Sam Peckinpah – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Blue bayou https://www.carmillaonline.com/2024/10/16/blue-bayou/ Wed, 16 Oct 2024 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84897 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.» (Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Quel che resta del fiume, Vallecchi, Firenze 2022, pp. 238, 16 euro.

«Lo amo questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque. E’…quel che resta del fiume.»
(Mario Maffi – Quel che resta del fiume)

Questo romanzo è stato dato alle stampe pochi mesi dopo la scomparsa di Valerio Evangelisti. Un vero peccato, poiché lo avrebbe sicuramente apprezzato. Una lettura certamente molto distante da quanto ha prodotto lo scrittore bolognese, ma che porta con sé proprio quel superamento del limite dell’intimismo e della soggettività che tanto lo infastidiva nella maggior parte della produzione letteraria contemporanea. Soprattutto italiana.

Un soggettivismo e un intimismo che, troppo spesso, si cela anche all’interno di storie forzatamente drammatizzate, ma sostanzialmente prive di alcuno spessore epico, sociale e collettivo, che qui invece il lettore potrà trovare. Un’epica non basata su avvenimenti roboanti, portati in giro sotto le spoglie di comode etichette già da tempo cadute in disuso, ma sui fatti della vita quotidiana e della normalità esistenziale che si intrecciano con i movimenti della storia e della società nel suo caotico complesso. Una vicenda in cui, comunque, l’essere collettivo domina sull’essere individuale, irrevocabilmente destinato alla sconfitta.

Una storia di amicizia e, in qualche modo, di “tradimento” che ha fatto venire in mente a chi scrive queste righe, anche se non si tratta assolutamente di un noir, il romanzo forse più bello di Raymond Chandler: Il lungo addio. Metafore, entrambe le opere, dello scorrere inarrestabile del tempo e della vita, destinato come un grande fiume a portare via con sé amicizie, esperienze, vite e amori. Tutti espressione di momenti e di istanti irripetibili, che sembrano galleggiare disordinatamente sulla corrente, a tratti impetuosa e a tratti rallentate, della memoria collettiva o del singolo.

E’ certamente un luce crepuscolare quella che illumina le vicende, grandi e piccole, drammatiche o romantiche, che costellano la narrazione. Attenzione però, una luce crepuscolare che non corrisponde alla sempre banale e distorta nostalgia del ricordo a sé stante. Isolato dal contesto specifico e ridotto a semplice testimonianza dell’esperienza del singolo.

La storia del legame di amicizia, fratturato e contorto, tra Rhys Campbell, l’io narrante che come afferma lo stesso ha «scavalcato i sessanta da qualche anno», e Sal Smolinski, «di due anni più giovane», si snoda attraverso la storia sociale, politica ed economica degli Stati Uniti del secondo Novecento e degli inizi del secolo attuale. Anche se non mancano, attraverso altre presenze e personaggi, riferimenti ai tempi della schiavitù o delle lotte sindacali del periodo compreso tra la prima e la seconda guerra mondiale.

Una narrazione pacata e allo stesso tempo radicale, che ci accompagna in un viaggio ambientato per due terzi in Louisiana lungo le sponde del Mississippi, a New Orleans e nel bayou che caratterizza la regione1, ma che non manca di rinviare alla descrizione di altre città come New York, Chicago, Kansas City e Los Angeles, di cui vengono forniti ritratti sintetici ma efficaci, per poi concludersi a Londra, sulle rive di un altro fiume, il Tamigi.

La scelta della città in cui si ambienta la maggior parte della vicenda, New Orleans, con le vicine De Allemands e Venice, non è certo casuale poiché attraverso le memorie custodite tra le vie e le piazze di questa città è possibile ricostruire lo sviluppo della società americana e dell sue culture. Dalla tratta degli schiavi in Congo Square alla nascita del jazz fino all’uragano Katrina del 2005, anticipazione drammatica di tutti gli uragani a venire, fino a quelli che hanno recentemente colpito la Florida e altri stati del Sud degli Stati Uniti, e che sembra aver malignamente portato via con sé i ricordi di una storia secolare insieme ai quartieri più poveri della stessa città.

Una città di musica che è presente quasi in ogni pagina del romanzo: musica cajun dei francesi immigrati lì fin dal Settecento dopo la loro espulsione dai territori canadesi da parte dell’impero britannico, all’epoca ancora in piena espansione; lo zydeco derivato dall’incrociarsi di questa con quella degli schiavi africani portatori dei ritmi caribici; il blues e il jazz delle origini insieme al rock’n’roll e alle ballate folk del recentemente scomparso Kris Kristofferson, l’indimenticabile interprete del Billy the Kid portato sugli schermi da Sam Peckinpah. Ma tutte queste forme di espressione musicale, che compaiono in vari momenti della narrazione, non costituiscono però mere note di colore, marcandone piuttosto il ritmo: ora triste, ora allegro, ora solenne e talvolta caotico.

Si diceva all’inizio del paragone possibile con Il lungo addio di Chandler, ma qui non ci sono delitti o crimini evidenti. Il “tradimento” di Sal, in fin dei conti, non è soltanto nei confronti dell’amicizia con Rhys o dell’amore, mai del tutto compiuto, per la figlia Belle, è un tradimento “generazionale”. La fuga verso il successo individuale contro il sogno comunitario e ribelle di una generazione, o più generazioni, che hanno cercato e cercano di superare i limiti dell’esistente attraverso, sì, il disincanto (rappresentato nel romanzo dal personaggio di Marc, il “marxista” del gruppo), ma anche per il tramite della condivisione degli affetti e delle esperienze, delle storie vicine e lontane, per quanto drammatiche queste possano essere.

Tutto scorre, come nel celebre romanzo di Vasilij Semënovič Grossman. Scorrono i fiumi, il tempo, le vite, le rivolte, gli amori, le amicizie e i modi di produzione e riproduzione della vita stessa. Senza sosta, senza nostalgie, senza i sempre inutili rimpianti. Ciò che è stato è stato e non è possibile comunque tornare indietro, sembra suggerire l’autore. Che, con quest’opera, fa viaggiare il lettore avanti e indietro anche nel suo stesso percorso di scrittura, ricerca, vita e impegno: dai testi sul Mississippi e il Tamigi oppure su città come New York e Londra, a quelli sulla cultura e letteratura degli Stati Uniti (di cui è stato per anni docenti presso l’Università Statale di Milano); dalla vicinanza politica alla Sinistra Comunista fino ai testi, pubblicati già all’inizio degli anni Settanta sulle culture dell’Underground, la musica rock e popolare americana e la rappresentazione letteraria e politica della storia della lotta di classe in America (qui ).


  1. Il bayou (dalla lingua dei nativi Choctaw bayouk, che significa “tortuosità”) è un ecosistema, caratterizzato da acquitrini, fitte foreste e case su palafitte tipico del delta del Mississippi, in Louisiana. E’ costituito da distese paludose che si sviluppano tra i diversi bracci dello stesso fiume, mentre i corsi d’acqua formano una rete navigabile che la popolazione locale ha usato per secoli per spostarsi, pescare ed eventualmente sottrarsi al braccio del potere, come, ad esempio, ben narrano i romanzi noir di James Lee Burke.  

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Nemmeno John Wayne in soccorso del mito https://www.carmillaonline.com/2024/03/08/nemmeno-john-wayne-in-soccorso-del-mito/ Fri, 08 Mar 2024 21:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81449 di Giorgio Bona

Pat Garrett, L’autentica vita di Billy the Kid, a cura di Aldo Setaioli, pp. 176, € 15, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze 2024.

La modernità avanza a discapito del vecchio West, con il tramonto del periodo più puro in cui i temerari eroi della frontiera diventano mortali perdenti senza onore e senza legge. Un libro, L’autentica vita di Billy the Kid, che è in sintonia con la memorabile colonna sonora di Bob Dylan (1973), affascinante ballata western crepuscolare dove lo spirito indomito della frontiera e l’illusione di un’amicizia che ha il sapore di eterno non riescono a fare [...]]]> di Giorgio Bona

Pat Garrett, L’autentica vita di Billy the Kid, a cura di Aldo Setaioli, pp. 176, € 15, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze 2024.

La modernità avanza a discapito del vecchio West, con il tramonto del periodo più puro in cui i temerari eroi della frontiera diventano mortali perdenti senza onore e senza legge. Un libro, L’autentica vita di Billy the Kid, che è in sintonia con la memorabile colonna sonora di Bob Dylan (1973), affascinante ballata western crepuscolare dove lo spirito indomito della frontiera e l’illusione di un’amicizia che ha il sapore di eterno non riescono a fare diga contro un processo di civilizzazione drogato dal cinismo del neocapitalismo emergente e da una giustizia che non è uguale per tutti ma al servizio dei potenti. La fine di un’amicizia, quella tra Pat Garrett e Billy the Kid, segna anche il tramonto di un’epoca che, andando incontro al “progresso” legato ad una nuova visione del mondo, vede smarrirsi all’orizzonte i suoi eroi, mandriani e fuorilegge, cavalieri solitari e rinnegati.

Pat Garrett rappresenta colui che sa interpretare questa nuova visione di un mondo in mutamento e il suo racconto si presenta come una lunga meditazione crepuscolare in conflitto tra le ceneri del vecchio e le scintille per accendere il nuovo che sta sorgendo. Una ballata tra rassegnazione e speranza che non lascia capire quale dei due stia nel vecchio o nel nuovo per la patina di nostalgia negli occhi.

In Pat Garrett e Billy Kid (Pat Garrett and Billy the Kid, appunto 1973) Sam Peckinpah ha portato sulla scena un western d’addio dalla vena malinconica con un saluto di commiato al vecchio mondo. Per Peckinpah le figure di Pat Garrett e Billy the Kid rappresentavano l’opportunità di regolare i conti con il passato: l’amicizia tra i due finisce nel momento in cui Garrett diventa uomo di legge e appunta la stella di sceriffo sul petto, mentre il secondo continua a seguire la strada del fuorilegge. La caccia non potrà che condurre a uno scontro all’ultimo sangue.

I primi riferimenti su Billy the Kid si hanno da Sallie, nipote di John Chisum, il ricco allevatore del New Mexico portato sullo schermo da John Wayne in un film del 1970 – appunto Chisum – con la regia di Andrew V. McLaglen: una pellicola che ripropone i due miti del vecchio West in ruoli non precisamente memorabili e sembra una traslazione bislacca, perché quando di parla di personaggi come Pat Garrett e Billy the Kid si pensa decisamente ad altro. Sallie divenne una figura importante nella regione, visse fino al 1934 e lasciò un diario di importanza storica con tanti riferimenti a Billy the Kid e a Pat Garrett che lei aveva conosciuto di persona.

Per la prima volta appare in traduzione italiana la biografia di uno dei più leggendari banditi del West, Henry McCarty (1859-1881), alias William H. Bonney, meglio conosciuto come Billy the Kid, la cui leggenda è altrettanto epica di quella di un altro mattatore, Jesse James (1847-1882). In questo libro la storia ci viene raccontata addirittura da uno dei protagonisti, che rivela con meticolosa dovizia di cronaca le gesta del bandito. A scriverla è colui che gli diede la caccia e lo uccise nel 1881, Patrick Floyd Jarvis Garrett (1850-1908) uno dei più popolari sceriffi del vecchio West. Fu cacciatore di bisonti, barista, cowboy prima di diventare sceriffo di Lincoln nel New Mexico. Garrett ebbe la nomina di Deputy U.S. Marshall (agente federale), incarico che gli permetteva di seguire i ricercati oltre i confini di ogni singolo stato. L’amicizia tra Garrett e Billy the Kid finisce quando il primo diventa sceriffo e riceve l’incarico di arrestare il secondo: lo farà ostinatamente, contro tutto e tutti, e la caccia non potrà che portare a uno spargimento di sangue.

Questo è sicuramente il libro più vero e più ricco di dettagli attendibili che si sia dedicato al Kid perché fu scritto a ridosso dei fatti e ci offre una lettura a caldo della storia del famoso fuorilegge. Certo è scritto da Pat Garrett, e come suggerisce la logica sarebbe bello sentire la versione opposta, quella di Billy. Ma questo libro ci offre uno spaccato del vecchio West senza quell’alone di romanticismo e di leggenda che la filmografia mescola come ingredienti quasi inevitabili. La fine di un’amicizia viene imposta dai tempi, all’improvviso: due visioni della realtà che hanno sempre viaggiato parallele, a un certo punto arrivano a un bivio. La fine dell’amicizia si conclude con la morte di Billy.

Di qui un libro doloroso, eppur straordinariamente vivo: e Pat e Billy rappresentano due modi di essere “eroi” con visioni diverse. Per questo Pat Garrett nel suo scritto non si sente di condannare il vecchio amico che ha fatto una scelta sbagliata. È molto lontano dalle visioni cinematografiche come Chisum, dove William Bonney il Kid viene visto come un romantico inguaribile, con quell’aria da eterno ragazzo che non vuole crescere. Niente di tutto questo. C’è nel libro una forza antica che affonda le radici nella realtà del vecchio West, quella che ci ha fatto sognare, e pagine come queste ci permettono di recuperare.

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Bob Dylan e il mistero della condizione umana https://www.carmillaonline.com/2023/03/14/bob-dylan-e-il-mistero-della-condizione-umana/ Tue, 14 Mar 2023 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76159 di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta [...]]]> di Diego Gabutti

Bob Dylan, Filosofia della canzone moderna, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 352, 39,00 euro, eBook 16,99 euro

Premio Nobel per la letteratura nel 2016, Premio Pulitzer nel 2008, Bob Dylan è il campione di quel particolare genere letterario che, come le canzonette di cui esplora enigmi e meraviglie nella sua Filosofia della canzone moderna, «parla all’orecchio e non all’occhio».

È una letteratura moderna e post, che non va giudicata da quel che dice ma da come lo dice, da chi lo dice – e dove lo dice, e quando. Non è fissata una volta per sempre sulla carta né incisa una volta per tutte su una frittella di vinile o su un’impalpabile traccia mp3. Un autore, come fa lo stesso Dylan con i suoi vecchi hit, può decidere di rivisitare le sue composizioni più leggendarie, da “Maggie’s Farm” a “Like a Rolling Stone”, fino a renderle irriconoscibili. Versioni ritenute perfette di canzoni classiche possono essere riverniciate dalle cover, come ha fatto sempre Dylan con gli evergreen di Frank Sinatra (da Young at Heart a On a Little Street in Singapore, in uno dei suoi ultimi album, Fallen Angels, del 2016) e come hanno fatto con i suoi hit innumerevoli musicisti e band. E mica soltanto Ricky Nelson, i Byrds, Jimi Hendrix, Johnny Cash, Elvis Presley, Manfred Mann, The Band e Brian Ferry, ma anche De Gregori, i Nomadi, De Andrè, i Dik Dik, gli Articolo 31 e persino Adriano Pappalardo, Bobby Solo, Don Backy, Ricky Gianco. Dylan riconfigura, con le sue canzoni, l’intera scena musicale, da un punto cardinale all’altro, come poi dirà Robbie Robertson, il leader della Band, il gruppo con il quale Dylan incide nel 1967 i Basement Tapes, 100 incisioni senza eguali, l’equivalente rock’n’roll della Recherche proustiana.

Brada – senza mordacchia né fissa dimora, «no direction home» – la canzonetta è stata la colonna sonora del Novecento, da un capo all’altro. Prima, nella storia universale, non era mai successo niente di paragonabile. Salvo forse Omero, quando cantò la guerra dei dieci anni sotto le mura d’Ilio accompagnandosi con la lira e il tamburello, mai nessuno aveva messo la storia in musica, giorno per giorno, come nel secolo breve.

