia una minestra in bicchiere. 61 anni, la faccia stanca di chi sta facendo un tour di successo ma anche il piacere della rivincita.
Com’è che non ti vediamo mai, in tivù?
Sai, le nuove generazioni cresciute con la tivù, la conoscono bene, sanno usarla. E sono giovani e belli. L’idea di un sessantenne sudato che si agita ha senso in un club, non nel tuo soggiorno. Noi siamo un po’ come gli stand up comedian: se vai in tivù a dire una battuta, la bruci per sempre. In un club puoi dirla quante volte vuoi, c’è un’audience diversa ogni sera. Questo è il bello di un tour.
Starai in giro tanto?
Un anno e mezzo, senza mai tornare a casa. Con mia moglie organizziamo delle vacanze sparse qui e là per il mondo, durante le pause del tour. Mi raggiunge lei.
E ti piace visitare altri paesi?
Sí, è molto educativo! Sono cresciuto nei suburbi di Londra e ho amato l’Inghilterra del dopoguerra. Era un paese ospitale. Ora non sono più tanto sicuro di amarla. La successione dei governi ha portato a una separazione culturale, non c’è più un’unità. Come negli USA: entità diverse, gruppi etnici diversi, fratture sempre più profonde.
Parli mai di calcio con Steve Morse (il chitarrista americano dei Deep Purple)?
E come potrei? Non capisce niente! Del resto io non so nulla di football americano. Cos’è un down? Ma dai…
Tolto Pavarotti, conosci qualche altro rocker italiano?
C’è il tizio ubiquo… quello che ha fatto dei duetti…
Ramazzotti?
Ma no, quello che è sempre in giro con tutti e li invita negli album, dai…
Zucchero?
Zucchero! E beh, come fai a non conoscerlo?
Fai ancora una vita da rocker… che gente frequenti?
Io adoro la gente che incontri di notte. Quando ero giovane finivo di lavorare alle tre del mattino, con cinque show sulla schiena, stanco morto ma pieno di adrenalina. E frequentavo chi era ancora in piedi a quell’ora: camerieri, ballerine, strippers e prostitute… Son cresciuto con loro e sono le persone più eccezionali. Sincere, affidabili, meglio di quelle che incontri di giorno.
I Deep Purple non hanno fama di grande profondità, ma forse è perché nessuno s’è mai messo a leggere i loro testi. L’ultimo album (Rapture of the Deep, il più venduto dagli anni Ottanta) ha una qualità spirituale… sei religioso?
Io non sono religioso ma capisco chi lo è. Il senso di appartenenza, di congregazione. È una ricompensa per soddisfare certe curiosità spirituali. Non vorrei essere blasfemo, ma è come un orgasmo collettivo, la religione. Ricordo che da bambino tornavo a casa, dopo la comunione o la messa, e praticamente volavo sul terreno. Ma non era soddisfacente dal punto di visto intellettuale. All’epoca non me ne curavo perché non ci pensavo, ma ora sí. M’interessa molto la metafisica, adesso…
hrc206bMetafisica, una rockstar?
Sí, mi sono appassionato al lavoro dei poeti metafisici o a Tennyson… e trovo eccezionali anche gli scienziati di fine Ottocento, come Charles Darwin. Quello che ha scritto, ora lo leggiamo non solo come testo scientifico ma anche come commento sociale a una società razzista e classista. Darwin ha ritardato la pubblicazione de L’origine della specie per qualcosa come vent’anni, ma a un certo punto era abbastanza anziano da non aver paura delle reazioni della chiesa… E grazie a dio l’ha pubblicato! Sai, la mia vita è quasi finita (vedendolo così vispo, Gillan doppierà i cent’anni, probabilmente sul palco)… non sono religioso, no, ma esaltatissimo dal futuro!
Senti, ti posso chiedere cosa pensi della guerra in Iraq?
Credo che il nostro primo ministro (non si degna neanche di citarlo) dovrebbe essere processato. Ha preso per il culo il parlamento, i reali, l’opposizione e la gente comune, per trascinarci in una guerra di cui non ha minimamente valutato le conseguenze. Abbiamo imposto artificialmente dall’esterno il nostro credo politico, ideologico e religioso ad un paese… quanto è morta la democrazia, così?
Di solito rispondono “Però adesso abbiamo Saddam Hussein”…
E allora? Con le sanzioni, negli ultimi dieci anni Saddam non ha fatto niente! Lo stanno processando per cose più vecchie, come aver trucidato 170 persone in un villaggio… George W. Bush, quando era governatore del Texas, ha firmato senza neanche leggerle le condanne a morte per 273 persone. Okay, erano stati processati, ma in processi dove le prove erano rifiutate nel dibattimento e cose così…
Non hai grande fiducia nei leader occidentali…
I leader dell’ovest sono cresciuti giocando a Monopoli, quelli dell’est giocando a scacchi e sanno prevedere qualche mossa più in là. Questo oltre ad avere una consapevolezza della vita più profonda della nostra.
E tu l’hai capito il senso della vita?
(Gli si illuminano gli occhi) Certo, assolutamente! Devi avere presenti due cose per essere felice, una fisica e l’altra metafisica: il senso di appartenenza e uno scopo. Ricordarti da dove vieni e sapere dove stai andando. Senza, la vita non ha senso.
(2 marzo 2006)

