sanità pubblica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La Giacarta della sanità pubblica https://www.carmillaonline.com/2022/12/27/la-giacarta-della-sanita-pubblica/ Mon, 26 Dec 2022 23:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75348 di Luca Cangianti

C’era una volta in Italia è un film documentario sulla distruzione della sanità pubblica, ma si apre con le immagini del colpo di stato in Cile. La seconda parte del titolo, inoltre, contiene una minaccia: Giacarta sta arrivando. Si riferisce all’assassinio, da parte dell’esercito indonesiano sostenuto dal governo Usa, di circa un milione di civili nell’ambito della politica di contrasto al locale partito comunista. Il motivo di tale abbinamento bizzarro è che quei crimini servirono a imporre una svolta neoliberista al capitalismo mondiale. Questa stessa politica economica oggi è responsabile [...]]]> di Luca Cangianti

C’era una volta in Italia è un film documentario sulla distruzione della sanità pubblica, ma si apre con le immagini del colpo di stato in Cile. La seconda parte del titolo, inoltre, contiene una minaccia: Giacarta sta arrivando. Si riferisce all’assassinio, da parte dell’esercito indonesiano sostenuto dal governo Usa, di circa un milione di civili nell’ambito della politica di contrasto al locale partito comunista. Il motivo di tale abbinamento bizzarro è che quei crimini servirono a imporre una svolta neoliberista al capitalismo mondiale. Questa stessa politica economica oggi è responsabile di nuove stragi di civili, per esempio nella sanità.

Federico Greco e Mirko Melchiorre sono due dei tre registi che nel 2017 hanno diretto PIIGS – un fortunato documentario in cui il cinema veniva messo al servizio della divulgazione economica per svelare i meccanismi perversi dell’austerità europea.
Nella nuova pellicola, in sala in questi giorni, raccontano la storia della chiusura nel 2010 dell’ospedale di Cariati, un comune della provincia cosentina, per rispettare uno dei tanti piani di rientro dal debito sanitario. In seguito a quel provvedimento e agli effetti moltiplicatori della pandemia, le conseguenze non si fanno attendere: la sanità locale collassa, i tempi di attesa per una visita specialistica o un’analisi diagnostica crescono a dismisura, inizia la migrazione verso le strutture del Settentrione e la necessità di accedere ai servizi privati a pagamento – almeno per coloro che possono permetterselo, gli altri aspettano e spesso muoiono. Ecco la Giacarta della sanità pubblica italiana.

C’era una volta in Italia è però anche la storia di coraggio, tenacia e speranza di un gruppo di cittadini che occupano l’Ospedale Vittorio Cosentino chiedendone la riapertura con flash mob, blocchi stradali e ferroviari, e il coinvolgimento di personaggi pubblici come Roger Waters, il fondatore dei Pink Floyd, e Gino Strada. Il cinema di Greco e Melchiorre diventa così voce di un popolo umile, eroico e ribelle in lotta per la vita e la dignità; ma non si ferma a questa cronaca empatica, narrata dalla voce di Peppino Mazzotta, vuole afferrarne le ragioni e le cause.

Le vicende degli attivisti di Cariati sono quindi accompagnate dalle analisi di esperti del mondo sanitario (tra cui Vittorio Agnoletto e Ivan Cavicchi, direttore di Farmaindustria alla fine degli anni ’90), dal sociologo svizzero Jean Ziegler, da Ken Loach, oltre che dai già citati Roger Waters e Gino Strada. Ne emerge un panorama in cui un sistema sanitario pubblico – frutto delle lotte degli anni sessanta e settanta e secondo a livello mondiale solo a quello francese – è stato progressivamente definanziato per rispettare i trattati europei e per creare nuovi mercati nel settore della sanità privata. Come in altri campi, da quello degli interventi militari a quelli della flessibilizzazione del lavoro, i responsabili di questa distruzione sono stati principalmente i governi del centrosinistra.

C’è un passaggio di grande impatto emotivo in cui i cittadini di Cariati simulano una danza sognante. Nelle pieghe dei loro volti segnati dalla fatica della lotta, Greco e Melchiorre sono riusciti a immortalare la speranza in un mondo migliore.

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Questi sono tempi di smascheramenti. Intervista a Valeria Raimondi, infermiera e poetessa in servizio a Brescia https://www.carmillaonline.com/2020/04/15/questi-sono-tempi-di-smascheramenti-intervista-a-valeria-raimondi-infermiera-e-poeta-in-servizio-a-brescia/ Tue, 14 Apr 2020 22:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59428 di Pina Piccolo

Nel contesto del primo mese di quarantena per il coronavirus in Italia, ho spesso pensato a chi è direttamente coinvolto nella cura di chi contrae o può aver contratto il contagio. Tra gli amici che fanno parte del personale sanitario mi è spesso venuto in mente la mia amica poeta e curatrice (in diversi sensi) Valeria Raimondi, della quale ho sempre stimato il senso critico e le capacità organizzative oltre che di scrittura. A giugno del 2019 infatti, sotto la sua curatela, è uscito per Pietre Vive ed. “La [...]]]> di Pina Piccolo

Nel contesto del primo mese di quarantena per il coronavirus in Italia, ho spesso pensato a chi è direttamente coinvolto nella cura di chi contrae o può aver contratto il contagio. Tra gli amici che fanno parte del personale sanitario mi è spesso venuto in mente la mia amica poeta e curatrice (in diversi sensi) Valeria Raimondi, della quale ho sempre stimato il senso critico e le capacità organizzative oltre che di scrittura. A giugno del 2019 infatti, sotto la sua curatela, è uscito per Pietre Vive ed. “La nostra classe sepolta, cronache poetiche dai mondi del lavoro”, progetto che raccoglie poesie di una trentina di lavoratori e lavoratrici distribuiti su tutto il territorio nazionale; progetto presentato, sotto molte forme, in differenti realtà politiche, associative e culturali di molte città italiane. Questa è l’intervista che Valeria ha rilasciato per il programma radio AfroBeat a cura di Wuyi Jacobs, mandata in onda dalla stazione storica di sinistra WBAI di New York l’otto aprile 2020.

Grazie Valeria per aver ritagliato il tempo per questa intervista in questo periodo di intenso lavoro che ti vede direttamente coinvolta ad affrontare l’epidemia come parte del personale sanitario di Brescia.  Presentati per il pubblico e facci un breve quadro delle diverse fasi che tu, le tue colleghe e colleghi avete attraversato dalla fine di febbraio ad ora, in una delle città che costituiscono l’epicentro dell’epidemia.

Mi presento. Vivo a Brescia, una città della regione Lombardia, nel Nord dell’Italia.
Svolgo la professione di infermiera da circa quarant’ anni.
Nella mia quotidiana occupazione, da fine febbraio vivo questa emergenza prestando servizio presso un’Azienda Sociosanitaria che comprende alcuni ospedali situati nell’epicentro dell’infezione.
L’emergenza ha riguardato via via le province di Lodi, Cremona, Bergamo e Brescia. Queste ultime due, confinanti, sono tuttora le provincie che contano il maggior numero di contagiati e morti. Da fine febbraio ad oggi nei luoghi di lavoro tutto è cambiato.
L’evoluzione è stata rapida, anche perché non c’è mai stato un vero piano pandemico.
Negli ospedali si sono susseguite le prime fasi di distanziamento, sono stati introdotti i primi DPI (dei quali poi parlerò) e sono state date le prime convulse risposte alle ordinanze di Governo e Regione Lombardia con chiusure, riaperture e di nuovo chiusure di molti Servizi.
Nel frattempo, sono iniziate le riorganizzazioni dei reparti, ma non viene deciso, per esempio, che i Pronti Soccorsi non possano accogliere, mescolati ad altre tipologie, pazienti con sintomi influenzali o segni di polmonite, e forse questa è stata una miccia buona per innescare la diffusione.
Non viene mai neppure decretata alcuna “zona rossa” che possa contenere e regolare il contagio, come hanno denunciato giustamente alcuni Sindaci. La gravità della situazione diviene via via più evidente e così si saturano Pronti Soccorsi e relative OBI (Osservazione Breve Intensiva) oltre che per le normali attività, per i numerosi accessi di pazienti sintomatici in attesa di ricovero o di isolamento. Alcuni, sempre più numerosi, finiscono nelle Rianimazioni, dove gli operatori e le macchine respiratorie sono già ridotte, visti i tagli di spesa sanitaria pubblica che hanno preceduto questa nuova emergenza.

