Sandro Pertini – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Bologna 1980. «La bomba, per me, scoppiò la sera» https://www.carmillaonline.com/2024/11/21/bologna-1980-la-bomba-per-me-scoppio-la-sera/ Thu, 21 Nov 2024 22:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85372 di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola [...]]]> di Luca Baiada

Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.

Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.

L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola nel Corpo italiano di Liberazione. Poi lavora come perito industriale. Il 2 agosto 1980, nella strage di Bologna, perde il figlio Sergio, ventiquattro anni.

È un uomo, un padre: «La bomba, per me, scoppiò la sera di quel tragico giorno al ritorno a casa da una passeggiata». La notizia che il figlio è fra le vittime si mischia ai primi commenti, al comportamento della città, alle reazioni. Sergio è ferito in modo spaventoso; morirà dopo qualche giorno. Il padre non nasconde la debolezza iniziale:

Non potevo credere ai miei occhi, la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. […] Sergio, malgrado stesse a occhi chiusi a causa delle gravi ustioni, aveva riconosciuto la mia voce, aveva capito che ero lì, quindi malgrado la gravità del suo stato era cosciente di ciò che era accaduto, di ciò che stava accadendo, e realisticamente non nutriva alcuna speranza di salvarsi. […] Dopo averlo visto me ne uscii precipitosamente dal reparto rianimazione, come se volessi fuggire per allontanarmi da un pericolo.

Torquato Secci, che voleva fuggire, invece si impegnerà, diventerà presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, pubblicherà questo volume dopo la sentenza di primo grado del processo. Adesso seguiamolo in un segmento narrativo che ha la forza di certi racconti dell’occupazione nazifascista. Indimenticabile, la bambina muta nel film L’uomo che verrà, col suo andirivieni nella terra della morte:

Dopo aver vagato a lungo per le strade che corrono intorno all’ospedale a un certo momento mi trovai a fianco un giovane che silenziosamente mi seguiva. Allora incominciai a parlare, a raccontare di mio figlio, delle sue condizioni, delle sue menomazioni, del suo stato d’animo e delle mie certezze che tutto si sarebbe concluso ancor più tragicamente. Lui seguendomi nel peregrinare mi ascoltò a lungo, ogni tanto cercava di dirmi qualche cosa, ma io non capivo le sue parole e non mi importava di non capirle. […] Stanchi di camminare ci sedemmo sul ciglio di pietra di un marciapiede e lì continuai a lungo il mio soliloquio, ogni tanto interrotto da un momento di commozione più intensa dovuta a un ricordo più caro. Era tardi, ci salutammo.

Il giovane misterioso è un personaggio liminare, affacciato sulla soglia fra l’impossibile e la realtà: un doppio del figlio? un’ombra venuta da non si sa dove? o semplicemente uno dei tanti bolognesi che vollero portare solidarietà come potevano, anche solo con un po’ di compagnia, di umanità? L’episodio va preso così com’è, col suo tesoro di senso e nonsenso, senza pretese.

Secci è ancora più sincero e forte quando ci si offre con l’interrogativo del superstite:

Mi sentivo in colpa, la colpa di non aver saputo difendere Sergio dalle avversità della vita che ora avevano finito per travolgerlo. Non ero stato un padre capace di difendere la mia creatura dall’attacco mortale che gli era venuto da una società in cui gli egoismi, la difesa dei privilegi e la lotta per assicurarsene una parte sempre più grande era ancora e rimaneva il motore principale delle azioni di coloro che avevano in mano il potere. Mi sentivo impotente e avevo chiara, evidente la misura delle mie modestissime possibilità. Avevo lottato, con notevoli sacrifici nel corso della mia vita, per ideali altruistici, per imporre almeno un limite agli egoismi e ai privilegi. La strada era ancora tanto lunga, seminata di tanto dolore e di tanto pianto, ma non era stata ancora percorsa tutta.

Insomma, senso di colpa. Ingiustificato, ovvio. Come al solito, a portarne il peso sono i migliori, gli onesti: gli innocenti. Le carogne non hanno scrupoli. Ma è un senso di colpa che non invischia, non imprigiona: presto è affiancato dalla consapevolezza delle cause storiche e sociali del lutto, per essere affrontato collettivamente e concretamente. Subito la narrazione si allarga: attivismo cittadino, soccorsi, energie.

E subito comincia la critica alle autorità, perché lo stragismo, fascista e addomesticato agli interessi padronali, nel 1980 miete vittime già da oltre dieci anni, impunito. Ai funerali ufficiali ci sono poche salme perché 68 famiglie le portano via prima:

I familiari di queste vittime si erano rifiutati di partecipare alla cerimonia comune, di attendere i discorsi ufficiali, le bandiere e tutta quella liturgia che ormai già per troppe volte aveva accompagnato fatti di questo genere. Erano le prime avvisaglie di una riservata e silenziosa contestazione che non aveva nulla di emozionale ma che si radicava in una seria e meditata mancanza di fiducia nei vari organi dello Stato. Lo Stato non era stato capace di difenderli contro la violenza, di conseguenza non aveva il diritto di curarsi di loro, dopo morti.

Ed è chiaro che l’impunità del prima è la migliore garanzia per ciò che accade dopo:

Le stragi che avevano preceduto quella di Bologna avevano insegnato come fosse facile per terroristi, spioni, servizi di sicurezza, personaggi con responsabilità accertate, ottenere l’impunità giudiziaria. Queste protezioni avrebbero raggiunto anche lo scopo di permettere la continuazione e il rafforzamento di quel tipo di terrorismo.

La continuazione non è solo ripetizione; siamo di fronte a una diversa versione della continuità, quella dello Stato italiano – burocrazia, personale in divisa, magistratura – , tra fascismo e democrazia: in fondo, è un altro volto della continuità studiata da Claudio Pavone. E infatti, nella strage di Bologna si sente l’eco dell’occupazione del paese, del collaborazionismo, di Salò. Il crimine, del resto, come altre stragi degli anni Settanta e Ottanta, e come la più grave delle stragi nazifasciste in guerra, quella di Monte Sole, colpisce sulla direttrice che unisce la Valle Padana all’Italia centro-meridionale: si mira anche all’Unità d’Italia, nelle pieghe del bersaglio c’è il Risorgimento.

L’esigenza di giustizia è senza compromessi; Secci non cede a retoriche intimiste. Non ci sono neanche surrogati riparazionisti, come quelli che dal 2008, con la connivenza di governi, autorità, storici famosi, hanno ostacolato i risarcimenti delle stragi nazifasciste commesse dal 1943 al 1945:

Il perdono può essere del singolo, in quanto sentimento privato chiuso nella coscienza di ognuno e quindi non giudicabile dall’esterno. Ma quando la collettività viene offesa con orrendi delitti come le stragi indiscriminate, non può perdonare finché sussistono i motivi di condanna, in quanto deve difendere la sua propria essenza[1].