(Continua – 2)

La prima puntata è qui.

@DzigaCacace mette i dischi su Twitter

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Un weekend del 1993 – 5/5 https://www.carmillaonline.com/2014/08/28/weekend-1993-55/ Thu, 28 Aug 2014 21:00:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15670 di Filippo Casaccia

[Qui le altre puntate, la 1, la 2, la 3 e la 4]

Dio c’è

weekend5La coppia anonima si rivela subito pericolosissima. Lui è un trentenne, che parla con voce soporifera. Alla povera amica che gli sta a fianco racconta del portafogli rubato sabato sera dal cruscotto della macchina. Deve rifare i documenti ed è molto scocciato. Conclude che saranno stati tossicodipendenti. Vorrei interloquire: “Magari negri”. Comunque non si può andare avanti, continua, perché è tutto tassato e non vale più la pena di lavorare. [...]]]> di Filippo Casaccia

[Qui le altre puntate, la 1, la 2, la 3 e la 4]

Dio c’è

weekend5La coppia anonima si rivela subito pericolosissima. Lui è un trentenne, che parla con voce soporifera. Alla povera amica che gli sta a fianco racconta del portafogli rubato sabato sera dal cruscotto della macchina. Deve rifare i documenti ed è molto scocciato. Conclude che saranno stati tossicodipendenti. Vorrei interloquire: “Magari negri”. Comunque non si può andare avanti, continua, perché è tutto tassato e non vale più la pena di lavorare. Non esprime motivazioni politiche: è il vero fascista inconscio, che non ha opinioni se non quelle che richiedono meno sforzi mentali e presuppongono il miglior ritorno personale. Poi, questo curioso tuttologo, attacca a parlare della calvizie ed è sicuro che alimentazione, inquinamento e soprattutto stress siano letali per il capello. A questo punto temo di tornare a Genova completamente pelato.
Continua parlando pianissimo, senza variazioni tonali: scommetto che chi lo conosce lo definisce il classico ‘pezzo di pane’. Al curaro, però. L’amica chiude gli occhi e prova a dormire, lui va avanti imperterrito e racconta del suo cane che “dà tanto affetto gratuito, mica come gli esseri umani” e io mi immagino la povera bestia che deve ascoltare il vaniloquio di questo imbecille. Poi si spegne. Per dieci secondi e riparte: è un Ariete e in famiglia son tutti segni di fuoco. Ah beh. Poi arriva il melodramma. Il padre ‘buonanima’, farebbe gli anni a breve se fosse ancora vivo, “e sarebbero pochi”. Silenzio. Poi, finalmente, scopro cosa ha fatto a Milano: un’audizione per Sanremo — tutto torna — ma dice d’aver cantato male perché gli sta venendo un’afta in bocca e che una volta ne ha avuta una che gli ha impedito di parlare per alcuni giorni. Gliene auguro una immediata e letale. Per fortuna i due scendono a Voghera.
Rimaniamo io e la dolce lettrice; sembra Julia Roberts, appena sfigurata dalla quotidianità. È silenziosa e a questo punto leggo anch’io. Finché arriva la tragica smentita: Pavia non è l’unico collettore di studenti cazzoni. Anche Genova fa la sua parte. Infatti la sconosciuta attacca a parlare con un ragazzo seduto in un altro scompartimento, suo compagno di studi, che ora sfumazza nel corridoio. La quiete è interrotta e lo stupendo libro delle critiche cinematografiche di Pasolini diventa illeggibile. Ma è una fortuna: il tizio aderisce perfettamente allo stereotipo del ‘Teatrante Pieno di Sé’ e parla con voce stentorea come se fosse sul palcoscenico. Berretto da marinaio, basetta lunga e orecchino, studia teatro a Genova ed è il sacco di merda più immenso che abbia mai incontrato dal vivo.