Oltre che uno di questi menestrelli, autore e interprete di canzoni immortali, Dylan è anche l’archivista di questo immane repertorio musicale, come dimostrano questo libro, il primo dopo Chronicles, del 2005, e la sua passione per le cover (che nel 1970, quando fece uscire Self Portrait, il suo primo album di canzonette per lo più altrui, destò scandalo tra i fan). Filosofia della canzone moderna è il catalogo ragionato degli Zip-A-Dee-Doo-Dah del Novecento. Ogni scheda è un’orecchia nelle pagine delle guerre mondiali, della guerra fredda, dei rari periodi di pace. Mancano le canzoni fuori gara, che non hanno bisogno d’essere richiamate alla memoria, o d’essere spiegate: le canzoni di Dylan, di Lennon-McCartney. Ma per il resto c’è dentro l’essenziale: il pop, il country, il folk, il rock’n’roll. Ogni scheda è un pezzo di bravura: una cover per l’occhio e non per l’orecchio.

C’è Volare di Domenico Modugno, per esempio, «una canzone che s’avvicina, sfreccia, continua per la sua strada procedendo a piena velocità, si schianta nel sole, rimbalza sulle stelle, esala in una nuvola di fumo come un sogno impossibile e va a esplodere dritta nel Paese delle meraviglie. È singolare e resta sospesa a mezz’aria». Modugno: «Già il suono del suo nome crea la sua propria canzone. […] È una seduzione in lingua italiana che comincia con una piccola, sognante introduzione pianistica seguita dalla voce di Domenico avvolta dall’organo prima che il ben noto inciso del titolo faccia irruzione». Cantare oh oh. / Volare oh oh oh. Se la canti, «passi rombando come una cometa, sei in fuga verso le stelle. Sarai magari pazzo ma non sei un imbecille».

C’è Blue Moon nella straordinaria versione di Dean Martin (ma al confronto, la versione di Dylan in Self Portrait non sfigura). Blue Moon: «Il suo fascino sta nel suo mistero. È una melodia che sembra uscita da Debussy. Dal nulla, una forma ti appare davanti. Ti volti, la luna ha cambiato colore, e adesso è d’oro. Quand’è stata l’ultima volta che hai visto una luna dorata? È una canzone che non ha senso, la bellezza sta nella melodia». Cantate da Dino, «le canzoni – anche Blue Moon – iniziano e dopo il ritornello vanno alla deriva, interrotte da barzellette e battute. “A Frank non piacciono quelli che parlano durante gli spettacoli. A me non importa se parlate durante il mio spettacolo. Per quello che mi riguarda potete anche giocare a bowling”. Dino è divertente, tenero, e sbronzo». «Frank», naturalmente, è Frank Sinatra. Di lui «è stato detto», scrive Dylan, «che era un teppista che quando cantava si trasformava in poeta».

Strangers in the Night: «Vagabondi e anticonformisti, oggetti di affetto reciproco, rapiti l’uno dall’altro e stretti in un’alleanza da loro stessi creata, ignari di tutte le età dell’uomo, l’età dell’oro, l’età elettronica, l’età dell’angoscia, l’età del jazz». E «Frank», che la cantò, era «qui per raccontare una storia diversa, il suo piumaggio diverso da quello degli altri uccelli». Un fatto incredibile: «La classifica delle prime cento canzoni, pubblicata il 2 luglio 1966 su “Billboard”, era dominata da quella piccola pop song. Pazzesco: nel bel mezzo dell’invasione britannica, Strangers in the Night dell’uomo venuto da Hoboken batteva Paperback Writer dei Beatles e Paint It Black degli Stones. Frank doveva far vedere a tutti chi era il padrone, anche se Strangers era una canzone che odiava e regolarmente liquidava come “un pezzo di merda”. Del resto, non dimentichiamo che Howlin’ Wolf una volta disse la stessa cosa della sua prima chitarra elettrica e che i fratelli Chess misero quelle parole a caratteri cubitali su una delle copertine dei loro album».

Ci sono le canzoni western, come El Paso e Jesse James, quest’ultima un classico pezzo folk americano inciso cent’anni fa da Harry McClintock (attore e poeta, nonché vicesceriffo a San Francisco e attivista sindacale nei ranghi degli IWW, gl’Industrial Workers of the World). Jesse James è stata rilanciata in tempi recenti da Bruce Springsteen: Jesse James era un ragazzo / che uccise molti uomini. / Rapinò il treno di Glendale./Rubava ai ricchi e dava ai poveri. «Ai tempi in cui Jesse s’aggirava per le campagne», scrive Dylan, «essere un fuorilegge era pericoloso. Voleva dire che qualunque cittadino poteva spararti legalmente, ucciderti a bruciapelo e riscuotere la taglia. Un fuorilegge doveva rendersi irriconoscibile, imparare a nascondersi in pieno giorno perché chiunque poteva sparargli, per strada. In effetti, è quello che accadde a Jesse James». Una storia, quella dei fuorilegge prodighi, che «si è estesa fino agli anni trenta con Pretty Boy Floyd, Bonnie e Clyde, la banda di Ma Barker. In quei giorni, se la tua faccia era esposta in un manifesto che diceva Wanted o in un ufficio postale, chiunque poteva spararti. Bisognava stare molto attenti». Fuorilegge e galeotti popolano anche le canzoni di Dylan: l’album John Wesley Harding, e poi (citandone solo alcune) Hurricane, Romance in Durango, George Jackson e la colonna sonora di Pat Garrett & Billy the Kid, il western di Sam Peckinpah, del 1973, dove Dylan figura anche come attore nella parte di Alias, uno dei bandidos di Fort Sumner.

C’è qualcosa del fuorilegge, qualcosa di borderline in ogni icona rock. Prendete Elvis Presley, che «quando ha inciso Blue Moon of Kentucky ha fatto quello che aveva già fatto con Mystery Train. L’ha truccata come un motore. Ha preso canzoni dal ritmo moderato come Blue Moon of Kentucky, Mystery Train e perfino Good Rockin’ Tonight e le ha ridotte all’osso per poi accelerarle. Che è la ragione per cui è stato chiamato “il cantante a propulsione nucleare”. L’energia nucleare stava venendo di moda ed Elvis navigava sulla cresta dell’onda». C’è qualcosa del fuorilegge, nei rockers e negli eroi americani. E qualcosa, anche, che c’entra con l’ingordigia, l’avidità, con la brama di ricchezze: «Vorrei avere cinque centesimi per ogni canzone che conosco e che parla di denaro, da Sarah Vaughan che canta di penny che cadono dal cielo a Buddy Guy che grida il suo blues per un biglietto da cento dollari. Se ti piace il verde delle banconote, Ray Charles ha una canzone e i New Lost City Ramblers ne hanno un’altra. Berry Gordy ha costruito la Motown sul denaro, i Louvin Brothers volevano contanti sull’unghia e Diddy sapeva che era tutta una questione di centoni. Charlie Rich cantava Easy Money, Eddy Money cantava Million Dollar Girl e Johnny Cash poteva cantare qualunque cosa».

C’è una speciale, impassibile filosofia pratica nelle canzonette, spiega Dylan quando canta e quando scrive o parla di musica pop: «Dischi di musica soul, come lo hillbilly, il blues, il calipso, Cajun, polka, salsa e altre forme di musica indigena, contengono spesso la stessa saggezza che le classi superiori ricevono all’università. La cosiddetta “scuola della strada” è una cosa che esiste davvero e non serve soltanto a imparare a stare alla larga da arraffoni e ciarlatani». Qualcosa s’impara sempre da quel che s’ascolta con lo smartphone o che si canticchia, pensierosi, sotto la doccia: «Mentre i laureati della Ivy League parlano d’amore in una sfilza di quartine soffuse di qualità astratte e attributi impalpabili, la gente – che abiti a Trinidad o ad Atlanta – canta dei vantaggi di avere per moglie una donna poco attraente e delle altre pure e semplici verità della vita».

Schede, appunti, note a margine, riletture (e rifischiettature) tra accademia e poesia, da Perry Como a Jerry Garcia, dai Clash a Ricky Nelson, dai Who ai Platters, da Bobby Darin a Vic Damone, da Bing Crosby a Roy Orbison… ma in Filosofia della canzone moderna (che è il libro d’un Nobel, e si vede) non c’è in ballo una sola Musa, quella della musica. C’è dentro tutto il pop: cinema, fumetti, serie tv, mode, droghe, beat generation, buoni e cattivi maestri. Dylan spazia da Mezzogiorno di fuoco a Mack The Knife dell’Opera da tre soldi, da Nick Mano Fredda a Leigh Brackett, sceneggiatrice del Grande sonno e di Rio Bravo, oltre che grande scrittrice di fantascienza (La danzatrice di Ganimede, La spada di Rhiannon). Tutto si tiene, tutto s’intreccia, e il mistero è che, da quest’amalgama riccamente illustrato di pulp, film e canzonette, non salta fuori una pagina chic della cultura ma una mappa fedele – zero bellurie, nessuna caramellosità – della condizione umana.

N. B.
Qui una recensione di opposto parere sul testo di Dylan, apparsa su Carmillaonline il 1°gennaio 2023, a cura di Walter Catalano,

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L’eroe, la volontà e il nulla https://www.carmillaonline.com/2021/06/23/la-volonta-e-il-nulla/ Wed, 23 Jun 2021 21:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66669 di Sandro Moiso

Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro

Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione [...]]]> di Sandro Moiso

Victoria Ocampo, 338171 T. E. (Lawrence d’Arabia), Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 112, 16,00 euro

Ricordo di aver visto per la prima volta il film Lawrence d’Arabia di David Lean all’età di dieci anni nel 1963. Ho ancora ben presente il contesto della sala cinematografica, grande e strapiena, in cui veniva proiettato in prima visione. Fumo di sigaretta, spettatori seduti ovunque, sulle scale oppure in piedi lungo le pareti. Doveva certamente trattarsi di Natale oppure Capodanno, poiché quelle erano le uniche date in cui era possibile andare in prima visione con i miei famigliari.

Quel film mi è rimasto dentro, insieme al suo protagonista splendidamente interpretato in chiave problematica da Peter O’Toole, ed è forse l’opera cinematografica che ho visto più volte in vita mia, insieme a Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, altro film poi non così distante dai contenuti del primo. Per questi motivi, ancora oggi, se qualcuno mi chiedesse a bruciapelo qual è il mio film preferito non avrei dubbi a rispondere che si tratta proprio di quello.

El Aurens, detto alla moda araba, non mi è rimasto inciso nella mente e nel cuore soltanto per le sue scene epiche e i panorami grandiosi oppure per le figure gigantesche e gigionesche dei capi tribù arabi interpretati da Anthony Quinn e Omar Sharif.
No, fin da allora a segnarmi fu l’immagine dell’eroe sconfitto dalla Storia e dai giochi imperiali che usciva da quelle vicende, e da quelle geopolitiche di cui era stato artefice, con un banale, ma forse ricercato, incidente motociclistico. Negli anni le vicende dell’eroe nietzchiano, che al termine di una continua ricerca della prova suprema e dell’atto ultimo e definitivo si ritrova imbrogliato, usato ed emarginato dai grigi esecutori delle burocrazie imperiali e degli interessi economici legati al petrolio, mi hanno fatto riflettere sulla vanità degli sforzi individuali e delle volontà, fosse anche delle migliori ed eroiche, nei confronti della Storia e dei suoi tellurici movimenti di cui contano soprattutto, più di quelli in superficie e violenti ma brevi, quelli sotterranei e lenti ma inarrestabili.

Il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence (1888 – 1935) fu archeologo, ufficiale dei servizi segreti britannici e scrittore. Conosciuto con lo pseudonimo di Lawrence d’Arabia, è ancora oggi celebrato come uno dei capi della rivolta araba durante la prima guerra mondiale.
Lawrence fu infatti un paladino del nazionalismo arabo ed è ricordato come uno dei più controversi e discussi protagonisti dell’insurrezione delle tribù arabe contro la dominazione ottomana a inizio del Novecento nella zona compresa fra l’Higiaz e la Transgiordania.
Nel 1922, tormentato e disilluso, dopo aver visto la diplomazia europea trasformare in beffa il suo trionfo militare, T.E. Lawrence si arruolò nella RAF come semplice aviere sotto il falso nome di Ross, mantenendo un rigoroso segreto sulla sua vera identità. Morì, in circostanze non ancora del tutto chiarite, a causa di un incidente motociclistico all’età di 47 anni.

Tutto questo per dire che il testo di Victoria Ocampo, pubblicato originariamente in Argentina nel 1942, poi in Francia e Gran Bretagna nel 1947 e oggi in Italia per la prima volta da una casa editrice la cui linea editoriale non è certamente prossima a quella espressa dalla redazione di Carmilla, permette al lettore di affrontare, da un punto di vista che ne sottolinea la ferrea volontà, i caratteri di un uomo che, alla fine di un travagliato ed esemplare percorso, finì col fare i conti con quel precipitare verso il nulla che sembra costituire, insieme al tema tipicamente novecentesco dell’annichilimento dell’individuo in quanto artefice del proprio ed altrui destino, l’ultima vera essenza dell’esperienza individuale moderna.

Che poi tale estrema esperienza sia stata cercata e raggiunta volontariamente oppure come conseguenza della sconfitta della volontà individuale è cosa su cui varrebbe la pena di soffermarsi ancora, poiché anche la condizione di distacco dalle cose del mondo, suggerita e dichiarata dalle filosofie orientali (la Ocampo parla del dharma di Thomas Edward Lawrence), potrebbe rivelarsi null’altro che la constatazione e l’accettazione di una condizione insuperabile dal punto di vista del singolo individuo.

E’ un’instancabile lotta contro l’io “odioso” Lawrence che l’”altro da sé” T.E. conduce per gran parte della vita, secondo lo sguardo dell’autrice. Un confronto che diventa particolarmente evidente nelle pagine del testo più importante e rivelatore della personalità di Lawrence, I sette pilastri della saggezza, da cui sarebbe poi stata tratta anche la sceneggiatura del film di David Lean.

Una ricerca sistematica di allontanamento dal proprio Io che nell’assunzione di diversi alias nel corso della seconda fase della sua vita (tra cui quelli di T. E. Smith, T. E. Shaw e John Hume Ross) rivela la netta volontà di scomparire dalle pagine dell’album di famiglia dell’impero britannico.

Un personaggio estremamente contraddittorio interpretato da una scrittrice che lo è stata altrettanto: argentina di nascita che per lungo tempo adottò la cultura e la lingua francese come patria intellettuale e di espressione, mentre le sue origini aristocratiche e il fatto di essere una nota oppositrice del governo di Juan Perón fra il 1946 e il 1955 (motivo per cui fu imprigionata nel 1953), la identificarono per un orientamento culturale conservatore ed elitario, anche se le sue relazioni personali e la sua attività di editrice la mantennero in contatto con numerosi scrittori dalla differente impronta ideologica. Probabilmente il suo ruolo più importante fu quello, a partire dal 1931, di fondatrice della rivista “Sur”, che avrebbe pubblicato scrittori argentini, come Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Ernesto Sábato e Julio Cortázar, e contribuito alla diffusione presso il pubblico argentino degli scritti di autori stranieri, soprattutto francesi, inglesi e statunitensi.

Spesso al centro delle scene mondane e letterarie, in patria e all’estero, Victoria Ocampo (1890 – 1979) fu, come il suo eroe, di cui disse: «Sono immersa in Lawrence. Lo amo. Respiro… Il mio sangue circola bene quando lo leggo. Lo ammiro e sono felice che sia esistito», affascinata e attratta dal nulla. Il nulla di quel deserto senza confini che aveva circondato le azioni dell’inglese minuto destinato a diventare, più che un gigante, una figura prometeica della politica mediorientale del primo ventennio del XX° secolo, fin da subito indirizzato alla sconfitta nonostante i successi iniziali.