Descrivici il tuo luogo di lavoro nelle strutture sanitarie di Brescia. Come sono cambiate le cose rispetto alla tua consueta routine di lavoro?

Le cose sono cambiate principalmente sotto due aspetti: l’organizzazione del lavoro e la costante incertezza conseguente all’emergenza.  Una tale situazione pare aver colto impreparati i nostri ospedali che di giorno in giorno hanno modificato procedure e protocolli sulla base delle scelte di Regione Lombardia, scelte spesso neppure uniformi rispetto ai decreti ministeriali e non omogenee rispetto alle altre Regioni (naturalmente ciò che accade dentro gli ospedali rispecchia la confusione di ciò che accade anche fuori). Come si può comprendere, salta la programmazione dei turni lavorativi che da mensile o settimanale diventa giornaliera. Saltano i giorni di riposo e dai primi giorni di marzo anche le ferie del personale vengono bloccate. Le ore straordinarie aumentano oltre l’ordinario.

Dalla mia posizione osservo cambiamenti anche nella attività routinaria, poiché i pazienti affetti da patologie oncologiche, croniche, cardiache, con traumi o emergenze chirurgiche, ancora necessitano di assistenza! La dialisi o le riabilitazioni o le cure salvavita non possono cessare. Ma anche per questa utenza, sia a causa della paura che dei disagi, diventa più critico e rischioso accedere. Tutti gli operatori si rendono conto di altri risvolti: le donne che devono partorire non avranno accanto il compagno perché dalla seconda metà del mese di marzo l’accesso non è più permesso a parenti e neppure agli accompagnatori. Lo stesso accade per i pazienti oncologici. Esiste poi la preoccupazione dei parenti che non possono fare visita ai loro congiunti poiché le visite sono state sospese per tutti i ricoverati. Per chi lavora nel primo soccorso, nelle Terapie intensive o nelle Rianimazioni la situazione è drammatica, le ore giornaliere lievitano, la fatica è tanta, si accumula un senso di impotenza, una grande pressione psicologica e anche tanta rabbia (l’idea che l’”eroismo” possa anche fare a meno del martirio!). Per alcune ragioni, che vedremo, il personale realmente operativo è sempre meno, si ammala o si infetta.

Potresti parlarci della situazione del personale sanitario in generale nella regione? Avete in dotazione apparati di protezione adeguati e in numero sufficiente? Come si spiega la morte di oltre cento tra medici, infermieri e altri operatori in campo sanitario?  

La storia della Sanità della regione Lombardia è piuttosto conosciuta, meno lo è quella dei lavoratori: lo smantellamento della sanità pubblica a favore di quella privata, con l’impoverimento della prima, ha significato minor tutele per tutti, differenze di trattamento economico e di stipendi a parità di funzioni e profili professionali, riduzione di posti letto ma carichi sempre maggiori di lavoro, accumulo di ore straordinarie per lo più non pagate, blocco del rinnovo dei contratti del pubblico impiego, blocco delle assunzioni o assunzioni temporanee (che neppure oggi diventano definitive mentre si reclutano medici pensionati), convenzioni tra pubblico e privato che hanno messo a repentaglio posti di lavoro, con tagli di servizi e di personale. All’interno di questo quadro già compromesso si deve ora affrontare una nuova realtà: neppure la salute e la sicurezza nei posti di lavoro può essere assicurata.

Con la legge 81 del 2008 si era definito il concetto di prevenzione e protezione e, distinguendo le tipologie di rischio, si era proceduto a dotare di specifici Dispositivi di Protezione Individuale i diversi operatori. Ma evidentemente è mancata un po’ di lungimiranza: non si è pensato di rifornire gli ospedali di sufficienti e soprattutto adeguati dispositivi. Il problema dei DPI è stato il primo a presentarsi, sia in termini di carenza che di inadeguatezza. La carenza ha riguardato da subito, quantomeno in questa regione, le mascherine. La dotazione poteva coprire le situazioni normali forse, ma non quelle straordinarie. Il vero problema è che non è mai stato redatto un protocollo unico di intervento. Si comprende immediatamente che scarseggiano le mascherine di classe superiore, ffp2 e ffp3, che inizialmente vengono definite come corrette per assistenza in presenza di infezioni virali epidemiche. Ma ecco che le istruzioni operative del Ministero della Salute e del Welfare della Regione Lombardia di giorno in giorno decadono, cambiano, si complicano.

Le misure di distanziamento definiscono un metro come sufficiente per non avere contatto diretto e così decade l’indicazione dei dispositivi avanzati (anche nelle stanze di isolamento con pazienti positivi e malati talvolta) e resta consentita solo durante particolari manovre, nelle Rianimazioni. Ma le manovre a rischio sono molte e le distanze nei processi di assistenza non sempre sono possibili! Devo dire che da qualche giorno nuovi protocolli contemplano il “possibile” uso di mascherine avanzate in assistenza a pazienti positivi. Si osserva spesso una cosa paradossale: un operatore con mascherina chirurgica che esegue prestazione ad un paziente che indossa una mascherina modello ffp3 mentre dovrebbe essere il contrario. Questa a mio avviso una delle prime cause di una massiccia diffusione del virus tra gli operatori sanitari. Di conseguenza si manifesta il problema “tamponi” come test privilegiato per diagnosticare l’infezione. Un’altra direttiva di poche settimane fa stabilisce che questi tamponi, d’ora in poi non vengano più eseguiti agli operatori che hanno assistito o avuto contatto diretto con pazienti ammalati (o trovati positivi a CoVid-19) ma solo a chi presenta sintomi. Intanto tamponi e quarantena continuano a essere garantiti, se non erro, agli sportivi, ai politici e a quanti sono privilegiati da sempre.

Dalla scorsa settimana, dopo le proteste dei lavoratori e sindacati in alcune Aziende si applica un unico provvedimento: viene rilevata (o chiesto di autocontrollarsi!) ai soli dipendenti, la temperatura corporea, che sotto i 37,5 gradi viene definita accettabile e la persona considerata “asintomatica”. E questa oggi è la prevenzione. Così cresce in modo esponenziale il numero di sanitari che si ammalano e purtroppo qualcuno di loro muore. I luoghi in cui si doveva curare sono diventati luoghi del contagio per pazienti e lavoratori.

Potresti parlarci dei tagli alla sanità pubblica, il rapporto tra il pubblico e il privato in ambito sanitario e quali sono stati gli effetti dei governi di destra che si sono susseguiti negli anni?  Abbiamo assistito a processi simili anche nelle altre regioni?

Certamente Regione Lombardia, come altre regioni del nord Italia, ha una grande responsabilità nello smantellamento del welfare sanitario, grazie alle gestioni dei partiti di centrodestra dei quali Formigoni è stato regista sin dal 1997.  Allora, grazie alla legge che aveva come principio ispiratore la “sussidiarietà solidale” allo scopo di uniformare l’offerta sanitaria ossia di realizzare la tanto desiderata autonomia, i privati entrarono prepotentemente nel Servizio Sanitario Regionale, supportati e foraggiati dal pubblico, riservando per sé i settori più remunerativi dell’assistenza. Si assicurarono così minimi costi e impegni per massimi profitti.

