Salento – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estrattivismo pandemico https://www.carmillaonline.com/2020/07/09/estrattivismo-pandemico/ Thu, 09 Jul 2020 07:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61231 di Alexik

Ci avevamo sperato, dal chiuso delle nostre case, osservando sorpresi l’aria della pianura padana tornare trasparente, la biodiversità riapparire e la fauna selvatica avventurarsi, timida, attraverso il cemento degli spazi urbani. Toccavamo con mano, durante il lockdown,  la dimostrazione di come sarebbe bastato fermare questo sistema di produzione, questo modello di mobilità, questo consumo insensato di roba inutile, perché la natura cominciasse a riprendersi ciò che è suo. Avevamo sperato che fosse diventata chiara a tutti la possibilità concreta di un cambiamento radicale, ma sapevamo, in cuor nostro, che avevamo [...]]]> di Alexik

Ci avevamo sperato, dal chiuso delle nostre case, osservando sorpresi l’aria della pianura padana tornare trasparente, la biodiversità riapparire e la fauna selvatica avventurarsi, timida, attraverso il cemento degli spazi urbani.
Toccavamo con mano, durante il lockdown,  la dimostrazione di come sarebbe bastato fermare questo sistema di produzione, questo modello di mobilità, questo consumo insensato di roba inutile, perché la natura cominciasse a riprendersi ciò che è suo.
Avevamo sperato che fosse diventata chiara a tutti la possibilità concreta di un cambiamento radicale, ma sapevamo, in cuor nostro, che avevamo vissuto solo una fragile tregua nell’aggressione del capitale agli ecosistemi e ai territori, un rallentamento che precede la rincorsa.
Ed anche che come tregua aveva fin troppe eccezioni.

Segnali provenienti da tutto il mondo ci avvertivano che gran parte delle attività di maggiore impatto sull’ambiente e sulle comunità non solo stavano proseguendo ‘as usual’, ma approfittavano della pandemia per espandersi e riorganizzarsi.
Segnali che andavano tutti nella stessa direzione, delineando una dimensione mondiale del fenomeno, con una serie di caratteristiche ricorrenti, come  – per esempio – l’inclusione sistematica nell’elenco dei ‘servizi essenziali’ di attività ad altissimo impatto ambientale e sociale.

Molti settori impattanti non hanno conosciuto fasi di arresto, ed hanno continuato ad operare anche quando si sono trasformati in fulcri di contagio, trasmettendolo  alle comunità dei territori dove operavano.
Il lockdown non li ha colpiti, ma piuttosto li ha sottratti al controllo delle popolazioni e dei militanti, costretti in casa e privati della libertà di  movimento, e sempre più soggetti ad aggressioni favorite dal coprifuoco: violenze poliziesche, arresti arbitrari e, soprattutto in America Latina, esecuzioni extragiudiziali.
In generale la militarizzazione dei territori, dispiegata in tutto il mondo con il pretesto della pandemia, è stata un poderoso deterrente per le proteste sociali e ambientali, facendo da copertura per la violenza selettiva contro gli attivisti, dispensando cariche e sgomberi su presidi e manifestazioni.
Una violenza che non potrà che intensificarsi, perché ciò che si prepara per il futuro è un ulteriore salto di qualità nello sfruttamento della Natura, che ci verrà venduto come l’unica scelta possibile per ‘riattivare l’economia’ di fronte alla recessione mondiale che viene.

La devastazione ambientale è … un “servizio essenziale”?

Una molteplicità di governi ha esentato dal blocco della produzione per l’emergenza Covid le imprese estrattive, minerarie e petrolifere, la costruzione di grandi opere e di infrastrutture per il trasporto degli idrocarburi o per la produzione di energia, sebbene non abbiano nulla a che fare con il soddisfacimento dei bisogni immediati delle popolazioni colpite dalla pandemia.

In Italia è stata inserita fra i ‘servizi essenziali’ la costruzione del  gasdotto TAP/Snam, grazie alla libera interpretazione del dettato del DPCM del 22 marzo, che dava il via libera al proseguo delle attività di trasporto e distribuzione del gas.
Una misura che, a buon senso, si riferiva alle reti distributive già esistenti e funzionanti, ma che con una evidente forzatura è stata estesa anche ai cantieri in corso d’opera.
Sulla “essenzialità” di un nuovo gasdotto, va detto che nel solo mese di aprile 2020 i consumi di gas in Italia sono calati di oltre il 23%,  circa 1,3 miliardi di metri cubi in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, seguendo un forte trend negativo  già visibile dal novembre scorso.
Comunque,  in piena pandemia, i lavori di avanzamento nelle province di Lecce e di Brindisi sono continuati a pieno ritmo, spiantando altri uliveti, aprendo voragini, attingendo dal sottosuolo enormi quantità di acqua, inquinando le falde, e tuttora continuano in spregio ad ogni normativa visto che il 20 maggio scorso al TAP è scaduta anche l’Autorizzazione Unica.

Torchiarolo (BR), ex uliveto, ora cantiere SNAM.

Il cantiere è andato avanti nonostante fosse stata  messa in quarantena una delle navi utilizzate da TAP per l’analisi dei fondali, è proseguito nonostante l’infortunio mortale di un giovane operaio, e nonostante la richiesta di sospensione per motivi di sicurezza da parte di sette sindaci salentini, motivata dall’avvicendarsi nei turni di centinaia di lavoratori, le cui condizioni sono state così descritte da un operaio ai microfoni RAI:

Quelli della sicurezza hanno le mascherine a norma, noi lavoriamo con la carta igienica e il rischio di contagio è altissimo: in uno spogliatoio siamo 10-15 operai e non abbiamo nemmeno i 20 centimetri di distanza uno con l’altro”.

Dello stesso tenore la denuncia di due deputate del gruppo misto:

Guanti e mascherine non a norma indossate anche per due tre giorni, operai che arrivano settimanalmente dal Nord, spogliatoi con 20 persone senza protezioni, distanze di sicurezza non rispettate, controlli farsa della Asl, che avvisa preventivamente i dirigenti sul giorno dei controlli, così da renderli perfettamente a norma”.

Uscendo dal Belpaese e attraversando l’oceano, una simile declinazione del concetto di ‘servizio essenziale’ la ritroviamo  in Messico, dove il governo progressista presieduto da Andrés Manuel López Obrador ha ritenuto – nel paese latinoamericano con il più alto numero di morti di Covid (più di 25mila) dopo il Brasile – che la priorità nazionale fosse quella di autorizzare a colpi di decreto l’inizio dei lavori per la costruzione del  ‘Tren Maya’.
Si tratta di una linea ferroviaria ad alta velocità lunga circa 1.500 kilometri che dovrebbe avere lo scopo di far scorazzare i turisti attraverso cinque Stati messicani, da Palenque a Cancun, con prezzi prevedibilmente al di fuori della portata della maggior parte degli abitanti dello Yucatan.

L’operazione è ad altissimo impatto ambientale e sociale in termini di esproprio di terre, espulsione e delocalizzazione delle comunità (prevalentemente indigene), deforestazione, prosciugamento delle sorgenti, distruzione di  habitat ed ecosistemi, interruzione e sbarramento dei percorsi degli animali selvatici e dei collegamenti fra i villaggi.
Il tracciato della linea ferroviaria vorrebbe impattare su 709 siti archeologici,  attraversando 15 aree naturali protette, fra cui la Reserva de la Biosfera de Calakmul (Campeche), riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio mondiale dell’umanità, dove vive l’80% delle specie vegetali dello Yucatan. Assieme alla Reserva de Sian Ka´an (Quintana Roo), anch’essa minacciata dal Tren Maya, ospita centinaia di specie animali.1

Tutto questo viene messo a rischio da un’infrastruttura enorme, che sarà finanziata per il 90% da capitali privati (in buona parte internazionali), costruita ad uso e consumo degli interessi degli appaltatori e dei settori immobiliare, turistico (resort, grandi catene alberghiere), agroindustriale ed energetico.
Un’infrastruttura che promette devastazioni maggiori, perché è solo un tassello di un progetto di interconnessione  più vasto della stessa penisola, e che comprende aeroporti, autostrade, assieme a nuovi gasdotti, raffinerie ed alla costituzione di Zone economiche speciali, aree deregolamentate e defiscalizzate dove è massimo l’arbitrio contro i lavoratori e la natura.

Sulla popolarità di una simile opera, probabilmente lo stesso López Obrador nutriva qualche dubbio, tanto da volerne affidare la realizzazione di ampi tratti direttamente all’esercito.
Infatti il progetto ha incontrato una fiera opposizione popolare, con in prima fila l’EZLN e i movimenti indigeni, anticapitalisti e antipatriarcali, che per ora hanno segnato un punto a favore: qualche giorno fa un tribunale ha accolto la richiesta del popolo Maya Chol, determinando la sospensione definitiva di «qualunque opera che non sia di puro mantenimento delle vie già esistenti», per l’intero periodo di emergenza sanitaria.

Il Tren Maya è rimasto temporaneamente in sospeso, ma il Messico presenta altri fronti aperti.
Il Governo infatti è tornato alla carica con il Corridoio Transistmico, un mega progetto di trasporto merci intermodale che dovrebbe collegare il Golfo del Messico all’Oceano Pacifico attraverso l’istmo di Tehuantepec.
Si tratta di un sistema interamente finalizzato all’integrazione e allo scambio sul mercato mondiale, che attraverserà gli stati di Oaxaca e Veracruz.
Il corridoio, che prevede una linea ferroviaria AV, strade, porti, la costruzione di un gasdotto,  l’ampliamento della raffineria di Minatitlan, lo sviluppo di 10 nuove aree industriali e l’istituzione di una ‘Zona franca’, oggi viene sbandierato dal ministero dello sviluppo economico messicano come la via per uscire dalla crisi causata dal Covid-19.

Ma i militanti delle comunità sanno bene che il corridoio non è la via d’uscita, ma la crisi:

Le persone vedranno e saranno colpite da tutti i problemi e dai rischi che una strada ad alta velocità genera, con l’interruzione del traffico di persone e animali. Le strade bloccheranno i sentieri naturali.
Tutta l’infrastruttura che deve essere costruita attorno a una ferrovia prenderà il controllo della terra delle persone, rovinerà la loro vita naturale e li impoverirà di più. Approfondirà la disuguaglianza economica nell’area. Pochi, pochissimi, ne trarranno beneficio, e la stragrande maggioranza, ancora una volta, vedrà deprezzare il valore della propria attività e della propria terra, che servirà solo da piattaforma di passaggio
”.

Così come le comunità Zapotecos e Ikoots, riunite nella Asamblea de Pueblos de Istmo en Defensa de la Tierra, sanno che il megaprogetto, la cui costruzione verrà presidiata dalla Guardia Nazionale per garantire la serenità degli imprenditori, “porterà una nuova ondata di violenza, repressione, saccheggio, spoliazione, militarizzazione e guerra per i beni naturali”.
E le comunità Ikoots conoscono la violenza: l’hanno appena subita a San Mateo del Mar (Oaxaca), che dista solo 30 km da Salina Cruz, uno dei terminali del corridoio.

Un’epidemia di violenza

Il 21 giugno scorso, militanti dell’Unione delle Agenzie e delle Comunità Indigene Ikoots, mentre si avviavano a una riunione, si sono fermati presso ciò che sembrava un posto di blocco sanitario per il Covid-19, e invece era un’imboscata. Attaccati con armi da fuoco per ore da un gruppo armato legato ad un politico locale, in 15 sono stati assassinati, anche dopo esser stati torturati, lapidati, bruciati vivi. Molti sono rimasti feriti.
La comunità  ikoots ha una lunga storia di lotte e di opposizione ai grandi parchi eolici, lotte che hanno intralciato anni fa molti interessi speculativi nella regione.
Ma negli ultimi tempi, le aggressioni contro gli ikoots sono aumentate nel contesto dell’inizio di lavori per il corridoio, in particolare l’ampliamento dei frangiflutti e delle scogliere del porto di Salina Cruz, ai quali si oppone la maggioranza delle comunità poiché questo implicherebbe l’irreversibile alterazione dell’ecosistema lagunare, sul quale basano la loro vita e la loro cultura ancestrale. (Continua)


  1. Ana Esther Cecena, Josué Vega, Avances de Investigacion, Tren Maya, Observatorio Latinoamericano de Geopolitica, dicembre 2019, pp. 52. 

]]>
Dal Salento all’Ecuador: estrattivismo, diritti della natura e diritti dei popoli https://www.carmillaonline.com/2019/11/20/dal-salento-allecuador-estrattivismo-diritti-della-natura-e-diritti-dei-popoli/ Wed, 20 Nov 2019 07:40:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56207 di Alexik

Il 22 e 23 novembre l’economista ecuadoriano Alberto Acosta Espinosa parteciperà a due appuntamenti salentini che affronteranno, da angolazioni diverse, i temi dell’aggressione del profitto alla Terra e della criminalizzazione di chi la difende.

Notevole, in questi incontri, la statura dell’ospite. Ex Ministro dell’Energia e delle Miniere nel primo governo Correa, Alberto Acosta è stato presidente dell’Assemblea Costituente di Montecristi che ha promulgato la nuova Costituzione dell’Ecuador, la prima a riconoscere la Natura come soggetto di diritto.

Attualmente, oltre [...]]]> di Alexik

Il 22 e 23 novembre l’economista ecuadoriano Alberto Acosta Espinosa parteciperà a due appuntamenti salentini che affronteranno, da angolazioni diverse, i temi dell’aggressione del profitto alla Terra e della criminalizzazione di chi la difende.

Notevole, in questi incontri, la statura dell’ospite.
Ex Ministro dell’Energia e delle Miniere nel primo governo Correa, Alberto Acosta è stato presidente dell’Assemblea Costituente di Montecristi che ha promulgato la nuova Costituzione dell’Ecuador, la prima a riconoscere la Natura come soggetto di diritto.

Attualmente, oltre che docente presso la FLACSO, è autorevole membro del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura1, che sottopone ad investigazione e a giudizio le violazioni dei diritti di Madre Terra perpetrate in tutto il mondo2.

Pienamente interno al dibattito dei movimenti ecuadoriani che hanno animato la rivolta contro le politiche del governo di Lenin Moreno e del FMI, Acosta sostiene il  “Parlamento de los Pueblos, Organizaciones y Colectivos Sociales del Ecuador3 nel processo di definizione di un nuovo modello economico da contrapporre alla vulgata neoliberista.

Dall’Ecuador …

La produzione intellettuale e l’esperienza politica di Alberto Acosta offrono molte opportunità di ragionamento.
Sostenitore della prima ora del Movimiento Alianza PAIS di Rafael Correa,  Acosta ricoprì nei primi mesi del 2007 il ruolo Ministro dell’Energia e delle Miniere nel primo governo della “Revolución Ciudadana”.
Un ruolo insolito per un intellettuale antiestrattivista, svolto ai tempi in cui il programma del governo Correa recitava: “Soñamos  en  un país en donde  no  sea  posible  la  mercantilización  depredadora  de  la  Naturaleza”.
Poi i tempi cambiarono, ma nel 2007 l’atmosfera era ancora quella di una rivoluzione possibile.
L’Assemblea Costituente costruiva un testo nel cui preambolo il Popolo Sovrano dichiarava la sua decisione di “costruire una nuova forma di convivenza tra cittadini, nella diversità e nell’armonia con la natura, per raggiungere il buen vivir, il sumak kawsay” (che in lingua kichwa significa “vivere la vita in pienezza”).
Un’utopia da costruire, alla cui elaborazione lavorarono, nel corso di un ricchissimo dibattito costituzionale,  esponenti del pensiero indigeno, ecologista, socialista, femminista e decoloniale – e Alberto Acosta fra loro – in stretto contatto con i movimenti sociali, con la teologia della liberazione, con gli intellettuali del Foro Social Mundial.

Il sumak kawsay venne declinato attraverso l’inserimento in Costituzione di una lunga serie di diritti fondamentali: diritto all’acqua e al cibo, alla comunicazione, informazione, cultura, educazione e scienza, all’ambiente sano, alla casa, alla città e allo spazio pubblico, alla salute, al lavoro e alla sicurezza sociale.
Diritti delle persone (al di là della loro condizione di cittadini), diritti delle comunità, dei popoli e delle nazionalità, diritti della natura.

Ma al di là delle codificazioni, il buen vivir  rappresentava la fragile sintesi di concezioni ideologiche che davano di questo concetto interpretazioni diverse, e che prima o poi sarebbero arrivate necessariamente a confliggere:

Un’accezione indigenista, che voleva ricreare le condizioni armoniche della vita dei popoli originari, che poneva al centro la loro visione del mondo e il recupero dell’identità ancestrale perduta.

Un’ accezione socialista e statalista, variante ecuadoriana del socialismo del 21° secolo, che tradusse il buen vivir in un obiettivo da raggiungere attraverso un “nuovo modello di sviluppo”.
Un obiettivo pianificato da Correa nei Piani Nazionali quinquennali del Buen Vivir, che prevedevano una prima fase di accumulazione fondata sull’estrazione di materie prime come base per il successivo sviluppo dell’industria nazionale, in un contesto di integrazione economica latinoamericana.
Uno sviluppo accompagnato da forti politiche redistributive, dove lo Stato rappresentava il principale agente politico e l’unico interprete della volontà popolare.