Una vita, quella di Lawrence, caratterizzata, nelle testimonianze di tutti coloro che lo conobbero e che sono largamente riportate nel testo, dal tentativo di superare i limiti fisici della corporeità per mezzo di pratiche ascetiche (attività fisica destinata a sopportare le condizioni climatiche e militari più estreme, astinenza sessuale e alimentare), in nome dell’affermazione di un’individualità che, apparentemente, intendeva liberarsi anche dai limiti anagrafici imposti dal nome (da qui il numero di matricola riportato dal titolo), ma che fallì, nonostante tutto nel suo tentativo di librarsi al di sopra della Storia e della materialità delle cose e dei fatti umani.

Quando Lawrence parla dei giovani inglesi che hanno combattuto al suo fianco e di cui si sente felice di essere compatriota, si indigna che vengano sacrificati non per vincere la guerra, ma affinché l’Inghilterra possa disporre del grano, del riso e del petrolio della Mesopotamia.
Vincere il nemico era necessario. Lo fecero dice, Lawrence. Ma la guerra vinta non significava per lui grano, riso e petrolio. Si vanta, come sua massima gloria, di aver risparmiato, in trenta battaglie, il sangue dei suoi. «Tutte le province soggette all’Impero non valevano per me un giovane inglese morto»1.

E’ il Lawrence del “Nulla è scritto”, frase che caratterizza la scena centrale del film di David Lean, quando il protagonista torna a sfidare l’”incudine di Allah” (la parte più arida del deserto del Negev) nella parte più calda del giorno per salvare un beduino disperso durante la marcia notturna.
Scena destinata a segnare anche il climax del film e il destino dell’azione di Lawrence poiché, per impedire la dissoluzione della sua armata composta da differenti tribù, il cui obiettivo è quello di cogliere di sorpresa e alle spalle la guarnigione ottomana di Aqaba, sarà poi costretto ad uccidere quello stesso uomo che aveva salvato; affinché il suo sangue non ricada sulle mani, già offese, di un clan diverso da quello a cui apparteneva e impedendo così l’inizio una faida distruttiva e senza fine.

E’ sicuramente un episodio simbolico ancor più che reale, ma serve perfettamente a cogliere l’impotenza dell’individuo, anche della personalità più forte e decisa, davanti ai casi della Storia e delle uraniche potenze che la agitano, sia che queste appartengano al cielo oppure a quelle della politica e delle forze economiche materiali.

Certamente, però, l’intera narrazione delle imprese del nostro risentiva dell'”orientalismo”, colonialista e tutto sommato razzista, di cui parlava Edward Said2 a proposito di un’immagine dei popoli arabi e/o coloniali che li vedeva destinati ad essere guidati e risvegliati dai rappresentanti di una società più “moderna e avanzata”: quella europea per l’appunto. Così mentre tra il novembre del 1915 e il marzo dell’anno seguente aveva già preso corpo il trattato Sykes-Picot, un accordo segreto tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente (o Asia Minore come allora ancora veniva definito) in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale, ratificato nel maggio del 1916, Lawrence poteva ancora perseguire paternalisticamente i propri obiettivi, così come sottolinea la Ocampo poco dopo l’affermazione precedentemente ripotata: “Che si riprometteva dunque? A che mirava vestito da arabo tra gli arabi e da inglese tra gli inglesi? «Se ho restituito all’Oriente [ci dice] un po’ di rispetto di sé stesso, uno scopo, degli ideali […] io ho, fino a un certo punto, reso quelle genti adeguate al nuovo ‘commonwealth’ in cui le razze dominanti dimenticheranno le loro azioni brutali e in cui i bianchi, i rossi, i gialli, i marroni e i neri si metteranno in piedi fianco a fianco ponendosi senza pregiudizi al servizio del mondo»”3.

Ma era anche cosciente del fatto che il suo paternalismo di stampo colonialista avrebbe dovuto, per forza di cose, fare ancore i conti con la politica reale dell’imperialismo e del colonialismo:

Il suo ostinato desiderio che gli arabi, uniti e liberi, potessero far rinascere la loro civiltà, come una nota necessaria tra le altre, si accentuava a mano a mano che progrediva la campagna nel deserto. E agli arabi egli aveva promesso in nome dell’Inghilterra proprio la libertà. Gli arabi non si sarebbero battuti per passare dalle mani dei turchi a quelle degli inglesi o dei francesi, e Lawrence ne era consapevole. Sapeva anche che la solidità delle promesse del suo governo era in dubbio e contava sul prestigio delle vittorie arabe per esigerne lui stesso il mantenimento.
Un poco alla volta le cose si ingarbugliarono. Lawrence era lacerato tra la fedeltà ai suoi capi, alla sua patria e la fedeltà ai capi arabi, agli arabi che avevano creduto alla sua parola e nella sua persona e che per questo si erano fatti uccidere. Non poteva probabilmente parlare apertamente del suo conflitto interiore né agli uni né agli altri. Nel suo trentesimo anno, prigioniero di questo dilemma, e prima di entrare vittorioso a Damasco, Lawrence era già disgustato di una gloria che gli sembrava fondata sull’inganno […] «Gli arabi mi credevano; Allenby, Clayton [suoi superiori] si fidavano di me, la mia guardia del corpo [composta di arabi] moriva per me. Io cominciavo a chiedermi se ogni fama fosse fondata come la mia su un inganno»4.

La volontà, l’ideale, l’inganno e il nulla finivano a quel punto col coincidere e definire l’unico spazio di azione possibile per l’eroe, dall’Ulisse omerico e dantesco fino all’agente dei servizi britannici destinato ad agire nel Medio Oriente del primo conflitto mondiale. Come lo stesso Lawrence ebbe a scrivere nei Sette pilastri della saggezza:

Tutti gli uomini sognano, ma non nello stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma sono quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu ciò che io feci. Intendevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale. Uno scopo così alto fece appello alla loro insita nobiltà di sentimenti, e li indisse ad assumersi una generosa parte nella vicenda. Ma, quando vincemmo, fui accusato di aver messo in pericolo i profitti inglesi sui petroli della Mesopotamia, e d’aver rovinato la politica coloniale francese nel Levante5.

Le ricerche storiche successive hanno teso, quasi tutte, a sminuire il ruolo di guida e demiurgo che Lawrence tese ad attribuirsi o che gli fu attribuito dai primi biografi, riducendolo spesso, come afferma Nemi D’Agostino in una nota aggiunta nel 1974 alla sua opera più famosa, ad eroe mancato, il cui sogno romantico rimaneva di stampo conservatore, mentre la sua campagna, a parte il successo conseguito con la presa di Aqaba, registrò una serie di insuccessi, neutralizzati soltanto dall’avanzata inglese nel Sinai e in Palestina, la quale ultima permise infine agli arabi la vittoria politica dell’ingresso a Damasco6.

Sicuramente, però, l’attrazione ideale esercitato dall’avventuriero inglese sull’autrice argentina portò quest’ultima a considerazioni dal carattere psicologico, filosofico e letterario, ben diverse rispetto a quelle fin qui esposte.

“Forse il suo torto fu di crogiolarsi nel rifiuto. Ma possiamo chiamare torto ciò che senza dubbio fu il suo dharma? Come quella di Arjuna sul campo di battaglia, la sua anima era sgomenta. Niente poteva dissipare l’ansia che la paralizzava. Come Arjuna, Lawrence non desiderava più né vittoria, né regalità, né voluttà. Era un abitante delle grandi pianure. Ed è in questa regione, popolata di assenze, che ha avuto luogo il nostro incontro”7.

Anche se tutto ciò non toglie nulla a un libro che può essere tranquillamnete consigliato a chi ha subito almeno una volta il fascino dell’avventuriero inglese e del deserto, anche interiore, che ha sempre accompagnato la sua immagine.


  1. Victoria Ocampo, 338171 T. E., Edizioni Settecolori, Milano 2021, p. 48  

  2. Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2002  

  3. V. Ocampo, op.cit., pp. 48-49  

  4. Op. cit., pp. 49-50  

  5. T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Milano 2002 (XXI edizione), p. 15  

  6. Nemi D’Amico, Nota (gennaio 1974) in T.E. Lawrence, op.cit., pp. 799-812  

  7. V. Ocampo, op.cit., pp. 18 -19  

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Soltanto la morte danzava sulle grandi pianure https://www.carmillaonline.com/2017/12/07/la-morte-danzava-sulle-grandi-pianure/ Wed, 06 Dec 2017 23:01:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41690 di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima [...]]]> di Sandro Moiso

Larry McMurtry, Lonesome Dove, Einaudi 2017, collana Supercorall, pp. 952, € 25,00

Torna nelle librerie a trent’anni di distanza dalla prima edizione, nella nuova traduzione di Margherita Emo e con il titolo originale non tradotto, un autentico classico della letteratura western e della letteratura americana contemporanea. Sicuramente un’ottima scelta per una casa editrice che già ha avuto il merito di far conoscere in Italia l’opera di Cormac McCarthy (classe 1933), cui non solo idealmente è possibile ricollegare questo romanzo dell’altro grande vecchio del western: Larry McMurtry (classe 1936).

Ottima scelta per un paese in cui l’attenzione della critica letteraria per la letteratura americana sembra, negli ultimi anni, essersi concentrata principalmente su autori come David Foster Wallace o Don DeLillo. Scelta utile anche per contrastare un’idea di cultura e letteratura che incoraggia una certa critica, tutt’altro che competente, a recensire positivamente un film noioso e inutilmente ripetitivo come “Revenant” di Alejandro González Iñárritu, dimenticando o, peggio ancora ignorando, che alla base dello stesso possa esserci invece un ottimo ed essenziale romanzo come “Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta” di Michael Punke, edito anch’esso da Einaudi nel 2014. Critici superficiali che finiscono col ridurre le vicende drammatiche dell’espansione wasp verso l’Occidente americano, nei primi decenni dell’Ottocento, ad una storiella degna del grande Blek. Ignorando così sia la storia che la tradizione letteraria degli Stati Uniti.

Nel 1986 il romanzo di Larry McMurtry, che aveva appena vinto il premio Pulitzer, era stato infatti edito da Arnoldo Mondadori con il titolo, poco accattivante per l’epoca, Un volo di colombe nella traduzione di Roberta Rambelli. Titolo che tradiva non solo il titolo originale,1 ma l’intero senso della storia narrata.
Devo infatti dire che, all’epoca, se non mi fosse stato regalato da un carissimo amico, non avrei mai preso in considerazione un libro che, a differenza dell’attuale riedizione, mostrava in copertina un’immagine e un titolo degni di un romanzo di Barbara Cartland: una giovane e avvenente donna bionda che salutava romanticamente un cowboy in sella e già pronto a partire per chissà quali avventure.

E proprio in tale suggerimento sta la questione, poiché se l’editore attuale si ostina ad inserirne ancora la trama nell’epopea della grande avventura del West, in realtà questo non è un romanzo di avventure. O, meglio, un romanzo in cui l’avventura costituisce il centro delle vicende. Larry McMurtry, nei romanzi che compongono la quadrilogia da cui è tratto Lonesome Dove,2 ma non solo in quelli, non è uno scrittore d’avventure. Cosa che lo metterebbe sul piano di Zane Grey, Louis L’Amour o altri autori seriali del genere western-avventuroso.

In realtà McMurtry ha suddiviso la sua esperienza di scrittore in almeno in tre settori: un settore mainstream in cui ha pubblicato romanzi come Voglia di tenerezza (da cui, nel 1983, fu tratto un film di Jame L. Brooks con Jack Nicholosn e Shirley McLaine, vincitore di 5 premi Oscar); un settore western (numerosi romanzi e racconti) e, infine, uno dedicato alla ricostruzione storica di personaggi e vicende dell’Ovest americano dell’Ottocento.3

Sono in particolare queste ultime opere a rivelare che per lo scrittore di Wichita Falls l’interesse per la storia e le vicende della conquista dei territori dell’Ovest non è né superficiale né tanto meno casuale. La conoscenza della materia è infatti approfondita e l’attenzione per tutto il sangue che ha intriso la terra delle grandi pianure su cui un tempo pascolavano i bisonti non ha una funzione soltanto narrativa. Come le vicende del romanzo in questione dimostrano ad ogni pagina.

In uno paese al confine fra Texas e Messico, ben dopo la fine della guerra civile, Augustus McCrae e Woodrow Call, due ex-ranger, ammazzano il tempo bevendo e giocando a carte oppure lavorando sodo dall’alba al tramonto, allevando uno smagrito bestiame, mentre nei dintorni si aggirano solo armadilli e capre spelacchiate. Un giorno però torna un vecchio amico che descrive i pascoli lussureggianti del Montana. Radunata una mandria di bovini e messa insieme una nuova squadra di autentici proletari a cavallo i due soci partiranno per essere i primi a fondare un ranch oltre lo Yellowstone.

E’ il tipico inizio di una miriade di trame western classiche: da Red River-Il Fiume Rosso di Howard Hawks (1948) a Open Range – Terra di confine di Kevin Costner (2003). Ma qui, fin dall’inizio non vi è altro che la morte ad attendere gran parte dei personaggi durante il lunghissimo viaggio oppure alla sua fine. Morti banali legate alla presenza nei fiumi dei velenosi mocassini d’acqua oppure violente dovute allo scontro tra bianchi, avidi di guadagno, e tribù che non intendono cedere i propri territori e gli animali selvatici che li popolano, anche se ancora per poco.

Morti di donne che sognano una vita che non sia quella in una monotona cittadina di frontiera e di bambini, che non hanno altra colpa di essere lì, da qualche parte nello sperduto nulla del West, nel momento peggiore e ultimo della loro vita. Morti che concludono vite qualsiasi oppure apparentemente già entrate nel mito e vite di rinnegati, bianchi o nativi americani, che cercano nella violenza un’ingiustificata vendetta oppure una sorta di impossibile riscatto.

Morte per i cacciatori di bisonti e per chi si accompagna a loro in cerca di fortuna; morte per chi immaginava una vecchiaia tranquilla tra pascoli verdi e acque ancora chiare. Morti istantanee e morti atroci, magari tra gli spasmi di una cancrena o di un veleno che divora il corpo. In terra non esiste che l’inferno e nel cielo si aggirano soltanto nubi di tempesta. Il sogno americano muore in ogni riga e in ogni capitolo del romanzo.

La banalizzante e inveterata abitudine, specialmente legata alla critica di cui si parlava all’inizio, di considerare la narrazione western come il caposaldo della difesa del mito fondativo americano non tiene conto del fatto che, molto spesso, proprio in quella narrativa, sia essa cinematografica o letteraria, si trovano gli argomenti più forti per comprendere come gli Stati Uniti siano nati da un grosso equivoco, da un’altrettanto grande menzogna e da una ancor più grande violenza che ha distrutto spesso insieme l’opera dell’uomo e l’ambiente che la circondava.

Basti pensare ad alcuni altri grandi romanzi della letteratura americana del dopoguerra come Il grande cielo di A. B. Guthrie (1947) oppure Butcher’s Crossing di John Williams (1960), oltre a quelli di Cormac McCarthy, 4 oppure ancora alla cinematografia recente di Tommy Lee Jones e in particolare al suo The Homesman (2014), tratto dall’omonimo romanzo di Glendon Swarthout del 1988,5 per non citare sempre e soltanto i classici di Sam Peckinpah, Dick Richards (The Culpepper Cattle Company,1972 – Fango, sudore e polvere da sparo) e Robert Aldrich (Ulzana’s Raid, 1972 – Nessuna pietà per Ulzana). Quelle appena citate non appartengono comunque ad una letteratura e una cinematografia buonista e non sono neppure troppo politically correct,6 ma appartengono tutte ad una visione più antica e profonda dei drammi che hanno fondato la storia e la nazione americana.