I privati si prendono, per esempio, le Residenze Socio-Assistenziali o le Riabilitazioni, lasciando al pubblico la gestione di settori meno redditizi quali i servizi di pronto soccorso, alcune costose specialità, la psichiatria. Dentro questa gara il pubblico si vedrà tagliare migliaia di posti letto con un continuo impoverimento sia in risorse materiali che umane. Vengono ridotti anche i controlli regionali sulle strutture accreditate, molti servizi vengono esternalizzati, si rende libera l’intramoenia, ossia l’esercizio della libera professione dei medici dipendenti delle strutture pubbliche (che diventa il modo più semplice per ovviare, per chi può pagare, alle liste d’attesa che si allungano proprio sotto la gestione Formigoni). Contemporaneamente si ha l’occupazione dei posti strategici nella macchina sanitaria regionale da parte di uomini adatti e fedeli.

Queste scelte di autonomia hanno anche un retroterra ideologico che si è manifestato nella distruzione della rete dei consultori pubblici e che si concretizza anche in altri settori (ne è un esempio il massiccio finanziamento alle famiglie che scelgono le scuole private). Le gestioni regionali d’altra parte hanno potuto contare sulla libertà di azione consentita da gran parte del centrosinistra, sotto forma di compartecipazione al potere attraverso accordi e concessioni di convenzioni. Ora come ora l’emergenza Coronavirus non è certo redditizia per i centri privati: convertire una clinica in cui si fanno costose operazioni o si fanno pagare, per una camera, prezzi esorbitanti, non conviene. Da qui anche il problema del minor controllo su situazioni, dati, sicurezza del personale perché meno controllo pubblico, si sa, significa poter insabbiare molte più cose. Ora sappiamo che i focolai nascosti nelle strutture private sono stati un veicolo di contagio, così come alcune residenze per anziani.

Qualcuno si chiede se esista ancora il Servizio sanitario nazionale. Pare che in questa situazione ogni Regione decida da sola anche se trasferire o meno del personale sanitario in zone particolarmente esposte. Forse era importante che almeno le regioni Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte costruissero una politica comune e forse il Governo avrebbe potuto e dovuto vigilare che queste autonomie gestionali non diventassero un ostacolo alla cura dei pazienti.

Come sono cambiate le cose a Brescia, nella città e nella provincia nel loro insieme?

Nella nostra città e nella nostra provincia tutto è cambiato radicalmente, come in quasi tutto il paese, anche se chi vive lontano dal contagio percepisce più un senso indefinito di paura cui non crede fino in fondo che un senso di responsabilità. La socialità è completamente venuta meno e dirottata sui social, si lavora e si studia da casa (con tutte le implicazioni che poi cercherò di analizzare) e anche fare la spesa o raggiungere la farmacia diventa un problema soprattutto per i soggetti più fragili o meno consapevoli. Oltretutto le misure di contenimento derivanti dai provvedimenti di limitazione delle uscite, in continuo aggiornamento, non sono sempre di facile e chiara interpretazione. Ma quello che vorrei sottolineare, rispetto agli operatori sanitari o appartenenti a categorie a rischio per contatti giornalieri intensi, è come siano stati lasciati soli a gestire il proprio autoisolamento all’interno delle famiglie (sempre perché i controlli sono negati nonostante le costanti richieste di lavoratori e Sindacati).

Inoltre, la produzione di beni (anche non essenziali!) non è mai cessata nel bresciano o nel bergamasco. I diktat di Confindustria e le sue pressioni sui Governi, piuttosto sensibili alle esigenze del profitto, hanno allargato le maglie delle attività ritenute essenziali. Così gli operai continuano a recarsi in fabbrica e chi viene separato nei reparti (dove i DPI sono insufficienti e riciclati per giorni) si ritrova poi assembrato negli spogliatoi o nelle mense: ovviamente queste persone la sera rientrano in famiglia diventando così veicolo di infezione. Sono cambiate molte cose soprattutto per i nostri anziani che si vedono iperprotetti dalle misure di contenimento, ma poco coinvolti e molto esposti quando si bloccano i ricoveri, oppure costretti a rinunciare alle consuete abitudini, a non uscire all’aperto, a non ricevere visite, ma a vivere comunque nella stessa casa dei lavoratori e dei potenziali vettori di infezione.

Offrici uno squarcio sulla tua vita quotidiana durante questa quarantena. Abbiamo visto le immagini dei convogli militari che portano via le bare per la cremazione in altre città visto che non c’era più posto nel crematorio di Bergamo.  Qual è stato l’impatto di questa morte diffusa e brutale sulla popolazione locale e nazionale?

Le giornate si susseguono uguali e lentissime, tutto è come sospeso. I paesi sono deserti, le code per la spesa alimentare e la farmacia sono le uniche uscite consentite insieme a quelle per recarsi nei luoghi di lavoro. Ma vorrei qui fare un altro tipo di riflessione. Personalmente, come molti credo, vivo una dimensione che conosco: quella dei periodi di totale sospensione durante le lunghe malattie delle persone care. Le energie sono tutte lì (e sono sorprendentemente richiamate e riscoperte), si sta dentro la situazione, non se ne può stare lontani, si tentano cure, si allevia ciò che si può alleviare, si sogna la guarigione, ci si fa forza. Ma ora manca il sostegno esterno delle relazioni, si vive l’angoscia in solitudine, con pochissime distrazioni, senza respiro, senza l’aiuto della presenza ferma e rassicurante di ciò che la natura intorno, gratuitamente sempre regala.
Credo che la paura sia un’emozione legata al pericolo, mentre l’ansia, l’angoscia, altri sentimenti comuni e attuali, derivino dal senso di impotenza di fronte agli errori, alle contraddizioni e alle lacune di questo sistema ritenuto un “modello”, ma che, al contrario, mette ulteriormente in pericolo. Dell’angoscia si nutre la rabbia, rabbia per qualcosa di profondamente ingiusto come le scelte scellerate del passato o come l’informazione manipolata di sempre.
Chi perde o ha perduto qualcuno è costretto a vivere un surplus di dolore non rielaborabile, un dolore senza dolcezza, “che dura”: spesso le condizioni di chi ha contratto il virus peggiorano improvvisamente e allora il ricovero è tardivo, ci si saluta ed è possibile non ci si veda più. Viene restituita… una bara che verrà portata a chilometri di distanza e qualcuno dovrà attendere giorni e mesi perché la procedura di cremazione possa essere eseguita e si possa finalmente… piangere.

Potresti raccontarci quali sono le tue preoccupazioni nei confronti delle misure di contenimento, il distanziamento sociale, la salute mentale e tutte le altre implicazioni politiche e sociali che ne derivano?

Personalmente rifletto anche sulle possibili implicazioni o emergenze che deriveranno da questa situazione. La cosa più grave ritengo sia non aver testato la popolazione a rischio di contagio, ossia non aver immediatamente e sistematicamente separato di volta in volta i casi positivi da quelli negativi. Le ricadute a pioggia sono state: sovraffollamento dei Pronti Soccorsi prima e delle Terapie Intensive poi (con conseguente tentativo di dissuadere dal ricovero i sintomatici lievi, le cui condizioni però sono precipitate rapidamente); abbandono del territorio per scarsa disponibilità dei medici curanti a valutare e visitare a domicilio, anche in mancanza di un vero piano di intervento (medici costretti dentro questo sistema, a definirsi negli anni più come impiegati che come clinici); abbandono del territorio per trasferimento di personale da lì ai reparti di isolamento (ridurre del 70-80 per cento le forze in campo nell’assistenza domiciliare, con pazienti mai diagnosticati o non in grado di seguire correttamente l’isolamento, ha significato lutti devastanti per molte famiglie); ricoveri tardivi di anziani, isolati nei reparti e nelle terapie intensive costretti a vivere gli ultimi momenti della vita senza la presenza di un parente con cui condividere paura e dolore, ma anche ricordi e affetto.

Ritengo che essere stati costretti a vivere il processo e percorso di fine-vita in questa maniera brutale lascerà gravi ripercussioni psicologiche personali e purtroppo, collettive. Vorrei aggiungere che le politiche di limitazione alle possibilità di uscite e spostamenti, certamente necessarie in linea generale, non gioveranno certo alle future dinamiche familiari, soprattutto laddove queste erano già compromessa da relazioni di potere (di uomini sulle compagne o di adulti su minori). Non gioveranno neppure a chi soffre di ansia o depressione; si notano, per fare un altro esempio, gli aumenti spropositati di consumo di alcoolici e la chiusura dei centri di “automutuoaiuto”.