Infine, un’accezione ecologista e post-desarrollista del Buen vivir, che rifiutava l’idea dello sviluppo moderno come aspirazione sociale, considerandolo come una forma di dominio.
Recuperava l’esperienza storica delle comunità indigene nella loro capacità di vivere in armonia con la natura, senza fossilizzarla nella nostalgia di un mondo idilliaco precoloniale, per lo più inesistente, ma  rivalutandola come pratica quotidiana che si nutre di cinque secoli di lotta e resistenza contro il colonialismo.

Alla base di questa accezione del Sumak Kawsay  vi è una profonda critica delle attuali teorie sullo sviluppo, comprese quelle eterodosse, che non mettono tale concetto realmente in discussione.
Il Buen vivir non è dunque la proposta di uno sviluppo alternativo, ma di una alternativa allo sviluppo.
E’ la rivalutazioni di soggettività periferiche che, proprio perché ai margini dello sviluppo capitalistico ne hanno subito meno la potenza performativa, e possono più facilmente immaginare delle “strategie di uscita” basate su un sistema valoriale di completa alterità.
All’interno di questa corrente di pensiero, Alberto Acosta è uno degli esponenti principali.

La sua critica dello sviluppo si nutre di un’attenta analisi sulle conseguenze di un neoliberismo dalle salde radici coloniali, che impone al suo paese il ruolo di esportatore di commodities petrolifere, agricole e minerarie.
È un’analisi che parte dallo specifico dell’Ecuador, ma assume una valenza generale nella denuncia di un assetto economico che pone società intere alla mercè del mercato mondiale e delle multinazionali, generando indebitamento, dipendenza, miseria, devastazione della natura, distruzione del tessuto sociale, corruzione, espropriazione delle comunità, furto di democrazia, violenza.
È la “maledizione dell’abbondanza” che trasforma la ricchezza di risorse naturali in una rovina, e l’istituzione pubblica in uno Stato di Polizia.
Una maledizione che non cambia nemmeno quando a governarla si candidano borghesie nazionali emergenti, rappresentate da caudillos “progressisti” (inevitabile in questo senso, la rottura e lo scontro con Correa).

Una maledizione che forse potrebbe cominciare a dissolversi davanti a quella rivolta senza caudillos che ha riunito, negli ultimi due mesi, i popoli originari, i lavoratori rurali e il proletariato urbano dell’Ecuador in una lunga e multiforme insubordinazione di massa.

… al Salento

Cosa offriremo a questo illustre ospite, che possa condividere ?
Come membro del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura  lo informeremo sulle ferite dei territori di questo paese, inflitte dalle grandi opere e dalla speculazione.
Gli parleremo della maledizione che colpisce non solo i luoghi di estrazione, ma anche quelli di passaggio dei flussi di materie prime.

Oggi  la grande draga di TAP, con la sua benna da 27 metri, è al lavoro al largo di San Foca, marina di Melendugno, incurante della Posidonia e dei coralligeni.
A terra, sotto il cantiere TAP, la falda è stata inquinata da cromo esavalente, altamente cancerogeno e mutageno.
Chiudono quindi i pozzi dei contadini, ma non il cantiere della multinazionale, che nonostante l’inchiesta della Procura di Lecce per scarico abusivo di sostanze pericolose, continua a lavorare.
Continua, fra l’altro, nonostante la Valutazione di Impatto Ambientale  fosse in scadenza a fine settembre, ma i ministri Costa e Franceschini l’hanno graziosamente prorogata per due anni.
Oltre Melendugno il tubo cambia padrone.
Diventa la bretella della Snam che collegherà TAP alla Rete Adriatica presso il centro di interconnessione in contrada Matagiola, tra Brindisi e Mesagne.
Il tubo è in posa nel territorio del Comune di Lecce, vicino alle case della gente, mentre dal leccese al brindisino, a centinaia, si espiantano gli ulivi per far posto al suo passaggio. Non c’è  rispetto nemmeno per quelli monumentali, rimossi anche prima di ottenere le autorizzazioni previste dalla V.I.A..
Altri migliaia dovranno essere espiantati per “liberare” i 55 km necessari alla costruzione della bretella. Il pretesto della xylella, a questo fine, torna utile.

Racconteremo ad Acosta di un nuovo assalto del fotovoltaico speculativo, con 44 ettari in attesa di autorizzazione a Nardò, 17 ettari sui seminativi a Corigliano d’Otranto, e progetti per 500 ettari nel Brindisino.
Del nuovo progetto di una superstrada che dovrebbe estendersi su 600 ettari di suoli agricoli, uliveti e abitazioni nel Capo di Leuca.
Delle prospettive di sostituzione dell’olivicoltura tradizionale con impianti superintensivi,  così palesi nelle intenzioni di un Protocollo appena firmato dalla ministra Teresa Bellanova e dalla Confederazione Italiana Agricoltori.
Dei vecchi veleni che restano, a Taranto e a Cerano.
E della criminalizzazione di chi lotta contro tutte queste devastazioni: dalla Valsusa, che ormai costituisce un esempio da manuale, al Salento, dove un centinaio di compagne e compagni a breve finiranno sotto processo per l’opposizione al TAP, aggiungendo nuove rappresaglie alle tante e pesantissime multe e ai numerosi fogli di via.

Dinamiche tipiche di un modello estrattivista che si attua, in ogni parte del mondo, nella sottrazione sistematica di ogni tipo di ricchezza dai territori, con il conseguente trasferimento di sovranità da chi quei territori li abita a chi li depreda.

Gli appuntamenti:

Venerdì 22 novembre 2019, ore 9,30
Aula Ferrari, Palazzo Codacci Pisanelli, Piazza Angelo Rizzo, Lecce
Giornata di studio con Alberto Acosta, Tribunal Permanente de los Derechos De La Naturaleza
È reato difendere la natura? L’uso asimmetrico del diritto nei conflitti ambientali
Programma

Sabato 23 novembre 2019, h. 16.00
Nuovo Cinema Paradiso di piazza Risorgimento 50, Melendugno (LE)
Estrattivismo, diritti della Natura e diritti dei Popoli
Programma

 


  1. Il 20 aprile 2010, alla “Conferenza popolare mondiale sui cambiamenti climatici e i diritti della Madre Terra” tenutasi a Cochabamba – Bolivia, è stata approvata da oltre 35.000 persone la Dichiarazione universale dei diritti della Madre Terra.  Poiché i governi  si rifiutano di garantire il rispetto di questi diritti, la società civile globale ha preso l’iniziativa per tradurli in realtà. A tal fine è stato istituito nel 2014 il Tribunale permanente per i diritti della natura e della Madre Terra. 

  2. Il Tribunale ha sottoposto a giudizio le attività inquinanti di Chevron-Texaco (Ecuador) e BP (U.S.A.), il progetto di estrazione petrolifera  Yasuní-ITT  (Ecuador), l’estrazione del carbone in Australia, le miniere metallifere di Cóndor Mirador (Ecuador), le attività di fracking  negli U.S.A., oltre a casi che hanno rilevanza globale, come gli organismi geneticamente modificati e le cause dei cambiamenti climatici. 

  3. Il Parlamento de los Pueblos, Organizaciones y Colectivos Sociales riunisce più 180 organizzazioni sociali ecuadoriane. Si è costituito lo scorso 25 ottobre presso la sede della Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador, in seguito alla rivolta generalizzata contro le misure economiche decise dal governo di Lenin Moreno e imposte dal FMI. 

]]>
Venaus, 17 e 18 novembre: da Flint a Flint passando per la Valsusa e il Salento. https://www.carmillaonline.com/2018/11/15/venaus-17-e-18-novembre-da-flint-a-flint-passando-per-la-valsusa-e-il-salento/ Wed, 14 Nov 2018 23:01:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49567 di Sandro Moiso

Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie [...]]]> di Sandro Moiso

Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie umana nel suo complesso.

Nel primo, Roger and Me (1989), sono ricostruite le vicende legate al licenziamento di 30.000 lavoratori dagli stabilimenti della General Motors della città di Flint, situata nel Michigan a poco più di cento chilometri da Detroit, le cui conseguenze hanno portato quella località ad essere, da insediamento industriale legato al ciclo dell’auto qual era, una delle città meno vivibili degli Stati Uniti, con conseguente crescita della criminalità e diminuzione del numero degli abitanti.

Nell’ultimo, Fahrenheit 11/9 (2018), all’interno della descrizione del processo di nazificazione della società americana dell’era Trump, Flint torna in scena sia per il dramma scatenatosi, ufficialmente a partire dal 2014, con l’inquinamento da piombo delle acque distribuite dall’acquedotto locale, sia per l’utilizzo del suo territorio (fabbriche dismesse e quartieri abbandonati tutt’altro che distanti da quelli ancora abitati) come luogo di esercitazione anti-guerriglia da parte dell’esercito americano, con l’utilizzo di armi, esplosivi ed autentiche tempeste di fuoco e di piombo scatenate dagli elicotteri d’assalto.

L’inquinamento, ed è per questo che vale la pena di parlare di Flint in questo contesto, è derivato dall’avvio di una grande opera inutile costituita da un nuovo acquedotto che avrebbe dovuto sostituire quello già esistente, che prelevava l’acqua dal lago Huron, lago di antichissima origine glaciale e la cui profondità delle acque garantiva una qualità pressoché ottimale delle stesse, con uno nuovo, la cui costruzione ha richiesto che le acque metropolitane fossero prelevate dal fiume Flint, inquinatissimo dagli scarichi industriali che in esso si sono riversati per decenni.

Nonostante le denunce dei residenti e di tutti i servizi sanitari, che hanno rilevato da subito le gravissime conseguenze dall’avvelenamento da piombo sulla popolazione locale, prevalentemente ormai di origine afro-americana, l’opera è andata avanti e l’acqua fornita è rimasta la stessa. Tranne che per gli stabilimenti superstiti della General Motors cui è stata nuovamente fornita l’acqua del lago Huron, visto che quella del fiume Flint rovinava e corrodeva la componentistica delle auto prodotte negli stessi.

Non è stato dunque un caso legato soltanto all’abbandono di una parte del territorio urbano, in cui il valore delle case è sceso praticamente a zero, a far sì che l’U.S. Army scegliesse quell’area per le sue esercitazioni a fuoco ma, piuttosto, la necessità di sperimentare violentissime tecniche anti-guerriglia in ambiente urbano proprio là dove una vasta protesta di massa contro condizioni di vita bestiali ed impossibili potrebbe sorgere a breve. In un’America che, come molti osservatori rilevano, assomiglia sempre di più ad una nazione sull’orlo della guerra civile.

Mi scuso con i lettori per questa, apparentemente, lunga divagazione, ma ritengo che il percorso economico, ambientale, sociale e politico della città del Michigan costituisca una significativa metafora di ciò che il capitalismo occidentale ha in serbo per il futuro della specie umana. Tema che è già stato trattato e approfondito nel convegno tenutosi a Melendugno tra il 5 e il 7 ottobre di quest’anno (qui e qui ).

Tema che riguarda il degrado economico ed ambientale dei territori, la sostituzione di un’economia reale con quella fittizia e devastante legata all’estrattivismo e alle “grandi opere inutili” e la conseguente e necessaria (per il capitale) repressione per sedare e reprimere (ovvero “pacificare” nel linguaggio soft degli apparati preposti alla stessa) i movimenti sempre più numerosi e vivaci che a partire dai territori e dal ‘basso’ si oppongono a tutto ciò.

No Tav, No Tap, No Muos, No Mose, e chissà quanti altri movimenti ancora, avranno modo nella due giorni di Venaus di confrontarsi sia sulle problematiche inerenti alle singole specificità territoriali ma, anche, su ciò che occorre rafforzare e organizzare a livello nazionale ed internazionale affinché tali movimenti possano coordinarsi in maniera sempre più stretta ed efficace affinché il motto valsusino “Si parte insieme e si torna tutti insieme” diventi davvero una pratica costante dell’opposizione, a livello locale, nazionale e sovranazionale, a un modo di produzione ormai devastante per la vita della specie e la sopravvivenza dei territori.

Organizzazione e collegamento che richiederà sempre più la coscienza del fatto che non esistono governi o partiti amici. Come dimostrano i fatti recenti della politica italiana, in cui tra i movimenti e gli interessi delle grandi compagnie petrolifere i partiti spergiuri scelgono i secondi. Per fare un esempio più chiaro si pensi alla promessa fatta da Conte a Trump sulla realizzazione della Trans Adriatic Pipeline e al successivo premio ottenuto dall’Italia (si legga ENI), che è stata esclusa dalle sanzioni americane nei confronti dell’Iran e dei paesi che continueranno a fare affari con quel paese.

Lo stesso Michael Moore, un tempo fervente democratico, è stato costretto a rilevare, proprio nel corso del suo ultimo film, la sostanziale identità tra gli interessi del Partito Repubblicano e quelli ‘profondi’ (finanziari, industriali, militari ed energetici) del Partito Democratico. Sintetizzata magnificamente nella scena in cui Obama finge di bere l’acqua dell’acquedotto di Flint davanti ai suoi, delusissimi, sostenitori per convincerli a fare altrettanto e in ‘tranquillità’.

Non esistono partiti e governi ‘amici’, ma non esiste nemmeno la possibilità di usarli come taxi. Sono già stati programmati per quella che dovrà essere la destinazione finale del viaggio, indipendentemente dalla volontà del passeggero salito a bordo. Anzi, il vero rischio è costituito dal fatto che possano essere proprio i movimenti a costituire il taxi di cui possono avvalersi, per un tratto del loro percorso, partitini e partitoni oppure fasulli movimenti pluristellati. Magari proprio ai danni che di chi provvede al loro trasporto.

I movimenti, oggi, non solo non possono più accontentarsi di promesse o di atti estemporanei non accompagnati da fatti concreti, ma, anche laddove si vincesse su una singola questione, non possono mai dimenticare che la loro forza sta proprio nel partire, lottare e tornare tutti insieme. Motivo per cui non ci si potrà accontentare di una singola vittoria con cui, forse, alcuni vorrebbero dividere un movimento che è, per sua natura e necessità, unitario e indivisibile.

D’altra parte è proprio questa sua natura a spaventare i suoi avversari, ben consci del fatto che con i partiti di governo si potrà sempre trattare, cosa che li ha spinti a ridar vita (anche se in realtà non era mai morto) ad un autentico blocco conservatore, costituito da impresari, sindacati, associazioni di categoria, organizzazioni fasciste e lobby politico-economiche, compresa quella del partito alleato di governo dei 5 Stelle, che con l’appoggio di tutti i media in queste ultime settimane ha deciso di attaccare frontalmente il movimento No Tav.

Il cui risultato si è visto con la manifestazione SìTav tenutasi a Torino il 10 novembre. Sicuramente partecipata, anche se non nei numeri sbandierati dai media, da quella che un tempo si sarebbe definita “maggioranza silenziosa”. Una maggioranza di cui ad aver bisogno, oltre al PD e Forza Italia e le consorterie connesse, sono proprio i partiti ‘amici’: per poter aprire trattative (come il sindaco di Torino, Appendino, ha già promesso) e giungere ad un accordo, ai danni di chi da sempre si oppone alle grandi opere inutili. Proprio come nel 1980, sempre a Torino e grazie al suo genius loci sempiterno perbenista e conservatore, la marcia dei quarantamila servì alle organizzazioni sindacali per firmare e giustificare un accordo che era stato respinto dalla assoluta maggioranza degli operai della Fiat.

Più che una manifestazione anti-grillina, come qualcuno si ostina a leggerla, è stata piuttosto l’espressione di quel all’ordine costituito e di accettazione dell’esistente, che da sempre costituisce l’anima delle maggioranza silenziose e reazionarie, che si contrappone al No della sovversione del presente stato di cose. Una manifestazione di quello scontro tra chi, in nome di pochi ed egoistici interessi immediati, vuole continuare a sfruttare l’uomo, l’ambiente e i territori adesso e subito, senza pensare al futuro e chi, invece, in nome di un futuro diverso e migliore di cui si sente già parte, lotta in nome della comunità umana e della salvaguardia di quell’ambiente senza il quale la specie non può sopravvivere. Una nuova forma di quel secolare scontro tra le classi e i modi di produzione che oggi sembra affrontare una fase nuova e decisiva.