Severissima, Anna Maria Montani: ha perso la madre e non accetta il risarcimento offerto dallo Stato. «“Cento milioni per testa di morto”, secondo il decreto del governo. “Non li voglio. Li sento sporchi di sangue. Se quelli vogliono fare qualcosa cerchino chi ha ammazzato”»[2]. Proprio lei accetta i funerali di Stato, sì, ma solo come occasione per dire basta alle autorità, e in chiesa non stringe neanche la mano del presidente Sandro Pertini.

L’unione fa la forza. Oltre all’Associazione tra i familiari del 2 agosto, nel 1983 nasce l’Unione dei familiari delle vittime di stragi, che riguarda le stragi fasciste, compresa quella di Bologna. Il gruppo incontra difficoltà:

Cozzammo contro ostacoli insormontabili di miopia politica, di settarismo, di scetticismo, di sfiducia nei risultati, ma non ci lasciammo convincere e non ci lasciammo fermare, li superammo tutti pensando che le stragi avevano molte cose in comune e che perciò ciascuno di noi, chiedendo giustizia per sé, l’avrebbe chiesta per tutti.

Fra gli scopi dell’Unione c’è una modifica legislativa per vietare il segreto di Stato sulle stragi (e una proposta simile era già nel primo programma dell’Associazione). Così ad Arezzo, al convegno La vicenda della P2: poteri occulti e Stato democratico, Secci incontra il magistrato Marco Ramat, che prepara una bozza di intervento sulla legge 801 del 1977. Le idee sono chiare:

Il segreto di Stato nei processi per strage aveva sempre fermato i giudici nel corso delle loro indagini, pensavamo che al processo di Bologna sarebbe accaduta la medesima cosa, occorreva quindi prevenire questa eventualità. […] Non permettendo più il segreto, l’impunità, per questo crimine, cadeva e coloro che avevano pensato ed eseguito la strage sarebbero stati perseguiti senza ostacoli dalla giustizia[3].

Raccolgono le firme. Ci sono promesse di aiuto non mantenute; li riceve il presidente del Senato, Francesco Cossiga, e anche lui promette. Consegnano la proposta il 25 luglio 1984 e la data non è casuale: «Il 25 luglio era caduto il fascismo, il 25 luglio 1984 speravamo che cadesse il segreto di Stato per le stragi».

Secci non vedrà la limitazione del segreto di Stato, che sarà legge nel 2007, durante il secondo governo Prodi. C’è chi semina perché altri raccolgano.

Il comportamento di alte autorità, compresi nomi considerati affidabili, è un misto desolante di disattenzione, pochezza o peggio. L’Associazione sollecita invano la discussione di interpellanze alla Camera; quindi, a marzo 1983, manda un telegramma alla presidente, Nilde Iotti:

Familiari vittime strage Bologna ritengono offensivo, mortificante e antidemocratico comportamento Camera da Lei presieduta che dal mese di luglio 1981 malgrado insistenti solleciti non ha trovato il tempo necessario alla discussione di cinque interpellanze sulla strage mentre per Sua decisione si giunge a programmare anche prossime sedute straordinarie notturne per svolgere discussione relativa al ritorno in Italia del signor Umberto Savoia[4].

La presidente è da una vita una dirigente del Pci e ha fatto parte della Costituente; però la strage fascista aspetta e si discute su un passo indietro rispetto alla Costituzione (e quanta dignità, in quel «signor» Savoia).

Le vittime scrivono più volte a Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro e in seguito presidente della Repubblica. Hanno buoni motivi: «In più di un’intervista Scalfaro, allora ministro degli interni, aveva fatto comprendere che le stragi non derivavano dalla deviazione dei servizi segreti ma dalle deviazioni del potere politico»[5]; però non c’è risposta. Gli scrivono ancora:

In un articolo del 30 gennaio [1988] Lei scrive di «colpevoli silenzi di fronte alla turbativa della verità sul terrorismo». A noi non risulta che Lei abbia ancora riferito ad alcun giudice quanto disse di sapere e di ciò La riteniamo gravemente colpevole. Noi pensiamo che chi conosce certe verità e non le denuncia favorisce il permanere del terrorismo e il ripetersi delle stragi. Per questa ragione l’Associazione Le rinnova l’invito a riferire alla magistratura tutto quanto è a Sua conoscenza che possa contribuire all’accertamento della verità, sulle trame eversive che si sono abbattute sulla democrazia nel nostro paese[6].

Neanche stavolta, Scalfaro risponde.

La correttezza è notevole. Per esempio, Secci, quando riceve lettere da un imputato della strage, le consegna agli avvocati di parte civile perché le diano ai magistrati. Le virtù non sono apprezzate, anzi:

La nostra richiesta di giustizia e verità era martellante e continua e a un certo momento per ostacolarla si cominciò a dire che coloro che chiedevano incessantemente giustizia erano dei «caini»[7].

Forse non c’è da stupirsi. Pochi anni fa, quando le vittime delle stragi belliche hanno chiesto giustizia, qualcuno ha accennato a imprecisati «sciacalli del dolore che fomentano superstiti e familiari nella richiesta risarcitoria»[8].

Naturalmente si fanno avanti possessori di verità. Nel 1983 Secci è avvicinato da un uomo che dice di essere un agente di un servizio segreto straniero e un giornalista; sostiene che a Bologna è stato usato un esplosivo speciale, piccolo come una moneta.

Sia singolarmente sia come Associazione, Secci pubblica sui giornali annunci a pagamento con frasi come «Sergio Secci – Morto in un giorno di sole / per una bomba incosciente. / Ma vive d’insana follia / chi mi ha negato il presente»; oppure «La giustizia senza forza è impotente, la forza senza giustizia è tirannia» (sono parole di Pascal); o ancora «Strage di Bologna 2 agosto 1980. Chi copre i terroristi è un terrorista». In seguito le pubblicazioni vengono rifiutate e le rimostranze non hanno risposta. Nel 1986 è «la Repubblica», dopo aver incassato il prezzo, a rifiutare la pubblicazione di: «Strage di Bologna. Sergio Secci, anni 24. Chi ha deciso di ammazzarlo?»; la domanda è elementare ma il quotidiano restituisce il denaro. Caparbio, il volume mostra la ricevuta.

Il processo e ciò che gli accade intorno svelano un abisso fra due Italie. Davanti alla Corte compare Francesco Pazienza:

Per ogni fatto cercava e tirava fuori dalla sua capace borsa un foglio, un documento che secondo lui lo scagionava. Pazienza chiamava sempre in causa personaggi importanti per darsi importanza, per influenzare favorevolmente la Corte. Con il suo mellifluo comportamento cercava di entrare nelle grazie di tutti[9].

Il name-dropping è tipico degli ambienti striscianti, del sottobosco che vuole emergere. Secci ha altre radici, le sue parole sanno di pulito e di necessario come il sapone:

L’operato di Francesco Pazienza da quanto è risultato dalle indagini giudiziarie e confermato da sentenze non è sostenuto da ideologia. È un soggetto partorito da una cultura intrisa di falso perbenismo, di massoneria, di affarismo e di costante ricerca di privilegi a danno degli altri, non lo hanno mosso né idee politiche né il dovere che incombe sul militare, ma ha agito solo per denaro e quindi non è altro che un «terrorista mercenario»[10].