Poco vale il fatto che provenga dalla Val d’Ossola: studia a Genova ed è un frutto impazzito del mio ateneo. Introduce ogni discorso con una serie di roboanti IO: io qui, io là, io su, io giù… io non posso impegnarmi sentimentalmente (“Lo studio del teatro assorbe la mia concentrazione”), io sono cresciuto in un ambiente cattolico e devo appagare il mio lato pagano, io sogno consessi sibaritici, io combatto gli abbonati alla stagione teatrale, io bevo tanta birra: “Una volta, all’Oktoberfest, ne ho bevuto sette litri!”. Ma brutto babbeo, il mio amico Pitta ne ha bevuto undici e se ti piglia ti scaraventa a terra con un rutto!
Poi, con posa vissuta, indica fuori dal finestrino. C’è la statale che costeggia la ferrovia. “Vedi? Vedi, là? Sui cavalcavia, quelle scritte?”. La ragazza annuisce senza capire cosa ci sia di così importante. “Dio c’è!”. Quando mi rassegno al fatto che l’incommensurabile coglione stia per cominciare una pippa religiosa, peraltro contraddittoria con quanto sin qui declamato, si chiarisce il mistero. “Dio c’è! Vuol dire che è arrivata la droga! Ma non fare quella faccia, amore: anch’io credevo che fossero degli integralisti cattolici, però poi…”. E spiega che lui sa questa cosa perché ha un giro di amici con cui, nel rispetto del corpo e in accordo con la mente, ci scappa il pippotto ricreativo… oh: mica è un vizio, eh? Poi come se la cocaina annunciata dai graffiti ‘Dio c’è’ avesse esaurito il suo potere euforico, il patetico guitto arriva all’apice del delirio e inizia a sdilinquirsi sulla natura dell’amore, anzi dell’Amore, perché da come pronuncia la parola, beh, c’è chiaramente la maiuscola. “Per me, dopo tutto, c’è l’Amore Assoluto”. Ma come, tu, così maudit, ti cali le braghe davanti all’Amore? E giù tutte le più solenni castronerie a mascherare che sei un infantile stronzo, pieno di sé, presuntuoso e ignorante, che vorresti solo trombarti la poveretta e — parola mia — ho più possibilità io, in questo stesso preciso momento, di ingravidare Sharon Stone. Ma levati dai piedi.
Macché: inizia a raccontare dei suoi training da attore, della volta che ha sentito l’Energia (maiuscolo, è chiaro) fluire nel suo corpo. E la volta che gli si è acuita la vista o quell’altra in cui non ha parlato per due giorni… fino all’incredibile “erano quattro anni che non piangevo e tale era il senso di comunità…”. Ma questa è la ‘Testa di Cazzo Assoluta’! Se fosse la ‘Testa di Cazzo Corrente’ non ricoprirebbe alcun valore antropologico, ma, così, mi rendo conto di avere davanti un esemplare unico. Mentre la sventurata non riesce più a tenere gli occhi aperti e le oscilla la testa, arriviamo finalmente a Genova. Lascio lo scompartimento e un po’ mi dispiace, perché certe occasioni sono uniche.
Arrivo in fondo al vagone, pronto a scendere. Mi giro e vedo per l’ultima volta la poveretta tormentata dal teatrante; mi lancia un’occhiata quasi a scusarsi, poi uno strepito e vedo il dionisiaco testone di cazzo che, stretto nella sua giacchetta blu da marinaio, s’è fatto tutto rosso in faccia e sbraita. Tornato nel suo scompartimento a prendersi la divisa da Corto Maltese dei poveri, ha scoperto che gli hanno rubato il portafogli. Altro che la poesia, il teatro e l’assalto al pubblico borghese: la voce impostata e roboante si dispera per cinquantamila misere lire! Finalmente un po’ di sano e sperimentale teatro-verità!
È stato un weekend intenso, fiducioso nel futuro e sconcertante sul presente, ma alla fine vedendo il poveretto che si sbraccia da far pietà, degno di un attore del cinema muto, penso che in questo Italia incerta io finalmente una certezza ce l’ho: Dio c’è, ma sul serio.