I compagni del movimento NoTap ci hanno scritto:

“Nel mese di Novembre TAP, agevolato da un governo che ha levato la maschera della menzogna, ha ripreso i lavori a Melendugno. Il via libera pentastellato, figlio del tradimento di un governo nei confronti del popolo, è però avvolto nella nebbia: infatti, è tutt’ora sotto sequestro un’area di cantiere denominata “le paesane” per mancato rispetto dei vincoli paesaggistici, è in corso un’indagine nell’area dove dovrebbe sorgere il PRT per valutare la possibile assoggettabilità dello stabilimento alla normativa Seveso III, ed è di questi giorni la notizia che un’altra indagine è stata aperta in località San Basilio (dove è stato costruito il pozzo di spinta) per probabile inquinamento della falda acquifera. A questo, si aggiungono i lavori in mare che, sempre per mano di un governo traditore, sono stati autorizzati senza necessità di una concessione demaniale.
I ministri si sono incartati sulle loro stesse dichiarazioni: l’arroganza del Ministro del Sud, che si permette di definirci “teppistelli”, o l’irriverenza del Ministro dell’Ambiente, che si concede il lusso di dichiarare di “non aver riscontrato irregolarità”, sbattono violentemente contro i documenti ufficiali: non esiste alcun contratto vincolante tra TAP e il governo italiano, né tanto meno (per dichiarazione ufficiale degli stessi ministeri dopo che associazioni e liberi cittadini hanno effettuato una richiesta di accesso civico agli atti) esistono analisi costi/benefici reali e approfondite. Inoltre, il fantomatico calcolo di 20 miliardi di € di risarcimenti, come afferma il MISE, non è stato effettuato dal governo italiano bensì da Socar, società privata azionista di Tap, che avrebbe dunque tutto l’interesse ad arrotondare per eccesso le sue stime.
La scelta politica di lasciare via libera a Tap contrasta con la realtà dei fatti sopra descritta.”

Tutto assolutamente vero, ma occorrerebbe ricordare ciò che si è già detto all’inizio: tutti i governi, parlamentari o autoritari che siano, sono potenzialmente ‘traditori’ poiché, anche se eletti con i voti e il consenso di una maggioranza pur sempre parziale dei cittadini, sono tenuti a rispettare, prima di tutto, gli interessi nazionali ed internazionali delle classi detentrici del potere economico. Come ha dimostrato anche la scelta attendista, in attesa di ordini dall’alto dei vertici europei, scaturita dall’incontro avvenuto lunedì 12 novembre tra il ministro dei trasporti Toninelli e la sua omologa francese Borne.

Dimenticare o rimuovere dal dibattito tutto questo significa, semplicemente, condannare i movimenti alla perdita della loro autonomia e alla loro inventiva, unica vera alternativa al modo di produzione esistente e agli interessi che lo sottendono (politici, economici, culturali, mediatici). Significa, inoltre, relegare la democrazia esclusivamente all’ambito dei giochi parlamentari e politici che rappresentano proprio l’autentica negazione della stessa ovvero l’essere, prima di tutto, democrazia dal basso.

Come hanno ricordato recentemente i compagni NoTav:

“C’è chi cerca di nascondere le proprie responsabilità sul saccheggio e la devastazione dei nostri territori, su una politica dei governi che non ha investito sulla messa in sicurezza e sulla tutela dell’ambiente, sullo sperpero di risorse pubbliche a favore di grandi opere inutili togliendo risorse a sanità, emergenza abitativa, welfare, scuola, ricerca e lavoro.
Mentre in Italia si continua a morire per il maltempo e intere aree del paese vengono messe in ginocchio, c’è ancora chi nega quale siano le vere priorità della collettività, provando a mettere avanti a tutto gli interessi delle grandi aziende e dei profitti di pochi.
Non ci siamo mai fatti ingannare e continueremo a lottare per la nostra terra e per un modello di sviluppo sostenibile per tutti.”

Per questo motivo l’8 dicembre, che dal 2010, è la Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte e in difesa del pianeta, molti movimenti sul territorio italiano si mobiliteranno per la tutela dei territori e contro lo spreco di risorse pubbliche.
Pertanto in quella data, storica per il movimento No Tav, lo stesso scenderà nuovamente in piazza a Torino per una grande manifestazione. Poiché, al di là dei giochi di palazzo e di potere, c’eravamo, ci siamo e ci saremo SEMPRE.

]]>
Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 2/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/17/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-2-2/ Wed, 17 Oct 2018 20:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49223 di Sandro Moiso

[Qui la prima parte di questo articolo.]

«Le decisioni che prenderemo sull’energia proveranno il carattere del popolo americano e la capacità di governare la nazione da parte dei presidente e del congresso. Questo nostro sforzo sarà l’equivalente morale di una guerra.» (Presidente Jimmy Carter, 18 aprile 1977)

Nessun governo o partito può essere realmente ‘amico’ dei movimenti che lottano contro l’estrattivismo, in difesa dei territori e del futuro della specie, così come hanno dimostrato gli ultimi voltafaccia pentastellati a proposito delle grandi opere inutili, ma non bisogna mai [...]]]> di Sandro Moiso

[Qui la prima parte di questo articolo.]

«Le decisioni che prenderemo sull’energia proveranno il carattere del popolo americano e la capacità di governare la nazione da parte dei presidente e del congresso. Questo nostro sforzo sarà l’equivalente morale di una guerra.» (Presidente Jimmy Carter, 18 aprile 1977)

Nessun governo o partito può essere realmente ‘amico’ dei movimenti che lottano contro l’estrattivismo, in difesa dei territori e del futuro della specie, così come hanno dimostrato gli ultimi voltafaccia pentastellati a proposito delle grandi opere inutili, ma non bisogna mai dimenticare che il grimaldello per scardinare i diritti e i provvedimenti in difesa dei territori e dei lavoratori è stato troppo spesso fornito dalle forze che si vorrebbero e che si sono sempre sfacciatamente dichiarate democratiche e ‘progressiste’, come l’affermazione dell’ex-coltivatore di arachidi della Georgia, nonché ex-membro della Commissione Trilaterale e premio Nobel, posta in esergo rivela abbastanza chiaramente.

Le differenti forme di pacificazione, infatti, non dipendono dalla qualità dei governi in carica, ma dalle differenti strategie da questi messe in atto per cercare di colpire, frantumare e distruggere i movimenti che ad essi si oppongono.
Da questo punto di vista, ad esempio, le sanzioni amministrative e le pene pecuniarie messe in atto, sempre più spesso, nei confronti degli oppositori dalla Val di Susa al Salento agli Stati Uniti non hanno tanto la funzione di ‘ammorbidire’ gli strumenti repressivi, quanto piuttosto quello di rendere più flessibile e invasiva la pacificazione stessa.

Ad esempio, le pesanti sanzioni pecuniarie adottate dallo Stato contro una parte dei militanti del Movimento No Tav sembra rispondere a una logica di differenziazione della repressine per fasce d’età, cercando di colpire maggiormente i più giovani con la minaccia di lunghi periodi di reclusione e i più anziani con una piuttosto pesante nei confronti dei beni risultanti da una vita di lavoro (casa, risparmi, etc.). Anche se poi, come dimostra la più recente sentenza a carico di 16 militanti di varia età, la condanna alla pena detentiva sembra essere spesso quella più apprezzata dai pubblici ministeri (anche a costo di vedersela dimezzare com’è avvenuto proprio nel corso dell’ultimo processo per i fatti del 28 giugno 2015).

Altri strumenti selettivi di carattere pecuniario, come diversi relatori hanno confermato nel corso del workshop internazionale di Melendugno, possono essere collegati ad una differente ripartizione dei risarcimenti offerti agli abitanti dei territori interessati dal fracking, dalla costruzione di grandi opere o da tutti gli altri aspetti di ‘estrattivismo’ di cui si è precedentemente parlato.
Ripartizioni che in alcuni casi possono essere del 100% della cifra promessa oppure del 30% o anche del tutto assenti, a seconda della partecipazione o meno delle comunità o dei singoli individui alle lotte di opposizione ai progetti proposti in loco.

Uno strumento utile quindi, là dove riesce a far breccia, a dividere le comunità e i comitati di lotta sulla base di interessi economici e a sviluppare all’interno di esse rivalità ed egoismi legati all’interesse privato o alla salvaguardia delle proprietà famigliari.
Che, come ad esempio negli Stati Uniti nei territori ormai sempre più ampi interessati dal fracking, può essere costituito da bollette energetiche differentemente ripartite tra comunità e comunità, anche qui a seconda delle resistenze che in esse si manifestano contro la devastazione ambientale.

Bollette che colpiscono la comunità anche se i resistenti in essa presenti sono una minoranza, cercando così di scatenare un’autentica “caccia alle streghe” nei confronti di chi resiste oppure fa propaganda per la resistenza e delegando quindi alla comunità nel suo insieme il compito di autogestire la pacificazione. Forma sottile e subdola per giungere ad una frammentazione ed esclusione interna di quella che potrebbe diventare o già essere invece una comunità resistente.

Anche in ciò può consistere quel «Restringimento degli spazi per i movimenti italiani in difesa dell’ambiente» di cui ha parlato in apertura del convegno Italo Di Sabato dell’Osservatorio sulla repressione. Ma questa modalità operativa può essere classificata anche secondo quelle modalità di costruzione del diritto penale del nemico sul quale si sono espressi i membri del collettivo Prison Break Project parlando, appunto, di «Il ‘nemico interno’: repressione dei movimenti e criminalizzazione penale del nemico».

Quest’ultimo punto, però, ha anche a che fare con quella costruzione dell’immaginario che troppe volte il movimento antagonista ha sottovalutato, rischiando così di affrontare il proprio nemico, sostanzialmente il capitalismo estrattivista e non, rimanendo nell’ambito ‘territoriale’ politico, economico e giuridico definito a priori dallo stesso. Come ha rimarcato il già precedentemente citato professor Michele Carducci.

Immaginario che, come s è appena detto, investe anche la nozione di ‘progresso’ sociale e economico e tutte le teorie che ne derivano. Soprattutto nella sinistra partitica tradizionale e che soltanto i movimenti reali dal basso e sui territori iniziano, per intrinseca necessità, a scalzare. Opera di scalzamento che, in futuro, costringerà i movimenti, e coloro che li studiano ed appoggiano, a fare i conti con le differenti narrazioni storiche, economiche e socio-antropologiche che fondano l’esistente e che entrano, ancora oggi, a far parte dell’opera di pacificazione culturale messa in atto da sempre dalle classi dirigenti e (al momento) vincitrici. Una cancellazione della memoria che va ben al di là della banalizzazione della ‘memoria’ costantemente rivendicata dalla vulgata antifascista e democratica, sempre comunque fedele alla ‘memoria’ di un ordine liberale e democratico mai realmente esistito. Nemmeno nel ricco Occidente.

La violenza dello sradicamento della comunità umana e delle sue sopravvivenze, che l’attualità riporta alla ribalta e all’attenzione, è stata tale da far dimenticare che quell’Occidente colonialista con cui oggi dobbiamo ancora fare i conti, qui a casa come nel resto del globo, prima di poter essere tale dovette rimuovere al suo interno tradizioni e comunitarismi che impiegarono secoli ad essere piegati alla logica del mercato, della proprietà privata dei beni comuni e degli stati nazionali unificati da religioni uniche e autoritarie, oltre che accentratrici del potere.

Ben prima della Rivoluzione industriale e dell’Illuminismo che, al contrario di quanto troppo spesso si è creduto, più che rappresentare la liberazione delle forze produttive ed intellettuali del continente europeo, segnarono la fase finale di un processo di assoggettamento delle comunità ai principi dell’appropriazione privata e soggettiva della ricchezze e dei beni prodotti e utilizzati collettivamente. E che, sostanzialmente, costituirono la pietra tombale su ogni forma di comunitarismo derivante dalle organizzazioni sociali che erano esistite per millenni senza stato e senza appropriazione privata dei suoli e dei beni e dei saperi prodotti collettivamente.

Oggi i movimenti hanno bisogno di confrontarsi al di là delle barriere nazionali, come l’assemblea del venerdì sera ha potuto dimostrare, e di dar vita a nuove forme di coordinamento, organizzazione e interazione su scala locale e internazionale, proprio a partire dal fatto che la socializzazione delle lotte, della resistenza alla pacificazione e dei loro risultati non è più legata a principi di carattere ideologico ma ad una reale necessità dovuta al fatto di riconoscersi gli uni negli altri. Al di là della lingua, del colore della pelle o della collocazione a Nord o a Sud del mondo. Nonché realizzando già nei fatti, qui e adesso, una vita migliore per gli attivisti, i militanti e i membri delle comunità che resistono insieme alla pervasività del capitalismo estrattivista. Proprio come ha sostenuto, nel suo applauditissimo intervento serale, Guido Fissore del Movimento No Tav valsusino.

Lotte in cui la massiccia presenza delle donne e l’importanza del loro ruolo al loro interno, dal Rojava alle comunità indigene fino a Taranto, Melendugno, Val di Susa e in qualsiasi luogo di difesa della Terra e dei suoi abitanti presenti e futuri, rivelano come la riduzione a servaggio della condizione femminile e la riduzione dell’autonomia delle stesse all’interno delle società sia servita proprio ad attaccare e frantumare quelle comunità che oggi vanno gradualmente ricomponendosi, grazie proprio alla ripresa e riaffermazione di un modello femminile collettivo di lotta e partecipazione molto distante da quello riproposto da quello della “donna in carriera” pubblicizzato dai media, da Hollywood e dall’immaginario borghese.

Dal giorno di Piazza San Giovanni, nel 2011, ad oggi gli attivisti indagati in Italia sono arrivati ad essere 15.782, 852 quelli arrestati, 345 quelli colpiti da fogli di via e 241 quelli condannati alla detenzione. Proviamo a sommarli a quelli colpiti nel resto del mondo, più o meno per gli stessi motivi, e ai morti ammazzati (che a certe latitudini aumentano vertiginosamente) ed è difficile non comprendere che ci si trova davanti ad una autentica guerra civile mondiale condotta dal capitale e dai suoi funzionari, in divisa e non, contro i movimenti, le comunità e i territori.

Un capitale che cerca in ogni modo di liberare al massimo, più ancora che liberalizzare, la propria azione di estrazione di valore da qualsiasi vincolo politico, sociale, legale e ambientale. Un capitale che per fare ciò ha abbattuto anche i confini e i poteri dei parlamenti nazionali, non importa che questi siano caratterizzati da governi di ‘destra’ o di ‘sinistra’. Un capitalismo frenetico che, come ha sostenuto e dimostrato Tia Dafnos, a partire dal Canada, con la sua relazione su «Logiche della pacificazione della resilienza critica alle opere infrastrutturali», più che dalla realizzazione delle infrastrutture e delle grandi opere riesce a trarre profitto anche dalla vendita della loro progettazione agli stati. Considerazione che la dice lunga anche sull’attuale balletto intorno alla ricostruzione del ponte Morandi di Genova e sulla velocità con cui il solito Renzo Piano e la Società Autostrade sono riusciti a presentare in tempi brevissimi progetti per la sua ricostruzione. Non occorre essere responsabili della sua ricostruzione, ma è importante vendere il progetto. Non solo allo Stato ma anche ai media e all’immaginario collettivo.

Un capitalismo che si presenta armato di tutto punto, sotto ogni punto di vista, alla guerra con i movimenti. I quali, forse, devono ancora pienamente comprendere il tipo di scontro epocale che è in corso e in cui sono coinvolti. Una guerra che prepara a guerre ancora più estese e devastanti, in cui però la diffusione a macchia di leopardo dei movimenti e delle aree in lotta più che rappresentare una debolezza degli stessi, come qualcuno durante il workshop ha ipotizzato, rappresenta invece la loro forza ovvero quella di un movimento comune senza confini nazionali, unito dalla necessità di raggiungere scopi simili e di combattere le medesime tecniche di pacificazione. E lo stesso nemico: il capitalismo in ogni sua forma, nazionale e internazionale. Finendo così con il costituire le macchie di ruggine diffuse che finiranno col corrodere e distruggere dall’interno la macchina del dominio mondiale del profitto privato e del suo dannato e, solo apparentemente, infinito processo di accumulazione.

Le reti e il filo spinato, i blocchi di cemento e gli agenti del disordine pubblici e privati schierati a difesa dei cantieri e di confini che già sono stati condannati dalla storia, unificano la Val di Susa con la Palestina, il Salento con il confine norteño del Messico e le esalazioni mortali di Taranto con ogni altra area del pianeta in lotta per la vita e un reale futuro per la specie. Un movimento che, se sarà in grado di trovarsi e di coordinarsi ancora e sempre più frequentemente, così come si espresso il workshop nel suo insieme, saprà fare anche delle sue attuali e apparenti debolezze un momento straordinario di riflessione e di forza unificante.

Soprattutto, però, in questi giorni di delusione per le promesse mancate, ma che allo stesso tempo sono serviti a demolire anche le ultime illusioni partitiche e parlamentari, occorre ricordare, sempre, ciò che ha scritto Arundhati Roy:

«Il sistema collasserà se ci rifiutiamo di comprare quello che ci vogliono vendere, le loro idee, la loro versione della storia, le loro guerre, le loro armi, la loro nozione di inevitabilità. Ricordatevi di questo: noi siamo molti e loro sono pochi. Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. Un altro mondo, non solo è possibile, ma sta arrivando. Nelle giornate calme lo sento respirare.»

Qui di seguito però, poiché le lotte non vanno solo raccontate ma anche sostenute fattivamente, si rende necessaria la pubblicazione del comunicato redatto dall’avv. Michele Carducci, ordinario di Diritto Costituzionale Comparato presso l’UniSalento, sulle ultime giravolte pentastellate a proposito del TAP.