Quando sfilano come testimoni i feriti c’è qualche amarezza:

Alla domanda rivolta dal presidente ai feriti se dopo sette anni erano guariti, rispondevano tutti affermativamente, anche quelli che portavano ancora evidenti i segni delle lesioni subite; perché vergognarsi di essere vittime?.

Già, perché? La coscienza retta di Secci si tormenta.

Quando poi è respinta un’istanza di libertà provvisoria del fascista Paolo Signorelli, e la difesa protesta, c’è una lettera degli avvocati di parte civile al presidente della Corte, ben precisa:

Appare chiaro che l’intolleranza verso la parte civile, che è una parte processuale che sta legittimamente esercitando il proprio diritto nel processo, così come manifestata dall’avv. Bordoni [difensore di Paolo Signorelli] è del tutto fuori luogo. […] Il processo fino ad ora si è svolto con un rispetto delle garanzie processuali degli imputati particolarmente accentuato, mai contrastato dalle parti civili[11].

Anche considerando il modo in cui le parti civili sono state trattate nei processi sulle stragi belliche, a partire dal primo caso in cui la Germania è stata chiamata in causa in sede penale per i risarcimenti, cioè dal processo del 2006 sulla strage di Civitella, si sente quanto vale la presenza di una parte civile risoluta[12].

Sempre al processo su Bologna, nel 1987, depongono anche pentiti e fascisti estranei al crimine ma al corrente di elementi utili; fra loro Angelo Izzo, colpevole del delitto del Circeo del 1975:

Detenuto per un orrendo crimine comune, molto intimo in carcere degli elementi di destra, tanto da raccoglierne le confidenze. Confermò e ampliò i suoi precedenti interrogatori, sgomberando il terreno da ogni dubbio sulla veridicità delle sue affermazioni[13].

Da una parte le vittime che si organizzano, col perito industriale Secci che sente le sue «modestissime possibilità» ma mette in pratica i suoi ideali contro egoismi e privilegi; dall’altra i conciliaboli fra uno stupratore assassino e i fascisti, che in carcere fanno comunella perché annusano a vicenda i loro trascorsi.

Se a fiutare aria cattiva sono le vittime, invece, si tirano indietro, a costo di rinunciare al palcoscenico. Nel 1985 sono invitate in televisione da Maurizio Costanzo e rifiutano:

Non abbiamo ritenuto di dover discutere del crimine della strage del 2 Agosto con il signor Costanzo, membro di quella Loggia P2 che dallo stesso Parlamento viene indicata come il centro occulto «che svolse opera di istigazione agli attentati» che hanno insanguinato il paese e che può ritenersi «in termini storico-politici gravemente coinvolta anche nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale»[14].

Il 16 aprile 1988 – dopo la requisitoria del pubblico ministero al processo, e prima delle arringhe delle difese – a Firenze c’è il convegno Massoneria e architettura, in cui il gran maestro Armando Corona esclude o minimizza le colpe di Licio Gelli. L’Associazione prende posizione:

Contrariamente a quanto da Lei affermato in merito all’estraneità, negli attentati e nelle stragi, di Licio Gelli, La informo che dai documenti riportati nella relazione della Commissione di inchiesta sulla Loggia P2 risulta che tale Loggia, dallo stesso Parlamento, viene indicata come il centro occulto che svolse opera di istigazione agli attentati che hanno insanguinato l’Italia, e che può ritenersi in termini storico-politici gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale. Recenti condanne confermano questo giudizio[15].

Magnifico per la fermezza contro tutte le ipocrisie, Cento milioni per testa di morto merita di essere riconsiderato, adesso che una nuova sentenza ha ribadito le colpe della P2, di fascisti e di livelli dello Stato nel massacro. Tutto ciò, a proposito di piduisti, tenendo presente che Secci ha fatto in tempo a vedere al governo il più ricco e potente di loro: un nome che oggi è un punto di riferimento per chi è al potere.

All’infinita autostima di Berlusconi, alla sua immagine smodata anche nell’età avanzata e nella morte, va contrapposta una cosa accaduta a Bologna, subito dopo l’eccidio:

Il numero dei morti si profilava talmente alto che si pensò subito di trasportarli all’obitorio con un autobus; la cosa sembrò straordinaria, fuori dalla realtà, ma poi risultò pratica e a tale scopo si adeguò l’autobus n. 4.030 della linea 37. I vetri erano stati internamente coperti da lenzuola, sul pavimento era stata gettata della segatura.

Il mezzo pubblico è adattato a un uso anomalo, con l’aiuto dei lavoratori. Dentro l’episodio ci sono un’intercambiabilità apparente di morte e vita (quella di chi usa i mezzi pubblici) e, più in profondità, un timbro che Aldo Capitini avrebbe chiamato compresenza dei morti e dei viventi. L’autobus della linea 37 che va dalla stazione all’obitorio, segnando la città, è un ultimo taglio e una prima sutura, una linea d’ombra: la comunità si prende carico, si muove, anche forzando le regole. Intanto le ricostruisce: chi era alla stazione usava un mezzo pubblico, e con un mezzo pubblico, insieme agli altri, si avvia per l’ultima volta. Proprio Capitini, vertiginoso, scrive: «Perché come si potrà apprezzare la liberazione se non saranno con noi anche i morti a festeggiare?»[16].

 

 

[1] Torquato Secci, Cento milioni per testa di morto. Bologna 2 agosto 1980, Targa Italiana Editore, Milano 1989, p. 144.

[2] Ivi, p. 50.

[3] Ivi, p. 104.

[4] Ivi, p. 102.

[5] Ivi, p. 142.

[6] Ivi, p. 158.

[7] Ivi, p. 120.

[8] Sono parole di Marco De Paolis, procuratore generale militare in appello, lanazione.it.

[9] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 146.

[10] Ivi, p. 154.

[11] Ivi, pp. 148-149.

[12] Mi permetto di rinviare a Luca Baiada, La sentenza della Corte costituzionale del 2014, la giurisprudenza italiana e una storia aperta, in Luca Baiada, Elena Carpanelli, Aaron Lau, Joachim Lau, Tullio Scovazzi, La giustizia civile italiana nei confronti di Stati esteri per il risarcimento dei crimini di guerra e contro l’umanità, Editoriale Scientifica, Napoli 2023, pp. 106-108.

[13] Secci, Cento milioni per testa di morto, cit., p. 157.

[14] Ivi, pp. 124-125.

[15] Ivi, p. 160.

[16] Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Ponte Editore, Firenze 2018, p. 225.

