Saidiya Hartman – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 26 Apr 2025 05:00:26 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Una linea del colore che divide, ma non riunisce https://www.carmillaonline.com/2025/04/16/una-linea-del-colore-che-separa-ma-non-unisce/ Wed, 16 Apr 2025 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=87787 di Sandro Moiso

Saidiya Hartman, Perdi la madre, Tamu Edizioni, Napoli 2021, pp. 332, 18 euro

«Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi» recitano sia la copertina che il frontespizio del testo di Saidiya Hartman edito da Tamu, ma andrebbe aggiunto che involontariamente lo stesso libro ci accompagna lungo le linee di faglia di un percorso le cui fratture risultano essere altrettanto significative quanto l’apparente unità della sua eredità storica e sociale.

Quello che chi scrive non esiterebbe a definire come un romanzo-saggio, vista la passione e l’impegno compresi nel narrare elementi di storia che poco a poco [...]]]> di Sandro Moiso

Saidiya Hartman, Perdi la madre, Tamu Edizioni, Napoli 2021, pp. 332, 18 euro

«Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi» recitano sia la copertina che il frontespizio del testo di Saidiya Hartman edito da Tamu, ma andrebbe aggiunto che involontariamente lo stesso libro ci accompagna lungo le linee di faglia di un percorso le cui fratture risultano essere altrettanto significative quanto l’apparente unità della sua eredità storica e sociale.

Quello che chi scrive non esiterebbe a definire come un romanzo-saggio, vista la passione e l’impegno compresi nel narrare elementi di storia che poco a poco sembrano fondersi con la vita e le memorie personali dell’autrice, costituisce infatti una sorta di viaggio lungo quella linea del colore che fin dall’epoca coloniale sembrerebbe aver costituito l’unico momento, per quanto doloroso, di unione tra coloro che dall’Africa furono deportati verso le Americhe e i loro discendenti.

Saidiya Hartman, che i lettori di Carmilla hanno avuto modo di incontrare già in occasione di due precedenti recensioni dei suoi libri (qui e qui ), per prima ha cercato di descrivere la “vita della schiavitù dopo la sua morte” ovvero la sopravvivenza di una separazione razziale insuperabile all’interno degli Stati Uniti, e forse dell’intero mondo occidentale bianco, che costituisce di fatto la base dei Black Studies più recenti basati spesso su quello che Kevin Ochieng Okoth ha definito come African Pessimism 2.01. Sempre secondo Okoth, però, a differenza di altri teorici dell’AP 2.0:

Per Hartman, l’abolizione formale della schiavitù negli Stati Uniti non ha prodotto una reale discontinuità nella violenza razziale. Troviamo oggi i segni di tale violenza nelle “ridotte chance di vita, nel limitato accesso alla salute e all’educazione, nelle morti premature, nelle incarcerazioni e nell’impoverimento” della gente nera. L’abolizione formale e la Ricostruzione non hanno portato all’emancipazione. Questi eventi sono piuttosto serviti come tappe della “transizione fra modi di servitù e subordinazione razziale”. Mettendo in primo piano il violento processo di subordinazione razziale, Hartman vuole mostrare che la violenza della schiavitù non è limitata alla “costruzione dello schiavo come oggetto”; infatti l’umanità dei soggetti resi schiavi era fondamentale per il progetto di subordinazione razziale. I neri, perciò, non sono oggetti subumani[…], bensì soggetti razzializzati che sono assolutamente parte della sfera sociale e politica.
Diversamente dall’AP 2.0 Hartman enfatizza la capacità di resistere della gente nera. In Vite ribelli, bellissimi esperimenti (2019) impiega il metodo della “affabulazione critica” per svelare le storie delle giovani donne nere e delle persone di genere non tradizionale negli Stati Uniti a cavallo del ventesimo secolo. In città come New York e Filadelfia, queste donne, a poche generazioni di distanza dalla schiavitù, erano sottoposte a nuove forme di razzializzazione e di asservimento e oppressione di genere. Hartman argomenta che queste donne nere erano impegnate in “piccole” rivoluzioni “per costruire vite autonome e bellissime, sottrarsi alle nuove forme di asservimento che le attendevano, e vivere come se fossero libere”. Hartman crea una contro-narrazione rispetto ai documenti ufficiali, nei quali troviamo silenzio o rimozione quando cerchiamo prove di queste vite ribelli. In una breve annotazione teorica, ci ricorda che il termine “ribelle” fa parte di una famiglia di parole che include “errante, fuggitivo, recalcitrante, anarchico, ostinato, spericolato, fastidioso, riottoso, tumultuoso, ribelle e selvaggio”. Il suo progetto appartiene alla tradizione dell’anarchismo americano (“anche se non ha letto God and the State o What is Property? oppure The Conquest of Bread, il pericolo che lei e altri come lei rappresentano è grande al pari di… Emma Goldman e Alexander Berkman”), tradizione alla quale non è però mai riducibile. Si tratta piuttosto di una pratica radicale nera che non può essere ricondotta ad altre ideologie politiche2.