(5 – FINE)

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Sanremo 2014 https://www.carmillaonline.com/2014/02/23/sanremo-2014/ Sun, 23 Feb 2014 15:11:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13080 di Alessandra Daniele

Arisa

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di Alessandra Daniele

Arisa

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L’elezione mononota https://www.carmillaonline.com/2013/02/18/lelezione-mononota/ Mon, 18 Feb 2013 08:39:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=4630 di Alessandra Daniele

Elio.jpgQuesti asteroidi giganti che sfiorano la terra non la centrano mai. Che pippe. O forse come Grillo pensano li si noti di più se danno buca. Ci sarebbero così tanti buoni motivi per spianarci.  Per esempio il Festival di Sanremo. Quando si riordina un cassetto, capita di trovare sul fondo piccoli oggetti dalla funzione sconosciuta e indecifrabile, probabilmente pezzi di qualcosa che s’è rotto o è stato smontato anni prima, o parti di ricambio in soprannumero mai diventate utili. Sono quegli aggeggi che ti fanno pensare ”Ma cosa cazzo è questo? A che serve? Perché non l’ho buttato?” [...]]]> di Alessandra Daniele

Elio.jpgQuesti asteroidi giganti che sfiorano la terra non la centrano mai. Che pippe. O forse come Grillo pensano li si noti di più se danno buca.
Ci sarebbero così tanti buoni motivi per spianarci.  Per esempio il Festival di Sanremo.
Quando si riordina un cassetto, capita di trovare sul fondo piccoli oggetti dalla funzione sconosciuta e indecifrabile, probabilmente pezzi di qualcosa che s’è rotto o è stato smontato anni prima, o parti di ricambio in soprannumero mai diventate utili. Sono quegli aggeggi che ti fanno pensare ”Ma cosa cazzo è questo? A che serve? Perché non l’ho buttato?”
Immaginatevi un cassetto pieno solo di queste cianfrusaglie. Questo è Sanremo. Con l’unica eccezione di Elio e le Storie Tese con la loro Canzone Mononota, una lezione sia di musica che d’ironia (con citazione finale dei Monty Python) così dissonante rispetto al tono generale da rigattiere necrrofilo del Festival.
Uno scoramento simile a quello dato dall’aprire il cassetto di Sanremo l’avremo di nuovo fra pochi giorni, aprendo la scheda elettorale.
Anche lì troveremo cocci, tappi, bulloni spanati, bugiardini scaduti, scarabocchi indecifrabili, cazzibubboli e scilipoltiglia varia. Anche lì troveremo sketch riciclati e qualunquisti, ”Big” cialtroni o insignificanti, e ”Nuove Proposte” che suonano più vecchie dii Albano.
Anche lì sentiremo suonare una nota sola, da tutti: ”C’è la Crisi, qualcuno la deve pagare, votate me, e la faremo pagare a qualcun altro”.
Può cambiare il ritmo, l’arrangiamento, il cantante, c’è chi la sbraita, chi la bofonchia, e chi la scandisce con la voce metallica dei Kraftwerk e dei Rockets, ma la nota non cambia.
In realtà sappiamo che alla fine a pagare saranno sempre gli stessi, e saranno sempre gli stessi a incassare, cioè quelli che la Crisi l’hanno provocata.
E non sappiamo più bene cosa farci.
Fra le immagini della manifestazioni turbolente degli ultimi anni, mi hanno particolarmente colpito quelle di un gruppo di ragazzi, cinque o sei, che cercava di sfondare la vetrina antiproiettile d’una banca, senza riuscirci. Usavano caschi, sanpietrini, e un segnale stradale divelto come ariete, ma la vetrina non cedeva. Era una ragnatela di crepe, si piegava, ma resisteva come un muro di gomma. La furia dei ragazzi s’andava spegnendo, i loro sforzi si facevano sempre più fiacchi, lenti, scoordinati. Sempre più inutili.
Quando si apre un cassetto, a volte ci si rende conto che per essere riordinato davvero avrebbe bisogno di essere estratto, e rivoltato sul pavimento. E allora, a volte, si preferisce richiuderlo. Rimandare.
Abbiamo richiuso troppi cassetti, uno dopo l’altro. Adesso siamo rinchiusi noi dietro la vetrina di gomma d’un rigattiere necrofilo.
Siamo finiti come in quella vecchia barzelletta sui cartelli stradali: “Rallentare – 80 km”, ”Rallentare – 50 km”, ”Rallentare – 30 km”. ”Benvenuti a Rallentare”.