 

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Sport e dintorni – Storie di politici dell’Italia repubblicana alle prese col calcio https://www.carmillaonline.com/2020/02/11/sport-e-dintorni-storie-di-politici-dellitalia-repubblicana-alle-prese-col-calcio/ Tue, 11 Feb 2020 22:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57899 di Gioacchino Toni

I rapporti tra calcio e politica sono di lunga data; d’altra parte era inevitabile che uno sport capace di appassionare ed intrattenere come pochi altri non risultasse appetibile anche per chi ha legato le sue sorti politiche al consenso. Fabio Belli e Marco Piccinelli, che in un volume precedente – Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista (Rogas edizioni, 2017) – si erano interessati ad alcune storie del calcio oltrecortina capaci di segnare l’immaginario ad Est come ad Ovest, in La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto (Rogas edizioni, Roma, 2019) hanno [...]]]> di Gioacchino Toni

I rapporti tra calcio e politica sono di lunga data; d’altra parte era inevitabile che uno sport capace di appassionare ed intrattenere come pochi altri non risultasse appetibile anche per chi ha legato le sue sorti politiche al consenso. Fabio Belli e Marco Piccinelli, che in un volume precedente – Calcio e martello. Storie e uomini del calcio socialista (Rogas edizioni, 2017) – si erano interessati ad alcune storie del calcio oltrecortina capaci di segnare l’immaginario ad Est come ad Ovest, in La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto (Rogas edizioni, Roma, 2019) hanno scelto di raccontare undici storie di politici dell’Italia repubblicana – a volte influenti protagonisti, altre vere e proprie meteore balzate alla cronaca per poi sparire senza lasciare traccie di sé se non nelle aule dei tribunali e nei conti non saldati – che in qualche modo hanno corteggiato, non sempre dotati di genuina passione, l’universo pallonaro del Belpaese.

Il volume si apre passando in rassegna il rapporto tra Presidenti della Repubblica e mondo del calcio raccontando in particolare di Giuseppe Saragat, che riceve al Quirinale la Nazionale campione d’Europa nel 1968 e quella che due anni dopo perde la finale dei mondiali messicani contro il Brasile di Pelè, di Giovanni Leone, tifoso dichiarato del Napoli, di Sandro Pertini, protagonista mediatico della vittoria azzurra dei mondiali spagnoli del 1982, di Francesco Cossiga, che oltre a palesare il suo sostegno alla Juventus in piena foga da picconatore non ha mancato di inveire contro la “giustizia sportiva” alle prese con Calciopoli nel 2006, di Carlo Azeglio Ciampi, affezionato ai colori della sua Livorno, per poi arrivare a Sergio Mattarella che, nonostante la riservatezza, pare seguire con un certo interesse le sorti del Palermo e dell’Inter.

Un capitolo è dedicato al caso del tutto particolare di Achille Lauro che lega la sua storia al calcio sin dal periodo fascista individuandone un importante strumento di consenso per poi proseguire nel dopoguerra, quando le vicende politiche personali – passando dalle liste monarchiche a quelle del Movimento sociale – si intrecciano con quelle che lo vedono gestire la società del Napoli Calcio con spavalde scelte imprenditoriali.

I rapporti dei politici comunisti col calcio sono invece raccontati attraverso la storia di Marco Rizzo che si intreccia, in giovane età, con quella della curva dei tifosi del Torino tra le fila del gruppo Ultras Granata, mentre in un’altra sezione del libro si parla del legame con la squadra degli Agnelli di alti esponenti del Pci a partire da Palmiro Togliatti, passando poi per Luciano Lama ed Enrico Berlinguer, con un’appendice post-Pci dedicata al tifoso juventino Walter Vetroni pragmaticamente attento però a non inimicarsi il tifo romanista.

Spazio è concesso anche a Ciriaco de Mita, la cui fortuna politica coincide con quella dell’Avellino nella massima serie durante gli anni Ottanta. Quanto diretta sia stata l’influenza del democristiano sulle sorti della squadra irpina è difficile da dire, tuttavia, si sostiene nel libro, «il rapporto tra De Mita e l’Avellino fu una sorta di amore pensato, in cui la presenza costante non fu mai accompagnata da esternazioni che nel mondo di oggi si potrebbero considerare quai d’obbligo per un esponente politico così in vista […] Non è un mistero che la Democrazia Cristiana, nell’espressione della sua nomenclatura, non disdegnasse operare dietro le quinte, e magari l’influenza demitiana la ricordano con più efficacia ad Avellino e dintorni, piuttosto che a livello nazionale» (pp. 43-44).

Inevitabilmente gli autori si soffermano sul rapporto tra Giulio Andreotti e la Roma, dagli stretti rapporti prima con Franco Evangelisti e poi con Dino Viola, a sostengo della quale interviene direttamente per l’ampliamento del centro sportivo di Trigoria e nelle trattative per portare in giallorosso il brasiliano Paulo Roberto Falcão. Andreotti non manca nemmeno di adoperarsi personalmente per il salvataggio della Lazio sull’orlo del fallimento dopo le gestioni di Giorgio Chinaglia e Franco Chimenti e persino nelle vicende del Frosinone, visto come importante bacino elettorale.

Un caso curioso riguarda la figura di Giovanni Di Stefano, avvocato che intreccia la sua storia con quella del Campobasso Calcio e con le vicende della guerra in Jugoslavia tra debiti insoluti e loschi affari in giro per il mondo. Celebri sono restate alcune sue dichiarazioni, come quella in cui accredita l’allenatore Levkovic, da lui portato al Campobasso, di un passato alla guida nientemeno che del Macnhester United, ma che da quelle parti nessuno ha mai sentito nominare, o come il suo millantare di essere segretario del Partito nazionale italiano, formazione politica di cui non vi è traccia negli archivi. Attualmente, pare, Di Stefano si trova a fare i conti con la giustizia inglese per reati di frode, truffa, riciclaggio e via dicendo.

Anche la parabola politica di Bettino Craxi si intreccia in qualche modo con il mondo del pallone. Milanese ma tifoso granata, probabilmente ammaliato dal fascino del Grande Torino. «Craxismo e Torinismo si sfiorarono a lungo, ma si intersecano solamente in una fase. Alla fine degli anni Ottanta il segretario socialista è al termine della sua esperienza di presidente del Consiglio, ma gli anni della Milano da bere, che dureranno a lungo, sono ancora all’apice. Craxi continua a seseguire il Torino con passione ed interesse, ha un figlio milanista, Bobo, e un amico, Silvio Berlusconi, al quale nel 1986 ha consigliato di prendere in mano le sorti della squadra rossonera, potenziale veicolo di grande popolarità» (p. 81). A quelle date il Torino non se la passa bene, tanto che nel giugno del 1989 finisce in Serie B ed è a questo punto che Craxi decide di intervenire supportando Gian Mauro Borsano, una sorta di ambizioso Berlusconi in scala ridotta. La parabola di Borsano al Toro è di breve durata ed esaurita la propulsione elettorale la squadra viene smantellata mentre Craxi si trova alle prese con ben altri problemi.

Un capitolo del volume è dedicato alla ricerca del consenso politico-calcistico nella Roma della Seconda Repubblica, quando i riflettori calcistici sembrano tra i pochi strumenti in grado di dare visibilità a figure di candidati sindaci in un’epoca segnata dal rigetto della politica da parte dei cittadini. In apertura di millennio nascono addirittura liste come Avanti Lazio e Forza Roma gravitanti attorno a Dario Di Francesco, liste elettorali “a schieramento variabile” che si ripresentano a più riprese fino al 2016. Del mondo capitolino degli ultimi decenni, sul libro viene descritta anche la grottesca corsa dei politici a mostrarsi vicini al popolare capitano giallorosso Totti.