In Perdi la madre l’autrice, per ricostruire il passato della sua famiglia e dei suoi antenati e degli schiavi prelevati a forza per secoli dal continente africano, segue le tracce di una linea del colore che fu definita da William Edward Burghardt Du Bois3 fin dagli inizi del XX secolo, in occasione del Congresso panafricano che si tenne a Londra nel luglio del 1900 e da lui stesso presieduto. Occasione in cui i leader dei movimenti panafricani che in tale contesto ebbero modo di incontrarsi avevano ben chiara la rilevanza strategica che avevano e avrebbero avuto per il mondo il colore della pelle, la qualità del rapporto fra gli Stati seguiti alla Rivoluzione Francese e i popoli di colore.

Una linea che è servita adeguatamente a dividere i bianchi dai “neri”, ma soprattutto un proletariato mai definitivamente formato, sia che si trattasse di quello delle origini della rivoluzione industriale che di quello americano degli ultimi due secoli oppure che si tratti di quello attuale, ancora sempre in via di definizione a causa di migrazioni, crisi, guerre e, come al solito, miseria diffusa, anche se non sempre equamente tra i poveri e i lavoratori dei diversi continenti. Sì, poiché il modo di produzione attuale, in base alla ripartizione coloniale e imperialistica del mondo, riesce comunque a ripartire diversamente non solo la ricchezza, ma anche la povertà, garantendo livelli diversi di consumo e accesso ai beni e ai servizi dello Stato.

Una ricostruzione della linea di discendenza famigliare, dalle origini africane alla sistemazione negli States, che porta Saidiya ad incrociare il cammino di Du Bois anche sul terreno dell’Africa, in quel Ghana dove lo studioso e politico afroamericano era morto nel 1963 ad Accra, la capitale, e dove era stato naturalizzato come cittadino ghanese proprio in quell’anno da Francis Nwia-Kofi Ngonloma (1909 – 1972), meglio noto come Kwame Nkrumah (scritto anche Kwame N’Krumah) e talvolta indicato con lo pseudonimo di Osagyefo, “il redentore” per il ruolo rivoluzionario svolto a favore dell’Africa e in particolare del Ghana, diventato definitivamente indipendente nel 1960. Un fatto che aveva fatto sì che, come documenta il testo della Hartman, dopo l’indipendenza formale raggiunta nel 1957 il Ghana potesse rappresentare un faro di libertà per il movimento dei diritti civili e Nkruma fosse idealizzato come il liberatore di tutti i popoli neri.

Non solo i neri americani si identificarono con la lotta anticoloniale, ma credevano che il loro stesso futuro dipendesse dalla vittoria di quella lotta. Un articolo pubblicato sul «Chicago Defender» nel febbraio del 1957 dichiarava: «Un giorno i neri del Ghana potranno presentarsi davanti all’Onu e perorare la causa dei Neri americani ed essere gli artefici della conquista della completa uguaglianza… Il popolo libero del Ghana potrà liberare i suoi fratelli in America dall’ultima delle catene». [Così] Durante gli anni ‘50 e ‘60, gli africani americani accorsero in Ghana in gran numero4.

Un sogno di libertà e realizzazione individuale e collettiva che, però, ai tempi del viaggio di Saidiya alla ricerca delle origini, mostrava già tutte le crepe della disillusione e, soprattutto, dell’incomprensione tra ghanesi e afro o obruni, come venivano definiti coloro che erano arrivati dagli Stati Uniti nei decenni precedenti. Una distanza che la Hartman avverte subito appena arrivata ad Elmina, una città del Ghana meridionale che è anche il più antico insediamento europeo in Africa occidentale dopo Cidade Velha.

Appena scesi dal bus a Elmina, lo sentii. Risuonò nell’aria tagliente e chiaro, e mi sferragliò nelle orecchie facendomi ritrarre. Obruni, Straniera. Una forestiera d’oltreoceano […] Mentre le parole si facevano strada tra la folla per raggiungermi, immaginai me stessa ai loro occhi […] Il mio aspetto lo confermava: ero la tipica straniera. Chi altro indossava vinile ai tropici? I miei costumi appartenevano a un altro paese […] Mondi vecchi e nuovi marcavano il mio viso, una miscela di popoli e nazioni e padroni e schiavi da molto tempo dimenticati nella confusione dei miei tratti, nessuna linea d’origine certa poteva essere tracciata. Era chiaro che non fossi una fanti, una asante, una ewe o una ga. […] Un viso nero non mi rendeva una di loro. Anche quando passavo inosservata, venivo tradita dalla parlata di Brooklyn di mio padre che increspava la mia pronuncia impostata appena aprivo bocca […] Il mio modo diretto di parlare suonava spigoloso e asciutto se paragonato alla discreta evasività e alla cortese opacità dell’inglese locale […] Ero la straniera del villaggio, un seme errante privato della possibilità di mettere radici […] Tutti evitavano la parola “schiava”, ma ognuno di noi sapeva chi fosse chi. In qualità di “figlia di schiava” rappresentavo ciò che la maggior parte della gente aveva scelto di rifuggire: la catastrofe che era il nostro passato, le vite scambiate per stoffa indiana, perle veneziane, conchiglie di ciprea5, armi e rum. Rappresentavo ciò di cui era proibito discutere: la questione delle origini6.