LE OMISSIONI DEL GOVERNO CONTE SUI COSTI TAP

La storia dell’analisi costi-benefici su TAP non ha fine e ora sembra tramutarsi in una farsa.
Durante l’estate, tutti i Ministeri interpellati con il sistema del c.d. “FOIA” (accesso civico generalizzato) sono stati costretti ad ammettere l’assenza di documenti e conteggi sugli effettivi benefici di TAP (in termini economici, climatici, ambientali, di risparmio ecc…) e sui costi di abbandono dell’opera (in termini di titoli legali di legittimazione verso lo Stato italiano). Persino il Ministero dello Sviluppo Economico, recalcitrante sino all’informativa all’autorità interna anticorruzione, ha dovuto riconoscere che non si dispone di atti, ma solo di probabili dichiarazioni verbali rese da esponenti azeri a rappresentanti politici italiani oppure di mere deduzioni. Il Vicepresidente Salvini è stato addirittura smentito dal suo Ministero sui presunti risparmi della bolletta del gas.
Poi, il 15 ottobre, il Sindaco del Comune di Melendugno, nella provincia di Lecce dove dovrebbe approdare il gasdotto TAP, è stato urgentemente convocato a Palazzo Chigi insieme ai parlamentari e rappresentanti territoriali del Movimento Cinque Stelle.
Alla presenza della Ministra per il Sud Barbara Lezzi, ha parlato il Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico, il Sen. pentastellato Andrea Cioffi, componente dell’ “Associazione interparlamentare Italia-Azerbaijan”.
Egli ha riferito di suoi personali conteggi su TAP, riguardanti impegni contrattuali sull’estero (perché il gas di TAP servirà principalmente l’estero) e probabili mancati profitti, concludendo per un ammontare di 20 miliardi. Ha dunque parlato di presumibili costi contrattuali di terzi, ma non di analisi costi-benefici tra attivazione dell’opera e contesto socio-economico-ambientale-climatico dello Stato italiano e del suo ecosistema.
Le due prospettive non descrivono in nulla la stessa cosa: l’analisi costi-benefici è richiesta sia dall’Unione europea, che pretende l’inclusione dei costi climatici riferiti agli obiettivi di Parigi sul contenimento di emissioni di CO2, sia dall’OSCE che impone che l’analisi costi-benefici della sicurezza energetica sia declinata con l’analisi costi-benefici della sicurezza ambientale di lungo periodo, oltre che dalla Banca Centrale Europea che vorrebbe finanziare l’opera TAP.
È richiesto da tutte le istituzioni sovranazionali e internazionali di strategia energetica e di investimento finanziario; com’è giusto che sia, giacché l’analisi costi-benefici sulle opere di impatto intertemporale risponde a una garanzia di trasparenza dei decisori pubblici nei confronti non solo dei cittadini di oggi, ma soprattutto delle generazioni future e del loro contesto di vita: contesto che inesorabilmente deve misurarsi sulla dimensione climatico-ambientale.
Di tutto questo il Sottosegretario non ha parlato. Egli non ha neppure voluto consegnare alcuna documentazione al Sindaco. Nulla ha saputo replicare alle domande sui titoli giuridici a fondamento delle eventuali pretese creditorie italiane e non estere. Ha taciuto sul computo dei costi ambientali dell’opera TAP rispetto alla tenuta dell’ecosistema della costa di San Basilio, rispetto ai fenomeni dell’erosione costiera. Nulla è stato detto sui costi climatici rispetto ai criteri ribaditi proprio questo mese dal “Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico” dell’ONU.
Del resto, non è superfluo ricordare che il Governo italiano è pericolosamente privo del “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”.
Forse anche per questo, il Presidente Conte e la Ministra Lezzi si sottraggono all’onere di un tavolo pubblico e trasparente tra agenzie indipendenti di studio ambientale (come ISPRA e ARPA), rappresentati del governo e del territorio e TAP.
In definitiva, e una volta in più, di analisi costi-benefici non si sa che dire; come, ancora una volta, la Convenzione di Aarhus sulla democrazia ambientale, che prevede il coinvolgimento del pubblico nell’analisi costi-benefici, è stata violata.
Questo è un fatto molto grave, indipendentemente dalle proprie posizioni politiche, perché priva tutti i cittadini del diritto all’informazione completa ed esaustiva sulle scelte politiche dei governanti nei confronti di un’opera che riguarda i diritti delle generazioni future.
La circostanza di un Sottosegretario di Stato inadempiente negli oneri documentali e informativi verso un Sindaco rappresentante di un territorio della Repubblica, non definisce solo un gesto istituzionalmente scorretto; identifica una lacuna istituzionale pericolosa.
In questo scenario, paradossale appare infine il silenzio della coalizione giallo-verde e di Luigi Di Maio che, nel suo “Contratto per il governo del cambiamento”, esplicitamente ha voluto contemplare, per opere come TAP, tre obblighi metodologici totalmente disattesi: la istituzione di un “Comitato di conciliazione” per definire le modalità di azione; l’analisi costi-benefici (non solo quindi l’analisi costi contrattuali esteri); trasparenza e partecipazione di comunità locali e cittadini.
Di Maio tradisce il suo “Contratto”, votato dai suoi elettori.
La leale collaborazione tra istituzioni nazionali e locali e tra istituzioni e cittadini è il cemento della democrazia. Prendersi gioco della leale collaborazione è un illecito costituzionale che va denunciato.
È già partito l’accesso FOIA verso il Sottosegretario Cioffi. Ma sono già state attivate anche tutte le azioni propedeutiche alla denuncia del Governo italiano presso l’Unione europea, l’OSCE e le altre istituzioni che tutelano i diritti di informazione e di trasparenza delle decisioni nelle democrazie.
L’analisi costi-benefici è un dovere verso i diritti delle generazioni future e un presupposto di serietà di una democrazia.
Non pretendere chiarezza su tutto questo significa diventare complici di una erosione dei diritti di cittadinanza, che danneggia tutti e irresponsabilmente condiziona il futuro.

Prof. Avv. Michele Carducci
Difensore Movimenti e cittadini NoTAP

]]>
Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 1/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/11/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-1-2/ Thu, 11 Oct 2018 19:30:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49156 di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali [...]]]> di Sandro Moiso

Tra il 5 e il 7 ottobre si è svolto nel Salento un workshop internazionale dal titolo “Policing extractivism: security, accumulation, pacification”, già precedentemente annunciato su Carmilla (qui). Nata dalla collaborazione tra il Movimento No Tap, il Transnational Institute, l’Associazione Bianca Guidetti Serra – Puglia e l’Università del Salento-Cedeuam, l’iniziativa, chiusasi con un’assemblea popolare a Melendugno nel pomeriggio di domenica 7 ottobre, ha visto la partecipazione di accademici, rappresentanti di vari movimenti in difesa dei territori sconvolti dallo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie o agricole oppure da grandi opere inutili e dannose e di organizzazioni internazionali che si battono in difesa della Terra e dei diritti dei popoli che la abitano, che hanno dato vita e corpo ad un programma e a un dibattito intenso e mai scontato.

L’attività del workshop, che è stata preceduta il 4 ottobre da una visita al cantiere di San Basilio da parte di una folta delegazione internazionale, ha visto rappresentato al proprio interno gran parte del mondo occidentale, considerato che sia gli accademici che i militanti dei movimenti e delle differenti organizzazioni (tutte rigorosamente apartitiche) provenivano dall’Italia, dalla Francia, dal Regno Unito, dall’Olanda, dal Canada, dagli Stati Uniti, dal Perù e dall’Argentina e, pur con le dovute differenze e specificità locali e nazionali, ha potuto dare vita ad un confronto sui temi dell’estrattivismo inteso come sfruttamento sia agricolo che speculativo dei suoli sia, ancora, come estrazione vera e propria di ricchezza dall’uso dei sottosuoli tramite l’estrazione di materie prime (gas e petrolio in primis), mettendo costantemente in luce come tale accaparramento privato delle ricchezze così prodotte non solo vada a colpire economicamente le comunità interessate, ma anche, e forse in maniera ancora più dannosa, l’ambiente e il futuro delle stesse, locali o nazionali che esse siano.

Il quadro che ne è uscito, mettendo in relazione tra di loro lo sfruttamento dell’ambiente e la repressione di coloro che si oppongono a tali perniciosissime politiche economiche, è quello di un mondo già sostanzialmente in guerra. Una guerra, come affermava il titolo del manifesto di convocazione, invisibile ma non per questo meno pericolosa, devastante e spietata di quelle apertamente combattute già, e forse ancor di più in futuro, in varie aree del pianeta.

Una sorta di autentica guerra civile preventiva combattuta dai governi in nome della sicurezza e del benessere, se non addirittura dei diritti, dei propri cittadini che, troppo spesso finiscono col costituire invece proprio l’autentico nemico interno se soltanto osano opporsi a tali nefande decisioni e speculazioni. Sia economiche che politiche.

Proprio per questi motivi, lo sforzo collettivo è stato quello di chiarire e chiarirsi meglio il significato reale di termini quali ‘estrattivismo’ e ‘pacificazione’ sia sul piano politico che giuridico, economico, storico e sociale. Verificando come, pur prendendo corpo attraverso gradi e modi diversi di attuazione, tali temi costituiscano elementi fondamentali per comprendere i gravi conflitti sociali ed economici che contraddistinguono le società odierne. Sia che esse si trovino in una fase di sviluppo capitalistico, quali quelle asiatiche, sia che esse siano in una fase di crisi quali quelle occidentali, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.

Pur senza entrare per ora nello specifico dei singoli interventi, che saranno presentati sia on line che in una prossima pubblicazione cartacea, si può comunque affermare che si sono potute cogliere similitudini e differenze che rinviano comunque ad un ordine mondiale autoritario, antidemocratico e decisamente rivolto ad uno sfruttamento sempre più intensivo delle risorse del pianeta, siano esse agricole o di carattere minerale, e della forza lavoro necessaria a trasformarle in ricchezze accumulabili.

Poiché riassumere insieme tutti i singoli e più che numerosi interventi potrebbe richiedere uno spazio ben maggiore di quello possibile sulle pagine di Carmilla, occorre concentrare qui l’attenzione sui due termini dominanti il convegno cercando di riassumere ed estrapolarne al meglio le valenze e i significati attribuitigli dai redattori e dai differenti partecipanti al dibattito.

Iniziamo dunque dal termine ‘estrattivismo’ che più che distinguere una nuova fase del capitalismo riesce in realtà a riassumere al meglio quelle che sembrano essere le caratteristiche dello stesso sia nel passato che nel presente e nell’immediato futuro.
Infatti se ci limitiamo a considerare l’estrattivismo come lo strumento attraverso il quale il capitale nutre la propria accumulazione di valore attraverso lo sfruttamento delle risorse minerarie e dell’agricoltura occorre, allora, considerare che questo ha già di per sé una data piuttosto antica di inizio: il 1492. Anno in cui l’America meridionale, poi detta Latina, iniziò a veder sfruttate le popolazioni indigene, spesso poi sterminate e sostituite con schiavi introdotti da altre parti del mondo, insieme ai suoi territori ricchissimi sia sul piano minerario che su quello della produttività dei terreni messi a coltura. Proprio come hanno sostenuto, di fatto, tutti i relatori che hanno parlato di quel continente o che da esso provenivano.

La novità potrebbe essere invece costituita dal fatto che l’estrattivismo, al di là della tradizione di estrazione di ferro e carbone dalle aree del centro e nord Europa, è oggi tornato a giocare un ruolo importantissimo per la valorizzazione del capitale proprio nel continente da cui la conquista del Nuovo Mondo era iniziata. Un estrattivismo che sembra costituire una nuova strategia per la messa a valore di aree precedentemente ritenute marginali rispetto alle aree industriali delle maggiori nazioni e metropoli dell’impero d’Occidente e che oggi, nonostante la loro fragilità ambientale e, spesso, geologica vengono utilizzate per estrarre dal territorio e dal suo sfruttamento quel valore che, a causa della deindustrializzazione e la delocalizzazione delle fabbriche in altre aree del globo, non è più possibile estrarre dalle aree, coincidenti spesso con le maggiori metropoli, un tempo fortemente caratterizzate dalla presenza dell’industria.

Estrattivismo che, oltre allo sfruttamento degli scisti bituminosi tramite fracking che sembra ormai destinato a devastare vaste aree, un tempo agricole, del Regno Unito e degli Stati Uniti, può anche consistere nella sostituzione delle colture tradizionali con forme di agricoltura intensiva e devastante come quella proposta proprio nel Salento in sostituzione di quella collegata agli olivi secolari e attaccata ‘scientificamente’ ed economicamente con la scusa della diffusione della xylella. Oppure nello sviluppo delle cosiddette grandi opere (alta velocità in Val di Susa, condutture di gas ad alta pressione che dovrebbero attraversare intere nazioni e continenti come il TAP, enormi depositi di scorie nucleari come quello di Bure in Francia solo per fare alcuni esempi) inutili, dannose, devastanti per l’ambiente e le specie che lo abitano. Compresa quella umana.

Ma ‘estrattivismo’ rinvia in fin dei conti alla motivazione primaria di ogni capitalismo storico, nazionale o multinazionale ovvero a quella estrazione di valore (e plusvalore) che può avvenire tramite ogni attività economica: sia essa produttiva o speculativa, legata alla rendita fondiaria o finanziaria oppure alla semplice speculazione, anche nelle sue forme criminali o mafiose. Definizione quest’ultima che, va qui chiarito subito, se male interpretata, potrebbe far credere che esistano due capitalismi: uno buono e legale e un altro cattivo e illegale. Mentre in realtà da sempre, e in maniera ancora più accelerata oggi, l’estrazione di valore e plusvalore costituisce sempre il risultato di un’azione arbitraria di appropriazione da parte dei singoli o degli stati nei confronti di quelli che dovrebbero essere considerati “beni comuni” e della ricchezza socialmente prodotta dal lavoro umano.

Estrattivismo che troppo spesso si è accompagnato all’ideologia lavorista e progressista che il movimento operaio ha condiviso, più o meno inconsciamente, con il suo avversario storico e i suoi portavoce, e che proprio nel dramma dell’ILVA di Taranto, ancora una volta in Puglia, ha visto una profonda e perniciosa divisione attraversare il mondo del lavoro e gli abitanti della città in nome del lavoro e dello sviluppo da un lato e della difesa della vita, della saluta e dell’ambiente dall’altro. Dimostrando come l’incapacità di una fetta cospicua di classe operaia e di tutti i suoi partiti di andare realmente oltre il modello di sviluppo capitalistico e del suo immaginario (politico, giuridico, economico e scientifico) possa ancora costituire un atto di forza violentissimo in favore del modo di produzione vigente. Tanto nelle nazioni di vecchia industrializzazione ed accumulazione, quanto in quelle in cui opera un mai abbastanza criticato e compreso socialismo del XXI secolo, nazionalista ed estrattivista, come ha sottolineato con dovizia di dati Juan Kornblihtt dell’Università di Buenos Aires nella sua relazione su «Rendita fondiaria e lotta di classe sotto i governi ‘alternativi al neoliberalismo’ in America Latina».

Estrattivismo contro il quale nemmeno le costituzioni, in cui troppo spesso i militanti e cittadini continuano a credere fideisticamente, possono costituire un baluardo e che, anzi, finiscono con l’esserne, più che vittime, complici. Come ha sostenuto, in un intervento profondo e meditato sul tema «Il Diritto costituzionale del nemico», il prof. Michele Carducci dell’Università del Salento.
Intervento durante il quale Carducci ha richiamato l’attenzione sulla necessità di uscire dall’immaginario giuridico che fonda le leggi attuali e gli stessi diritti umani per giungere ad una differente concezione del Diritto e dei doveri, basata sostanzialmente su altri parametri, in cui il rispetto di quella che ha chiamato Madre Terra (così come molti altri relatori) vada di pari passo con lo sviluppo di un differente ordine sociale e di condivisione dei beni e delle ricchezze.

Soprattutto in un paese come l’Italia, dove il vero proprio assalto in corso ai territori e all’ambiente, dalla Basilicata a tutto il mare Adriatico, dal Salento alla Pianura Padana è ancora sostanzialmente regolamentato da un Regio Decreto del 1927 (caso mai qualcuno avesse ancora qualche dubbio tra la sostanziale continuità tra Repubblica e Fascismo), come ha dimostrato il prof. Enzo Di Salvatore, dell’Università di Teramo, nel suo intervento su «Estrazione del petroli e diritti: il caso italiano».

Occorre a questo punto sospendere, per ragioni di spazio e di tempo del lettore, il discorso fin qui condotto per affrontare l’altro termine su cui si è concentrato il workshop: ‘pacificazione’ che, per l’appunto è quasi indivisibile dal primo. Ovunque infatti l’estrattivismo come forma primaria o anche solo importante dell’estrazione di valore dal territorio e di chi viene lì sfruttato, sia lavorativamente che dal punto di vista delle proprietà piccole o comuni espropriate, la pacificazione sembra diventare l’indispensabile corollario politico, militare, poliziesco ed economico del primo.

Mark Neoucleous, della Brunei University di Londra, nella sua relazione dedicata al tema «Cos’è la pacificazione?», ha richiamato alla memoria di tutti i partecipanti che il termine fece la sua prima comparsa durante la guerra del Vietnam, che gli americani intendevano ‘pacificare’.
Il termine, infatti, racchiude in sé la definizione di differenti e variegati sistemi di riduzione alla ragione (propria del capitalismo e dell’imperialismo) di tutti i possibili avversari.