Questi sono alcuni degli aspetti minori che non ho mai smesso di considerare con preoccupazione e angoscia dall’inizio di questa storia “sbagliata”. Penso anche al ricorso allo Smart Working, molto più diffuso, ovviamente, tra le lavoratrici che tra i lavoratori: ci si dovrà augurare non diventi, nel futuro, una modalità alternativa o addirittura sostenuta nelle politiche del lavoro (questo rischio è presente come lo è nella scuola a distanza!). Queste solo alcune delle possibili ripercussioni sulla socialità, sui sistemi educativi e sulle relazioni sociali. Ma anche molti altri equilibri salteranno. Per questo dico che oltre l’emergenza sanitaria ed economica forse doveva essere considerata e affrontata da subito l’emergenza sociale.

Cosa pensi si possa fare ora, non solo per per correggere gli errori, ma per fare in modo che nessuno venga lasciato indietro, specialmente in un momento in cui il governo invoca come immagine del paese la locuzione “siamo tutti nella stessa barca” mentre a livello di lessico promuove metafore belliche piuttosto che termini legati alla salute pubblica?  

Questa risposta si lega in qualche modo alle riflessioni precedenti. L’utilizzo di un gergo diffuso di tipo militare, “di guerra”, rivela la volontà di convincerci a riconoscere una causa o un nemico esterno a questi accadimenti. Ciò è chiaramente funzionale allo scaricare colpe piuttosto che a prendersi responsabilità del fallimento e dei danni di cui è responsabile questo sistema che si comincia a manifestare come “criminale”, grazie anche all’idea di autonomia regionale che sopravvive da decenni in una destra prima secessionista e federalista, ora sovranista e fascista, o in una certa parte di sinistra, complice. Vorrei anche aggiungere, a proposito di autonomie, che in questa regione, tra le più inquinate d’Europa, siamo stati particolarmente esposti a veleni ambientali e che nella pianura Padana è presente un certo tipo di desertificazione e un consumo spropositato di territorio, a causa di scelte scellerate da parte di tante parti politiche. Credo che non sia di poca importanza, insieme alla industrializzazione intensiva, nella genesi della diffusione,

Direi che questi, a voler bene leggere i fatti, sono tempi di “smascheramenti”!
In guerra, forse pare di essere tutti uguali, tutti sulla stessa barca. Ora non è così
In questi tempi di emergenza, affrontata con queste responsabilità, le ingiustizie sociali si acuiscono. Chi non può farsi curare, chi non ha soldi per una badante, chi non ha spazi adeguati in casa, chi ha un lavoro precario, chi è solo, avrà danni maggiori. Nessuno è uguale oggi, nessuno lo sarà domani.

Il tema della guerra è anche collegato fortemente al tema della sicurezza e della difesa.
Ecco che il senso di responsabilità sia personale che collettivo, che nessun cittadino nega rispetto alle misure di contenimento (ossia il restare tutti a casa), potrebbe diventare un alibi per scaricare ogni responsabilità di fallimento o di successo sui cittadini stessi, i quali dovrebbero essere chiamati a scegliere la vita o la sicurezza (la sicurezza verrà garantita al confine dei comuni e regioni da controlli, oltre che da parte delle forze dell’ordine, anche da quelle dell’Esercito, con alcuni bravi cittadini collaboranti).

Concluderei così.
Dover scegliere tra vita e libertà è un falso.
Perché i due concetti, sia nel pensiero che nel concreto, dipendono da un’analisi dell’attualità costruita su un passato che non ha ragionato e neppure custodito le due cose.
Io penso che le elaborazioni di lutti, di perdite, ma anche di cambiamenti, si costruiscano “oggi”, si facciano “dentro l’emergenza” e non “dopo”.
Si fanno con un pensiero critico e collettivo.
Ossia, dal modo di affrontare un’emergenza dipende la ricostruzione del dopo.
L’errore peggiore è pensarla, e dunque affrontarla, a compartimenti stagni.
Dobbiamo fare attenzione: l’emergenza affrontata senza un pensiero critico, sarà anche emergenza politica, sociale e psichiatrica.

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L’autonomia operaia romana https://www.carmillaonline.com/2017/06/27/lautonomia-operaia-romana/ Mon, 26 Jun 2017 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39092 di Giovanni Iozzoli

G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomiVolume IV. L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017, 224 p., € 18.00

Derive Approdi ha dato alle stampe il quarto volume della serie Gli autonomi. L’intento è quello di approfondire il racconto di una stagione politica, stringendo il focus in modo più serrato sui territori – a partire da quello romano. I curatori del volume sono Giorgio Ferrari e G.Marco D’Ubaldo, storici referenti di due realtà cruciali della piazza romana: i Comitati Autonomi Operai e il Comitato dell’Alberone.

La scelta di indagare [...]]]> di Giovanni Iozzoli

G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomiVolume IV. L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017, 224 p., € 18.00

Derive Approdi ha dato alle stampe il quarto volume della serie Gli autonomi. L’intento è quello di approfondire il racconto di una stagione politica, stringendo il focus in modo più serrato sui territori – a partire da quello romano. I curatori del volume sono Giorgio Ferrari e G.Marco D’Ubaldo, storici referenti di due realtà cruciali della piazza romana: i Comitati Autonomi Operai e il Comitato dell’Alberone.

La scelta di indagare la “territorialità” delle esperienze dell’autonomia, è senza dubbio adeguata. Non c’è ricostruzione o ragionamento politico sulle “autonomie”, che possa prescindere da questa dimensione – e questo, oltre che per l’oggettività delle vicende storiche, anche per una teorizzazione largamente condivisa in quegli anni: territorio voleva dire lettura della composizione di classe, costruzione degli elementi di programma, adeguamenti dei livelli di organizzazione e di nuovo ricaduta sui territori. “Territorio” voleva dire terreno di verifica costante delle ipotesi di partenza. E non si trattava dell’ideologica suggestione del “riprendiamoci la città”: era piuttosto faticosa e dirompente costruzione quotidiana di vertenze (territoriali, appunto) che dessero al discorso sull’autonomia, gambe sociali e radicamento.

Il tono del libro si sottrae a ogni amarcord compiaciuto: si sta leggendo la storia a partire dal presente e gli autori, al di là delle vicende biografiche personali, si sentono attivamente parte in causa di una vicenda politica non chiusa, quanto piuttosto traslata e rovesciata sui giorni nostri.

Roma capitale, Roma epicentro politico, nel bene e nel male. Giusto partire dalla sua area autonoma: perché nell’arena romana i ragionamenti sulla metropoli come declinazione della nuova composizione di classe, hanno trovato il loro terreno di pratica più avanzato. Per capirlo, basterebbe avere fra la mani qualcuno dei documenti di rinvio a giudizio relativi ai molti processi contro l’autonomia operaia romana: nelle carte giudiziarie – preziosi strumenti di memoria politica, a saperli leggere – erano puntigliosamente elencati dai magistrati decine e decine di organismi autonomi con le loro sigle, i loro insediamenti sociali, i loro presunti organigrammi, e già solo quelle mappe giudiziarie renderebbero conto di quanta e quale ricchezza rivoluzionaria si stesse parlando.

I curatori del volume ricostruiscono efficacemente il quadro storico dell’Italia – e della sua capitale – agli inizi del decennio 70. In quel contesto maturano alcune condizioni precise, che costituiranno l’humus di crescita dell’autonomia a Roma:
– sul piano soggettivo la decantazione della breve stagione dei gruppi, che libera energie di migliaia di militanti;
– la lotta per la casa, da sempre cruciale in un territorio che dal dopoguerra subisce una costante pressione demografica e un impetuoso sviluppo del ciclo dell’edilizia;
– la lotta nella sanità pubblica e nel comparto elettrico, con la preziosa saldatura tra mobilitazione operaia e diritti delle utenze;
– la presenza delle istanze centrali del PCI e della CGIL, al massimo della loro egemonia, eppure già avviate verso il logoramento della stagione dei sacrifici e della repressione dei movimenti;
– l’antifascismo, in una città in cui la memoria e la presenza fascista, trent’anni dopo la fine della guerra è ancora vivissima (basta rileggere l’autobiografia di Giulio Salierno, per cogliere il senso di quella persistenza tumorale nella capitale).