Altro personaggio appartenente al teatrino della Capitale a cui Belli e Piccinelli dedicano qualche pagina è il Cavaliere della Repubblica Italiana, nonché fondatore e segretario nazionale di Italia Morale, Mario Auriemma. Candidatosi sindaco nel 2015 a Roma, costui è stato negli anni Novanta presidente delle società dilettantistiche di Civitavecchia e Pomezia, oltre che amministratore del Giorgione Calcio e patron dell’Avellino negli anni Ottanta: tutte società fallite sotto la sua direzione.

La Repubblica nel pallone si chiude su Silvio Berlusconi, per oltre un trentennio proprietario del Milan, nonché, una volta “sceso in campo” direttamente in politica nei primi anni Novanta, a lungo riveste la carica di Presidente de Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana ed ancora, pur “trascinandosi in campo”, attivo nel mondo politico attuale. Sul legame calcio-politca (e televisione) è stato scritto tanto ma su un aspetto, sostengono gli autori del libro, ci si è soffermati poco: «quello del Berlusconi “tattico”, amante del calcio più di quanto lo sia stato del Milan» (pp. 121-122). Le ultime pagine di Belli e Piccinelli sono proprio dedicate all’eterna insoddisfazione, costantemente e pubblicamente esplicitata, dall’uomo di Arcore a partire da quando alla sua prima squadra, il Torrescalla, presto ribattezzata Edilnord in onore della sua società di costruzioni, insoddisfatto della conduzione tecnica della squadra, si è trovato costretto a sollevare dall’incarico allenatori come Marcello dell’Utri e Vittorio Zucconi.

Fabio Belli e Marco Piccinelli, La Repubblica nel pallone. Calcio e politici, un amore non corrisposto, Rogas edizioni, Roma, 2019, pp. , € 13,70


Sport e dintorni

 

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Ventotene fantastica e antifascista https://www.carmillaonline.com/2019/05/09/ventotene-fantastica-e-antifascista/ Wed, 08 May 2019 22:01:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52485 di Luca Cangianti

Wu Ming 1, La macchina del vento, Einaudi, 2019, pp. 334, € 18,50.

Da Jules Verne a Lost, ogni isola è sempre un’isola misteriosa. Ventotene durante il Ventennio fascista non fa eccezione. Il regime vi confina i suoi oppositori per separarli dalla società: sono centinaia e hanno a disposizione solo settecento metri per camminare, sono autorizzati a passeggiare al massimo in gruppi di tre, dormono in padiglioni freddi e scrostati, non possono entrare nei negozi del paese e gli è vietato perfino dipingere paesaggi dal vivo. I confinati [...]]]> di Luca Cangianti

Wu Ming 1, La macchina del vento, Einaudi, 2019, pp. 334, € 18,50.

Da Jules Verne a Lost, ogni isola è sempre un’isola misteriosa. Ventotene durante il Ventennio fascista non fa eccezione. Il regime vi confina i suoi oppositori per separarli dalla società: sono centinaia e hanno a disposizione solo settecento metri per camminare, sono autorizzati a passeggiare al massimo in gruppi di tre, dormono in padiglioni freddi e scrostati, non possono entrare nei negozi del paese e gli è vietato perfino dipingere paesaggi dal vivo. I confinati sono divisi in “tribù” politiche: comunisti, anarchici, socialisti e “giellisti”, i militanti della formazione liberalsocialista Giustizia e Libertà. Ognuna di queste ha la sua mensa, i comunisti hanno perfino una biblioteca segreta con i classici del marxismo camuffati da copertine ingannevoli e nascosti in botole e fondi di armadio. Ci sono le dispute politiche che dividono, mentre le angherie della milizia fascista e l’attesa della corrispondenza uniscono. È questo il mondo narrativo della Macchina del vento, l’ultimo romanzo solista di Wu Ming 1.

L’arrivo di Giacomo, un giovane fisico, e un libro di fantascienza dello scrittore inglese H. G. Wells sottraggono la comunità antifascista alla routine malinconica, costringendola a confrontarsi con strani fenomeni quali l’orologio civico che sbaglia sempre ora e il disorientamento di certi uccelli migratori. Forse le teorie di Giacomo sono solo frutto di un trauma, in fondo nell’isola ogni confinato ha la sua fissazione. Come le fantasticherie di Erminio, l’io narrante che rivive a occhi aperti i temi di una tesi di laurea sul mito greco mai scritta, trasformando Poseidone e Ares in divinità fasciste alle quali si contrappongono Hermes e Atena. Oppure Giacomo potrebbe aver ragione e allora Ventotene sarebbe un vascello fantastico con a bordo «le menti migliori dell’antifascismo». Si potrebbe fuggire dalla dittatura, cambiare il corso degli eventi, evitare i lutti e le catastrofi della guerra.
Il romanzo è attraversato da un lungo appello di nomi tra i quali figurano: Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro, Camilla Ravera, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni. Wu Ming 1 li fa rivivere tutti attraverso le discussioni appassionate di chi sentiva di aver il potere e il dovere di costruire la società del futuro. Fra tutti si staglia la figura del socialista Sandro Pertini, quasi un portavoce dell’intera comunità, costantemente concentrato sul mantenimento della dignità e sulla preparazione alla futura lotta.

L’attenta documentazione storica è consegnata al lettore da una vivace narrazione affabulatoria dove il dialogo dei personaggi si avvale degli accenti regionali e della lingua segreta dei confinati, alternando passaggi ironicamente classicheggianti ad aperture poetiche e visionarie. Come Proletkult, La macchina del vento è un libro che attraversa i generi della fantascienza, del fantastico, dello storico, della fiction e della non fiction. Nel famoso saggio Una guerra civile1 Claudio Pavone affrontò storiograficamente le motivazioni, le aspirazioni e le speranze della Resistenza. Con pari potenza esplicativa, ma in ambito narrativo, Wu Ming 1 ci fa rivivere narrativamente la moralità della lotta partigiana.


  1. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 2010. 

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Urgenze sovversive. “Perché la pazienza ha un limite, Pazienza no” https://www.carmillaonline.com/2017/09/16/urgenze-sovversive-perche-la-pazienza-ha-un-limite-pazienza-no/ Fri, 15 Sep 2017 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39885 di Gioacchino Toni

Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00

Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).

Nonostante la tendenza di Pazienza a [...]]]> di Gioacchino Toni

Stefano Cristante, Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2017, pp. 214, € 16,00

Stefano Cristante, nel suo saggio dedicato ad Andrea Pazienza, ha sicuramente il merito, tra gli altri, di evitare la trappola della mitizzazione dell’artista da lui indicato come «portatore di una filosofia prevalentemente nichilista, e tuttavia capace di spargerla nei suoi testi senza rimuginazioni e lamentazioni, costruendo i dialoghi e i monologhi in modalità esperta e sofisticata» (p. 172).