Dall’Azerbaijan al Nord Europa, tanto per seguire il percorso del gasdotto Trans-Adriatico (in inglese Trans-Adriatic Pipeline da cui l’acronimo TAP) le forme della pacificazione possono variare enormemente per modalità, intensità e violenza. Dalle librerie e dalle case distrutte dalle ruspe quando in esse siano anche solo stati presentati da parte dell’opposizione libri o autori invisi al regime di Ilham Aliyev, autentico presidente padrone dello Stato, al regime dittatoriale di Erdogan in Turchia e alle manganellate democraticamente distribuite nel Salento contro i manifestanti, su su fino all’arrivo del gas previsto in Germania la repressione poliziesca e militare può assumere, nonostante tutto, un diverso grado di intensità, comunque sempre insopportabile.

Ma d’altra parte anche nella patria della democrazia borghese, il Regno Unito, mica si scherza, come hanno dimostrato con filmati e descrizioni più che dettagliate Kevin Blowe del Network for Police Monitoring, con la sua relazione su «Lezioni dalla criminalizzazione dell’opposizione al fracking nel Regno Unito», e William Jackson, della John Moore University di Liverpool, parlando su tema «Rendere sicura l’estrazione: l’uso dell’ordine pubblico per il fracking nel Regno Unito».
Che in qualche modo si ricollegavano a quanto già detto da Mark Neocleous quando non ha mancato di ricordare come nella stessa Gran Bretagna negli ultimi anni ci siano stati 1600 decessi tra coloro che si trovavano in una condizione di detenzione preventiva.

Se l’avvocato Elena Papadia e Xenia Chiaramonte dell’Università di Bologna hanno dettagliatamente descritto le proporzioni e le forme delle repressione nei confronti dei difensori della terra sia nel Salento che in Val di Susa, rimane sempre l’America Latina l’area occidentale in cui si sviluppa maggiormente la violenza repressiva nei confronti dei movimenti di resistenza, soprattutto indigeni. Infatti sia Kornblihtt che il peruviano David Velazco, avvocato e membro dell’Osservatorio dei conflitti minerari per l’America Latina, hanno sottolineato come nella scala repressiva siano spesso i popoli indigeni a pagare il prezzo più alto della repressione statale. Così Maria del Carmen Verdù, del Coordinamento contro la repressione poliziesca e istituzionale in Argentina, sottolineando la continuità della tradizione repressiva nei confronti dei popoli indigeni (ad esempio dei Mapuche), ha riportato l’attenzione sul fatto che nell’Argentina ‘democratica’ e post-dittatoriale dagli anni Ottanta ad oggi ci siano stai almeno duecento desaparecidos e migliaia di morti ammazzati durante le operazioni di repressione messe in atto dalla polizia e dalle forze paramilitari nei confronti delle varie resistenze sviluppatesi nel paese sia sul piano economico che su quello ambientale e territoriale.

Ci sono poi territori in cui l’estrattivismo, inteso come messa a resa di un territorio e il suo sfruttamento non soltanto minerario o agricolo, e pacificazione si fondono in un tutt’uno come nel caso della Palestina e della striscia di Gaza in particolare. Un territorio in cui il vero e proprio furto dell’acqua messo in atto da parte israeliana nei confronti dei Palestinesi, come ha dimostrato Mia Tamarin, dell’Università del Kent, con la sua relazione su «La mercificazione dell’acqua come processo di pacificazione del conflitto. Il caso israelo-palestinese», si accompagna ad uno sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti come autentico laboratorio di prova per armi e nuove tecnologie di controllo sviluppate non soltanto in Israele, ma negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale, come ha sostenuto Rhys Machold, della Università di Glasgow, nel suo intervento sul tema «La globalizzazione della conoscenza delle forze di polizia». Contribuendo così a chiarire una volta per tutte le ragioni del silenzio degli stati ‘democratici’ nei confronti della sanguinosa repressione messa in atto dalle forze militari e poliziesche israeliane delle marce del rientro messe in atto quest’anno dai Palestinesi. Una sorta di autentico showroom a cielo aperto destinato a pubblicizzare le più moderne tecniche repressive.

Si può poi trarre valore dalla pacificazione in sé? A quanto pare sì, se è vero, e lo è certamente, ciò che ha affermato Ben Hayes, del Transanational Institute di Londra, con la sua presentazione del progetto dello stesso istituto londinese sui temi della guerra e della pacificazione, che ha sostenuto come le attuali politiche di sicurezza costituiscano non solo uno stato di guerra permanente che spinge verso forme sempre più autoritarie e totalitarie di governo, ma anche una vera e propria nuova corsa agli armamenti in cui le aziende sono stimolate a proporre nuove armi, nuovi sistemi di intelligence e raccolta dati e nuove tecniche di controllo dell’ordine pubblico e del territorio.

Ma non solo poiché anche Mark Neoucleous e Tia Dafnos, dell’Università di New Brusnwick in Canada, hanno ulteriormente sottolineato come la frammistione tra forze dell’ordine istituzionali e agenzie di sicurezza private porti sempre più in direzione di un autentico business della repressione. In una sorta di circolo infernale in cui la necessità di estrarre valore dai territori richiede una politica della sicurezza che a sua volta è principalmente organizzata per produrre valore proprio in quanto tale. Cosa che ci narra molto più di quanto di solito pensi sull’attuale crisi del modello capitalistico di sviluppo in Occidente e del suo processo di accumulazione. Una sorta di estrazione di plusvalore dagli agenti della repressione che ricorda molto da vicino il popolare detto del “cavar sangue dalle rape”.

Operazione che, soprattutto negli Stati Uniti, come ha rilevato Brendan McQuade della Cortland State University di New York (SUNY) con la sua esposizione sul tema «La nuova COINTELPRO1 e i moderni Pinkertons. L’azione politica della polizia negli Stati Uniti», ha portato a forme sempre più invasive di controllo sociale e del territorio. Tanto da dar vita, in alcuni casi a comunità che si armano per difendersi dall’eccesso di attenzioni dello Stato e delle agenzie, anche private, di sicurezza e intelligence. Utilizzando probabilmente in questo senso il secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti2 che, a giudizio di chi scrive, troppo spesso e soprattutto da una sinistra scarnificata di tutti i suoi contenuti antagonistici, è visto soltanto come espressione della violenza privata e degli interessi dell’industria americana delle armi. Dimenticando che esso, approvato nel 1791, si ricollegava direttamente a quella parte della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 che recita così: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità».

Ma è ancora una volta proprio in America Latina che il collegamento tra forze di polizia statali e agenzie private ha portato a situazioni in cui le stesse forze di polizia istituzionali firmano contratti privati con le imprese di cui dovranno poi proteggere gli interessi, gli investimenti e le proprietà, mentre sempre più spesso le agenzie private di sicurezza legate alle imprese che si occupano di idrocarburi e di estrazione mineraria partecipano direttamente alle operazioni di polizia nei territori interessati dalle proteste, dalle rivendicazioni e dalle lotte dei lavoratori e delle popolazioni indigene. In particolare in Perù, come ha sostenuto David Velazco con la sua relazione su «Criminalizzazione e repressione delle proteste in Perù»; che ha anche ricordato che l’uso del termine pacificazione fu usato per la prima volta nel suo paese per definire a suo tempo l’azione di governo nei confronti di “Sendero Luminoso”.

(Fine della prima parte – continua giovedì prossimo 18 ottobre)


  1. COINTELPRO sta per Counter Intelligence Program, programma che dal 1956 fino al 1971 il Federal Bureau of Investigation (FBI) ha portato avanti nel settore dell’infiltrazione e del controspionaggio  

  2. «Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto»  

]]>
Io sono la Comune https://www.carmillaonline.com/2018/06/13/io-sono-la-comune/ Wed, 13 Jun 2018 19:30:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45951 di Sandro Moiso

Marco Rovelli, Il tempo delle ciliegie, elèuthera 2018, pp. 125, € 14,00

In questi tempi di vacche magre e magrissime per un’autentica riflessione politica e, al contrario, di gran spolvero per i vuoti dibattiti mediatico-ideologici su un governo mal nato, si rivela assolutamente liberatorio e necessario il testo di Marco Rovelli sull’esperienza rivoluzionaria di Louise Michel, una delle più ferventi animatrici della Comune parigina del 1871, pubblicato de elèuthera. Testo in cui l’autore, particolarmente attratto dalle vicende e dalle vite di donne misuratesi con l’esperienza rivoluzionaria, mette la sua esperienza di scrittore e intellettuale militante al [...]]]> di Sandro Moiso

Marco Rovelli, Il tempo delle ciliegie, elèuthera 2018, pp. 125, € 14,00

In questi tempi di vacche magre e magrissime per un’autentica riflessione politica e, al contrario, di gran spolvero per i vuoti dibattiti mediatico-ideologici su un governo mal nato, si rivela assolutamente liberatorio e necessario il testo di Marco Rovelli sull’esperienza rivoluzionaria di Louise Michel, una delle più ferventi animatrici della Comune parigina del 1871, pubblicato de elèuthera. Testo in cui l’autore, particolarmente attratto dalle vicende e dalle vite di donne misuratesi con l’esperienza rivoluzionaria, mette la sua esperienza di scrittore e intellettuale militante al servizio di una causa straordinaria.

Straordinaria sia per l’esemplarità della vita e delle lotte dell’anarchica francese, sia per l’esperimento, oggi sottostimato e ricordato quasi sempre in maniera un po’ troppo superficiale e retorica, che , almeno per l’Europa occidentale, rese chiaro ai lavoratori, ai proletari e ai rivoluzionari in lotta contro l’esistente, l’impossibilità della collaborazione in senso nazionale tra classi sociali, quali la borghesia e il proletariato, i cui interessi politici, economici e storici erano (e rimangono) radicalmente divergenti.

Un tema sul quale, in tempi di generici appelli anti-fascisti, anti-berlusconiani e troppo spesso sostanzialmente perbenistici di una sinistra che si rivela cazzara anche quando non è di stretta osservanza renziana, si tende a glissare poiché destinato a portare alla ribalta problemi concreti quali quello dell’azione realmente antagonista e rivoluzionaria contro l’attuale modo di produzione e dell’uso della violenza e della sua organizzazione da parte dei movimenti di resistenza contro le condizioni di vita e di lavoro condizionate dal capitalismo, non solo finanziario.

Un tema che si riflette in ogni lotta attuale: dal Rojava alla Val di Susa, dalla ZAD di Notre Dame des Landes al Salento. Lotte ed esperienze i cui protagonisti non potranno mai dichiarare altro ancora che: Noi siamo la Comune! Così come l’avrebbero potuto urlare gli studenti del Maggio parigino, gli operai di Mirafiori delle grandi lotte a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, gli operai di Berlino Est nel 1953 e i rivoluzionari ungheresi del 1956 insieme a tutti coloro che sono insorti, insorgono e ancora insorgeranno contro lo stato di cose presente e che, finché esisteranno i confini giuridici della proprietà privata dei mezzi di produzione e dello Stato, non avranno mai governi amici.
Come i protagonisti delle vicende narrate nelle pagine, vivaci e attente alla ricostruzione storica, che riportiamo qui di seguito.

“Io sono la Comune. La moltitudine interminata dei senza nome. Il fuoco che sprigiona un tempo nuovo. La festa di ciò che diviene. La felicità di ciascuno e di tutti, di tutti e di ciascuno, l’una condizione dell’altra. Io sono la Comune, il tempo che rinasce e divampa, il tempo che si riproduce per scissione, a due a due come le ciliegie, in una catena infinita e senza centro. Io sono la Comune, e dunque non sono Io, ma la disseminazione dei corpi e delle anime confuse in un grappolo di suoni senza fine, che si eleva al cielo estendendone il limite, perché nostra è la forza, nostro è il coraggio, nostra è la gioia. Io sono la Comune, che non può morire, e danza.

Fu quando Thomas e Lecomte vennero per riprendersi i nostri cannoni che insorgemmo. Era il 18 marzo. Il giorno prima Thiers aveva dato l’ultimatum. I prussiani sono andati via, dunque ridateci i cannoni e obbedite all’ordine costituito. Ma chi credeva ormai ai generali a cui ci si chiedeva di sottometterci? A Parigi non ci credeva più nessuno. E comunque sì, Thiers aveva ragione quando diceva che c’erano dei malintenzionati che col pretesto dei prussiani volevano prendere il controllo della città. Si trattava di cambiare davvero, stavolta salvare la Francia era tutt’uno con il cambiarla. Bisognava farla finita con quella vecchia Francia borghese, che ci aveva esposto alla rovina e che adesso, esaurito l’Impero, pretendeva di riciclarsi in Repubblica.

[…] Le truppe del generale stavano arrivando; avevano occupato la riva destra della Senna e alcuni distaccamenti salivano la collina. Suonarono le campane, i tamburi chiamarono a raccolta: Louise, con un fucile nascosto sotto il cappotto, corse giù dalla collina, gridando «tradimento!». Al comitato di vigilanza si stava già formando una colonna , sotto il comando di Ferré.[…] La folla sciamava verso l’alto, le donne si imposero, erano loro a precedere gli uomini, c’erano anche tanti bambini. I soldati no si aspettavano di vederle arrivare con quella irruenza, con quella decisione, fu una sorpresa, e non reagirono. «Giù le armi!» gridavano le donne. «Siamo donne e bambini!», Louise era in prima fila a gridare ai soldati di non sparare, e intanto faceva mostra di proteggere le donne che si erano gettate a corpo morto sui cannoni. «Sono nostri!».
Il generale Lecomte, allora, ordinò ai suoi soldati di sparare sulla folla che avanzava. Ma i suoi soldati avevano deciso che non erano più suoi. Nessuno sparò.[…] I soldati non più suoi gli si avvicinarono, lo presero in custodia: «Venga con noi generale, adesso tocca a lei obbedirci!».[…] Erano le undici del mattino del 18 marzo 1871. Eravamo raggianti. Louise abbracciava tutti. Il popolo aveva manifestato, e aveva vinto. Era appena l’inizio.
Nel pomeriggio, dopo la decisione del Comitato centrale della Guardia nazionale, occupammo municipi, caserme, palazzi di governo, e cominciammo a costruire barricate. La bella tradizione di Parigi ribelle riprendeva, finalmente, nonostante i boulevard di Haussmann. Thiers e i suoi ministri scapparono come topi, rifugiandosi a Versailles, il luogo degli autocrati e della capitolazione.
Alla sera Lecomte venne fucilato, insieme all’altro generale, Thomas, di cui tutti ricordavano il massacro che aveva compiuto nel giugno del ‘48”.1


  1. pp. 40-43  

]]>
Guerra agli ulivi/2 https://www.carmillaonline.com/2017/09/19/guerra-agli-ulivi2/ Tue, 19 Sep 2017 06:37:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40746 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Vennero con le ruspe. Vennero con le divise ed una carta in mano: l’ingiunzione di abbattimento, in nome della Legge, dell’Europa e della Scienza. In nome di analisi condotte di nascosto e mai mostrate ai proprietari. Era il 13 aprile 2015 quando il primo ulivo secolare di Oria (BR), marchiato come infetto, cadde a pezzi sotto le motoseghe. Intorno contadini in protesta e solidali, che per qualche ora, assediando le ruspe, erano riusciti a fermarle.

Triste [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Vennero con le ruspe.
Vennero con le divise ed una carta in mano: l’ingiunzione di abbattimento, in nome della Legge, dell’Europa e della Scienza. In nome di analisi condotte di nascosto e mai mostrate ai proprietari.
Era il 13 aprile 2015 quando il primo ulivo secolare di Oria (BR), marchiato come infetto, cadde a pezzi sotto le motoseghe.
Intorno contadini in protesta e solidali, che per qualche ora, assediando le ruspe, erano riusciti a fermarle.

Triste epilogo della gestione Vendola del governo regionale, inaugurata con la legge a protezione degli ulivi monumentali e conclusa con i loro abbattimenti. Lo stesso Servizio Fitosanitario Regionale, che avrebbe dovuto difendere i patriarchi, contribuiva invece a condannarli.

Tre mesi prima il Consiglio dei Ministri aveva decretato lo stato di emergenza “in conseguenza della diffusione nel territorio nella Regione Puglia del batterio patogeno da quarantena Xylella Fastidiosa”1.
Non era una novità nel paese dell’emergenza permanente.
Il nemico: un microorganismo trasportato da un insetto, bandito dall’Unione Europea, ed accusato di essere l’unico responsabile del disseccamento rapido che da anni sta bruciando gli uliveti dell’agro leccese e brindisino.
Un nemico da annientare tramite irrorazione massiva di veleni contro gli insetti vettori, e tramite gli abbattimenti di massa delle piante, in un cortocircuito logico dove per ‘salvare gli ulivi’ bisogna distruggerli e distruggere gli equilibri del loro ecosistema.

Ma forse salvare gli ulivi della tradizione salentina dal disseccamento rapido non era nel novero degli obiettivi di una vasta serie di soggetti.