È attraversando questi terreni – dentro passaggi concreti, tutti giocati nella dimensione di massa –, che si sviluppa la formazione degli organismi autonomi romani: esperienze che fin dalla fondazione portano dentro di sé lo sforzo testardo di ricomposizione dell’agire politico e di quello sindacale, la cui separatezza, nella progressiva elaborazione soprattutto dei Volsci, è giudicata come ostacolo allo sviluppo di una moderna prospettiva rivoluzionaria.

Nel giro di pochissimi anni collettivi e comitati di quartiere – vedi l’emblematica vicenda dell’Alberone – compongono una rete cittadina vivissima e magmatica che attraversa tutte le dimensioni del conflitto metropolitano: l’organizzazione delle lotte incoraggia la spontaneità dell’invenzione proletaria, che a sua volta si organizza e rilancia il processo.

Di notte non era poi così difficile imbattersi in un piccolo gruppo di persone che trainava masserizie verso qualche palazzo disabitato, a volte neanche ultimato, cercando di non farsi beccare dalla polizia. Il fenomeno era talmente vasto e inusitato per una grande città, che finì addirittura in un servizio del settimanale Time (p.85)

E questo significava che, al di là delle campagne e delle grandi lotte organizzate dalla sinistra extraparlamentare, vigeva nei quartieri e nel corpo sociale proletario un’illegalità di massa diffusa, la cui domanda di organizzazione era propriamente la ragion d’essere dell’autonomia.

L’autonomia operaia romana nasce e cammina sulle due gambe della pratica sociale: lavoro e territorio. L’organizzazione politica dei Volsci, in particolare, è espressione diretta di realtà provenienti dal mondo del lavoro salariato:

Fatta eccezione per alcuni studenti di medicina che operavano all’interno del Collettivo Policlinico (e che ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo delle lotte) quegli organismi erano composti esclusivamente da lavoratori: impiegati, tecnici amministrativi, operai. Proprio così: operai, che avessero il camice da infermieri, la divisa da portantino o la tuta dell’Enel erano forza lavoro sfruttata come gli altri che stavano in fabbrica, anche se non avevano le “stimmate” delle mani callose. Fu un tratto distintivo dei Volsci quello di imporre all’attenzione del movimento quelle figure snobbate dagli esegeti della classe operaia, quasi che fossero improduttive o parassite, comunque ritenute marginali rispetto all’interpretazione del conflitto capitale lavoro (p.59)

Quindi: naturale acquisizione del carattere socialmente dispiegato dello sfruttamento capitalistico, naturale considerazione del carattere “operaio” di questo lavoro sociale.

Lavoro e territorio, dicevamo: nel corso degli anni 70 romani, alcuni quartieri, vedi Centocelle o San Basilio, liberano il massimo del loro potenziale, in una specie di continuità carsica del conflitto, che persiste dal dopoguerra – occupazioni, autoriduzioni, rivendicazione di trasporti, servizi, socialità alternativa.

Mettere in rete questa proliferazione, non è semplice: si inventano strumenti nuovi – come l’Assemblea cittadina dei comitati operai e di quartiere -, tutti esperimenti faticosi, che vivono di unità, rotture, ricomposizioni, tessuti quotidianamente col filo delle lotte e delle vertenze.
Il metodo dell’autonomia romana, davanti a questa ricchezza sociale, è sempre il medesimo: dalla masse alle masse, perché autonomia vuole dire anzitutto rottura della cattiva dialettica tra presunte “avanguardie esterne” e classe.

Accadeva infatti in quegli anni che un avanguardia colta ed edonista andava sovrapponendo la sua Weltanschauung alla storia reale di un paese mancato… Le concezioni negatrici in origine di un processo di emancipazione proletario indipendente e della capacità della masse di darsi una propria organizzazione autonoma, erano largamente diffuse tra le avanguardie di allora (p.47)

L’Autonomia nasceva come rovesciamento di queste concezioni, che erano eredità non solo dal revisionismo, ma anche del ceto politico del 68.

Giorgio Ferrari descrive i Volsci come un laboratorio dell’ortoprassi sociale, in cui però regnava il gusto dell’eterodossia teorica:

Nell’epoca del post-comunismo mi sento ancora marxista e autonomo: per questo, quando nei primi anni 70 incontrai i compagni del Policlinico e dell’Enel che erano usciti dal Manifesto, per me fu un sollievo. Finalmente potevo esprimere i miei dubbi sull’esperienza comunista senza essere guardato con sospetto; finalmente facevo assieme ad altri quelle riflessioni politiche a cui i rivoluzionari non dovrebbero mai sottrarsi (p.20)

La crisi del paradigma comunista, nella maturità dello sviluppo e della crisi capitalistica degli anni 70, è già palese, per chi voglia vederla, nonostante le piazze piene e i pugni chiusi: l’autonomia operaia era anche il terreno su cui tale dibattito poteva liberarsi con più franchezza.
L’esatto opposto di quelle componenti gruppettare in cui regnava l’ortodossia più conformista, le quali, negli anni della sconfitta, passarono dalla sera alla mattina dall’altra parte della barricata, lasciando dietro di sé le loro sicurezze dogmatiche come una vecchia pelle di serpente – e continuando magari a predicare con la medesima sicumera, le magnifiche e progressive sorti del riformismo anni 80…

La prima metà degli anni 70, vedono l’autonomia romana in prima fila nel tentativo di stabilizzare ipotesi di lavoro politico nazionale. Non è facile, proprio perché alcune esperienze sono a forte caratterizzazione politico-ideologica, mentre altre vivono una dimensione essenzialmente sociale – e non è scontata la condivisione di linguaggi e campagne.

Il rapporto che i Comitati Autonomi Operai provano a consolidare è sull’asse milanese con Rosso, che per un periodo diventa anche rivista nazionale (con via dei Volsci redazione romana). Ma la stagione dell’autonomia milanese è una fiammata che nasce più tardi e si consuma prima, rispetto alla solidità dell’esperienza romana. Differenze radicali di lavoro politico, diventano ostacoli alla costruzione di un punto di vista nazionale: Rosso, sotto la guida di Negri, spinge molto sulla retorica dell’operaio sociale e su una progressiva centralizzazione di struttura, funzioni e direzione politica. Per i Volsci, l’acquisizione del carattere sociale dello sfruttamento capitalistico è una consapevolezza quotidiana che non ha bisogno di conferme o forzature – né teoriche né in termini di costruzione del partito. A Roma, anche nei momenti più alti del conflitto, si preferisce organizzare la vertenzialità diffusa del lavoro sociale sul territorio, non ritenendo matura alcuna credibile “dualistica dei poteri”. Nella rievocazione dei curatori riecheggia ancora la polemica di parte romana verso una torsione intellettualistica, ideologica e soggettivista, che segnerà pesantemente il laboratorio milanese e il suo tracollo.
Il dibattito tra le diverse anime nazionali diventerà rottura. Ma ormai siamo già alle soglie dei tre passaggi chiave che determineranno il senso di quella stagione e il suo declino: la fiammata del 77, il rapimento Moro e la grande ondata repressiva che comincia il 7 Aprile 79 e proseguirà ben oltre la metà degli anni 80.

Dentro questa potente storia di emancipazione e rivolta, scorrono le vicende umane di una generazione di militanti: gli arresti ripetuti di Pifano, Miliucci e decine di altri quadri dirigenti, la chiusura di Onda Rossa e dei Volsci ad opera di Cossiga, le lotte dei disoccupati organizzati della legge 285, migliaia di appartamenti occupati, l’intervento nell’Irpinia terremotata, i cicli di autoriduzione, le lotte per i servizi e una pressione costante sulla spesa pubblica, colta efficacemente nella sua dimensione di salario sociale.