Una visione drammatica che, se ancor non rivolta alle grandi pianure, ha inizio proprio con Moby Dick di Melville, in cui desiderio di guadagno e sete di vendetta non possono portare ad altro che ad un’inutile e sanguinosa distruzione di uomo e natura insieme. Intendendo qui come natura anche le comunità ancora non sottomesse alla successiva regola capitalistica travestita da civiltà universale. Un’ombra che si allunga già sul primo romanzo della Frontiera, Last of the Mohicans di James Fenimore Cooper, attraverso la figura tragica di Magua e la sua feroce e inutile ribellione contro una Storia già scritta da ben altre forze. Un senso di sconfitta e di irrealizzabilità di qualsiasi umano desiderio che sta agli antipodi del sogno americano, sia esso promesso da Donald the Duck Trump oppure da Mickey Mouse Obama, e che di conseguenza rivela anche la menzogna contenuta nella leggenda del melting pot.
Quasi a conferma di ciò che affermava William Burroughs nel suo Pasto nudo (1959):

L’America non è una terra giovane: era già vecchia, sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta.

Una fine che giunge ancor prima che il sogno abbia inizio, all’interno di una morale puritana in cui il senso della predestinazione raggiunge, fin dai tempi di Cotton Mather, i suoi vertici letterari e culturali. Il cui senso ultimo è sempre lo stesso: nessuno è destinato a salvarsi e i predestinati della tradizione luterana forse neppure esistono. Poiché alle spalle tutti hanno un peccato originale così grave, la distruzione della Natura e delle comunità umane preesistenti, che neppure Dio può cancellare.
Animando così quel cupo senso di morte, quell’autentico memento mori che sembra caratterizzare quasi tutta la letteratura americana da Melville a Poe, da Twain a Hemingway, da Cormac McCarthy a Burroughs.

Nell’opera di McMurtry decine di piccole storie s’intrecciano tra loro ed escono dall’ombra della Storia per un attimo. Fantasmi dimenticati di una vicenda di conquista e indebita appropriazione che ha segnato l’immaginario di un secolo. Non solo americano. E se per caso qualcuno dubitasse di questa interpretazione basterebbe rileggere oppure riguardare un altro romanzo dell’autore americano: The Last Picture Show del 1966,7 da cui Peter Bogdanovich trasse, nel 1971, uno dei suoi film migliori.

Un’autentica elegia sulla fine del West e della sua leggenda, vista attraverso le vicende di un’amicizia tra due giovani, il loro rapporto con l’unica sala cinematografica in cui si proiettano ancora e soltanto film western, con l’ultimo dei cowboy e l’amore per la stessa ragazza.
La guerra di Corea costringerà uno dei due ad allontanarsi da tutto ciò e al suo ritorno tutto sarà svanito: l’amore, la sala cinematografica ormai chiusa e il vecchio cowboy ormai morto.
Segnando una cesura definitiva con un prima che probabilmente poteva essere soltanto immaginato dai giovani protagonisti a causa dell’età.

Anche Lonesome Dove nasce da un’idea di collaborazione tra lo scrittore texano e il regista Bogdanovich, quando all’inizio degli anni Settanta, Peter Bogdanovich avrebbe voluto girare un film in omaggio al suo maestro John Ford.8 Nasce così il primo abbozzo di Lonesome Dove, sebbene con un altro titolo. Successivamente, nel 1989, Lonesome Dove verrà adattato in una mini-serie televisiva, con Robert Duvall e Tommy Lee Jones.

La collaborazione con il cinema continuerà nel tempo per McMurtry, anche attraverso l’adattamento cinematografico di una storia tratta dall’opera di un’altra grandissima autrice statunitense, di origini canadesi, di storie western: Annie Proulx. Il film sarà quel Brokeback Mountain (I segreti di Brokeback Mountain), diretto da Ang Lee9 che nel 2005 proporrà una visione assolutamente diversa della vita e della sessualità dei cowboy. Contribuendo a distruggere uno degli ultimi miti della Frontiera: il machismo sciupafemmine e la virilità incontaminata degli uomini delle grandi praterie.


  1. Lonesome Dove, colomba solitaria, è il nome del ranch da cui prende inizio la vicenda  

  2. Gli altri sono: Streets of Laredo (1993), Dead Man’s Walk (1995) e Comanche Moon (1997). Tutti ancora non tradotti in Italia  

  3. Crazy Horse: A Life, 1999 pubblicato in Italia come Cavallo Pazzo. Storia del capo Sioux che vinse a Little Bighorn, Mondadori 2003; Oh What A Slaughter! : Massacres in the American West: 1846—1890, 2005 e, solo per citarne uno dei più recenti, Custer, 2012  

  4. In particolare Blood Meridian, or The Evening Redness in the West (1985), traduzione italiana Meridiano di sangue, Einaudi 1996; All the Pretty Horses (1992), Cavalli selvaggi, Einaudi,1996; The Crossing (1994), Oltre il confine, Einaudi, 1995 e Cities of the Plain (1998), Città della pianura, Einaudi, 1999  

  5. In assoluto la migliore descrizione delle reali condizioni di vita delle donne sulle grandi pianure del West e del Midwest  

  6. A differenza di film come Little Big Man (Il piccolo grande uomo) diretto da Arthur Penn nel 1970 e tratto dal romanzo omonimo di Thomas Berger (1964) oppure Soldier Blue (Soldato blu) diretto nel 1970 da Ralph Nelson e ispirato al romanzo dello stesso anno Arrow in the Sun di Theodore V. Olsen, che risentivano, soprattutto il secondo, del clima intellettuale e culturale creato dalle proteste contro la guerra in Vietnam.  

  7. Traduzione italiana: L’ultimo spettacolo, Mattioli 1885, 2006  

  8. Cui aveva dedicato, nel 1971, il documentario-intervista Directed by John Ford  

  9. Regista di origine cinese che già aveva diretto un altro film western dedicato ai guerriglieri sudisti dopo la Guerra Civile: Ride with the Devil (Cavalcando con il diavolo) nel 1999  

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L’estate del 1964 ( o giù di lì e oltre) – 2 https://www.carmillaonline.com/2016/01/21/lestate-del-1964-o-giu-di-li-e-oltre-seconda-parte/ Thu, 21 Jan 2016 22:07:05 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27926 di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per [...]]]> di Sandro Moiso

Wild Bunch 1Torniamo, però, ancora al 1964. Quando arrivò pure il primo western di Sergio Leone: “Per un pugno di dollari”. Vietato ai minori di 14 anni, ma mio padre, approfittando del fatto che ero abbastanza alto, garantì per me alla cassa del cinema. Sempre sia lodato, per il suo amore per il cinema western, mica per la sua liberalità. Negli anni avrei prima o poi rimesso in discussione tutto, da Marx a Lenin passando per Bordiga, ma Leone e Peckinpah mai.

Il discorso sulla violenza e il sangue fatto prima per la narrativa odierna vale altrettanto per il cinema. Ma quei due, per i quali il West era solo un pretesto per parlare di anarchia e di rivoluzione e di uso delle armi per riparare ai torti dei potenti, furono un’altra cosa. Dei maestri. Che aprirono la strada ad un breve periodo in cui i pistoleri dell’Ovest sembravano avere le fattezze dei rivoluzionari cubani e latinoamericani. Soprattutto quando ad interpretarli erano chiamati Gian Maria Volonté o Warren Oates.

Nell’autunno del 1964 entrai nella scuola media unica, che era stata avviata con la riforma scolastica entrata in vigore il 31 dicembre 1962 con effetto dall’anno scolastico successivo. Grazie a ciò, nel giro di pochi anni raddoppiò il numero degli allievi frequentanti le scuole medie superiori. I numeri valgono più delle ideologie per spiegare i fenomeni sociali. Anche per il’68.
Che ci trovò, per così dire, pronti.

Pochi venivano da un inquadramento partitico o da un indottrinamento politico.
Sicuramente leader e leaderini avevano seguito quel percorso, ma furono pochi e grande era il disordine che regnava sotto il cielo di quei giorni.
Tutti si buttarono a pesce per abbrancarci e molti di noi sfuggirono a stento alle sirene che volevano richiamarci verso il PCI o verso i marxisti-leninisti dalle varie linee nere e rosse.

Ma quando ci avvicinarono noi avevamo già assaggiato le carezze dei calci dei moschetti, dei manganelli o delle catenelle delle manette. Sparate dritte sulla faccia o sulla testa. Oppure, se ci era andata bene, soltanto sulla schiena.
Ma eravamo incoscienti e piuttosto ostili a quella disciplina che volevano inculcarci, a tutti i costi, a calci in culo. L’unica cosa che ci interessava davvero era render pan per focaccia. A fascisti e polizia.

La teoria arrivò più tardi, mica subito.
L’azione precede la parola e poi ne richiede l’uso per spiegarla.
E le parole precedono le idee. Le parole spiegano l’azione e, in seguito, le idee che ne derivano creano il mondo. Anzi, creano la visione del mondo.
Ma nella materialità del mondo è l’azione che fa la differenza. Tutto il resto arriva dopo.

Marx affermò chiaramente che la classe operaia o lotta o non è.
Insomma la classe si fa tale in quanto agisce. Soltanto dopo pensa e riordina le sue azioni e le sue strategie. Quei teorici del partito che volevano portarci la coscienza da fuori, non si rendevano nemmeno lontanamente conto che il fenomeno era in realtà completamente rovesciato. Infatti potevano intravedere la coscienza grazie all’azione esercitata dalla classe e soltanto così innamorarsene.

Allo stesso tempo cercare di definire la classe o l’appartenenza ad essa in termini politici a partire da elementi non biografici, ma esclusivamente economici e sociali rischia di far cadere in un realismo sociologico che può forse funzionare per i grandi numeri, ma non per i percorsi individuali o generazionali.

In realtà per capire a ritroso la storia di una scelta complessa come quella di diventare militanti rivoluzionari occorre, un po’ come fece Walter Benjamin con la sua ricostruzione dei passages parigini, ricercare corrispondenze, collezionare ritagli casuali e tracce; giungendo cioè a creare quella che il filosofo tedesco chiamò una “fantasmagoria dialettica”, in cui quelle scarse e sparse testimonianze e ricordi, opportunamente assemblati e giustapposti possono, soli, rendere l’immagine della tempesta personale che fu scatenata da eventi tra i più disparati e che avrebbe accompagnato e prodotto avvenimenti meglio indirizzati una volta raggiunto un diverso ordine interiore.

giù la testa Gli avvenimenti, i più diversi tra di loro, ci possono avviare verso un percorso rivoluzionario prima di averne piena coscienza. Soltanto dopo questo primo passo sarà possibile razionalizzare le scelte e indirizzare gli sforzi verso un comune obiettivo. Vale per l’individuo e vale per l’azione di classe o di un partito rivoluzionario o preteso tale. Che non può esistere se non è preceduto dall’azione spontanea dei movimenti sociali. Dopo li potrà comprendere, anticiparne alcune scelte e, magari, guidare momentaneamente, ma non li potrà mai e poi mai creare.

Quei movimenti non si possono inventare. Sono la manifestazione fenomenica di un inconscio collettivo profondo. Nutrito di sogni, bisogni, parole, suoni, desideri, istinti, inconsapevole a se stesso fino a quando non si presenta un elemento scatenante: una crisi, un licenziamento, una promessa non mantenuta, una speranza infranta, un maltrattamento inaspettato o di troppo. E ciò avviene in un momento preciso, lungo come il decennio dal’68 al ’77 oppure brevissimo, come il tempo di uno sparo.

Ma in quel momento tutto si illumina, tutto diventa chiaro, tutto risplende di luce propria anche se chi cercherà di prenderne la testa vorrà appropriarsi di quella stessa luce, finendo col risplendere di una luce riflessa. Come un satellite che gira intorno ad un astro vero. Paradossalmente attratto dal moto di rotazione del corpo celeste di superiori dimensioni e allo stesso tempo, presuntuosamente, convinto di determinarlo. Mentre la fine del movimento e della rotazione costante di quel corpo ne segnerà l’inevitabile caduta o dispersione nell’immensità del cosmo.

Ed è per questo che ciò che fa scoppiare una rivolta o una rivoluzione una prima volta può non funzionare una seconda. Ed è ancora per questo che i partiti che sopravvivono all’esperienza che li ha generati sbagliano sempre nel comprendere i fenomeni successivi.
Si aspettano ciò che è già stato e non capiscono che, molto probabilmente, non si ripeterà più. Almeno con la stessa intensità, violenza e determinazione.

Ed è infine per questo che i partiti rivoluzionari di un tempo sono destinati a diventare i partiti della conservazione, se non addirittura della controrivoluzione nelle successive stagioni della storia.
Così, spesso, hanno finito col barattare i principi generali a cui si ispiravano pensando che fossero quelli ad essere sbagliati; senza rendersi conto, invece, che era la loro attesa che aveva tempi diversi da quelli del treno della storia. Che pur sarebbe prima o poi passato, ma non per quella stazione e con quegli orari.

Ho scritto da altre parti che eravamo come giovani treni lanciati in corsa.
Noi eravamo saliti su quel treno, lo avevamo acchiappato al volo; eravamo diventati quel treno.
Ne eravamo contemporaneamente i passeggeri e la locomotiva e continuammo a correre.
Fino a quando deragliò o fu fatto deragliare.
Dal treno potevamo vedere o intuire la destinazione, ma non potevamo controllare i binari.

mexican train Mi vengono in mente le immagini dei treni durante la rivoluzione messicana. Stracarichi di armati, donne, bambini, cavalli.
Come al solito quelle immagini ci erano giunte mediate dal cinema di Leone e di Peckinpah. Su quei treni là gente ci viveva, non viaggiava soltanto.
Intorno a quei treni si combatteva, si moriva, si vinceva e si perdeva.
Forse da lì mi è venuta l’idea di quella nostra definizione. Che mi piace ancora.

Mi piace soprattutto l’immagine di quei treni fermi, ma con le locomotive sbuffanti.
Esprimono ciò che è ancora solo in potenza e non ancora in essere; anche se lo fanno già prevedere.
Oggi mi sento ancora sullo stesso treno, ma forse ha imboccato un binario morto.
Oppure i passeggeri sono scesi tutti o quasi e hanno deciso di prenderne un altro. Forse a quella stazione di cambio ero addormentato oppure guardavo distrattamente da un’altra parte.

Eppure, eppure…
Ricordo che, quando quel treno era in corsa, nelle ultime fermate ci eravamo scontrati fermamente con il PCI. Il vero garante dell’ordine. Democratico si diceva allora.
Ed oggi vedo giovani dei centri sociali e precari e lavoratori scontrarsi con gli eredi di quel partito e con il loro governo. Anche oggi si chiamano “democratici” o, tra poco, Partito della nazione.

Superata questa immagine del treno?
Dovrei parlare di rete o di reti? In fondo in rete scrivo ed invio i miei messaggi in bottiglie di byte.
Ma ho i capelli bianchi e nel mio immaginario quei binari che si perdono verso l’orizzonte, sui quali si corre trascinati da una macchina pulsante, mi affascinano di più.
Anche se, quando parlo con i miei allievi, mi accorgo che non possono più vivere le stesse mie emozioni. Ed io le loro.

Ma il problema posto dal superamento di questo modo di produzione orrendo permane.
E una parte della teoria già prodotta potrebbe ancora servire.
A patto di sapere dove si cela la classe oggi, quali sono i suoi comportamenti, quali le sue azioni.
Autentiche e non scimmiottate.
Dove trovare l’equivalente della classe operaia quando questa, qui in Occidente, è stata ridotta ai minimi termini, dispersa, convogliata verso rivendicazioni miserabili ed egoiste?