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2010: Fuga da New Town https://www.carmillaonline.com/2010/02/22/2010-fuga-da-new-town/ Mon, 22 Feb 2010 11:02:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=3363 di Alessandra Daniele

dita-von-teese.JPGLa ricostruzione dell’Abruzzo: un Nuovo Miracolo Italiano, reso possibile dalla Protezione Civile che tutto il mondo ci invidia (brutto rosicone). Gli Uomini del Fare, e le Donne che se li Fanno hanno saputo ridare un tetto e due tette a tutti, mettendo al Centro il Benessere dei cittadini, nella più totale trasparenza degli appalti, e dei bikini brasiliani. Mentre il nucleo diroccato dell’Aquila è stato preservato intatto per essere riutilizzato come set del il prossimo reality ”L’isola dei Franosi”, i terremotati vengono alloggiati nelle modernissime New Town modello Avatar. A ognuno di loro viene fornito un fondale sul [...]]]> di Alessandra Daniele

dita-von-teese.JPGLa ricostruzione dell’Abruzzo: un Nuovo Miracolo Italiano, reso possibile dalla Protezione Civile che tutto il mondo ci invidia (brutto rosicone).
Gli Uomini del Fare, e le Donne che se li Fanno hanno saputo ridare un tetto e due tette a tutti, mettendo al Centro il Benessere dei cittadini, nella più totale trasparenza degli appalti, e dei bikini brasiliani.
Mentre il nucleo diroccato dell’Aquila è stato preservato intatto per essere riutilizzato come set del il prossimo reality ”L’isola dei Franosi”, i terremotati vengono alloggiati nelle modernissime New Town modello Avatar. A ognuno di loro viene fornito un fondale sul quale è dipinta una villa, e un paio di occhialetti per vederla in 3D.
Bertolaso rimane saldo al comando, sprezzante del fango mediatico e alluvionale, ma solo in nome del dovere: ”non sono mai stato legato a nessuna poltrona – dichiara da San Fratello – il bondage non l’ho ancora provato”.
Anche il leader del PD Bersani ha voluto recarsi sul luogo di un disastro, Sanremo, dove è stato però sonoramente fischiato, ed eliminato al primo televoto. La conduttrice ha poi reso pubblico il numero di telefono privato di Bersani, perché i televotanti potessero anche mandarlo a cagare personalmente al costo di un euro senza scatto alla risposta.
”Non accettiamo lezioni dagli esponenti di questa opposizione – ha commentato Berlusconi – quante trasmissioni dovremo ancora far chiudere per non vederceli più davanti?”
La Protezione Civile ha quindi transennato sia Santoro che Sanremo dichiarandoli entrambi pericolanti, mentre Bertolaso svolgeva personalmente la perizia sulla spogliarellista Dita von Teese.
Gli effetti positivi della cultura di governo si fanno sentire in ogni campo, l’economia italiana è in netta ripresa: aumentano le vendite di culi.
Grazie all’intervento del ministro Scajola, gli operai di Termini Imerese non resteranno senza impiego: la FIAT li utilizzerà per i crash test.
Sono quindi destituite di ogni fondamento le voci che il presunto degrado in atto nel nostro paese abbia indotto il resto del mondo a isolare l’Italia, circondandola con una barriera perimetrale munita di torrette di controllo, e che il perito della Protezione Civile USA, Snake Plissken, abbia consigliato l’immediata demolizione dell’Italia.
Berluscaso rassicura: non esiste alcun pericolo di New Tangentown, solo qualche miliardo di casi isolati. La corruzione non è un problema.
E’ una soluzione.

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