Nonostante la tendenza di Pazienza a definirsi un disegnatore indolente, in realtà in una decina d’anni ha prodotto parecchio materiale. Questa propensione dell’artista a descriversi svogliato deriva forse dall’ambiente di fine anni Settanta entro il quale si trova a vivere, decisamente ostile ad obblighi, contratti, scadenze e più in generale a tutto ciò che odora di lavoro.

Lo studio di Cristante prende il via dalla pubblicazione nell’aprile del 1977 su “Linus” delle tavole che danno vita alla prima storia di Pazienza, Pentothal. Lo stile adottato risulta decisamente caotico e servono quasi quattro anni all’artista per giungere alla tavola conclusiva mostrante la scritta «“Le straordinarie avventure di Pentothal” inserita in un tabellone ferroviario, come annunciasse un treno in partenza. Ma il treno era già partito da un pezzo, e non a caso la fine del viaggio coincide in realtà con la spiegazione magica del talento di Pazienza. La Natura, raffigurata in forma di albero antropomorfo, suona il campanello e consegna al ragazzo Andrea Pazienza una scatola contenente il “regalo del disegno”. Quindi in realtà la storia ha termine con un inizio» (p. 28).

La situazione vissuta da Pazienza è quella del ’77 bolognese, quella della città del Pci che finisce col fronteggiare il movimento con i blindati dell’allora Ministro degli interni Francesco Cossiga. Cristante rintraccia in Pentothal le modalità con cui il giovane di origini pugliesi vive la turbolenta realtà bolognese: «La “definizione della situazione” di Pazienza attraverso Pentothal (che è un doppio dell’artista su carta) è quella del partecipe-isolato. È dentro le cose dei suoi giorni […] e simultaneamente buttato sul suo tavolo da disegno, vinto dal sonno. Allora sogna. Ha incubi. Si sveglia tardi, spesso abbrutito. Legge, cita a memoria i dadaisti, soffre per amore, inventa efferati cinismi onirici, spiega come si possa star dentro a un flusso senza appartenervi. Descrive come la mente di un artista faccia i conti a ogni istante con il bagaglio di conoscenze che è riuscito ad associare al talento naturale» (p. 29).

Nel saggio si sottolinea come Pazienza inizialmente pubblichi non secondo le modalità della serialità narrativa ma, piuttosto, con la logica dell’esemplarità di ogni apparizione che si manifesta come un connubio «tra equilibrismo grafico ed eclettismo stilistico, passando nello spazio di una pagina dalla linea chiara a quella scura» (p. 29). Le tante fonti d’ispirazione vengono per certi versi da lui esasperate a livello esponenziale e le singole tavole finiscono per rappresentare un universo visionario autosufficiente che Cristante definisce efficacemente «Polaroid a fumetti di un proletariato giovanile in cui rientra uno dei profili di Andrea Pazienza» (p. 29).

Nel periodo in cui lavora a Pentothal, Pazienza introduce «una neo-lingua fattona-terrona» (p. 30) che utilizzerà, successivamente anche su “il Male”. Lo stile narrativo e grafico del giovane autore risulta fortemente autobiografico ed esistenziale e ciò lo differenzia da quello del francese Moebius, spesso citato in Pentothal. Pazienza rielabora «il postmodernismo futurologico di Moebius in un presente stralunato» (p. 30); le strampalate automobili del francese vengono riprodotte da Pazienza non per viaggi nello spazio ma per girare in un altrettanto stralunato paesaggio terrestre quotidiano. Mentre i personaggi di Moebius si presentano come creature eteree in ambientazioni future misticheggianti, «quelli di Pazienza corteggiano il fantastico solo per rientrare con l’equilibrismo dei surfisti in una terra presente, dove i dialoghi possono avere riferimenti alla realtà quotidiana o possono prendere le forme di un monologo interiore improvvisamente durissimo oppure, al contrario, audacemente lirico» (p. 31).

In Pentothal fanno capolino diversi personaggi e situazioni che si ritroveranno nelle produzioni successive dell’autore. Nel primo episodio si viene proiettati nella quotidianità del movimento bolognese del quale, per certi versi, Pentothal si sente sia parte che estraneo e, sostiene Cristante, a tale “bipolarità situazionale” finisce col rispondere con improvvisi “scarti laterali”. «Beh, sono cambiate molte cose dall’ultima volta, per cominciare il ragazzo si è inserito ed ora è più dentro che mai ai fatti della vita e al movimento degli studenti. Conosce diciassette slogans!» (p. 32).

Pentothal si presenta come una serie di flash improvvisi legati l’uno all’altro soprattutto dalla presenza dell’artista nei diversi frammenti. Nell’atmosfera onirica e alterata messa in scena dalle tavole, il protagonista ha ormai abbandonato ogni velleità eroica. Sulla falsariga di quanto proposto da Moebius, Pazienza ricorre a stralunati riassunti delle puntate precedenti e gioca su molteplici piani narrativi ricorrendo a citazioni colte e reinterpretando l’immaginario proposto da “Métal Hurlant”. «Dopo un paio di tavole moebiusiane (tavv. 72-73), Pentothal cade (forse da un albero) nel vuoto di un balloon che, nella tavola successiva, lo porta a precipitare in una realtà dove lo attendono Filippo Scòzzari – ritratto con il pennino appoggiato all’orecchio, in primo piano rispetto a due suoi tipici personaggi – e Stefano Tamburini, quest’ultimo con la maglietta della rivista “Cannibale” e l’ammissione di essere appena arrivato da Roma e di essere “sconvorto”. Quando la tensione narrativa sembra scemare, Pazienza si tira in piedi da solo attraverso il delirio demenziale: Le straordinarie avventure di Pentothal diventano allora Pentokan, la tigre della malora, un Sandokan che spara con mille armi difendendosi da attacchi totali, ma nella stessa tavola (tav. 118, a poche pagine dalla fine della narrazione) l’artista avvisa che torna a casa, “e nella mia casa tutto risponde ad un ordine preciso, ad un mio desiderio, è soddisfazione del mio desiderio. Qui sono al sicuro” […] “Ma a volte – prosegue –, di notte, si riaffaccia alla memoria l’immagine di quel giovane drogato [Zanardi] e penso: E se, nonostante tutto, fosse un eroe? Non esiste questa possibilità. E allora cerco di immaginare la sua vita, quali possano essere le sue abitudini. Come fa, quando va a qualche festa, se non ha un paio di calze pulite? Scherzo, ma, a ripensarci, come fa?”. “L’immagine del giovane drogato” annuncia narrazioni più ordinate e popolari – è proprio del 1981 la prima sconcertante avventura di Zanardi, Giallo scolastico, pubblicata da “Frigidaire” – ma il marchio del molteplice, la sua lieve e ancora non centrale architettura scritta, lo stesso lettering fantasioso e infantile e la precisione miniaturistica di tante inserzioni infilate nelle tavole, fanno di Pentothal un archivio visivo impareggiabile nella dimensione del “volontariamente incompiuto”» (pp. 34-35).