Gli operai che trovavo alle porte della FIAT negli anni settanta avevano, quasi sempre, la stessa mia età. Avevamo molti gusti in comune e lo stile di vita non era così distante. Come sarebbe stato possibile non intenderci, al di là del volantino o del giornale distribuito davanti ai cancelli?
Anche loro erano già stati dipinti come teppisti. Prima in piazza Statuto poi in corso Traiano.

Il giovane rivoluzionario è sempre dipinto come un teppista o un delinquente.
Oppure come un terrorista, anche se ha contribuito soltanto al sabotaggio di una betoniera.
E’ facile perdere la fiducia dopo una certa età.
E’ facile scoraggiarsi e rinunciare.
Non è vero che si continui a credere per auto-consolazione, sarebbe più facile lasciar perdere.
Guardare scorrere le immagini del film del mondo staccando l’audio.
Oppure non guardarle proprio, rivolgendo lo sguardo ad uno schermo grigio di cui abbiano preventivamente sabotato ogni funzione.

Ma c’è un demone, un virus che ci ha infettato il sangue. Tanto tempo fa.
Che non ci permette di guardare da un’altra parte.
Che ci obbliga a cercare di capire, ancora. E ancora. E ancora.
Chissà se si sentivano così quei vecchi compagni della sinistra dissidente che, in pochi, cercarono di trasmetterci l’odio per lo stalinismo e la grande truffa dei socialismi nazionali?

wild bunch 3 Chissà se sentivano così quei vecchi partigiani che prendevano la parola alle manifestazioni anti-fasciste dei primi anni settanta?
Erano mica più vecchi di noi adesso, eppure sembravano così anziani e, talvolta, lontani.
Si sentiva così mio padre quando, dopo anni di diverbi con me per le mie scelte politiche, prese una sera il telefono per minacciare il vice-questore di Torino che, a sua volta mi aveva minacciato insieme a mia madre?

Come si sentiva mia nonna quando si ricordò, durante la ristrutturazione della casa di campagna, di fare sparire da un camino in disuso le armi che mio padre si era portato a casa dopo la Resistenza?
Quelle stesse con cui lei, donna di campagna ma dallo sguardo fermo e deciso, aveva minacciato il negoziante borsanerista che cercava di arricchirsi sulle spalle dei compaesani subito dopo la fine del conflitto, mostrandogli gentilmente la bomba a mano che portava nelle tasche del grembiule?
Cosa di cui, quest’ultima, mia madre, donna di tutt’altra pasta, si vergognò sempre tantissimo.

Abbiamo provato tutti le stesse cose, in tempi e forme diverse?
Siamo tutti anelli di una stessa catena?
Di cui, secondo i periodi, cambia soltanto la forma e la forgiatura?
Abbiamo sempre gli stessi nemici, dal volto cangiante ma dagli stessi modi e comportamenti?
Come diceva il titolo di un film di vampiri capitalisti dei tardi anni settanta: Hanno (solo) cambiato faccia?

hannocambiatofaccia A volte si rischia veramente di sentirsi come criceti destinati a far girare all’infinito la stessa ruota.
Forse, una volta spogliati degli orpelli ideologici, intellettuali e politici , lo siamo davvero. Tutti.
Vittime di una invisibile e superiore “livella” che ci condanna, ancor prima di morire, ad un personale inferno di ripetizioni di atti, gesti, parole e pensieri. Tutti apparentemente così importanti, tutti quasi sicuramente futili. Come maschere di un teatro e di un copione che neppure Pirandello avrebbe osato o saputo immaginare.

Comunque il passato era poco più che un sogno e il suo influsso sul mondo era ampiamente esagerato. Perché il mondo veniva rinnovato ogni giorno ed era solo l’attaccamento degli uomini alla sua svanita esteriorità che poteva fare del mondo un’ulteriore esteriorità […] Vedere le cose come stanno è uno sforzo. Cerchiamo dei testimoni ma il mondo non ce li fornisce. E’ questa la storia, la storia che l’uomo costruisce da solo con ciò che gli viene lasciato. Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti. Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” (Cormac McCarthy)

(Fine seconda parte – continua)

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La violenza nel cinema contemporaneo https://www.carmillaonline.com/2015/10/21/la-violenza-nel-cinema-contemporaneo/ Wed, 21 Oct 2015 21:00:21 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25382 di Gioacchino Toni

clockwork orangeLeonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00

Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, [...]]]> di Gioacchino Toni

clockwork orangeLeonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00

Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, autore del saggio “Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo”, si ravvisa la certezza che le immagini della violenza, in un modo o nell’altro, agiscano su chi le osserva ed, inoltre, in entrambi i casi, si ripropone l’annosa questione circa la difficoltà, se non l’impossibilità, di misurare la disposizione alla violenza di un individuo prima e dopo aver osservato immagini violente. Di maggiore utilità, secondo l’autore, risultano gli studi che, anziché preoccuparsi delle reazioni del pubblico di fronte alla violenza cinematografica, si occupano di come la violenza che attraversa la società influenzi il desiderio di assistere a film violenti.

Voglio-vedere-il-sangueUno dei motivi del successo della violenza cinematografica è dovuto al fatto che le regole del cinema narrativo impongono alla violenza sullo schermo di non essere gratuita, di avere un senso ed una struttura, cioè che vi sia consequenzialità tra gesti e comportamenti dei personaggi. Il cinema, a differenza di altri media in cui le immagini tendono ad essere decontestualizzate, offre allo spettatore una logica narrativa capace di far comprendere la violenza senza che per forza la si debba condividere. Nel cinema dell’epoca del codice Hays, ad esempio, la censura più che alla rappresentazione della violenza è interessata alle modalità di rappresentazione del mondo del crimine; “Il problema, ieri come oggi, non consiste nel tasso di violenza e sangue presente sullo schermo, quanto nella prospettiva morale a partire dalla quale – attraverso la narrazione – il film ordina e struttura le proprie immagini”. La violenza in un film, per poter essere socialmente e culturalmente accettata, necessita di una giustificazione che permetta allo spettatore di valutarla moralmente. La morale sembra dunque rappresentare, ben più delle reazioni dello spettatore e delle sue inclinazioni all’aggressività, un elemento di collegamento importante tra la violenza reale e quella immaginaria, in quanto gioca un ruolo fondamentale in entrambi i casi.

wild-bunchNel cinema classico hollywoodiano, l’accettabilità della violenza considerata legittima deriva dal fatto che i film permettono di confrontarla con una violenza malvagia, fonte di disturbo per la morale dello spettatore. Nel saggio viene argomentato come i film, maggiormente discussi a proposito della rappresentazione della violenza, tendenzialmente sono quelli che scompaginano il rapporto tra violenza malvagia e violenza legittima.
Probabilmente “il momento in cui, nella rappresentazione cinematografica della violenza, la morale e l’estetica non risultano più del tutto funzionali l’una all’altra” è databile attorno alla fine degli anni ’60, quando escono film come Gangster Story (1967, di Arthur Penn) ed The Wild Bunch (1969, di Sam Peckinpah). A risultare spiazzanti sono: “la dimensione estetica della violenza” (es. uso di immagini rallentate nelle scene più crude); il fatto che a risultarne vittime siano proprio i personaggi per cui simpatizzano gli spettatori; una narrazione che induce il pubblico ad identificarsi con fuorilegge. Ecco allora che, secondo Gandini, “senza un chiaro giudizio morale a reggerla, la violenza cinematografica si carica improvvisamente di una componente di ambiguità che lascia interdetta la critica e induce il pubblico a reazioni, per l’epoca, sorprendenti e inattese”.

Per quanto riguarda il cinema moderno e contemporaneo, molti studiosi hanno notato come il parziale affrancamento della violenza cinematografica dalla struttura narrativa porti spesso ad una maggiore complessità della messa in scena della violenza e come ciò provochi negli spettatori reazioni molto diverse; da un lato tutto ciò può produrre nel pubblico un’attrazione emotiva nei confronti della violenza mostrata slegata dalle valutazioni morali, dall’altro lato può produrre, invece, in base alle scelte estetiche adottate dal film, una sorta di straniamento dello spettatore rispetto alla violenza, inducendolo a concentrarsi “sul modo della rappresentazione più che sui contenuti”. Secondo diversi studiosi, è a partire dai tardi anni ’60, quando “diventa ‘celebrativa’, che la violenza viene resa oggetto di processi di stilizzazione elaborati al punto da richiamare (…) l’attenzione del pubblico sull’eleganza della forma più che sulla brutalità dei contenuti”.

BronsonIl saggio si sofferma su di una serie di film – Strange Days (1995, di Kathryn Bigelow), Sucker Punch (2011, di Zach Snyder), Kick Ass (2010 di Matthew Vaughn), Natural Born Killers (1994, di Oliver Stone), Bronson (2008, di Nicolas Winding Refn) – che, pur in maniera decisamente diversa, pongono interrogativi circa il rapporto tra violenza e sguardo, sui meccanismi della visione, sulle modalità con cui lo spettatore, attraverso un processo di straniamento, si mantiene a distanza dagli eventi e sulle implicazioni morali.
A partire dagli anni ’70, quando le maglie della censura si allentano, il cinema inizia ad esibire sempre più palesemente la violenza, tanto che l’autore parla di un passaggio dall’avarizia espressiva alla bulimia estetica che ha condotto tanti registi contemporanei “a rispecchiare la violenza più che a riflettervi, a renderla più accattivante che legittima”. Non è infrequente che ad uscirne sacrificata sia proprio la morale a scapito dell’estetica. Con la crescita dell’estetica della violenza, della sua massima visibilità, si è avuta una contrazione dell’immaginazione e lo spostamento della questione morale in un ambito di discussione esterno al film.

L’autore individua anche alcuni film in cui la violenza, anziché descritta, viene semplicemente evocata. La parsimonia nell’esposizione della brutalità al cinema è storicamente legata a ragioni di carattere morale ma, tale modalità, funziona in quanto costringe il pubblico a supplire con la fantasia alla carenza visiva: deve immaginare ciò che il film non mostra fino in fondo. Tale coinvolgimento in termini di immaginazione induce lo spettatore a contribuire direttamente alla rappresentazione. A tal proposito nel saggio vengono esaminati film come Dogville (2003, di Lars Von Trier), Manderlay (2005, di Lars Von Trier) e Redacted (2007, di Brian De Palma). I primi due film del regista danese, che trattano il ruolo della violenza nei rapporti sociali, presentano una smaterializzazione estrema della scenografia, con una voce narrante che commenta in maniera asettica gli eventi che portano la vittima ad optare per una forma di ritorsione violenta. Le due opere di Lars Von Trier vengono indicate da Gandini come “un’illustrazione delle modalità con cui i meccanismi della sovranità popolare partoriscono, legittimano e realizzano atti di violenza ai danni del singolo”, dunque, continua lo studioso, è a tale “idea della sovrapposizione fra violenza e diritto che si attiene lo stile dei film, nei quali i momenti di aggressività e sopraffazione vengono rappresentati con la medesima, inesorabile pacatezza con cui il popolo di Dogville e quello di Manderlay emettono le loro sentenze di morte, schiavismo e punizione corporale”. Visivamente la rappresentazione della brutalità sottostà “al principio di astrazione e razionalizzazione che governa i due film sul piano tematico, caratterizzandosi come un evento inessenziale, prosaico, ancorato alle ordinarie dinamiche di amministrazione democratica di una comunità. La violenza perde qui completamente i suoi tratti di sregolatezza, innanzitutto nel senso etimologico del termine, poiché entrambi i film ci mostrano come essa di fatto sia né più né meno che una regola, in virtù della quale viene tutelato il benessere delle due comunità”.
De Palma, nel suo Redacted, ricorrendo all’assemblaggio di filmati derivanti da fonti diverse (video amatoriali, reportage televisivi, immagini notturne ai raggi infrarossi, riprese delle telecamere di sorveglianza ecc.), sembra quasi realizzare un film che prende le distanze da quelle immagini, “il fatto che i materiali che compongono la tessitura visiva del film siano estrapolati da altri contesti e riproposti in forma sintetica e frammentata dispensa lo spettatore dalla reazione emotiva che pure essi avrebbero potuto o dovuto suscitare nella loro forma originaria”. Nel suo presentarsi come riproduzione di una violenza catturata da altri media, il film depura l’evento dal suo tratto più “sensazionale”, consentendo così alla riflessione di sostituirsi all’indignazione.
Sia nei film citati di Von Trier, che in quello di De Palma, si sostiene nel saggio, “la forma determina una distanza che permette al regista di sollecitare lo spettatore non tanto a guardare la violenza, quanto a guardare alla violenza, vagliandone cause e conseguenze che la generano e diffondono”. Gli aspetti violenti e sensazionalistici che toccano l’emotività degli spettatori vengono qui decisamente limitati nel tentativo di “rendere lo spettacolare non spettacolare”. Secondo Gandini, in tali opere, si attua un doppio atto di negazione. “Da una parte viene rinnegata l’immediatezza propria delle fotografie più cruente sull’argomento, dall’altra sono ripudiate le occorrenze stilistiche e narrative che corredano abitualmente la rappresentazione cinematografica del tema. È necessario, per dare risalto alla violenza e renderla nuovamente eccezionale, calarla in un contesto nel quale il cinema possa guardarla – e farla guardare agli spettatori – come fosse la prima volta”. Attraverso la strada dell’astrazione, nel danese, e della rimediazione, nello statunitense, tali opere determinano “un effetto straniante, indispensabile in un’epoca nella quale i media affrontano il tema dispensando a getto continuo visioni sempre più stereotipate a beneficio di spettatori sempre più distratti”.