La stagione della gestione dei processi politici e della dissociazione, dividerà ulteriormente i destini delle diverse componenti organizzate: davanti allo tsunami repressivo i Comitati Autonomi Operai esprimeranno una capacità di tenuta, che altri non riuscirono a marcare. Rosso e tutte le esperienze dell’autonomia milanese scompariranno sul finire degli anni 70 stritolati dalla repressione e dalla deriva clandestina. Il ceto politico-intellettuale autonomo si frammenterà in scelte e opzioni non sempre dignitose, tra dissociazioni, conversioni istituzionali e pelosi innocentismi (curiosamente il libro non ricorda la contestazione furiosa della piazza romana al comizio “radicale” di Toni Negri: un episodio minore, che dà però la misura di quanto fossero cambiati i termini del dibattito politico, dentro la sinistra rivoluzionaria, nel breve volgere di pochi anni…).

Di fatto, all’inizio degli anni 80, le uniche soggettività autonome sopravvissute alla bufera del 7 aprile e alla sconfitta di classe, sono l’area romana e il polo veneto: due realtà che conviveranno per un decennio nel Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista, in una testarda dialettica (di unità e competizione…), che segnerà positivamente anche le grandi campagne di quegli anni contro le carceri speciali e la tortura, il contrasto al Piano Energetico Nazionale, le battaglie internazionaliste, dall’America Latina alla Palestina.

I Comitati Autonomi Operai, per tutto il decennio 80, saranno il punto di riferimento nella faticosa opera di ricostruzione di un tessuto nazionale, soprattutto per i giovani gruppi del centro sud.

non avremmo potuto reggere l’impatto della repressione di quegli anni bui senza la convinzione di migliaia di militanti e la solidarietà dei quartieri proletari… e questa non scaturiva da un cenacolo di teste pensanti, ma da un radicamento sul territorio che non aveva precedenti e dove le lotte costituirono la migliore scuola quadri che avremmo potuto immaginare (p.125)

Troppe cose, però, stavano rapidamente cambiando: riprodurre se stessi e le proprie forme non è nel DNA autonomo; l’autonomia non sa e non può darsi come cristallizzazione, come preservazione della memoria – è un processo in movimento che impone di stare un passo avanti, inventare nuovi paradigmi, bruciare sempre i ponti alle proprie spalle. Anche su Via dei Volsci e la piazza romana, incombono gli anni 90: la Seconda repubblica incalza, il sistema dei partiti crolla, i blocchi sociali tradizionali vanno sfaldandosi, il capitalismo italiano diventa terreno di scorribanda multinazionale, sempre più marginalizzato nella divisione internazionale del lavoro e dei capitali. Ma questa è già storia di oggi.

Nella mutata situazione politica e sociale, i comitati autonomi operai vanno senza drammi e clamori verso l’autoscioglimento: nel 1992, nel corso di una discussione pubblica e collettiva, la maggior parte degli autonomi romani sceglie di considerare esaurita la funzione dell’organizzazione dei Comitati autonomi («vent’anni erano davvero troppi», dice Ferrari).
L’orizzonte è una nuova immersione nelle due ipotesi di lavoro che si erano sedimentate nel corso degli anni 80: la costruzione dei Cobas e le occupazioni autogestite, come elemento di ri-radicamento nel mondo del lavoro e nel territorio.

Storia aperta, quella dell’autonomia.
Storia sospesa, forse – per quello che non si riuscì a fare e per quello che non si è ancora riusciti a dire.

che fare delle nostre vite non ci sembra affatto scontato. Non pensiamo che a risolvere il problema basti la stesura di un programma comune – che già a redigerlo significherebbe aver messo a confronto analisi e prospettive – se non si rende almeno manifesta l’intolleranza a questo presente, senza nasconderci le difficoltà e senza remore nel dirci come la pensiamo. Ed è questo il tratto distintivo che tanti anni fa, ci ha fatto riconoscere l’uno nell’altro prima ancora di incontrarci. L’intolleranza al presente ci ha fatto incontrare, la volontà di cambiarlo ci ha fatto riconoscere compagni nella vita e nella lotta. Senza questo legami umano e politico, senza questa complicità nel vivere insieme un’avventura estrema fino a mettere la propria vita nella mani dell’altro, saremmo stati un’altra cosa (p. 194)

Che fare delle nostre vite, non ci sembra affatto scontato. Un’affermazione che suona tutt’altro che esistenziale e individualista, una domanda di senso che rimbalza di generazione in generazione, si rovescia sul presente, interroga il futuro. Una propensione molto “autonoma” nel cercare le vie nuove della prospettiva rivoluzionaria.

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Mettere le mani nella merda https://www.carmillaonline.com/2016/07/28/mettere-le-mani-nella-merda/ Wed, 27 Jul 2016 22:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32155 di Sandro Moiso

coop connection 1 Antonio Amorosi, COOP CONNECTION. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Chiarelettere editore, Milano 2016, pp. 290, € 16,90

Se non fosse che l’elegante espressione contenuta nel titolo è utilizzata da un rappresentante del “sistema” Coop per definire la capacità di certi dirigenti del PCI – PDS –PD, anche di alto e altissimo livello, di esporsi pur di fare gli interessi del Partito e/o della rete di attività economiche e finanziarie ad esso legate attraverso le Coop, ci sarebbe da dire che l’autore, per redigere il testo da poco pubblicato da [...]]]> di Sandro Moiso

coop connection 1 Antonio Amorosi, COOP CONNECTION. Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela, Chiarelettere editore, Milano 2016, pp. 290, € 16,90

Se non fosse che l’elegante espressione contenuta nel titolo è utilizzata da un rappresentante del “sistema” Coop per definire la capacità di certi dirigenti del PCI – PDS –PD, anche di alto e altissimo livello, di esporsi pur di fare gli interessi del Partito e/o della rete di attività economiche e finanziarie ad esso legate attraverso le Coop, ci sarebbe da dire che l’autore, per redigere il testo da poco pubblicato da Chiarelettere, ha dovuto immergere più che le mani in un intreccio di interessi ed attività che quasi mai è stato così potentemente indagato e scoperchiato.

Antonio Amorosi, coautore nel 2008-2009 del libro «Tra la via Emilia e il clan» sulla presenza della criminalità organizzata in Emilia Romagna, 1 è stato assessore alle politiche abitative del Comune di Bologna per la giunta Cofferati tra il 2004 e il febbraio 2006. Ruolo da cui si è dimesso dopo aver denunciato2 un sistema illecito nelle assegnazioni delle case popolari del Comune di Bologna. Da anni si dedica al giornalismo di inchiesta e collabora con diversi quotidiani, riviste e radio nazionali.

Occorre qui subito dire che, nel prendere in mano il libro, il lettore si troverà davanti a pagine dense (a volte fin troppo) di dati, nomi, fatti e cifre che rendono il testo paragonabile ad una sorta di Gomorra delle attività lecite o meno della struttura economico-finanziaria sviluppatasi intorno a quel sistema di governo che ha fatto dell’Emilia Romagna, soprattutto, la vetrina della proposta sociale e politica di quello che è stato, prima, il più grande Partito Comunista dell’Occidente e, poi, il successivo PDS-DS-PD.

L’analisi copre soprattutto il periodo che va dagli anni ’80 ai giorni nostri, ma per fare ciò l’autore non può esimersi dal lanciare uno sguardo sul mondo delle Coop rosse e bianche fin dal secondo dopoguerra e nel corso dei decenni successivi. Ricostruendo un percorso che inizia con la “conquista” di Legacoop da parte di Guido Cerreti, voluto alla sua presidenza dal Segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1947.