All’avventura di “Cannibale” ideata da Stefano Tamburini, danno manforte autori come Massimo Mattioli, Filippo Scòzzari, Andrea Pazienza e, successivamente, Tanino Liberatore. Nell’inverno del 1977, nel secondo numero della pubblicazione, quello delle “quattro copertine possibili”, Pazienza pubblica una storia che ha per protagonista una variante fricchettona di Pippo, il celebre personaggio disneyano, ricorrendo ad un tratto grafico che, sottolinea Cristante, cita esplicitamente lo stile di Robert Crumb, uno dei maestri dell’underground americano. «Il Pippo sballato di Pazienza rifiuta il lavoro […] Lo fa immergendosi in un ambiente degradato, una specie di avamposto fricchettone in mezzo al deserto» (p. 38). Toccherà a Topolino riportare a casa Pippo ma, suggerisce Pazienza, nonostante sia rientrato nei ranghi, Pippo non manca di fumarsi spinelli. «Siamo dunque così all’immagine capovolta del giovane hippie che conserverebbe un fondo di buon selvaggio rousseauiano: è quest’ultimo – nella declinazione disneyana del carattere di Pippo – a contenere invece la potenziale degenerazione fricchettona. Ecco infine svelato con questo rovesciamento il mistero dell’irregolarità di Pippo: nell’ultima vignetta appare chiaro “perché Pippo sembra sballato…” “Sembra sballato perché È sballato!”» (p. 40).

Sempre nel secondo numero di “Cannibale” Pazienza pubblica Prixicel!!, una storia in sette tavole di ambientazione fricchettona in cui acidi tagliati con la nitroglicerina fanno esplodere chi ne fa uso. Personaggi strafatti tornano anche nei numeri successivi di “Cannibale”: E per me un Anco Marzio (1978), Ma cosa succede? (1978), Agnus Dei (1979).

Francesco Stella è invece indicato da Cristante come personaggio interstiziale che Pazienza fa comparire in svariate occasioni e sotto diverse vesti. Per la prima volta Stella compare in otto tavole pubblicate su “Cannibale” nel 1979, nelle vesti di un operaio che sogna di esportare i pelati negli Stati Uniti, poi lo si incontra nelle otto tavole della storia rock-fantascientifica Vita e gite (1981) su “Frigidaire”, fino a ritrovarlo nei panni del tenente Francesco Stella, ex-maestro di tennis di Livorno, protagonista delle quarantotto tavole di Aficionados (1981), «una storia piuttosto eccentrica nel pur conclamato eclettismo di Pazienza: l’unità di misura non è la vignetta con i balloon, ma l’illustrazione commentata da una voce narrante, resa con il consueto e inconfondibile stampatello, sotto cui si aprono talvolta dei dialoghi a fumetti. L’incipit rivela una nuova disposizione nel lavoro di Pazienza: il trattamento è da racconto storico» (p. 44).

Su “il Male” del settembre 1979 compare, probabilmente per la prima volta, una vignetta di Pazienza ritraente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Da quel momento, di tanto in tanto, il personaggio viene riproposto dall’artista anche sulle pagine di “Frigidaire”. «Nel caso degli sketch su Pertini, Pazienza si trova di fronte il problema di “serializzare” il Presidente, cioè di rendere un esponente politico – dal grande passato ed eletto alla massima carica dello Stato – un personaggio comico, capace di far ridere il lettore senza smentire il rispetto collettivo nei suoi confronti» (p. 52). Per qualche tempo Pazienza spinge sull’acceleratore del “rincoglionimento senile” del Presidente, dando vita a spassose vignette in cui l’ex-partigiano nel confondere le cose o i ricordi si lascia andare ad affermazioni surreali.

Nell’albo dedicato a Pertini il personaggio cambia e diviene un intransigente e collerico decisionista a cui Pazienza affianca «un altro personaggio, con caratteri contrapposti. Fisicamente è alto e dinoccolato, psicologicamente instabile e ingenuo fino alla demenza, pasticcione, codardo, debole di fronte a ogni minaccia. Questo partigiano si chiama Paz: è il pupazzo con cui si autoritrae l’autore, e che compare fin dalla prima tavola di Pertini. Il ruolo di Pazienza è quello del “luogosergente” di Pertini: un ruolo inesistente e surreale, su cui si addensano le apposite costruzioni del demenziale, fatte di incongruità spazio-temporali, missioni sabotate dall’incompetenza di Paz ed esplosioni di collera di Pertini. Dunque ora il cabaret fumettistico può contare su un duo comico – Pert e Paz – come da tradizione d’avanspettacolo» (p. 55). Su questa base l’artista inserisce una scrittura ricca di svarioni ortografici, giochi di parole e rime.

Nel 1979 Pazienza pubblica su “il Male” Il Partigiano, una surreale storia di resistenza all’invasione comunista nella sua San Severo nel foggiano di un personaggio dagli evidenti tratti autobiografici. Secondo Cristante «Il Partigiano è il transito tra Pentothal e Zanardi. La traboccante fantasia onirica di Pentothal si innesta sulla suggestione resistenziale abbandonando il tratto moebiusiano, preferendogli un eclettico miniaturismo che gioca con le trasformazioni del Partigiano, inseguendolo nella sua evoluzione da goffo improvvisatore a killer lucido e consapevole. Pentothal sogna e delira, il Partigiano gestisce il proprio delirio e Zanardi agisce esclusivamente in modo lucido e premeditato: la zona narrativa dove Pazienza decide di avventurarsi va maneggiata con cura e consapevolezza sempre maggiori» (p. 63).

Nel racconto breve Giallo scolastico (1981), ove appaiono personaggi come Zanardi (Zanna), Colasanti (Colas) e Petrilli (Pietra), l’unità di misura generale, sostiene Cristante, è la tavola, ma è nella vignetta che si ritrova la precisione; «una precisione grafica che consente a Pazienza di addomesticare i suoi pupazzi, a volte rendendoli parte di un mondo coerentemente morbido e infantile, a volte completando nei dettagli la loro fisionomia realistica e inserendoli in un mondo altrettanto realistico» (p. 66). Il racconto è composto da quattordici tavole, ad alto numero di vignette per tavola, in totale sono quasi centosessanta, «anche se alcune sono in qualche modo doppie, perché, senza confini grafici netti tra loro e mettendo insieme due situazioni contemporanee ma diversamente dislocate, ne enfatizzano la portata» (p. 66). La serie prosegue con numerose storie fino all’incompiuta Zanardi medievale (1988).

Zanardi rappresenta un personaggio importante nella produzione di Pazienza. Con esso, l’autore non si accontenta di ritrarre il mondo giovanile dell’epoca all’interno di una cornice noir; Zanardi si trasforma «in una declinazione di stati d’animo estremi, mettendo la sua estrema razionalità al servizio di imprese scaltre e buie […] brand di una devianza che si erge sopra ogni normalità» (p. 87).