funny game - remote controlNel saggio viene affrontato anche il film austriaco Funny Games (1997, di Michael Haneke) – di cui esiste un remake americano del 2007, ad opera dello stesso regista – opera in cui la violenza tende, per lunghi tratti, ad essere nascosta allo sguardo dello spettatore. La macchina da presa indugia spesso su luoghi diversi da quelli in cui si sta compiendo violenza affidando al sonoro il compito di farla immaginare allo spettatore. Il fatto che uno dei due assassini volga più volte lo sguardo in macchina, contribuisce a coinvolgere lo spettatore negli eventi, inoltre, suggerisce Gandini, tale espediente “accorcia ulteriormente la distanza fra i due personaggi e il regista, poiché alla fredda crudeltà con cui Haneke distilla la violenza ai suoi spettatori si unisce l’impressione, generata appunto dagli sguardi in macchina, che i due ragazzi operino da registi interni della vicenda, dettandone tempi e modi anche alla macchina da presa, nella piena consapevolezza che ‘lì fuori’, oltre lo schermo, qualcuno li sta guardando”.
Mentre nei film di Von Trier e di De Palma “la forma della violenza viene utilizzata per riflettere sulla sua genesi ed evoluzione”, nell’opera di Haneke essa “serve a mettere sotto i riflettori le sue conseguenze”. L’austriaco intende “smantellare ‘l’innocente complicità’ che correda la violenza cinematografica” e “portare lo spettatore a solidarizzare con le vittime piuttosto che con i carnefici”. Haneke non concepisce la sua estetica della violenza “in termini di contenuto, ovvero nei suoi tratti di cruento sensazionalismo, ma di ricezione, ovvero dal punto di vista di una possibilità di lettura, oltre che di visione, della brutalità umana. È per questo che in Funny Games alle inquadrature fuori campo (…) ne fanno puntualmente seguito altre in campo, dove allo spettatore è data piena possibilità di cogliere nel dettaglio gli effetti della violenza che in precedenza aveva potuto percepire soltanto sul piano sonoro”.
In Dogville, sul finire del film, quando Grace decide di vendicarsi, vi è una sequenza in cui la violenza si palesa sia sul piano visivo che drammatico, analogamente anche in Funny Games si giunge a “dare al pubblico un assaggio di quello che il film, sotto il profilo estetico, non vuole essere”: si tratta della scena, girata e montata in maniera diversa dal resto del film, in cui la protagonista riesce a sparare alla testa di uno dei due giovani comportando l’affannosa ricerca, da parte dell’altro ragazzo, del telecomando per “riavvolgere gli eventi”. Il saggio si sofferma sulla logica di tale sequenza che proietta l’attenzione dello spettatore “sul carattere illusorio e manipolabile della violenza cui ha assistito sino a quel momento (…) La natura convenzionale del frammento espulso non riguarda (…) solo il piano stilistico ma anche quello narrativo, poiché la scena vede la vittima ribellarsi e vendicarsi del suo carnefice. La vicenda dunque ritrova qui, sia pure solo per un pugno di inquadrature, una logica morale, basata sulla ritorsione”.
Riflettendo sul frammento “anomalo” di Funny Games, Gandini sottolinea come lo spettatore giustifichi il ricorso alla violenza della donna in quanto reazione ad una violenza invece ingiustificabile operata dai due giovani. Per certi versi, con tale sequenza, il pubblico “viene attirato nell’orbita di violenza alla quale si illudeva, attraverso la condanna dei personaggi, di rimanere estraneo. Provando sollievo e soddisfazione per il modo con cui la moglie si sbarazza del ragazzo, egli smette di rinnegare la violenza in quanto tale, proprio perché in quel punto assume verso di essa un atteggiamento di approvazione e complicità (…) lo spettatore sin lì crede di poter uscire dal film confortato nella sua convinzione che la violenza è comunque odiosa e sbagliata, mentre in realtà, a causa di quella scena, dovrà uscirne con la convinzione che la violenza può essere sbagliata oppure legittima, a seconda delle circostanze morali che la preparano e motivano. Nello stesso tempo quel frammento – riavvolto con suprema disinvoltura in virtù di un telecomando – ci dice anche che la violenza del cinema, per quanto possa suscitare in noi sentimenti di adesione ai personaggi che la subiscono e di avversione per quelli che la infliggono, è volatile, inconsistente e relativa”.
In diversi film la questione della legittimità morale o meno del ricorso alla violenza diventa problematica, si pensi, ad esempio, ad A Clockwork Orange (1971, di Stanley Kubrick), pellicola in cui la classica contrapposizione “fra tutori e trasgressori della legge non poggia su una distinzione morale in grado di giustificare la brutalità dei primi e condannare quella dei secondi”.

sawLa produzione cinematografica degli ultimi decenni risulta decisamente variegata, tanto che non mancano esempi di film volti a tranquillizzare lo spettatore che la “violenza dei giusti” finisce col prevalere su quella “dei malvagi”, d’altra parte, sostiene Gandini, il pubblico “non ha mai smesso di volere un cinema capace di essere, al contempo, violento e morale (…) Può essere che talvolta non apprezzi la morale di un film se non la vede scritta nel e col sangue; ma certamente vuole che il sangue, nel corso del film, prima o poi si incanali lungo percorsi di retribuzione e castigo, colpa ed espiazione”. Non è, pertanto, affatto detto che un’estetica violenta neghi implicazioni di carattere etico o morale. Allo stesso tempo non è nemmeno detto che una maggior complessità estetico-narrativa comporti la scomparsa della morale.
L’imbarazzo morale provato dallo spettatore che, al cinema, osserva con piacere episodi violenti, si stempera grazie alla promessa narrativa che, prima o poi, quella violenza verrà giudicata e punita, pertanto, secondo l’autore, ad ogni “dilatazione visiva” della violenza corrisponde una narrazione in grado di giustificarla. A tal proposito ci si può riferire a quelle opere in cui la figura del killer moralista/moralizzatore agisce per punire la dilagante corruzione che lo circonda. In Seven (1995, di David Fincher) il serial killer agisce in preda ad un bisogno morale e la coppia di detective che indaga sui suoi omicidi, per dargli la caccia, si trova a doversi sintonizzare sulla “lunghezza d’onda morale del suo avversario”. Analogamente anche in Saw (2004, di James Wan) i crimini derivano dalla volontà di punire individui rei di colpe condannabili moralmente. In opere come Seven e Saw “estetizzazione e moralizzazione della violenza” coincidono e, secondo l’autore, se da un lato tali film sembrano “mettere in guardia lo spettatore contro gli eccessi della morale”, dall’altro “possiamo vedere nelle figure dei killer-moralizzatori, in quanto curatori ed artefici di messe in scena della violenza di grande complessità, un equivalente del regista dei film che li contiene, col quale condividono l’attenzione congiunta per l’etica e l’estetica del delitto. La loro condotta criminale rimanda implicitamente all’obbligo di dare alla violenza quei tratti di necessità (morale) e appariscenza (visiva) senza i quali essa oggi non può essere presentata né apprezzata”.
Nel libro non manca una riflessione su Fight Club (1999, di David Fincher), film ove, invece, la violenza diviene terapeutica; si ricorre ad essa per alleviare e curare le ferite della società contemporanea ormai totalmente anestetizzata.

reservoir-dogsL’ultima parte del saggio affronta alcune opere recenti che affrontano la violenza facendo i conti con la tradizione del cinema, soffermandosi su alcuni film di Quentin Tarantino – Reservoirs Dogs (1992); Pulp Fiction (1994); Kill Bill (2003 e 2004); Django Unchained (2012); Inglorious Basterds (2009) – e di Clint Eastwood. In questo ultimo caso, è inevitabile che, nel momento in cui le sue opere recenti affrontano la violenza, la sua presenza fisica nei film rimandi alla sua icona giovanile, dunque si inneschi un dialogo col passato.

gran-torinoIn Gran Torino (2008, di Clint Eastwood) l’ormai anziano protagonista si trova a fare i conti con il rimorso per le violenze compiute in gioventù nel corso della guerra in Corea. Il film si presenta dunque come una storia di “rimorso, pentimento ed espiazione” che, per compiersi, richiede al protagonista di riappacificarsi con la sua identità giovanile e di cimentatisi, un’ultima volta, con la violenza ma, stavolta, non in qualità di giustiziere, bensì di martire, “facendo del sacrificio del proprio corpo un atto di giustizia”.

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Sotto il cielo del West https://www.carmillaonline.com/2014/11/28/grande-cielo-west/ Thu, 27 Nov 2014 23:01:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=18888 di Sandro Moiso

guthrieAlfred Bertram Guthrie, Il grande cielo, Mattioli 1885, Fidenza 2014, pp.450, € 16,90

“L’epoca degli uomini della montagna nel Far West non fu mai narrata così bene. Probabilmente non lo sarà mai più” (Ernest Hemingway)

Le edizioni Mattioli 1885, nella loro pregevole opera di riscoperta e pubblicazione di opere ed autori della letteratura nord-americana del XIX e XX secolo, rendono nuovamente disponibile per il pubblico italiano, nella nuova traduzione di Nicola Manuppelli, uno dei capolavori meno conosciuti della letteratura statunitense. Pubblicato, infatti, negli Stati Uniti nel 1947, il romanzo di A. B. Guthrie fu tradotto e pubblicato per [...]]]> di Sandro Moiso

guthrieAlfred Bertram Guthrie, Il grande cielo, Mattioli 1885, Fidenza 2014, pp.450, € 16,90

“L’epoca degli uomini della montagna nel Far West non fu mai narrata così bene. Probabilmente non lo sarà mai più” (Ernest Hemingway)

Le edizioni Mattioli 1885, nella loro pregevole opera di riscoperta e pubblicazione di opere ed autori della letteratura nord-americana del XIX e XX secolo, rendono nuovamente disponibile per il pubblico italiano, nella nuova traduzione di Nicola Manuppelli, uno dei capolavori meno conosciuti della letteratura statunitense. Pubblicato, infatti, negli Stati Uniti nel 1947, il romanzo di A. B. Guthrie fu tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia dalla Mondadori nella collana Medusa nel 1950; in seguito ricomparve, ad opera della Rizzoli, nel 1978 per poi sparire definitivamente nel dimenticatoio.

Probabilmente ciò fu dovuto allo scarso interesse che la letteratura e il cinema di carattere western esercitarono in Italia a partire dalla fine degli anni settanta e per i decenni successivi. Dal libro era stato infatti tratto nel 1952 anche un film dall’omonimo titolo, diretto da Howard Hawks ed interpretato da Kirk Douglas, che, però, ne stravolgeva completamente storia e significato. Assolutamente lontano dai modelli di cinismo, violenza e ribellione che avrebbero caratterizzato il cinema western di Sergio Leone e di Sam Peckinpah negli anni sessanta.

Peccato, perché in realtà il romanzo di Guthrie anticipava di decenni il revisionismo western di cui sarebbero, poi, stati protagonisti i due registi ed autori come Cormac McCarthy, Larry Mc Murtry, Annie Proulx e, anche se per un solo romanzo,1 John Williams. Lontano dall’epica della Frontiera come creazione di un mondo nuovo e migliore, Guthrie mostrava, in quello che è stato unanimemente considerato il suo romanzo migliore, il peccato d’origine degli Stati Uniti: la distruzione dei nativi, delle specie animali, del territorio e di qualsiasi rapporto sociale che non fosse immediatamente basato sulle logiche dello scambio mercantile e del profitto individuale o delle grandi compagnie commerciali.

Un’America che nasce tutt’altro che vergine e che porta con se un peccato originale non di carattere religioso, come avrebbero voluto i Padri Pellegrini, ma di stampo capitalistico e mercantile; dando vita, come risultato inevitabile, ad una società spietata in cui tutte le contraddizioni del sistema si sarebbero manifestate senza alcuna remora. Una società in cui la presenza della morte avrebbe dominato non come conseguenza del puritanesimo importato col Mayflower, ma come risultato delle logiche distruttive messe in atto.

A.B. Guthrie Jr. (1901 – 1991), come ci rivela nelle preziose note poste a chiusura del testo il curatore e traduttore, aveva deciso preventivamente di narrare il West e i suoi avventurieri come mai nessuno li aveva narrati prima. Ci riuscì e nel corso della sua vita, in cui scrisse molti altri romanzi e racconti di ambiente western, si spostò sempre più su posizioni radicali a difesa dei nativi americani e dell’ambiente. Praticamente fino al termine dei suoi giorni.

Già negli anni successivi al college l’autore si dichiarava “agnostico, liberale e ribelle” e tutto ciò traspare fin dalle prime pagine del romanzo, in cui il protagonista Boone Caudill rompe violentemente con il padre e fugge, ancora diciassettenne, verso l’Ovest e verso l’ignoto; scontrandosi immediatamente con l’avidità degli uomini e la falsità della Legge e dei suoi tutori. Ma la sua odissea di formazione, come in seguito per tanti personaggi di Cormac McCarthy, non assumerà le forme né della liberazione né, tanto meno, della redenzione dai peccati della civiltà.

Scandita in cinque parti (1830, ancora 1830, 1837, 1842-1843 e 1843), la narrazione accompagna Boone attraverso le grandi pianure del bacino del Missouri e le Montagne Rocciose, fino al suo trentesimo anno e al suo, inutile, ritorno all’Est. Un Odisseo senza Itaca, perché quello che ritorna non è un Boone migliore o più maturo o più saggio. No, è soltanto un uomo indurito, con la nostalgia per un mondo che ha contribuito a conquistare e distruggere e in cui ha dimostrato di non sapere davvero amare. E che non potrà nemmeno portare a termine la vendetta che aveva meditato per così lungo tempo.

Un mondo di violenza e di sospetto, in cui il mito dell’amicizia virile non è altro che una leggenda come quella delle valli ancora piene di castori; che, invece, a loro volta sono già stati distrutti per soddisfare, con le loro pellicce rivendute anche a bassissimo costo, l’industria e il mercato dei cappelli a cilindro per i benestanti delle grani città. Un mondo duro e spietato dove un minimo errore può significare la morte e la vita scorre fino a quando non incontra un coltello, una freccia o una pallottola. Magari sparata da un amico.

Domina su tutto il grande cielo del West, infinito e imperturbabile; sia sulle vicende degli uomini bianchi che su quelle degli uomini rossi. I primi destinati a morire per gli agguati e le ferite oppure a soffrire la fame, la sete, il freddo o per le conseguenze di malattie veneree; i secondi destinati ad essere spazzati via per effetto delle devastazioni e delle violenze portate dalla civiltà e dalle epidemie diffuse ad arte. Vittime del primo grande genocidio moderno. Il tutto in uno scenario in cui domina una natura solo potenzialmente ancora incontaminata, ma, in realtà, già cartografata, divisa e contesa dalle grandi compagnie per il commercio delle pellicce.

Lewis e Clark sono passati da lì pochi anni prima, ma il danno è stato già fatto e non si potrà più tornare indietro. Esattamente come per Boone Caudill.
Mentre rimangono sullo sfondo le donne. Bianche e rosse. Le prime eterne Penelopi dalla vita passata in attesa di un ritorno che magari non avverrà mai oppure di un amore che non si rivelerà altro che violenza, anche sessuale, oppure, ancora, destinate a morire di fatica nelle povere case costruite in prossimità della Frontiera. Le altre destinate ad essere, nel rapporto con l’uomo bianco, null’altro che una merce di scambio o inconsapevoli oggetti e schiave sessuali.

Leggendo questo romanzo, durissimo e bellissimo, ci si rende conto che il cinema western tradizionale ha davvero fatto un cattivo servizio alla storia degli Stati Uniti e della Frontiera. Probabilmente lo sapevamo già tutti da tempo, ma Guthrie, che con il successivo “Il sentiero del West” avrebbe vinto il Premio Pulitzer, lo ha rivelato ben prima di tutti gli altri autori che abbiamo poi imparato a conoscere ed amare.

Non vi è traccia in Guthrie della visione pastorale di una America bucolica in cui potersi rifugiare e dove solo l’avvento della macchina a vapore, oppure del macchinismo tout court, avrebbe segnato l’inizio del declino e della rovina, così come Henry David Thoreau nel “Walden” aveva teorizzato fin dall’Ottocento.2 Non vi è romanticismo, ma una visione, che rasenta il naturalismo espressivo, ben lontana da qualsiasi forma di epica o di epopea.

Non resta così che augurarsi che l’editore continui nella riedizione dei romanzi e delle novelle dell’autore americano, sia di quelli già pubblicati in Italia sia di quelli ancora inediti. Un autentico Omero di una frontiera priva di qualunque funzione mitopoietica, le cui vicende non sono determinate dalla volontà di divinità sregolate e volubili, ma dal raziocinio del calcolo della profittabilità delle imprese e delle conquiste.