Cerreti, tra i fondatori del Partito comunista, decorato dall’Unione Sovietica con l’Ordine della bandiera rossa e la Medaglia della vittoria, è contemporaneamente presidente di Legacoop e parlamentare del PCI […], rimane ai vertici di Legacoop fino al 1962. Deputato fino al 1963, passa poi al Senato, dove resta fino al 1968, infine esce di scena […] Da allora fino ad oggi, può raggiungere i vetici di Legacoop solo chi ha avuto la tessera del Pci, Pds, Ds e Pd e quasi sempre ha fatto il parlamentare o il politico ad alti livelli” (pp. 76-77)

Quello che salta però agli occhi è che dall’iniziale controllo del Partito sulle Coop e le altre attività associate si è passati ad una sorta di controllo delle Coop sul Partito. Tanto che, ancora e soprattutto oggi, molte beghe interne al PD, travestite sapientemente da scontro tra dirigenza e minoranza, altro non sembrano riguardare che uno scontro tra differenti fazioni all’interno del mondo delle cooperative.

Un mondo che costituisce “uno dei cardini dell’economia italiana che pesa 151 miliardi di fatturato, l’8 per cento del Pil, e che dà lavoro a più di un milione e centomila persone. Un universo economico che vale più del Prodotto interno lordo dell’intera Ungheria […] Dove «fare il bene» è una dialettica commerciale che fa crollare qualsiasi muro e sa inglobare ogni cosa. Al punto che, come scrive Mediobanca, le coop guadagnano più dalla finanza che dalla vendita delle merci.” (pag. 7)

E’ chiaro che degli ideali socialisti e di mutuo soccorso che avevano accompagnato la formazione di cooperative di produzione e distribuzione all’interno del movimento operaio dell’Ottocento è rimasto poco o nulla. E quel poco e nulla rimane soltanto a livello di facciata, così come il richiamo ai valori della Resistenza. Questi ultimi, soprattutto, presenti se possono servire a dimostrare che qualche importante rappresentante (ad esempio Oscar Farinetti di Eataly) ha avuto rapporti famigliari e/o di Partito con protagonisti del mondo partigiano.

Se tutto questo, come dimostra in maniera ben documentata il testo, si limitasse ad una conseguente spartizione interna dei finanziamenti distribuiti dalle varie aziende del settore in occasione delle campagne elettorali dei vari esponenti del Partito ci sarebbe comunque da arricciare il naso, ma rientrerebbe nei canoni di una lobbystica che accompagna da sempre le logiche elettoralistiche del parlamentarismo borghese.

In realtà, però, lo scambio di favori tra aziende della grande distribuzione, banche di credito cooperativo, cooperative di servizi e cooperative di produzione (soprattutto del settore edilizio) e mondo politico ha finito quasi col determinare i programmi politici e le priorità economiche di quasi tutti i governi degli ultimi anni. Dalle Grandi Opere al Jobs Act, dalla gestione dell’”emergenza immigrazione” al salvataggio delle banche attraverso la rovina dei piccoli risparmiatori, dalla raccolta ed eliminazione dei rifiuti urbani e tossici all’organizzazione dei servizi alla persona, tutto sembra essere determinato da ciò che il modo della cooperazione ritiene prioritario.

C’è però anche un altro aspetto che Amorosi sottolinea con insistenza ed abbondanza di particolare e di dati: la stretta connessione, che l’inchiesta Mafia capitale sembra aver per la prima volta disvelato, tra attività svolte da cooperative e criminalità organizzata sul territorio, anche se le interconnessioni tra mondo delle coop e mafie sembrano risalire, a detta del testo in questione, almeno dalla fine degli anni ’50, soprattutto nel settore dell’edilizia.

Dall’Expo al Mose, da Mafia capitale alla Grande distribuzione, dai cantieri della Tav in Val di Susa sono troppi i casi in cui imprese targate coop, come Cpl Concordia, risultano inquinate da rapporti con la criminalità organizzata e dalla corruzione. La crisi economica li fa emergere nonostante lo storytelling della sinistra, l’affabulazione che ieri si chiamava propaganda di partito. Per non parlare dei risparmi di molti soci affidati alle coop e andati in fumo in seguito a spericolate operazioni finanziarie […] O dei contratti da fame e delle condizioni capestro cui sono costretti molti giovani lavoratori. Un «sottomondo» di schiavi invisibili, manovalanza dell’agroalimentare, nella logistica, nel facchinaggio. Schiavi anche grazie a un articolo del Jobs Act voluto da Renzi e dal ministro del Lavoro – l’ex presidente di Legacoop Giuliano Poletti – e passato nell’indifferenza generale, che abroga il reato di intermediazione fraudolenta di manodopera, il cosiddetto caporalato” (pp. 7-8)3

Ma a cosa è dovuta la forza dello storytelling teso a giustificare ogni scelta delle consociate di Legacoop? Sintetizzando,in una sorta di “noi siamo i buoni”, quelli responsabili, impegnati nel sociale, che agiscono soltanto in base a nobili principi e ideali. Quei “Buoni” che Luca Rastello, nel suo ultimo, straordinario romanzo di denuncia aveva così umanamente e lucidamente stigmatizzato.4 E il riferimento al libro di Rastello non è casuale poiché anche l’associazione Libera di Don Ciotti fa parte della galassia derivata dall’universo coop.

Un universo in espansione costante che dalla grande distribuzione dall’edilizia si è esteso alle banche, al mondo dei servizi di assistenza fino ai servizi legati alla sanità pubblica dove, dopo aver assunto la gestione dei servizi di pulizia di molti centri ospedalieri ha finito coll’ottenere spesso i contratti per la costruzione di nuove e faraoniche strutture ospedaliere oppure sostituire sul territorio i medici di base con strutture mediche in concorrenza con la sanità pubblica.

L’outsourcing, l’esternalizzazione di pezzi di attività ospedaliera, affidata a società che con propri addetti svolgeranno le mansioni, è il mantra del settore. Avviene in massima parte tramite cooperative di soci che lavorano per anni senza ferie, malattia, contributi e con uno stipendio mensile massimo di 600-800 euro per otto ore giornaliere.” Ma ” l’esternalizzazione e l’ingresso delle coop nella sanità non hanno ridotto costi e sprechi, che incidono sul bilancio dello Stato per 110 miliardi di euro annui.” (pag. 234)

Non è difficile cogliere, sfogliando le intense pagine del libro di Amorosi, come tutta una serie di narrazioni e programmi dell’attuale governo Renzi (ma che affondano le radici sia in quelli di centro-sinistra che di centro-destra successivi a Tangentopoli), così attenti al taglio della spesa pubblica, al risparmio e all’ottimizzazione dei servizi tramite la loro privatizzazione non facciano altro che seguire un cammino già tracciato all’interno del mondo coop.

Un mondo dove i legami politici, sia a destra che a sinistra, servono a garantire appalti e leggi tagliate su misura sulle necessità e sull’impellenze, ma soprattutto sulle pretese finanziarie, di una componente avida e spregiudicata dell’economia nazionale.

La criminalità organizzata insegue il denaro. E’ un fenomeno incapace di incepparsi e le grandi opere ne sono gli asset fondamentali. Il 75,5 per cento dei 285 miliardi di euro stanziati dagli ultimi governi arrivano nelle regioni del centro-Nord e solo il 24 per cento nel Mezzogiorno.[…] la mafia non è un fenomeno territoriale, non è un virus che invade un corpo sano. Non spunta dal nulla. E’ il frutto di un lavorio di anni.[…] Non va in qualsiasi luogo, ma ove c’è domanda di mafia e di ricchezza. Richiesta di organizzazioni che portino ammassi di denaro nero da riciclare, facile da reinvestire o da reimpiegare […] E non è neanche il prodotto di un’invasione del Nord Italia, di qualcuno che arriva dal Sud, ma uno scambio reciproco iniziato in un tempo ormai lontano” (pp. 164-186)

Un mondo in cui rappresentanti di Partito e sindaci di ridenti cittadine dell’Emilia Romagna devono presenziare a cerimonie religiose in cittadine calabresi come Cutro per accaparrarsi voti e appoggi necessari alle proprie aspirazioni politiche. Per poi dover rendere il favore o i favori difendendo e rielaborando i piani di grandi opere inutili come il TAV, fino al limite del ridicolo.5 Purché, là dove l’incrocio di interessi economici più disparati e un compromesso storico ante-litteram tra cooperative bianche e rosse hanno assunto da sempre il volto bonario di Don Camillo e Peppone, non si parli di criminalità organizzata.

coop connection 2Dagli anni Sessanta le regioni del Nord sono state preda chi di Cosa Nostra, chi della ‘ndrangheta, chi della camorra. In Emilia invece ci sono tutte e tre contemporaneamente. All’inizio le coop di peso si dividono le regioni del Sud che contano, partecipando agli appalti. Le bolognesi e le ravennati in Sicilia, le modenesi in Campania, le reggiane in Calabria. Uno scambio perfetto. Cosa Nostra arrivava a Bologna e Ravenna […], la camorra a Modena, la ‘ndrangheta a Reggio Emilia. Non si entra nelle medie e grandi opere del Sud senza sedersi ai tavoli della criminalità organizzata” (Pag. 180) Con buona pace di ogni narrazione pietistica e di slogan pubblicitari del tipo: “La Coop sei tu…che cosa vuoi di più?