Il complesso del disseccamento rapido dell’ulivo (CoDiRO) è una fitopatologia che porta la complessità già scritta nel suo nome.
Di tale complessità la scienza sembrava aver preso atto nei primi anni di sviluppo della malattia, considerandola il frutto dell’attacco di una serie di patogeni in connessione fra loro, in un contesto di abbassamento delle difese immunitarie delle piante, degrado dei terreni e inquinamento da pesticidi.
Numerose analisi rilevavano sulle piante malate non solo la presenza sporadica di Xylella Fastidiosa, ma spesso l’esistenza di funghi lignicoli capaci di impedire la circolazione linfatica, oltre ai canali delle larve del rodilegno, che aprono la strada alle infezioni fungine. Questo suggeriva che il batterio da quarantena non fosse l’unico responsabile della patologia.
Una multiformità dei patogeni veniva riscontrata dell’Osservatorio Fitosanitario Regionale, dai ricercatori dell’Università di Foggia, dall’Università e dal CNR di Bari, dalla Rete di Laboratori Pubblici di Ricerca SELGE.2
Pietro Perrino, già Direttore dell’Istituto del Germoplasma del CNR di Bari, poneva in correlazione il largo uso del glifosato, utilizzato per decenni per diserbare gli uliveti, con la maggiore vulnerabilità delle piante, l’impoverimento dei suoli, la distruzione dell’equilibrio microbiologico, la virulenza delle infezione fungine.3
Cristos Xiloyannis, docente dell’Università della Basilicata, dimostrava l’importanza di rafforzare le difese immunitarie degli ulivi nutrendoli, ripristinando lo strato di sostanza organica distrutto da decenni di gestione chimica dei suoli.4

Interventi antitetici a quelli imposti dalla Commissione Europea, il cui obiettivo dichiarato è sempre stato esclusivamente rivolto alla ‘eradicazione’ (il virgolettato è d’obbligo, viste le scarse possibilità di eradicarlo davvero) del batterio da quarantena, anche con dosi massiccie di chimica, e non alla diagnosi delle cause complesse del CoDiRO ed alle cure, soprattutto se condotte con metodiche in conflitto col mercato dei pesticidi.

E’ tipico della mentalità tecnocratica identificare un obiettivo ristretto, avulso dal suo contesto, da perseguire senza porsi il problema se le metodologie utilizzate abbiano o meno delle conseguenze devastanti.

E’ il caso della Decisione di esecuzione UE 2015/789 che imponeva di rimuovere, nel raggio di 100 m. da ogni pianta ritenuta infetta da Xylella, tutte le piante potenzialmente ospiti del patogeno, indipendentemente dal loro stato di salute.
In pratica, ordinava di creare più di tre ettari di deserto attorno ad ogni singolo ulivo risultato positivo alle analisi.
Misura devastante e dai dubbi risultati in termini di efficacia, se l’obiettivo dichiarato era quello di eradicare il batterio.
Erano infatti noti i fallimenti a livello mondiale di tutti i tentativi di eliminare la Xylella attraverso la distruzione delle piante, così elencati dall’ European Food Safety Authority (EFSA):

I tentativi di eliminare X. fastidiosa sono stati fatti in tutto il mondo, inclusa l’eradicazione della clorosi variegata di agrumi in Brasile e della malattia di Pierce sull’uva nel centro di Taiwan. Nonostante questi tentativi, la percentuale di piante infette in Brasile è aumentata dal 15,7 % del1994 al 34% del 1996 e, secondo recenti indagini, circa il 40% delle 200 milioni di piante di arance dolci a São Paulo sono infettate da X. Fastidiosa.
A Taiwan, la malattia persiste, nonostante la rimozione tempestiva di migliaia di vitigni colpiti dalla malattia di Pierce dalla scoperta della malattia nel 2002. In California, la malattia di Pierce è endemica. Purcell osserva che “Nonostante questa eradicazione di vitigni in diverse località che hanno coinvolto piani di grandi dimensioni per più anni, non c’era alcuna prova che lo sforzo di rimozione avesse alcun vantaggio misurabile
“.

Di questi fallimenti la Commissione Europea ne era ben consapevole, dato che l’EFSA è la sua consulente scientifica sulla Xylella, ma l’inutilità delle devastazioni auspicate non è servita a farle cambiare idea, visto che l’Italia è sotto procedura d’infrazione per non aver abbattuto abbastanza.

Per dirla con Pietro Perrino : “leggendo le direttive e le decisioni della C.E. si ha la percezione che esse fissino prima l’obiettivo che vogliono raggiungere (abbattimento delle piante d’olivo) e poi costruiscano artatamente il percorso per raggiungerlo.”

Tutti i provvedimenti normativi europei, nazionali e regionali sull’emergenza Xylella nel Salento, prevedevano inoltre ulteriori misure a forte impatto ambientale, quali l’irrorazione a tappeto di insetticidi per lo sterminio del Philaenus spumarius, l’insetto vettore.
In proposito l’EFSA avvertiva:

L’uso intensivo del trattamento con insetticidi per limitare la trasmissione delle malattie e il controllo del vettore degli insetti può avere conseguenze dirette e indirette per l’ambiente modificando intere reti alimentari con conseguenze cascate e quindi interessando diversi livelli trofici. Ad esempio, l’impatto indiretto dei pesticidi sull’impollinazione è attualmente una questione di grave preoccupazione. Inoltre, i trattamenti su larga scala di insetticidi rappresentano anche rischi per la salute umana e animale.”

Eppure l’uso a tappeto di insetticidi veniva imposto agli agricoltori, con tanto di controllo delle fatture di acquisto5.

La Regione Puglia consigliava in particolare l’uso di:

Clorpirifos, riconosciuto anche dal nostro Ministero della Salute come interferente endocrino con gravi effetti sui feti e sui bambini.
Dimetoato, neurotossico. Nocivo per l’uomo per ingestione, inalazione e per contatto con la pelle.
Piretroidi, neurotossici. Non sono insetticidi selettivi, eliminano tutti gli insetti nell’area di irrorazione.
Etofenprox, tossico per le api e altri insetti non target.
Imidacloprid, neonicotinoide. Sospetto responsabile della moria delle api del 2008-2009, e delle morie di insettivori.
Buprofezin, irritante.

Un avvelenamento di massa, un danno ambientale con conseguenze imprevedibili. (Continua)

 


  1. Deliberazione del Consiglio dei Ministri del 10 febbraio 2015: dichiarazione dello stato di emergenza per la diffusione del batterio Xylella fastidiosa in Puglia, 10 febbraio 2015. 

  2. Nota del 15/10/2013 n. 16/2013 del CRN – Istituto di Virologia vegetale di Bari, Università degli Studi di Bari- Dipartimento di Scienze del Suolo della Pianta e degli Alimenti e Selge – Rete di Laboratori Pubblici di Ricerca.
    Antonia Carlucci, F. Lops, F. Cibelli, M. L. Raimondo (2015). Phaeoacremonium species associated with olive wilt and decline in southern Italy. Eur. J. Plant Pathol (2015)141:717–729 DOI 10.1007/s10658-014-0573-8.
    A. Guario, F. Nigro, D. Boscia, M. Saponari, Disseccamento rapido dell’olivo. Cause e misure di contenimento, in “Informatore Agrario”, n. 46, 2013, pp. 51/54.
    Nigro F., Boscia D., Antelmi I., Ipp olito A. (2013), Fungal species associated with a severe decline of olive in southern Italy. Journal of Plant Pathology, 95, 668.
    Nigro F., Antelmi I., Ippolito A. (2014),  Identification and characterization of fungal species associated with the quick decline of olive. Proceedings International Symposium of the European Outbreak of Xylella fastidiosa in Olive. Gallipoli-Locorotondo, Italy, 29. 

  3. Pietro Perrino, Xylella? Le vere cause del CoDiRO sono glifosato, veleni e criticità di sistema, ‘Il Foglietto’, 22 luglio 2015. 

  4. Cure sostenibili contro Xylella, il metodo Xiloyannis fa il giro d’Italia, Telerama news, 29 maggio 2015. 

  5. D.M. 2777/2014 – Misure fitosanitarie obbligatorie per il contenimento delle infezioni di Xylella fastidiosa da attuare nella zona infetta. Regione Puglia, Determinazione del Dirigente Ufficio Osservatorio Fitosanitario, 6 febbraio 2015, n. 10. 

]]>
Lascia stare la gallina: Le jeux sont faits https://www.carmillaonline.com/2016/09/06/lascia-stare-la-gallina-le-jeux-sont-faits/ Mon, 05 Sep 2016 22:03:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32960 di Mauro Baldrati

RielliDaniele Rielli, Lascia stare la Gallina, Bompiani, Milano 2015, pp 641 € 20

Forse è uno dei testi più politicamente – felicemente – scorretti pubblicati negli ultimi anni. Sarà che si cala, con una sorta di voracità chimica, nella mentalità volgare e aggressiva dei suoi personaggi, con un linguaggio adeguato, sprezzante, razzista, tanto che all’inizio persino il lettore normodotato – quello che si “cucca” storie nere di terroristi sterminatori, serial killer, zombies cannibali che minacciano la specie – prova l’impulso di abbandonare la lettura. Per alcuni può essere difficile reggere [...]]]> di Mauro Baldrati

RielliDaniele Rielli, Lascia stare la Gallina, Bompiani, Milano 2015, pp 641 € 20

Forse è uno dei testi più politicamente – felicemente – scorretti pubblicati negli ultimi anni. Sarà che si cala, con una sorta di voracità chimica, nella mentalità volgare e aggressiva dei suoi personaggi, con un linguaggio adeguato, sprezzante, razzista, tanto che all’inizio persino il lettore normodotato – quello che si “cucca” storie nere di terroristi sterminatori, serial killer, zombies cannibali che minacciano la specie – prova l’impulso di abbandonare la lettura. Per alcuni può essere difficile reggere quella supponenza, priva di ogni traccia di riscatto, per quanto impossibile o fallimentare.

Per dire, in quest’epoca così attenta ai diritti civili, sensibile al rispetto dei diversi e delle minoranze, trovare che Nicki Vendola (all’epoca della vicenda – agosto 2011 – presidente della Regione Puglia) è “la checca comunista” crea alcune difficoltà. Oppure, tanto per non farsi mancar nulla, nell’era della difesa della donna e della sua immagine, scoprire che i personaggi femminili si dividono in due sole categorie: scopabili e non scopabili (anche se, soggiunge il protagonista in uno slancio di generosità, alcune di quelle non scopabili “sono scopabili lo stesso”), fa trasecolare. O sorridere, quando fa capolino la bestiaccia che, dormiente nel coma farmacologico dei sentimenti positivi, si agita dentro di noi.

“Ma vaffa’…” sbotta il lettore normodotato, “sta’ al tuo posto, mi hai rotto!”
Infatti è singolare il fenomeno – uno dei tanti inspiegabili della scrittura letteraria – di questa identificazione repellente, per cui il narratore non sembra nascondersi dietro il personaggio, con quella dose impalpabile di mimetismo che, senza che ce rendiamo conto, lo stacca da noi, lo rende “altro”, salvando così la nostra identità di buoni; no, qui siamo dentro, siamo lui, il narratore-narratore diventato personaggio, e ci ribelliamo di fronte a questa tracotanza, questo cinismo che ci offende, e subdolamente ci seduce.

Per cui consigliamo di tenere duro e di andare avanti, che tutto si chiarirà per i motivi che cercheremo di spiegare tra poco.
Prima parliamo un po’ dei personaggi principali.
Il n.1 è Salvatore “Totò” Petrachi, ex commissario di polizia corrotto, assassino, magnaccia, trafficante di droga e aspirante massone. Prospera con mille traffici, socio in un ristorante in Salento con l’amico d’infanzia Adamo Greco, copertura di ogni illegalità e di una organizzazione di escort. E’ indifferente alla politica, tanto per lui sono tutti ladri, idioti, pagliacci da fiera, ma aspira sopra ogni altra cosa a entrare nel giro che conta, che ruota intorno al partito del “presidente del consiglio” (chi era il presidente del consiglio nell’agosto 2011?), il ricettacolo di tutti gli affari loschi.

Petrachi, che dopo essere stato radiato dalla polizia (per una guerra perduta tra poliziotti delinquenti) gestisce un’agenzia di “gorilla”, cioè guardie del corpo e buttafuori, riceve l’incarico di indagare sull’omicidio di una ragazza da un avvocato mafioso. Non certo per una questione di giustizia, concetto sconosciuto nel mondo di Petrachi, ma perché è accusato il figlio di un notabile “te lu nord” (interessanti gli inserimenti del dialetto salentino, spesso con traduzione). Inizia così un viaggio, che possiamo definire allucinante, nel sottobosco del piccolo crimine del Salento, che strappa risate, incredulità, indignazione. E un senso diffuso di afasia, visto che non si respira mai un soffio di aria fresca, ma tutto è velenoso, fetente, come in certi romanzi di Ellroy, dove la corruzione infetta ogni cellula e il bene non esiste. Ma qui i registri sono diversi, manca quella cupezza che è anche una forma di rassicurazione (il male è dipinto con le sue tinte fosche), perché regna la vivacità, e la banalità autoreferenziale del maligno.

E veniamo all’impulso di abbandonare la lettura, come forma di difesa verso l’esibizionismo della violenza diventata senso comune. A un certo punto si stacca la spina dell’empatia disturbante, e ci si rende conto che l’autore, con straordinario virtuosismo, si è calato nei personaggi come le creature di Supernatural quando si impadroniscono delle vittime. E la possessione non riguarda solo Petrachi. I personaggi sono vari, ognuno con la sua lingua e il suo stile. Abbiamo gli scoppiati, i tossici, gli idealisti, un circo affollato di buffoni e di belve, di pagliacci e di illusionisti. Allora si riprende con la giusta marcia, e si ride, ci si stupisce, si prova rabbia e disgusto.

Lascia stare la gallina parte da un omicidio, e quindi potremmo definirlo un noir; in realtà il noir è nel “nero” di questa sub-umanità “fore te capu” che non si concede mai un dubbio, né una speranza di riscatto. Regna indisturbata la trivialità, ma la narrazione rispetta uno degli enunciati di Flaubert: nulla è triviale purché sia esatto. E l’esattezza viene rispettata anche quando l’autore, rientrando nel suo ruolo, scava nel passato di Petrachi e del suo socio Greco, trovando perdute innocenze e sensibilità, presto infettate dalla lebbra di quell’egoismo che non ammette deroghe.

Alcuni flash back sono qua e là troppo lunghi, troppo dettagliati, e appesantiscono la lettura, ma sono difetti perdonabili mentre marciamo a tappe forzate verso un finale per nulla rassicurante, per nulla “aperto”, col male che festeggia in una marcia trionfale di corruzione e di cinismo. I rarissimi personaggi che conservavano un barlume di etica sono già stati assassinati senza pietà, così il coperchio cala sul sarcofago della defunta umanità e di ogni possibile speranza.

[Frasi cult: “Questo o becca un sacco di fica o è un culorotto.”
“Un autentico proletario che non ha mai letto Pasolini e le sue tirate frocie pro divise che spaccavano crani ma in maniera popolare.”
“Cu li cunvincu pozzu sempre dire ca ‘na fiata hai accultellatu nu cristianu cu difendi ‘na gaddhrina.”]

]]>
Morire a Dacca/4 https://www.carmillaonline.com/2016/09/01/morire-a-dacca4/ Thu, 01 Sep 2016 20:10:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32858 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

FilantoErano parecchio incazzati gli operai della Filanto in presidio davanti ai cancelli dello stabilimento di Casarano (LE). Da mesi stringevano la cinghia in cassa integrazione a zero ore, esasperati per i ritardi nell’erogazione della c.i.g., per i salari non corrisposti e per la mancanza di prospettive. Li avevano buttati via come scarpe vecchie, dopo che per tanti anni avevano ingoiato di tutto pur di mantenere quel posto di lavoro al calzaturificio, e quel salario a fine mese che li sottraeva ad un destino di emigrazione. E invece, un bel giorno, era [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

FilantoErano parecchio incazzati gli operai della Filanto in presidio davanti ai cancelli dello stabilimento di Casarano (LE). Da mesi stringevano la cinghia in cassa integrazione a zero ore, esasperati per i ritardi nell’erogazione della c.i.g., per i salari non corrisposti e per la mancanza di prospettive.
Li avevano buttati via come scarpe vecchie, dopo che per tanti anni avevano ingoiato di tutto pur di mantenere quel posto di lavoro al calzaturificio, e quel salario a fine mese che li sottraeva ad un destino di emigrazione.
E invece, un bel giorno, era emigrata la produzione, prima in Albania e poi in Bangladesh.
Eppure il Cavaliere del Lavoro Antonio Filograna aveva sempre fatto del suo meglio per garantirgli condizioni di lavoro degne del terzo mondo.
Ma c’è sempre un sud più a sud.