  1. Butcher’s Crossing, Fazi Editore 2013, edizione originale americana 1960  

  2. Si veda in proposito Leo Marx, The Machine in the Garden. Technology and the pastoral ideal in America, Oxford University Press 1964 – 2000  

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 60 https://www.carmillaonline.com/2014/06/13/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-60/ Thu, 12 Jun 2014 22:01:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15193 di Dziga Cacace

Se non sei ancora estinto, batti le mani! (Syd in L’era glaciale 2)

ddv6001 Deep Throat598 – La pornografia di Inside Deep Throat, di due noiosi, USA 2005 Come movimentare il week end? Come agitare il bacino con coerente giustificazione intellettuale? Ma con un bel documentario che allenti i sensi e disinibisca la mia prorompente sensualità! Con astuta mossa cinefila produco questo Inside Deep Throat dal buon viatico critico: ci sbattiamo sul divano e… ogni desiderio è castrato con un secco colpo di machete. Se qualcosa dimostra questo documentario è come il sesso – seppure con un brutto [...]]]> di Dziga Cacace

Se non sei ancora estinto, batti le mani!
(Syd in L’era glaciale 2)

ddv6001 Deep Throat598 – La pornografia di Inside Deep Throat, di due noiosi, USA 2005
Come movimentare il week end? Come agitare il bacino con coerente giustificazione intellettuale? Ma con un bel documentario che allenti i sensi e disinibisca la mia prorompente sensualità! Con astuta mossa cinefila produco questo Inside Deep Throat dal buon viatico critico: ci sbattiamo sul divano e… ogni desiderio è castrato con un secco colpo di machete. Se qualcosa dimostra questo documentario è come il sesso – seppure con un brutto film come Gola profonda, diventato “importante” per una botta di culo, o di altre parti anatomiche – fosse nei primissimi anni Settanta vissuto con leggerezza e avventura, cercando veramente una liberazione (interessata, nel caso della pornografia, nessuno lo nega), combattendo contro una morale corrente ipocrita e bacchettona. Che ha stravinto. E quella che all’epoca era una scommessa per fare qualche soldo oggi è diventata un’industria globale che macina soldi e macella carne a getto continuo e non ha liberato un bel cazzo, se non quello di qualche superdotato. Inside Deep Throat è la dimostrazione del clima odierno: un documentario freddo firmato da tali Fenton Bailey e Randy Barbato, con una ricostruzione storica da cinegiornale Luce, senza entusiasmo e con – e qui non ci si poteva far nulla – l’attore Harry Reems, l’attrice Linda Lovelace (in immagini di repertorio) e il regista Gerard Damiano appassiti, con problemi di ogni tipo ma soprattutto senza una storia da raccontare attivamente perché tutti vittime e mai veri consapevoli protagonisti: non scatta affezione o partecipazione, semmai pena. La Lovelace è morta nel 2002, avendo più volte denunciato la sua condizione di sfruttata, cosa che getta un’ulteriore luce ambigua sulla celebrazione del film. Ragazzi: Gola profonda (in Italia La vera gola profonda) era una fetecchia senza grandi pretese, in linea con certa produzione coeva, e che per le imperscrutabili coincidenze della storia è diventato un cult. Ma non c’era un pensiero dietro e non possiamo pretendere adesso che ci fosse, anche se puoi attribuire al film tutti i significati che vuoi (vedi le testimonianze di Gore Vidal, Erika Jong, pure John Waters). L’operazione del documentario mi risulta falsa e fragile, viziata oltretutto da un linguaggio paratelevisivo. Zero invenzioni, nessun rischio, nessun guizzo, e alla fine altro che eccitazione, ti viene il membro interno. E guai a vedere un porno, adesso, senza complessi di colpa. Film inerte sponsorizzato da critici che sbagliano. (Dvd; 23/9/06)

ddv6002Capturing599 – Che botta, Capturing the Friedmans di Andrew Jarecki, USA 2003
Fastidio, fastidio, fastidio. Perché questo è un gran bel documentario, tremendo e spietato, dove si parla di abusi su minori. Giusto per chiarire: vera famiglia americana (agghiacciante), i Friedman appunto, con padre accusato di pedofilia e uno dei figli presto coinvolto (l’altro fa l’intrattenitore e il clown a feste di compleanno di bambini…). Lo scandalo travolge tutto e tutti, in un clima delirante da caccia alle streghe, con giudici e avvocati che mettono genitori e figli l’uno contro l’altro. Ammissioni e denunce sono chiaramente finalizzate a guadagnare sconti processuali o evitare altre condanne, non per appurare la verità che rimane infatti vaga, lasciandoci un’insopportabile senso di ingiustizia e disagio. E noi sappiamo tutto ciò perché in famiglia c’è pure il vizietto di filmare morbosamente ogni cosa, discussioni comprese. Per cui Jarecki s’è trovato tra le mani una vicenda incredibile da non dover ricostruire, ma da raccontare col conforto delle immagini autentiche. Devastante. Se uno sceneggiatore concepisse una storia così tutti gli direbbero: ma non ci crederà mai nessuno, ‘a scemmu! Ah: e se qualcuno pensa che la giustizia americana abbia un senso, questo è il suo film. (Dvd; 23/9/06)

ddv6003Three Burials600 – Le tre sepolture di Tommy Lee Jones, USA 2005
Chissà perché, ma mi ricorda Peckinpah. La sofferenza che nasce lungo il border, la fatica della vita, la stessa voglia di farla finita alla grande. Tommy Lee Jones dirige in modo classico, elegiaco, senza tempo, una vicenda per nulla glamour: Melquiades Estrada è un immigrato messicano illegale e una guardia di frontiera lo secca per errore. Un ranchero texano amico di Estrada (lo stesso attore e regista) lo scopre e vuole dargli la promessa degna sepoltura in Messico. Non vi dico come va a finire, ma il percorso alla ricerca di un po’ di giustizia e di redenzione è imprevedibile e commovente. Film coraggioso, premiato a Cannes e per niente attuale per cui doveroso e attualissimo. Bravi gli attori e pure i paesaggi. (Dvd; 24/9/06)

DDV6004 Grand Illusion601 – La grande illusione di Jean Renoir, Francia 1937
Buttare via una vhs è doloroso. Se contiene un Renoir, un abominio. Ma lo spazio latita anche in questa nuova casa che pagherò fino al 2730. E allora mi costringo a rivedere questo classico, come se fosse una terapia per disincrostare lo sguardo dalle troppe brutture che subisco in tivù. Ed è un film così bello che non riesco neanche a esprimerlo. Comodo, eh? Capolavoro di poesia, eroismo, fratellanza, libertà e voglia di futuro e pace: può bastare? (Vhs da RaiTre; 29/9/06)

ddv6005 Joey TempestJoey Tempest, per dire
Era il momento della festa del liceo che aspettavamo tutti: quando sulla consolle passava il vinile degli Europe, il gruppo svedese che aveva conquistato il mondo con un’aberrazione musicale, il pop metal. Prima arrivava The Final Countdown, pezzo zarro come pochi che però si cantava tutti assieme con consapevolezza autoironica, e poi Carrie, il lentazzo smielato per far capire che in fondo avevamo un cuore d’oro anche noi. Il risultato era che comunque le ragazze non ci filavano, ma nella nostra beata innocenza aspettare quei momenti era già qualcosa. Ecco, tra le tante cose che avrebbero potuto capitarmi nella vita a venire, mai avrei pensato di incontrare vent’anni dopo, in carne e boccoli, Joey Tempest. Quello che allora, all’epoca della festa del liceo, si agitava sui palchi di tutto il mondo immerso in una nube di lacca. Con jeans strappati ad arte e foulard, esibiva su un faccino da Barbie un testone di capelli degno del Cugino di campagna afro. Al punto che, confesso, la prima volta che vidi un videoclip degli Europe rimasi col conturbante dubbio se il cantante fosse una donna. Vabbeh, ho già detto che di ragazze (per mancanza di interscambio microbiotico) si capiva poco. Ad ogni modo oggi il gruppo s’è riformato e l’ultimo album Secret Agent non è malaccio, anche se l’ho ascoltato per meri motivi professionali e mai più mi capiterà. L’intervista allo svedese è nella suite imperiale dello Scandinavia Hotel (ovvio, no?) e Tempest, con la faccia da ragazzino e il capello mosso ma di media lunghezza, è un bell’ometto di quarant’anni che ne dimostra meno, felice, realizzato e ansioso di sapere, lui, un sacco di cose. Per esempio che colazione ho fatto. Caffè, dico. E come lo fate qui? E allora gli spiego la differenza tra moka, espresso e all’americana, giocandomi il termine “percolazione”, cosa che mi deve avere accreditato professionalmente. Nero vestito, asciutto, risponde felice sull’ultima fatica della band: finito il suo periodo solista country rock, ha solo voglia di musica potente che, per risultare ottimale, presenti anche qualche bel chorus cantabile dal pubblico. Ovviamente Secret Agent, il settimo disco come Europe, è il migliore della loro carriera (mai trovato un artista che dicesse una cosa diversa), ma il buon Joey auspica ulteriori novità, magari svolte inaspettate: del resto gli piacerebbe collaborare con David Bowie. Oggi nel suo iPod ci sono Audioslave, Hellacopters, Hives e (giacché è il migliore etc. etc.) l’ultimo Europe, ma nel cuore porta Rainbow, Deep Purple e Whitesnake e quando faccio il ganassa dichiarando che ho intervistato Blackmore comincia il controinterrogatorio. Vuole sapere tutto e allora racconto io. Poi contrattacco e gli chiedo degli italiani che conosce. Ammira la Nannini e gli è rimasto impresso un pezzo di Ramazzotti: Se bastasse una canzone. Son passati quasi vent’anni e canta perfettamente la frase melodica. Poi però chiarisce che non ama il pop: guai a deludere i fan che potranno vederlo in concerto in Italia a fine gennaio. Magari viene anche Eros, chissà. (Live, 5/10/06)

Ddv6006 Alice602 – Ha i suoi annetti Alice’s Restaurant di Arthur Penn, USA 1969
Film epocale, per la musica e i significati, ma che visto oggi fa simpatia perché è un brutto anatroccolo che mai diverrà cigno. Esaltante come vedere crescere un rampicante, dialogato (e tradotto) in maniera ingenua, sconclusionato negli avvenimenti e con poco mordente, è un’opera di alcun cinismo che nel bene e nel male rappresenta le speranze di un’epoca e l’impossibilità a buttare via (metaforicamente e non solo) tutta la spazzatura fisica e morale che produciamo. Barbara si è inesorabilmente addormentata, io ho resistito fino in fondo perché sono un romantico cazzone facile all’intenerimento, ma l’ho visto più per dovere che per piacere. (Vhs da Tele+, 12/10/06)

ddv6007 Kinski603 – Lo splendido Mein liebster Feind – Kinski di Werner Herzog, Germania/Gran Bretagna 1999
Klaus Kinski, da paura. Folle, spiritato, dolcissimo, violento: questo singolare atto d’amore in pellicola ci mostra come si possa amare una persona nonostante la persona stessa sia insopportabile e ripugnante. Si parte con l’attore tedesco a teatro che litiga ferocemente col pubblico, facendo passare Carmelo Bene per un lord. E poi lo vediamo sui diversi set di Werner, talmente nella parte da sfasciare con un colpo di spada l’elmo di metallo di una comparsa india durante Aguirre. Tutti fuori controllo, come sempre nel cinema di Herzog, tutto che alla fine ha una sua sbalestrata coerenza. E per questo Kinski era l’attore perfetto. Per-fet-to. Negli extra del dvd prestato da Roberto (visto perché nella mia vhs mancavano gli ultimi 5 minuti) c’è anche un grandioso corto di Les Blank in cui Herzog si mangia (realmente, giuro) una scarpa per aver perso una scommessa col regista Errol Morris, quello del futuro Fog of War. E ditemi voi se non poteva essere uno come Werner Herzog ad eleggere il demoniaco Klaus a suo feticcio. (Vhs da RaiTre; 18/10/06)

ddv6008 Springtime604 – Buddhistico Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera di Kim Ki-Duk, Corea del Sud, 2003
Immoto (il film e io), ma i sentimenti girano a mille. La semplicità ha del miracoloso, la messa in scena è di una purezza abbacinante. Kim Ki-Duk asserisce di non avere mai visto film prima di farne lui. Forse è vero, sicuramente questa narrazione compassionevole e fuori dal tempo è veramente fuori dal tempo e commuove. Moooolto bello. (Dvd; 22/10/06)

ddv6009 Ice Age 2605 – Freddino con Ice Age 2 di Carlos Saldanha, USA 2006
Mi mancavano Syd & company, al punto che vedo il nuovo episodio senza neanche avere obblighi paterni, ma proprio per infantile piacere mio. E il film è caruccio ma meno riuscito del primo episodio, molto meno. Stavolta alla ghenga formata da mammut, tigre dai denti a sciabola e bradipo si unisce una mammutona, ma la storia d’amore tra i due pachidermi non è ‘sta gran cosa, con lei un po’ sciacchella e che si crede sorella di due opossum odiosi. Intanto Scrat continua imperterrito a inseguire la sua ghianda, mentre Syd affronta lo scioglimento dei ghiacci con stolida saggezza e speranza. Però, però… Sufficienza abbondante, dài, ma non il capolavoro che avrei voluto e di cui parlano i critici che si erano evidentemente persi il primo L’era glaciale e ora fanno i gggiovani, perché tra nuovi Pixar, Miyazaki e il resto bisogna far finta di conoscere anche il mondo dei cartoni. Di cui vi rullerei. (Dvd; 29/10/06)

ddv6010 DevilsRejects606 – Sbaglierò, ma per me The Devil’s Rejects di Rob Zombie è un capolavoro, USA 2005
Premessa: La casa del diavolo è semplicemente grandioso e questo pezzullo contiene più spoiler, vi ho avvertito. Dunque, questo è un horror (dissimulato, ma costruito citando a più non posso per esegeti e cultori) che parla del presente, delle follie dell’America, del culto delle armi, delle ossessioni pop (musicali e non solo), della divisione capitalistica in classi, coi gendarmi delle forze dell’ordine a tenere tutti al loro posto. Non dite a Zombie che è marxista (non ci crederebbe) ma qui – meglio che in tanti altri film perbene, sanificati e moralmente accettabili – abbiamo i buoni veramente cattivi e i cattivi in fin dei conti umanamente comprensibili (perdonabili no, ma nessuno lo è). E alla fine, piuttosto che schiavi, meglio morti, come Peckinpah ci ha insegnato tanto tempo fa. Colonna sonora southern da orgasmo, fotografia seventies abbacinante, facce perfette, regia abilissima capace di qualche momento di autentico genio (l’esecuzione del poliziotto col colpo alla testa, col silenzio dilatato e quella detonazione che ti fa fare il classico salto sulla sedia). E quando nella sequenza finale parte la Freebird dei Lynyrd Skynyrd, ho pensato: come in Forrest Gump adesso ci sarà un atroce taglio e amen. Invece il pezzo c’è tutto, nella gloria dei suoi 9 minuti, allungando epicamente all’inverosimile questa magnifica scena, con le chitarre che si inseguono in uno stampede solistico. E un’idea così, da sola, farebbe già del film un’opera unica. Capolavoro. (Dvd; 1/11/06)

ddv6011 V for Vendetta607 – L’equivoco di V for Vendetta di James McTeigue, UK/USA 2005
Cercavo il coreano Vendetta e basta ma sono totalmente rincoglionito che affitto per errore un film forse più adatto ancora a svoltare la serata da divano, copertona di flanella e rutto libero. Trovo qualche scompenso narrativo, ma come opera ludica V fa il suo sporco mestiere e diverte, alimentando tensioni anti Sistema nel momento adatto, con rimandi neanche troppo occulti al G8 e a Seattle. Ideologicamente, non provo neanche ad affrontare la vicenda, però: non ne sarei stato capace anni fa, figuriamoci adesso che ho ancora l’ormone sballato per la paternità. Il fumetto di Alan Moore da cui è tratto il film, invece, m’ha fatto schifo ma è colpa mia che vorrei di nuovo leggere Manara sceneggiato da Pratt, non so voi. (Dvd; 2/11/06)