Sarebbero tantissimi i tasselli del mosaico ricostruito da Amorosi che potrebbero ancora essere qui elencati ed esaminati, ma poiché il libro merita di essere apprezzato da chiunque non si voglia far abbindolare dallo storytelling renziano e perbenista del suo partito, a questo punto, vale la pena di suggerirne la lettura diretta e più attenta possibile. Ne vale davvero la pena.


  1. A. Amorosi, C. Abbondanza, Tra la via Emilia e il clan, Casa della legalità e della cultura, Genova 2010  

  2. Relazione tecnica dell’ass._Amorosi sul Sistema politico di assegnazione delle case del Comune di Bologna del 16/2/2005  

  3. Vale la pena qui di annotare che circa un anno fa, presso tutti i punti di distribuzione Coop, fu lanciata una campagna promozionale per mezzo della quale i soci potevano trasformare i punti accumulati con gli acquisti in “bonus” per incrementare il lavoro giovanile. Praticamente i soci Coop invece di trasformare i loro punti in sconti sugli acquisti o premi di vario genere potevano di fatto pagare i vaucher con cui la Coop avrebbe pagato gli stagisti operanti nelle sue attività. Il tutto, naturalmente, presentato come solidarietà nei confronti dei giovani potenzialmente disoccupati. Insomma, la Coop poteva finanziare il lavoro “quasi nero” dei propri dipendenti senza tirar fuori un soldo: un autentico capolavoro di buonismo sociale!  

  4. Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere, 2014  

  5. Si consulti a tal proposito, e solo come esempio, l’ultima proposta del Ministro Del Rio per modificare costi e percorso del TAV in Val di Susa: http://ilmanifesto.info/torino-lione-il-governo-diventa-ni-tav/ oppure http://torino.repubblica.it/cronaca/2016/07/01/news/torino-lione_delrio_annuncia_stiamo_revisionando_il_progetto_useremo_di_piu_la_linea_vecchia_-143221243/  

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Predator https://www.carmillaonline.com/2013/05/21/predator/ Mon, 20 May 2013 22:01:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=5664 di Max Martirio

PredatorCerte storie vanno raccontate. Anche se sono storie tristi. Anche se sono squallide. Sarebbe bello occuparsi solo di eventi culturali, di ambienti glitter, di stili pop/underground/mainstream. Ci si potrebbe illudere di vivere in un mondo colorato, pieno di bei giovani creativi, affascinanti e ottimisti. Invece la procedura pelosa, con le sue miserie, irrompe nella realtà “bassa” e la ferisce, la spacca.

A Bologna esisteva un servizio pubblico d’eccellenza: il Punto Prelievi Centralizzato dell’Ospedale S.Orsola Malpighi, in Via Pelagi. Avevano impiegato mesi per ottimizzarlo. I vari CUP cittadini fissavano l’appuntamento, rilasciando un numero progressivo e una fascia oraria (8.50, [...]]]> di Max Martirio

PredatorCerte storie vanno raccontate. Anche se sono storie tristi. Anche se sono squallide. Sarebbe bello occuparsi solo di eventi culturali, di ambienti glitter, di stili pop/underground/mainstream. Ci si potrebbe illudere di vivere in un mondo colorato, pieno di bei giovani creativi, affascinanti e ottimisti.
Invece la procedura pelosa, con le sue miserie, irrompe nella realtà “bassa” e la ferisce, la spacca.

A Bologna esisteva un servizio pubblico d’eccellenza: il Punto Prelievi Centralizzato dell’Ospedale S.Orsola Malpighi, in Via Pelagi. Avevano impiegato mesi per ottimizzarlo. I vari CUP cittadini fissavano l’appuntamento, rilasciando un numero progressivo e una fascia oraria (8.50, 9.00 ecc). Arrivato al Punto Prelievi l’utente controllava la propria posizione su un tabellone luminoso. Quando appariva la sua fascia oraria, e il numero corrispondente, completava l’accettazione. Le attese erano contenute, i ritardi minimi, anche se il Centralizzato effettuava dai 300 ai 350 prelievi di sangue al giorno, oltre al ritiro dei campioni biologici. Poi aspettava il proprio turno agli ambulatori, ognuno con due infermiere, e anche qui i ritardi erano accettabili. Infine il referto si poteva scaricare da internet, con una password che veniva inviata al telefono cellulare o via mail.

Ora il Centralizzato non esiste più. E’ stato chiuso, e gli utenti redistribuiti nei vari ambulatori sparsi per la città e nelle città satellite. Aumenteranno le attese, i ritardi (essendo molte strutture già sovraccariche), e non si potrà visualizzare il referto, ma ci si dovrà munire di un francobollo per una spedizione via posta, oppure tornare di persona a ritirarlo, con un incremento dei mezzi di trasporto ecc.

Il comunicato stampa dell’AUSL non la cita, ma non ci sono dubbi sulla motivazione di questa scelta: l’ignominia nazionale denominata Spending Rewiew. Vale a dire l’opera accurata, paziente, violenta di smantellamento di ciò che resta del servizio pubblico. Si torna indietro, si eliminano servizi importanti, si depaupera la struttura. Sono “scelte sovraordinate”, si recita, imposte dall’Europa. In realtà i soldi servono per tamponare le falle delle banche, che non concedono più prestiti e mutui ma incassano miliardi dalla BCE che poi investono in titoli di stato esteri; per le “grandi opere”; per il mantenimento di una casta politica parassitaria e inutile; per le mostruose spese militari (un servizio de L’espresso rivela che i generali spenderanno ventidue miliardi di euro solo per digitalizzare l’esercito, oltre a una lunga serie di balocchi privati di nessuna utilità), e molto altro.

I responsabili di questo disastro sono ogni giorno in televisione, vezzeggiati, coccolati da simil-intervistatori che li chiamano “Presidente” (ma quanti sono i presidenti in Italia?) e offrono loro il palcoscenico per predicare sul “bene del paese”. E soprattutto per ripetere, con cadenza ossessiva, i fondamenti del Pensiero Unico del Regime Transnazionale dei Predator: non può esistere altro programma all’infuori del nostro, denominato “rigore”. Chiunque affermi il contrario è un illuso, uno stupido e un irresponsabile.

Non dobbiamo crederci. Non dobbiamo ascoltarli. Non dobbiamo guardarli. La sola loro immagine veicola onde negative, che potrebbero anche causare disturbi neurovegetativi. Non dobbiamo pronunciare i loro nomi, perché Proust ci ha raccontato quale potenza visionaria viaggia sui nomi.

Soprattutto dobbiamo respingere alcuni dei più importanti codici subliminali del Pensiero Unico: se sei una vittima devi tacere e ubbidire, perché potrebbe capitarti di peggio; se rubi con astuzia te la sfanghi; se rispetti l’ordine gerarchico naturale forse puoi entrare nella nostra élite, nella nostra casta.

Solo così sarà possibile organizzare una vera Resistenza.
Perché un dato è certo: non arriverà un esercito di alleati a liberarci.
Gli alleati sono loro.

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