Il Bangladesh a sud di Lecce/2

“Non dimenticherò mai quella volta in cui andai a trovare il mio compagno di classe delle medie e trovai lui e tutta la sua famiglia che cucivano tomaie sul tavolo della cucina, le sue mani da bambino che si muovevano velocissime su quei pezzi da consegnare all’assemblaggio”.1

La descrizione del giornalista Danilo Lupo, originario di Casarano, riguarda uno dei tanti laboratori di subfornitura della Filanto nella seconda metà degli anni ’80. Negli stessi anni, seguendo i ricordi di un’ex operaia del calzaturificio, nei reparti si lavorava in questo modo:

“Alla Filanto dovevi essere davanti alla macchina alle 7.00, e finivi alle 19,00, con due pause che duravano in tutto un’ora e un quarto.
Se sbagliavi anche solo un punto, il caporeparto ti disfaceva tutta la cucitura, anche quella fatta bene. Così perdevi più tempo a rifare il lavoro, e dovevi recuperare nella pausa pranzo, a spese tue. Anche se non sbagliavi, ma andavi troppo lenta e rimanevi indietro con la produzione assegnata, dovevi recuperare durante le pause.
A chi usava i collanti gli davano del latte. Lucia, una ragazza di Corsano, sveniva sempre
”.2

Non che la salvaguardia della salute in fabbrica fosse particolarmente migliorata nel nuovo millennio, a giudicare da queste testimonianze del 2000:

Calzaturificio Filanto“Non ci sono protezioni. Se uno si sente male non ha speranza. Uno che stava a un raschiatore con l’aspiratore rotto che gli provocava nausea per quello che doveva respirare, e protestò col capo, chiedendo che lo riparassero o lo cambiassero, ma il capo gli diceva ‘tu là devi morire’’”.3

“I dispositivi di protezione individuale venivano consegnati in occasione di ispezioni preannunciate o di visite da parte di politici e successivamente ritirati …  Alcune lavoratrici in astensione obbligatoria per maternità sono state obbligate a rientrare al lavoro dopo aver ricevuto minacce di licenziamento in caso di rifiuto”.4

C’è da dire che tanta arroganza non avrebbe trovato terreno fertile se non grazie alla passività di gran parte degli operai, dovuta ad una diffusa sudditanza psicologica nei confronti del padre/padrone della Filanto. Passività che si trasformava in aperta complicità con la direzione, quando si trattava di emarginare quei pochi che cercavano di reagire.

“Il 5 aprile 1982 la Panfil [lo stabilimento Filanto di Patù] trasferiva in una linea di lavorazione di nuova istituzione, completamente isolata dal resto della fabbrica, tutti gli iscritti alla Filtea-Cgil. Nello stesso giorno il direttore del personale convocava tutte le maestranze e faceva sottoscrivere un manifesto di protesta contro l’iniziativa sindacale dal titolo: Lasciateci lavorare tranquilli”.5 E il 99% firmò.
Era il preludio ai licenziamenti per rappresaglia delle operaie sindacalizzate, che vennero estesi anche ai loro parenti in una sorta di vendetta trasversale.
Così venne distrutto, nel 1982, il sindacato che nasceva dal basso. Una ventina di anni dopo i sindacati confederali entrarono alla Filanto calati dall’alto … chiamati dal padrone.

Delocalizzazioni all’italiana/2

Casarano, gennaio 2014. Operai Filanto in presidio.

Gennaio 2014: operai Filanto in presidio davanti allo stabilimento di  Casarano.

> L’azienda Filanto ha lottato per 50 anni per non fare mai entrare il sindacato. Al 51esimo anno pagava pure lei per iscriverci al sindacato.
> In che senso pagava lei?
> Perché le interessava il sindacato per cacciarci fuori con la cassa integrazione.
> Ah, per fare l’accordo aveva bisogno della controfirma del sindacato.
> Pagava pure lei, metteva la quota per far entrare il sindacato
.6

Nel gennaio 2014 fra i cassaintegrati del presidio non giravano opinioni particolarmente lusinghiere su CGIL, CISL e UIL. In particolare, gli operai li accusavano di aver agevolato, tramite la firma degli accordi, la loro estromissione dalla fabbrica, un processo di espulsione graduale e sistematico iniziato da quando  il patron della Filanto  aveva deciso di adottare la strategia del ‘cluster’.7

Ripercorrendo esattamente tutti i passaggi già sperimentati dal Gruppo Adelchi (descritti nel capitolo precedente), Filograna aveva girato a parenti e fiduciari i capitali per l’apertura di una costellazione di piccole ditte, tutte formalmente indipendenti dalla Filanto, ma tutte però riconducibili ad uno stesso interesse: il suo8.
Le piccole ditte assumevano gli operai messi in mobilità dall’azienda madre, ufficialmente ‘in crisi’, beneficiando di grossi sgravi contributivi. Visto che creavano ‘nuova occupazione’, usufruivano anche dei finanziamenti della legge 488/92 per comprare i macchinari ‘nuovi’ … che altro non erano che le vecchie macchine della Filanto sottoposte ad un sommario restyling, che consisteva nell’apposizione di una mano di vernice e di un’etichetta finta.
In totale, le aziende di Filograna si erano portate a casa in questo modo sei milioni di euro di contributi risparmiati e quattro milioni e mezzo di finanziamenti pubblici9.

> Ci hanno diviso in settori, in piccole aziende.
> E vi hanno portato all’esterno …
> Si, sempre qua dentro però 
[indicando lo stabilimento della Filanto].
> Sempre con l’aiuto del sindacato, promettendoci sempre il lavoro…
> Quando lo Stato ha smesso di erogare soldi e incentivi statali, abbiamo finito di lavorare.10

Operaia della Filanto Bangladesh Footwear di Shafipur.

Operaia della Filanto Bangladesh Footwear di Shafipur.

Ma a quel punto la delocalizzazione all’estero era già compiuta.
Tutti quei passaggi di operai da un’ azienda all’altra (ed ogni volta un po’ ne venivano mandati a casa), servivano a prendere tempo, a diluire 3000 licenziamenti in uno stillicidio di cassa integrazione, scaricandone i costi sulle casse dell’INPS e della Regione.
Servivano ad evitare il conflitto provocato da una chiusura netta, e a rendere graduale il processo di delocalizzazione, mantenendo comunque un piede in Italia mentre veniva sperimentato il trasferimento della produzione altrove.
L’ ‘altrove’ aveva cominciato a prendere forma da tempo, con l’apertura nel 1992 dei primi stabilimenti albanesi a Tirana e Shijak, seguiti dalla Filanto Ukraina a Zhitomir e dall’ufficio commerciale di Madras, in India, per coordinare le subforniture asiatiche11. Fino alla Filanto Bangladesh Footwear di Shafipur, con migliaia di operai addestrati gratuitamente nel 2010 dall’USAID (l’agenzia di cooperazione del governo degli Stati Uniti) nell’ambito di un programma di contrasto alla povertà.12

 > In Bangladeh dice che c’ha tremila operai.
> Quanti ce ne aveva qua. Sempre nel made in Italy.
> Si, poi le fanno made in Italy quando arrivano qua. Penso
.13

I notai della crisi

L’aspetto forse più bizzarro di questa faccenda è che tutte le sue fasi erano avvenute alla luce del sole. Lo sapevano tutti, a Casarano, che le fabbriche satelliti erano intestate a prestanome, e che la crisi per mancanza di ordini era fittizia, perché l’azienda, mentre metteva la gente in cassa integrazione, obbligava allo straordinario gratuito quelli che restavano in reparto.14.
Difficile pensare che le parti sociali, gli enti locali, i ministeri seduti ai tavoli di concertazione della vertenza Filanto ne fossero all’oscuro. O che Confindustria Puglia nulla sapesse della delocalizzazione in Bangladesh, visto che era lei stessa a promuovere gli investimenti delle ditte pugliesi nelle Export Processing  Zones di quel paese15.
Tutti facevano finta di accorarsi per il futuro occupazionale degli operai salentini, di volta in volta riparcheggiati nelle aziende del cluster in attesa che andassero in crisi anche loro.
Tutti, compresi i sindacati confederali, che ratificavano con timbro e firma ogni travaso di operai da una ditta all’altra, fingendo di credere ad improbabili piani industriali.
Fino a promuovere, nel settembre 2013, uno degli ultimi atti di questa farsa: l’accordo transattivo dei ‘pochi, maledetti e neanche subito’, quando i dipendenti di tutto il cluster vennero rimandati definitivamente a casa accettando di ricevere, a rate, solo la metà degli stipendi arretrati16. I profitti della Filanto Bangladesh Footwear, che nel frattempo esportava scarpe in tutto il mondo, rimanevano ovviamente al di fuori della loro portata, e nessuno, ai tavoli delle trattative, ne chiedeva conto.

Aprile 2010: presidio degli operai Adelchi.

Aprile 2010: presidio degli operai Adelchi.

Il compianto Michele Frascaro17, nel suo dossier sul Gruppo Adelchi, definiva i sindacati confederali ‘i notai della crisi’ . Anche nella vertenza Adelchi, come per la Filanto, CGIL, CISL e UIL si erano limitate a traghettare i lavoratori verso la cassa integrazione senza mai opporsi veramente allo smantellamento delle linee.
Nessuno li aveva visti quando gli operai estromessi dal Gruppo Adelchi si incatenavano ai cancelli,  salivano sui tetti del Comune di Tricase, si cospargevano di benzina, bloccavano le strade. E nemmeno quando i lavoratori fermarono un camion di scarpe ‘made in Bangladesh’ pronte a trasformarsi in ‘made in Italy’18. In quell’occasione, vennero occupati per due giorni gli uffici della Nuova Adelchi:
Siamo qui da due giorni, ormai è intervenuta in forza la Guardia di Finanza che sta svolgendo indagini approfondite, ma non abbiamo visto uno, uno solo dei segretari provinciali della nostra categoria”.19

Settembre 2009: operai Adelchi occupano il tetto del Comune di Tricase.

Settembre 2009: operai Adelchi occupano il tetto del Comune di Tricase.

I sindacati perbene non frequentavano i picchetti, il presidio permanente dei cassaintegrati, le occupazioni degli stabilimenti o del Consiglio Comunale.
In compenso c’erano sempre, seduti ai tavoli, quando si trattava di firmare accordi che servivano solo ad allentare la tensione sociale, a depotenziare la lotta. Accordi come quello fischiato in assemblea durante l’occupazione operaia della Sergio’s (una fabbrica del cluster Adelchi), che scopriva il fianco agli occupanti, esponendoli al rischio di sgombero.20
Accordi che non sarebbero mai stati rispettati dall’azienda, e di cui le OOSS firmatarie non avrebbero mai controllato né preteso l’osservanza.

Epilogo

Tutto si è compiuto.
Seimila posti di lavoro del distretto calzaturiero salentino sono andati a ‘morire a Dacca’.
Sconfitte le lotte, ognuno si è rinchiuso nella sua dimensione individuale. I T.F.R. della Filanto hanno generato, a Casarano, l’apertura di una moltitudine di bar, la maggior parte dei quali falliti in poco tempo.
Ai territori sono rimaste solo la disoccupazione e le scorie tossiche, come le tonnellate di scarti di pellame, ritagli di tomaie e residui di collanti seppelliti abusivamente a Pozzo Volito, vicino alla Filanto di Patù21.
Nel frattempo, i sindacati confederali continuano a promuovere campagne per sensibilizzare i consumatori sulla trasparenza nella filiera della moda.
Lanciano appelli.
Propongono petizioni.
Inoltrano garbate richieste alle aziende del fashion per la tracciabilità delle subforniture.
Aderiscono alle meritorie iniziative della Clean Clothes Campaign.
Il fatto è che per loro la mobilitazione dei consumatori non è un’attività collaterale, ma sostitutiva della lotta di classe (un concetto ormai desueto e retrò).
E si chiedono, nelle loro campagne: “Ogni giorno  indossiamo abiti, scarpe, borse, portafogli, senza sapere molto di loro. Dove sono stati fabbricati? Da quali mani e soprattutto in quali condizioni?”.
Veramente queste cose dovrebbero dircele loro, ma visto che hanno delle difficoltà provo a dargli comunque un aiutino. Le Adidas22, oggi, le lavorano a Ruffano (LE), e le condizioni sono queste:

“Al calzaturificio siamo più di cento. La prima domanda che ti fanno, prima di assumerti, e se hai mai avuto a che fare con un sindacato. Se vuoi lavorare devi rispondere di no. Poi ti danno il contratto ed un regolamento da firmare, e dopo la firma se li riprendono senza dartene una copia. Sul regolamento c’è scritto che durante l’orario di lavoro è vietato andare in bagno ed è vietato parlare con le colleghe.
Ed è veramente così. La caporeparto può negarti il permesso di andare in bagno, e non puoi parlare alle altre operaie, neanche per chiedere un filo, perché sono tutte terrorizzate. Eppure non sono ragazzine, sono signore sui 40-45 anni.
È impossibile terminare in tempo il lavoro assegnato per la giornata, anche per un’operaia esperta. Se non ci riesci devi rimanere in fabbrica fino a che non lo finisci, a gratis. Oppure venire al lavoro l’indomani un’ora prima, alle 6,00. Sempre a gratis.
Durante il giorno il proprietario passa fra le macchine e ci offende. Gli piace particolarmente chiamarci ‘suine’.
Le operaie cambiano spesso, o perché si licenziano da sole, o perché vengono mandate via. Vengono confermate solo quelle più remissive, che non alzano mai la testa dal lavoro”.23

Nascosto fra le sagre gastronomiche e le pizziche tarantate, così care ai turisti alternativi, il ‘Bangladesh’ non si è mai spostato dal Capo di Leuca. (Continua)

[Nella foto in alto: striscione dei cassaintegrati Filanto, 2013.]


  1. Danilo Lupo, A Casarano è morto il ‘900, 10 agosto 2011. 

  2. Testimonianza di V., ex operaia Filanto, raccolta da Alexik. 

  3. Relazione su due incontri con i lavoratori della Filanto, dicembre 2000. 

  4. Interrogazione a risposta scritta presentata da Nardini Maria Celeste in data 30/03/2000. 

  5. Luigi Renna, L’imprenditore padrone: rapporto sulla repressione antisindacale nel Basso Salento, Milella, 1987, p. 153. 

  6. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano, Parte 1 , Telerama, gennaio 2014. 

  7. Letteralmente significa raggruppamento a grappolo. In economia indica un insieme di aziende interconnesse. 

  8. Erano spuntate così l’Italiana Pellami, la Carla, la Tecnosuole, la Leather Calzature, la Metal Target, la M.G.A., il Tomaificio Zodiaco, la Labor, e infine la Leo Shoes. 

  9. Inchiesta per truffa, sequestro da oltre 10 milioni di euro. Trema l’impero della Filanto, Lecce Prima, 26 marzo 2013. 

  10. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano, Parte 1 , Telerama, gennaio 2014. 

  11. Calzaturifici Filanto. Il periodo d’oro del gruppo Filanto, 1998. 

  12. USAID, PRICE. Poverty Reduction by Increasing the Competitiveness of Enterprises Bangladesh, quarterly report, april-june 2012, p. 44. 

  13. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano, Telerama, gennaio 2014. 

  14. Relazione su due incontri con i lavoratori della Filanto, dicembre 2000. 

  15. Imprese italiane nel mondo – Bangladesh – Confindustria Puglia – opportunità e investimenti: clima favorevole alle imprese italiane, Italian Network, 09/06/2009. 

  16. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano, Parte 2 , Telerama, gennaio 2014. 

  17. Michele Frascaro, compagno salentino e giornalista di inchiesta, noto per la sensibilità e la vicinanza con cui seguiva la vertenza Adelchi, è stato il direttore responsabile della rivista ‘L’impaziente’. Nel 2010 è stato stroncato da un infarto a 37 anni. Gli operai dell’Adelchi gli hanno dedicato il loro Comitato. 

  18. Operai Adelchi: continua l’occupazione, Il Gallo, 8 ottobre 2009. 

  19. Testimonianza di Luca Simone, riportata in: in Mario Fracasso, Adelchi. La storia operaia in lotta nel Sud Salento raccontata dai protagonisti, Alessano, 2010, p. 124. 

  20. Ibidem, pp. 73/76. 

  21. Rifiuti interrati, “nastri e testimoni portano alla Filanto”, Nuovo Quotidiano, 24/05/14. 

  22. In merito al rispetto dei diritti dei lavoratori, il marchio Adidas viene definito ‘sulla buona strada‘ dal rapporto della campagna Fair Trade ‘Change Your Shoes‘. 

  23. Testimonianza di un’operaia calzaturiera salentina, ascoltata da Alexik nell’agosto 2016. 

]]>
Morire a Dacca/3 https://www.carmillaonline.com/2016/08/12/morire-a-dacca3/ Fri, 12 Aug 2016 01:53:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32513 di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Apex Adelchi Gazipur 2012In Bangladesh “gli investimenti esteri sono incoraggiati ed equiparati a quelli locali per le politiche fiscali e quelle relative alle importazioni/esportazioni…. non vi sono restrizioni al rimpatrio del capitale investito e dei dividendi ed il rischio di esproprio è contenuto. A favore di decisioni ad investire va messo in conto il fatto che il Paese dispone di una vasta base di forza lavoro giovane ed a basso costo”.

Così recitava, alla fine del 2009, il rapporto dell’ICE, [...]]]> di Alexik

[A questo link il capitolo precedente.]