Il personaggio Pompeo, un tossicodipendente capace di osservare il mondo in cui vive con un certo distacco, compare su “Alter” nell’aprile del 1985, pubblicazione che però, dopo poche uscite, decide di interromperne la collaborazione con l’autore. Grazie alle edizioni Grifo Pompeo giunge in libreria nel 1987. Gli ultimi giorni di Pompeo (1987) secondo Cristante può essere considerato un graphic novel di 116 tavole in cui a colpire, più che lo stile letterario, è «l’esibizione calligrafica realizzata con il pennarello [capace di creare] un lettering multiforme e attraente: dominante è lo stampatello maiuscolo, ma a tratti interviene con effetti di drammatizzazione un corsivo spigoloso e, quando è il momento di una lunga citazione poetica, si associano stampatello maiuscolo e minuscolo, oltre a un corsivo costruito su lettere di spessore diverso, a comporre una visione di parole graficamente tremolanti e oscure […] Pazienza scarica il suo inchiostro funambolico su foglietti quadrettati, i cui segni sono ben visibili nella stampa finale. L’opzione di mantenere il proprio segno ugualmente sofisticato pur in presenza di una superficie graficamente plebea come il foglio a quadretti amplifica le qualità del disegno stesso, e trasmette una misteriosa intimità al lettore, di nuovo messo a fianco del disegnatore a osservarne l’azione, mentre l’artista sceglie i suoi materiali e fa scelte impreviste, miscelando la guida sapiente del segno con risorse all’apparenza arrangiate e frettolose, figlie di un’urgenza» (p. 91).

Cristante analizza nei dettagli il mondo messo in scena da Pompeo a partire dalla prima pagina dell’opera definita dallo studioso metaletteraria e cross-mediale: metaletteraria perché viene citato un passo letterario all’interno di un’opera letteraria, e cross-mediale in quanto si cita il medium letteratura nel medium fumetto.

Campofame (1987) è invece un’opera, pubblicata in tre puntate da “Comic Art”, che Pazienza deriva da Hungerfield di Robinson Jeffers. Ad attrarre Pazienza, si sostiene nel saggio, è probabilmente il fatto che Jeffers con Hungerfield tenta di elaborare il lutto causato dalla perdita della moglie lo fa «affidandosi a una leggenda inaudita: un uomo, Hawl Hungerfield (Campofame), al capezzale della madre morente, decide di attendere la Morte e di affrontarla» (p.123). Mentre la prima parte di Campofame è potente, le ultime sette tavole risultano un po’ approssimative con un finale affrettato che differisce sostanzialmente da quello di Jeffers.

Nella prima parte del saggio l’autore mette in evidenza soprattutto l’abilità di Pazienza nel concepire e trattare testi e aggiunge: «l’opinione unanime degli esperti è che Pazienza possedesse una gamma di abilità che lo innalza automaticamente all’olimpo dei comics […] Precisione e rapidità di esecuzione sono proverbiali in Pazienza, e le vighnette sono quanto di più immediatamente spettacolare egli abbia realizzato. La fama di Pazienza, prima nel pubblico giovanile e poi anche in quello generalista, è costruita innanzitutto sull’impatto della sua unità di misura più piccola ed esplosiva, la vignetta» (pp. 140-142).

Il penultimo dei venti volumi dedicati all’opera di Pazienza, pubblicati nel 2016 da Repubblica-L’Espresso, intitolato Incompiute, presenta diverse tavole non finite. Tra queste ve ne sono alcune appartenenti ad Astarte, storia restata incompiuta a causa della morte dell’artista. Dalle dieci tavole, contenenti ottantacinque vignette, Cristante segnala l’altissima densità di inquadrature ed espressioni e la cura della lingua utilizzata, priva di strafalcioni ortografici o gramelot. «La conduzione autobiografica e ispirata dalla strada lascia il posto a un’affabulazione ampia e innovativa, condotta con vignette che hanno lo stesso formale principio ispiratore dei suoi precedenti poemi in prosa, come Pompeo e Una estate: testo sovrastante il disegno, rari balloon. In comune con altre opere, oltre a questa scelta di miniaturizzare la grande tavola scritta/illustrata, vi è poi ancora una volta la presenza della morte, annunciata fin dalla prima tavola» (p. 146).

Nella parte finale del saggio viene riproposta per intero una lunga composizione scritta da Pazienza, probabilmente durante il suo primo periodo da studente del Dams, in quanto da essa è possibile derivare numerose informazioni circa la poetica dell’artista: «la smania elencativa, la confusione voluta dei piani del discorso (arte-gusto-cibo-arte), la rapidità nell’afferrare uno scivolamento logico e trasformarlo in un’iperbole delocalizzata (dal pennarello alla lista dei fumettisti preferiti), il ritmo narrativo, la musicalità dei testi, gli accostamenti demenziali» (pp. 152-153). Inoltre, grazie a questo scritto di Pazienza si possono ricavare alcuni tra i numerosissimi riferimenti artistici e culturali che hanno in qualche modo influenzato la sua produzione: Pratt, Wolinski, Pichard, Parker & Hart, Quino, Mordillo, Schultz, Breccia, Claire Bretécher, Tristan Tzara, Marcel e Suzanne Duchamp, Man Ray, Hans Arp, Max Ernst, Arthur Cravan, Hugo Ball, André Breton, Vladimir Tatlin, Lacerba, Papini, Balla, Boccioni, Severini, Carrà, Marinetti, Sironi, Piero Manzoni, Pistoletto, Mondrian…

L’orizzonte espressivo di Pazienza è quello delle grandi trasformazioni che conducono agli anni Ottanta e l’artista testimonia i mutamenti «da una postazione inconsueta: quella del soggetto che si fa personaggio [entrando] nelle tavole a fumetti esibendo se stesso (o comunque un proprio avatar) sulla carta, portando a spasso i lettori in un multiverso spiazzante, letterariamente e graficamente più intenso e visionario di quelli moebiusiani perché costruito sui tasselli di un’identità sociale precisa (giovanile e universitaria) e perché capace di agire sul fronte demenziale della gag e della situazione narrativa, grazie all’assimilazione neo-dadaista e alla tendenza al polimorfismo stilistico, attraverso cui Pazienza rende pubblici i comportamenti di settori minoritari ma vistosi della gioventù» (p. 185).

L’arte di Andrea Pazienza «è stata in grado di imporre linguaggio e comportamenti, cioè immaginario collettivo in atto. Pazienza è arrivato a questo effetto disegnando se stesso e i suoi pensieri e poi infilandosi in un contesto prescelto, prima quello del Dams e di Pentothal, poi quello dell’ambiente fricchettone e fattone, poi quello dell’antropologia zanardesca, poi quello di Pompeo – per seppellire le proprie rovine – e infine quello, erudito e non meno sorprendente, della lavorazione di Campofame e di Astarte. A quest’ultima fase artistica appartiene il periodo trascorso a Montepulciano, caratterizzato dalla presenza rassicurante, intorno a Pazienza, non solo della moglie Marina ma dell’amico-editore Mauro Paganelli e di un gruppo di creativi eclettici, tra cui Moreno Miorelli, con cui prendeva confidenza diretta dell’arte rinascimentale nelle chiese e nei musei toscani» (p. 187). La voglia di sperimentare e sovvertire non è mai venuta meno nel corso della breve vita dell’artista… perché se la pazienza ha un limite, Pazienza di limiti davvero non ne aveva.

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