ddv6012 the-departed-608 – The Departed – Il bene e il male di Martin Scorsese, USA 2006
Ci concediamo un cinema e becchiamo un Martin cattivello, che ci trascina in una storia di malavita irlandese dove bene e male si confondono fino a un finale che non ti aspetti. Ma è anche l’unica cosa che mi piace veramente del film. Gli attori sono azzeccati (Mark Wahlberg, Peppino DiCaprio, un Baldwin ciccio, pure il bambolo Matt Damon) e il cast funziona nonostante un Jack Nicholson gigione da farsa e una comprimaria donna (tale Vera Farmiga, vera cagna) che mi pare un inno funebre alla chirurgia plastica e che immagino non rivedrete mai più sul grande schermo da quanto è scarsa. Musica discreta, montaggio anonimo e fotografia lattiginosa orrenda. Alla fine, che dire di ‘sto Departed? Mah, sono un po’ deluso, ma non posso prendere a pugni un uomo solo perché stato un po’ Scorsese, eh. (Cinema Orfeo, Milano; 3/11/06)

ddv6013 Heimat 2609 – Uno dei film della (mia) vita: Heimat 2 di Edgar Reitz, Germania 1993
Servirebbe una recensione vera, coi controcazzi, per manifestare la mia commozione e felicità nell’aver rivisto, dodici anni dopo, una delle opere cinematografiche più belle e complete mai realizzate. Qui dentro ci sono la giovinezza, la speranza, la musica, l’arte, la scoperta, l’amore, il tradimento, l’illusione… c’è la vita, come poche volte può capitare di esperire al cinema (l’angelo custode mi suggerisce: “Capirai: dura anche 26 ore, eh…”). Più riuscito del già splendido Heimat 1 (questo è più fluviale, meno ostico linguisticamente, più vicino come argomenti), Heimat 2 è un capolavoro – credo – inarrivabile. Dopo il primo episodio ho passato i giorni seguenti a tre metri da terra, raggiante: è un film che parla di studenti universitari che scoprono il loro ruolo nel mondo e io ho avuto la fortuna di vederlo mentre credevo di essere uno studente universitario che scopriva il suo ruolo nel mondo. Ambientato lungo tutti gli anni Sessanta fino all’alba dei Settanta, c’è tutto quello che ti aspetteresti, ma con una prospettiva intima e personale che riesce a essere universale senza mai scadere nella ricostruzione nostalgica: Kennedy, i Beatles, la rivoluzione sessuale, la lotta armata, la musica sperimentale, l’assunzione di responsabilità, Venezia come non l’avete vista mai, i campi di sterminio, il passato nazista e la sua riemersione sotto altre forme, il velleitarismo politico, la chiacchiere artistoidi, l’aria fritta e la vita concreta… Sono un cialtrone, è evidente, ma su questo film ho ragione da vendere: è unico e imprescindibile e comunica con straordinaria semplicità il senso della vita: imparare ad aspettare (dalle mie parti, più volgarmente: ghe voe tanta pasiensa). E poi, perdonatemi lo spoilerino, ma anche adesso – come dodici anni fa – continuo a pensare che alla fine Ansgar non sia veramente morto: accadrà come nei telefilm americani e si scoprirà che invece è vivo ma nascosto da qualche parte… Ridatemi Ansgar, per piacere! (Dvd; da novembre 2006 ad aprile 2007)

ddv6014 devil-wears-prada610 – L’immondo Il diavolo veste Prada di un delinquente, USA 2006
Una solenne cazzata: siamo andati al cinema di sabato e ben ci sta. I film decenti hanno le sale piccole strapiene per cui – una volta usciti, parcheggiato, preso pure la pioggia – si è costretti a vedere una schifezza come questa che ha un pubblico fittizio, costretto da martellamento pubblicitario e critici comprati con un cocktail blandamente alcolico al buffet dell’anteprima. L’immondo film è un Eva contro Eva dei giorni nostri, dove la cattiveria è tramutata in farsa e tutto sommato le porcate lavorative sono accettate con una strizzatina d’occhi perché così va il mondo. Salvo giusto Meryl Streep per antica fedeltà e  gli occhioni da cerbiatto della pettoruta Anne Hathaway – a tanto son ridotto – e rilevo che il finale orrendo è l’adeguato coronamento di questa gigantesca stronzata commessa da tale David Frankel, una di quelle che ti arrecano dolore al momento dell’espulsione, scusate il francesismo. (Cinema Ducale, Milano; 11/11/06)

ddv6016 lost625 – Lost – Seconda serie di J.J. AbramsDamon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2005
Barbara mi ha fatto questo esatto sintetico suntino: “C’è della gente su un’isola”. Ah beh, come Selvaggi, dei Vanzina, quindi. “No: io non so e loro non sanno che cosa stia succedendo”. Punto. Per quanto la traduzione italica sia fastidiosa lo vedo godendomelo abbastanza fino a che (cfr. il parere #630, nella prossima puntata di questo sciagurato cinediario) non mi guardo la prima serie al confronto della quale questa seconda risulta decisamente inferiore, specialmente verso il finale quando l’apparizione di un enorme piede litico a sei dita mi getta nella più totale costernazione: gli sceneggiatori ci stanno mica a coglionare? Comunque, dài, anche Lost 2 è un bel prodottino che esalta la potenza del flashback, dà dipendenza e fa lavorare gli emisferi per capire cosa stia accadendo su ‘sta cazzo di isoletta. (Vhs da RaiDue; da febbraio a maggio ‘07)

ddv6017 Freddie Mercury628 – Queen Live at Wembley Stadium di Gavin Taylor, GB 1986
Visto (innumerevoli volte) non solo per ottusa passione musicale ma anche perché la piccola Sofia è rimasta folgorata dalla performance di Freddie Mercury, subito ribattezzato “omo nudo” a causa delle sue esibizioni a torace scoperto. La hit preferita è Bohemien Rhapsody che contiene il memorabile verso “oh mama mia”. Grande cornice di pubblico, cori a go-go, assolazzi come si deve, fumi e Freddie incontenibile: si straccia la maglietta, si fa incoronare con tanto di mantello d’ermellino e non risparmia una stilla di sudore per un pubblico che tiene in pugno (da cui anche l’accusa un po’ confusa di fascismo di Dave Marsh, su Rolling Stone…). Certo, i Queen sono stata l’ultima grande band edonistica degli anni Settanta, uber-cafona, sicuramente kitsch, senza menate e falsi moralismi (erano a Live Aid per gli etiopi? Ma va’!), ma capaci di scrivere grandissimi canzoni, spaziando dall’hard più terremotante al funk, al pop, al gospel e al vaudeville. È una mia debolezza e ho l’incubo dei Take That: Sofia non ha neanche due anni e va tirata su come si deve, eh. (Dvd; febbraio e marzo ‘07)

(Continua – 60)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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Sierra Charriba https://www.carmillaonline.com/2014/02/25/sierra-charriba/ Mon, 24 Feb 2014 23:05:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=13005 di Sandro Moiso

sierra charribaSoldato, io sono Sierra Charriba. CHI MANDERETE CONTRO DI ME, ADESSO?!” (Sam Peckinpah, 1964)

Più la crisi istituzionale, economica, sociale e politica italiana tende ad avvitarsi su se stessa, più tornano a risuonare nella memoria le parole dette con ferocia da un capo apache ad un ufficiale dell’esercito americano, appeso a testa in giù su un fuoco acceso, nelle prime scene di un classico del cinema western dei primi anni Sessanta. “Sierra Charriba” appunto.

E’ chiaro che nei panni del capo guerriero non è individuabile una particolare forza politica o sociale, ma è possibile confondere la sua [...]]]> di Sandro Moiso

sierra charribaSoldato, io sono Sierra Charriba. CHI MANDERETE CONTRO DI ME, ADESSO?!” (Sam Peckinpah, 1964)

Più la crisi istituzionale, economica, sociale e politica italiana tende ad avvitarsi su se stessa, più tornano a risuonare nella memoria le parole dette con ferocia da un capo apache ad un ufficiale dell’esercito americano, appeso a testa in giù su un fuoco acceso, nelle prime scene di un classico del cinema western dei primi anni Sessanta. “Sierra Charriba” appunto.

E’ chiaro che nei panni del capo guerriero non è individuabile una particolare forza politica o sociale, ma è possibile confondere la sua figura con quella della crisi attuale e nei panni del disgraziato ufficiale si può cogliere l’infelice destino degli uomini di governo che si sono succeduti, inizialmente in grande spolvero e con grandi squilli di trombe, sulla poltrona della presidenza del consiglio italiana nell’arco degli ultimi ventisette mesi. Monti, Letta e, ora, Renzi. Tutti finiti o destinati semplicemente a mordere la polvere del fallimento personale e politico.

Gli stessi tre governi succedutisi nel tempo sembrano, infatti, ripercorrere il destino di quel film.
Nato per durare 278 minuti, fu ridotto, prima ancora di andare nelle sale, a 156. Poi, viste le critiche negative a 136 e, infine, si attestò su una durata di 123 minuti. Come dire: il governo dei tecnici salvatori della Patria durò circa quindici mesi. Il governo fotocopia Letta è durato nove mesi e quello Renzi, se tutto andrà bene, probabilmente sei.

Un altro aspetto che unisce l’attuale momento della crisi italiana e del suo più recente governo con la trama del film è dato dal fatto che, in entrambi i casi, l’attenzione si focalizza su un comandante arrogante e già fallito che nel film veste i panni del maggiore Dundee (interpretato da Charlton Heston) mentre nella nostra dimensione temporale veste quelli, più dimessi, del Sindaco d’Italia (interpretato da uno scadente Matteo Renzi).

dundee 1 I “migliori” hanno già fallito nei loro intenti, adesso tocca ai secondi, anzi ai terzi. E probabilmente ultimi. Uno, Dundee, è già stato precedentemente allontanato dal comando operativo per motivi legati all’abuso d’alcol. L’altro, Matteuccio nostro, il comando non lo ha neppure mai visto essendosi dovuto genuflettere davanti alla volontà di sua maestà Re Giorgio I (e unico).
Uno comanda uno squallido campo di detenzione per prigionieri sudisti in prossimità del confine messicano, l’altro dovrà condividere talamo e servizi con un roditore d’aspetto umanoide.

Il primo vive ai margini della guerra civile che dissangua gli Stati Uniti facendo finta di essere ancora un valido soldato, mentre il secondo vive ai margini delle decisioni prese a monte dal potere finanziario europeo ed internazionale illudendosi e fingendo di contare qualcosa di più di una cacca di mosca su un vetro impolverato. Pronti entrambi ad essere divorati, come i figli di Crono, proprio da quella gloria e da quel potere così intensamente desiderati e mai realmente meritati.

Entrambi contano su un reparto di brocchi, i peggiori rappresentanti dell’esercito sudista e nordista da un lato e della politica e dell’economia italiana dall’altro. Nel primo reparto, quello di Dundee, vediamo sfilare davanti a lui (per preparare la lista): ladri di cavalli, alcolisti, vigliacchi, razzisti, desperados e bravi di ogni risma ed età. Nell’altro abbiamo visto presentarsi alla conta per i ministeri un dirigente delle Coop rosse, una rappresentanti della “giovane” Confindustria, un killer inviato dall’OCSE, la nuora di Re Giorgio oltre ai soliti mercenari alfaniani e vari nani e ballerine accomunati dalla giovane età.

Entrambi devono fare i conti con uno schieramento poco affidabile e profondamente diviso al proprio interno. Tra sudisti e nordisti, bianchi e neri quello di Dundee. Tra mercenari della politica di ogni colore e prezzo quello del giovane rampollo del fu Partito Popolare. In bilico costante tra il cadere negli agguati degli apache o dei lancieri francesi, ancora, il primo e in bilico costante tra i possibili agguati di Berlusconi, di Alfano o dello stesso PD il secondo.

Nella versione definitiva del film il reparto di Dundee raggiunge Sierra Charriba e lo sconfigge a costo di ingenti perdite per poi doversi scontrare con le truppe francesi, che in quel periodo occupavano il Messico, prima di poter riattraversare decimato il Rio Grande. Mentre nel film attuale il governicchio si farà ulteriormente bastonare in Europa e in Italia a seguito dei sicuramente disastrosi esiti delle elezioni europee e dei suoi cadaverici, già fin dalla partenza, programmi di governo.

sierra charriba 1 Sam Peckinpah, regista anarchico ed irriducibile al mainstream hollywoodiano, finì col disconoscere quel film troppo tagliato e modificato nel finale, che lui avrebbe voluto sanguinosissimo e senza superstiti. Noi abbiamo già disconosciuto questo squallido re-make dei governi Monti e Letta e, così pure, non possiamo far altro che auspicare un finale senza salvezza e senza superstiti per il drappello in carica. Inutile e senza gloria doveva essere la missione di Dundee per il regista americano, inutile, dannosa e odiosa sarà sicuramente la missione di Renzi per il movimento antagonista e di classe. Fino alla sua caduta. E a quella del comandante in capo di tutte le ultime missioni che vedremo, nei titoli di coda, mordere la polvere mentre un cavallo lo trascina nel deserto con il piede ancora impigliato nella staffa.

The Harder They Come, The Harder They Fall” (Jimmy Cliff, 1972).1

Ancora una postilla di carattere metodologico
Perché tracciare un parallelo tra una pellicola semisconosciuta di un pur grande regista e l’attuale situazione politica? Per semplice amore del détournement di carattere situazionista o, forse, anche per altro? Certamente il détournement, lo spiazzamento e la decontestualizzazione di un immagine o di un frammento di discorso è ancora molto utile al fine di non irrigidire il discorso politico in parametri definiti una volta per tutte e insopportabilmente marchiati dai sofismi del politichese. Ma la scelta del cinema significa anche la scelta di una lettura dinamica della realtà, molto diversa da quella fotografica che può essere molto precisa, ma sicuramente statica. Oggi, di fronte ad una situazione in rapida evoluzione, almeno sul piano del potere politico e delle istituzioni e del loro rapporto con le classi sociali di riferimento, è possibile rilevare, troppo spesso e proprio tra coloro che la dovrebbero avversare, una lettura schematica e sostanzialmente rinunciataria degli avvenimenti in corso, sia sul piano nazionale che internazionale.

Eppure, eppure… il frenetico succedersi dei governi vorrà dire pure qualcosa. Forse la classe dirigente non ha paura dei movimenti di classe che tardano a manifestarsi, ma teme le fratture interne a quello che dovrebbe il suo schieramento e nella propria area naturale di consenso. E di questo occorrerà tenere conto per poter comprendere le tempeste in arrivo.

Il pensiero politico radicale e l’analisi dialettica delle contraddizioni sociali, quella vera e non stravolta e mummificata dallo stalinismo nelle sue varie forme, ci dovrebbero insegnare a fare i conti con il reale e non con gli schemi e sapere che in ogni situazione è sempre necessario saper discernere quali potranno essere le condizioni più favorevoli per lo sviluppo della lotta di classe futura. Rinviare ad una migliore situazione o, ancor peggio, delegare ad altri i propri compiti politici non solo non serve a nulla, ma è anche estremamente dannoso per la sopravvivenza di un programma e di un progetto di autentico cambiamento. Marx insisteva su due cose: la prima era costituita dal fatto di non essere marxista e la seconda basata sulla considerazione che “Il capitale” costituisse un modello dello sviluppo delle contraddizioni capitalistiche, ma non la ricostruzione del loro svolgimento in ogni istante della loro storia. In entrambi i casi era sottinteso un pensiero che rifiutava di farsi imbalsamare in uno schema rigido di fronte ad una realtà sempre fluida e, talvolta, apparentemente imprevedibile, ma con cui occorre sempre fare i conti traendone insegnamenti e previsioni. Anche per evitare che il modello di Kiev trionfi nelle future lotte sociali europee.

Nuovamente… Dixi et salvavi animam meam


  1. da ascoltare, possibilmente, nella versione di Johnny Thunders e Wayne Kramer, riuniti nei Gang War tra la fine del 1979 e i primi mesi del 1980  

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