Apex Adelchi Gazipur 2012In Bangladesh “gli investimenti esteri sono incoraggiati ed equiparati a quelli locali per le politiche fiscali e quelle relative alle importazioni/esportazioni…. non vi sono restrizioni al rimpatrio del capitale investito e dei dividendi ed il rischio di esproprio è contenuto. A favore di decisioni ad investire va messo in conto il fatto che il Paese dispone di una vasta base di forza lavoro giovane ed a basso costo”.

Così recitava, alla fine del 2009, il rapporto dell’ICE, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane.1
L’ICE è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico che opera all’estero nell’ambito delle Rappresentanze diplomatiche italiane, sottoposto ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero dello sviluppo economico.
È curioso il fatto che sia un ente pubblico ad occuparsi di promuovere la delocalizzazione all’estero delle fabbriche italiane. Promuovere, cioè, un meccanismo che qui distrugge posti di lavoro dotati di un minimo di diritti e garanzie (anche se sempre meno), condanna al degrado economico e sociale i nostri territori e pesa sulle risorse pubbliche, sulle quali ricade l’onere degli ammortizzatori sociali.
Il tutto per spostare la produzione in luoghi dove si spara sugli operai, si torturano i sindacalisti, la nocività e l’insicurezza sul lavoro sono ai massimi livelli, i salari rimangono sotto la soglia di povertà.
Il rapporto ICE glissa su questi ultimi aspetti delle così dette politiche ‘investment friendly’, però dice altre cose interessanti. Per esempio che gli investimenti diretti italiani in Bangladesh del 2009 “sono concentrati nel settore tessile, tessuti (gruppo Berto), confezioni e maglieria (gruppo Ferri), nel settore dolciario (Perfetti) e nel settore delle calzature (Filanto, Adelchi)”.
Scopriamo così che anche il distretto calzaturiero salentino è andato a morire a Dacca.
O almeno, lo scopre chi non è leccese, visto che gli abitanti del Capo di Leuca questa storia la conoscono molto bene, avendone sperimentato direttamente gli effetti nefasti.
Il declino pilotato di questo frammento di made in Italy è un emblema del defilarsi furtivo (furtivo in tutti i sensi) dei nostri ‘capitani coraggiosi’, in fuga verso più profittevoli lidi di approdo.

Il Bangladesh a sud di Lecce

> Io ho cominciato a lavorare alle scarpe a nove anni
> A nove anni ! E si può ? Si poteva ?

> In quei periodi si poteva, perché la mattina andavamo a scuola, e il pomeriggio si lavorava.
> Addirittura ! Da ‘lu mesciu 2
> ‘Lu mesciu’, come si chiamava questo mesciu ‘Uccio’.

1961. Lavorazioni alla Filanto.

1961. Lavorazioni alla Filanto.

L’intervistato ai microfoni de ‘L’indiano’, trasmissione di approfondimento di Telerama3, si chiama Giorgio, operaio calzaturiero da quando aveva 9 anni.
‘Lu mesciu Uccio’ invece era il defunto Antonio Filograna, Cavaliere del Lavoro e fondatore del calzaturificio Filanto di Casarano (LE), ai tempi in cui nel basso Salento lavoravano in fabbrica anche i bambini delle elementari. Più o meno come in Bangladesh.

Alla fine del secolo scorso le fabbriche de lu mesciu Uccio erano arrivate ad occupare nella provincia di Lecce 3.300 dipendenti diretti, senza contare l’indotto.  Con un ritmo di 50.000 paia di scarpe al giorno si attestavano ai vertici della classifica dei produttori europei.
Il sindacato non ci metteva piede. Trent’anni fa ci aveva provato Rosa, un’operaia dello stabilimento di Patù, ad iscriversi alla CGIL, ma lu mesciu Uccio considerava l’iscrizione al sindacato quasi un’ offesa personale: all’ ‘interesse’ dei suoi operai ci pensava lui ! Così Rosa era stata licenziata in tronco. Più o meno come in Bangladesh4.
Con gli anni, come vedremo, Antonio Filograna sul sindacato cambierà idea.

Alla fine del secolo scorso, in seconda posizione fra i calzaturieri salentini, si era attestato Adelchi Sergio (Sergio è il cognome), nipote di Filograna, con 2.500 dipendenti negli stabilimenti Adelchi e Nuova Adelchi fra Specchia a Tricase (LE).
Intorno alle due concentrazioni, una miriade di piccole aziende e laboratori permetteva a lu mesciu Uccio e a suo nipote di attingere facilmente da una rete di decentramento a basso costo e a chilometro zero. Laboratori dove la regola era quella della ‘doppia busta’. Nel senso che di buste paga gli operai ne avevano due: una ufficiale e un’altra ufficiosa, molto più leggera della prima5.
In ogni modo, i salari erano comunque calmierati dai patti territoriali, contratti provinciali di gradualità che permettevano agli imprenditori salentini del tessile, abbigliamento e del calzaturiero di stare al di sotto delle retribuzioni previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Così come erano calmierate altre tipologie di ‘pretese’: le malattie professionali da collanti e i loro danni permanenti alla salute si sistemavano informalmente, con quattro soldi alla famiglia e la consegna del silenzio.
Poi, un bel giorno, il Bangladesh sotto casa a Filograna e a suo nipote cominciò a non bastare più.
Per questo sottoposero i loro imperi  a processi di frammentazione e delocalizzazione all’estero. Due fasi strettamente connesse fra loro.

Delocalizzazioni all’italiana

Fu Adelchi Sergio a sperimentare per primo la strategia del ‘cluster’.
Si trattava della creazione di una rete di unità produttive intestate a parenti o amici e formalmente indipendenti dalla casa madre, ma in realtà tutte riconducibili ad essa.
Un sistema che non avrebbe avuto nessun senso da un punto di vista industriale, se non quello di attivare un gigantesco gioco delle tre carte dove soldi, dipendenti e macchinari apparivano e sparivano. Soprattutto sparivano: i dipendenti salentini in mobilità, e i soldi, i macchinari, il know how, il portafoglio clienti in Albania, Etiopia e Bangladesh.

Tirana. Stabilimento Donianna.

Tirana. Stabilimento Donianna.

Il ‘gioco’ ebbe inizio nella seconda metà degli anni ’90, quando La Nuova Adelchi attraversò l’Adriatico per costituire a Tirana la Donianna, una joint venture italo/albanese. Un bel posto, Tirana ! Un posto dove un operaio delle scarpe prende 200 euro lordi al mese6.
Nello stesso anno (1996) a circa 7.000 km di distanza, un certo Elahi Manzur, proprietario di concerie in Bangladesh, mentre si chiedeva se non fosse il caso di porre termine alla sua fallimentare avventura nel settore calzaturiero, trovò ‘un collaboratore italiano che era disposto a fornire i disegni, aiutarlo ad aumentare la produzione e la commercializzazione’ di scarpe7. Adelchi Sergio, of course.

Lo spostamento all’estero di alcune fasi produttive della Nuova Adelchi in realtà era iniziato nel 1989, ma non aveva comportato un disimpegno negli stabilimenti salentini, le cui esportazioni erano ancora sostenute dalle svalutazioni competitive della lira8.
A ridosso del nuovo millennio, il decentramento cominciò però a trasformarsi in una lenta, ma coerente, strategia di smobilitazione, agevolata dalla costruzione in madre patria di un sistema di scatole cinesi.
La prima fra queste, primogenita del cluster Adelchi, fu la Selcom Srl, un aziendina molto dinamica che appena nata provvide subito a 400 assunzioni ed al relativo inoltro della domanda per ottenere i benefici della 488/92.
Per inciso, la legge 488/92 è quella che prevede ancor oggi contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati per le imprese che creano ‘nuova occupazione’ in aree svantaggiate del nostro belpaese.
Peccato che per la Selcom non si trattasse esattamente di ‘nuova occupazione’, ma di 400 ignari lavoratori della Nuova Adelchi, che “passarono da un’azienda all’altra, a loro insaputa. Sparì il rigo sulla busta paga relativo alla data di assunzione, livello e scatti di anzianità. E questo successe sia sulle buste paga Selcom, sia su quelle della Nuova Adelchi, tutto per camuffare il passaggio degli operai“.9

Visto che il meccanismo funzionava, da lì a poco si replicò con un’altra azienda del cluster:

Calzaturificio Adelchi.

Calzaturificio Adelchi.

Nel 2000  quattro  catene  di  montaggio,  circa duecento  persone,  vengono  trasferite  dalla  Nuova  Adelchi  al calzaturificio Adelchi: è il secondo trasferimento in due anni. Il concetto è questo: l’azienda dichiara lo stato di crisi, ma sono stati loro stessi, negli anni, a costruire la crisi con i vari passaggi: se trasferisco sei catene, i miei incassi diminuiscono perché diminuisce la mia capacità produttiva“.10

E così via. La Nuova Adelchi  passava le linee produttive e il relativo fatturato alle sue diramazioni informali (C.R.C. Srl, K.N.K. srl, Magna Grecia Srl, Sky Srl, G.S.C. Plast Srl, Sergio’s). Poi si dichiarava in ‘crisi’ e metteva i dipendenti in mobilità, in modo da farli riassumere nelle aziende figlie, che a loro volta potevano così usufruire, per milioni di euro, dei forti sgravi contributivi destinati a chi assume dalle liste di mobilità, e dei finanziamenti della 488.
Gli operai si trovavano a lavorare per una ditta diversa, pur restando negli stessi capannoni, davanti alle stesse macchine di sempre.
Nel frattempo i macchinari nuovi, acquistati con i finanziamenti della 488, prendevano la strada dell’est, ceduti in ‘prestito d’uso gratuito’ alle ditte albanesi, romene e bulgare della rete di decentramento estero11.

Ovviamente non veniva svelata la natura fittizia della crisi, che anzi veniva addebitata a tutt’altri motivi: per esempio alla fine dei contratti provinciali di gradualità, che costringeva (orrore) a pagare agli operai i salari pieni.
Ma soprattutto imperava il mantra della ‘globalizzazione’. Della serie: ‘la crisi c’è perché i clienti vanno a comprare all’estero’ (… cioè, dalle mie filiali delocalizzate!). L’argomento era particolarmente esilarante, dato che era stata proprio la Nuova Adelchi a portare all’estero il suo portafoglio clienti.

Apex Adelchi Footwear 2006

Assemblea annuale Apex 2006. Adelchi Sergio è il 3° da sinistra.

Comunque, ufficialmente la povera Nuova Adelchi si dibatteva nelle difficoltà, seguita dalle sue aziendine satelliti che intorno al 2005 cominciarono  a mettere pure loro i dipendenti in cassa integrazione.
Ma nel frattempo, come se la passava in Bangladesh Elahi Manzur ?
Benissimo !
La sezione calzaturiera del suo gruppo (Apex), che fino a 10 anni prima sembrava avviata verso un destino fallimentare, grazie al socio italiano andava a gonfie vele.
Nel 2006 Adelchi Sergio era entrato in joint venture con lui, costituendo la Apex Adelchi Footwear Limited, con un investimento di 1.739.330.43 euro12.
In pratica, mentre in Italia piangeva miseria mettendo la gente in cassa integrazione, i soldi per investire in Bangladesh li aveva trovati eccome ! E nella joint venture ci metteva non solo i capitali, ma anche la partecipazione tecnica e di marketing. Sovraintendeva alla creazione di marchi dai nomi italiani accattivanti, e soprattutto indirizzava la produzione bengalese al suo parco clienti, lasciando senza acquirenti la casa madre salentina.
Inizialmente le scarpe prodotte in Bangladesh almeno transitavano per lo stabilimento di Tricase, prima della consegna ai clienti europei.
Agli operai del Capo di Leuca era affidata l’ultima ‘rifinitura’, quella che rende un paio di calzature veramente di classe: “Noi, negli ultimi anni, abbiamo per la gran parte solo cambiato il marchio alle scarpe che ci arrivavano già belle e pronte dall’estero. Via il Made in Albania o il Made in Bangladesh, ci appiccicavamo il Made in Italy”.13

Manzur Elahi e suo figlio Nasim.

Manzur Elahi e suo figlio Nasim.

Fino a che la triangolazione non è sembrata troppo costosa, e l’Apex  Adelchi Footwear Limited non ha cominciato a spedire direttamente il prodotto finito ai clienti  europei, e poi a fatturarglielo senza più passare per la Nuova Adelchi.
In questo modo le esportazioni della Apex schizzarono nel 2007 a 58,87 milioni di $, ed a 72,37 milioni di $  nel 2008, e via crescendo14.  Vampirizzando la Nuova Adelchi. E non solo l’Apex le sottraeva il fatturato. Le accollava pure le perdite !
Nella maggior  parte  dei  casi,  la  merce  può  arrivare al cliente con dei difetti; il cliente che si trova in Germania non rimanda la merce  in  Bangladesh  per  farla  ricondizionare, sosterrebbe un costo enorme; la merce torna a Tricase; La Nuova Adelchi se  la  prende  in  carico  per  il  ricondizionamento;  costi  di  trasporto,  in  andata e  in ritorno,  costi  di  riparazione,  tutto  a carico  della  Nuova  Adelchi“.15

Non stupisce che in queste condizioni gli stabilimenti italiani fossero condannati al tracollo.
Fra il 2006 e il 2007 la maggior parte delle aziende del cluster sono state liquidate. Sopravvive solo la Sergio’s, per il mercato del lusso.
La Nuova Adelchi è fallita, spolpata fino all’osso. Prima di chiudere, dai suoi magazzini sono scomparse rimanenze per 53 milioni di euro, occultate ai controlli tramite la falsificazione dei bilanci.
L’Apex, al contrario, è diventata il primo produttore di scarpe del subcontinente indiano. Ne produce 4,5 milioni di paia all’anno per 130 clienti (grosse catene distributive) in 40 paesi, e tre milioni di paia per il mercato domestico, distribuite tramite i suoi 550 outlet, destinati alla classe media.
Non dipende più da Tricase, nemmeno per  la ricerca & sviluppo, che viene fatta in un grande centro a Taiwan, anche se ha mantenuto il vezzo dei nomi italiani per le sue linee (Nino Rossi, Venturini). E’ un’azienda ‘etica’, che paga gli operai addirittura l’equivalente di 90 euro al mese16, molti di più dei 61 del salario minimo vigente in Bangladesh.  In pratica, con il loro salario Apex, gli operai Apex possono comprarci un paio di scarpe Apex, e gli rimangono pure 10 euro !
Non ci è dato sapere quanto Adelchi Sergio abbia beneficiato di tanta fortuna, che è girata tutta estero su estero. Né lo andrebbe a dire in giro.
Inquisito per truffa aggravata ai danni dell’Inps e bancarotta fraudolenta17, oggi è un tenero vecchietto che dice di vivere con la pensione di 700 euro al mese18, impossibilitato a pagare i molteplici creditori. (Continua)

[Nella foto in alto: operai alla Apex Adelchi Footwear Limited, 2012.]

 


  1. ICE, Aggiornamento al 2° semestre  2009, Bangladesh, p.7. 

  2. ‘Maestro’ in dialetto salentino. 

  3. Danilo Lupo, Scarpe rotte – la parabola della Filanto, il declino di Casarano , Telerama, gennaio 2014. 

  4. Scarpe di lusso stipendi da fame. Così il Salento è diventato una colonia del Made in Italy, min. 2,20 

  5. Idem. 

  6. Francesco Clemente, Albania, la Cina vicina che fa le scarpe all’Italia, Linkiesta, 1/09/2012. 

  7. Naazneen Karmali, Bangladesh’s Apex Group Emerges As Shoemaker To The World, Forbes, 27/08/14 

  8. Gianfranco Viesti, Francesco Prota, Delocalizzazione e Made in Italy: il caso pugliese

  9. Tommaso, ex dipendente di La Nuova Adelchi, in: Michele Frascaro, Adelchi, il vero volto della crisi, in “L’impaziente’, n. 21, dicembre 2009, pp. 8/18. 

  10. Idem. 

  11. In particolare: le albanesi Berttoni Shpk, Donianna Shpk e Green Shoe hpk, la romena S.C. Montana S.A e la bulgara Oraden srl. Tricase: nei guai il fondatore del gruppo calzaturiero e il figlio, La Gazzetta del Mezzogiorno, 12/10/07. 

  12. Ajoy Paul, Supply Chain and Business Strategy of Apex Adelchi Footwear Limited, 2/12/11. 

  13. Rocco, ex operaio Nuova Adelchi, in: Tiziana Colluto, Scarpe all’estero e cassa integrazione nel Salento: per i 700 operai Adelchi è la fine, Il Fatto Quotidiano, 20/01/2012 

  14. Ajoy Paul, op.cit. 

  15. Michele Frascaro, op. cit. 

  16. Naazneen Karmali, op. cit. 

  17. Maxitruffa all’Inps sequestrati 8 mln ad Adelchi di Tricase, La Gazzetta del Mezzogiorno, 16/05/2011. Chiara Spagnolo, Adelchi, bancarotta da 53 milioni a processo il re delle calzature, La Repubblica, 9/05/2013. 

  18. Giuseppe Cerfeda, La fine di un impero, Il Gallo, 22/01/2016. 

]]>