Non fa sconti a se stessa e a nessun altro l’autrice che, come afferma Barbara Ofosu-Somuah nella presentazione dell’edizione italiana del libro:

Fin dalle prime pagine di Perdi la madre, Saidiya Hartman chiarisce che «se la schiavitù rimane una questione aperta nella vita politica dell’America nera, non è a causa di un’ossessione antiquaria per i giorni andati o per il peso di una memoria troppo duratura, ma perché le vite nere vengono ancora svalutate e messe a repentaglio da un calcolo razziale e da un’aritmetica politica consolidatisi secoli fa». La schiavitù e i suoi lasciti, ovvero il mondo creato da schiavitù e colonialismo, fanno ancora oggi parte del vissuto delle persone della diaspora nera7.

Ma, come si affermava poc’anzi, fa anche i conti con una distanza inaspettata tra coloro che nella blackness dovrebbero, o avrebbero dovuto, riconoscersi nonostante le differenze di nazionalità e classe.

Nkrumah credeva che l’indipendenza del Ghana non significasse nulla se tutti gli africani non fossero stati liberi. Gli emigrati neri condividevano quel sogno. Arrivarono dagli Stati Uniti, dai Caraibi, dal Brasile, dal Regno Unito e da altri paesi africani ancora impegnati nella lotta contro il colonialismo e l’apartheid […] Malcom X visitò il Ghana e vi tenne conferenze nel tentativo di costruire l’Organizzazione dell’unità afroamericana. Frantz Fanon scrisse larga parte dei Dannati della terra mentre si trovava in Ghana […] Con tutta l’arroganza e l’ardore della giovinezza, un gruppetto si autonominò i Reduci Rivoluzionari. I ghanesi li chiamavano gli afro, diminutivo per africani americani. Arrivarono con […] un «terribile desiderio di essere accettati», per condividere il loro destino con quello dei ghanesi e intraprendere il duro lavoro di costruzione della nazione8.

Ma come afferma subito l’intellettuale afroamericana, dopo esser giunta lì diversi decenni dopo, «la mia non era l’epoca del romanticismo. L’Eden del Ghana era svanito molto tempo prima del mio arrivo.» Un Eden che era sparito con la crisi della figura dello stesso Nkrumah che aveva avviato meccanismi sempre più autoritari di governo, non sempre compresi dalla popolazione, che avevano portato ad una sua destituzione da parte dell’esercito nel 1966. Un fatto politico “concreto” che fece sì che molti di coloro che erano giunti in Ghana carichi di speranze e sogni panafricani rimanessero al loro posto subendo, però, nel tempo una sorta di allontanamento dalla popolazione locale.

Dopo aver appreso la notizia che Nkrumah era stato rovesciato, gli africani americani piangevano mentre i ghanesi esultavano e danzavano nelle strade. Gli émigrés non si facevano illusioni circa il loro stato, come spiega Leslie Lacy: «Ci tolleravano perché dovevano sopportare Nkrumah, e se avessero potuto ucciderlo alle otto in punto, alle otto e trenta il nostro destino sarebbe stato il suo». I ghanesi erano risentiti con gli afro perché questi occupavano delle posizioni che spettavano loro di diritto, godevano di alta considerazione e influenza presso il presidente, e avevano la presunzione di sapere cosa fosse meglio per l’Africa. Molti africani americani fuggirono volontariamente, alcuni di loro furono deportati9.

Altri rimasero e sono quelli che l’autrice incontra nel corso del suo viaggio e che gli permettono di narrare una storia quasi altrettanto dolorosa di quella degli schiavi deportati dopo essere stati traditi e venduti dai re locali e detenuti in condizioni orribili nei forti costruiti dai portoghesi e dagli olandesi lungo le coste dell’Atlantico. Una storia anche di neri bianchi intesi come ricchi dai residenti africani che guardano alle loro residenze in città come Elmina con un certo fastidio.

Uno sguardo alle lussuose case che torreggiavano sulla costa, sovrastate soltanto dal castello di Elmina, forniva tutte le evidenze necessarie. Le maestose residenze bianche dei discendenti degli schiavi alimentavano l’invidia, come anche il sospetto che la schiavitù non fosse poi stata così male, vista la ricchezza che gli africani americani chiaramente possedevano. Tutti concordavano che essi fossero arrivati troppo tardi per cambiare qualcosa, e provavano soddisfazione nel vedere sconfitti i desideri dei benestanti […] Altri li deridevano, affermando che i nouveaux riches ostentavano ogni minima loro ricchezza perché avevano il disperato bisogno di mostrare di essere gente che conta. Quelli che erano arrivati troppo tardi, non potendo sbarazzarsi di questa etichetta la accettarono con riluttanza […] non sfoggiavano la loro ricchezza,e non erano neppure ricchi, ma era impossibile non notare la disparità tra il loro stile di vita e quello della maggior parte dgli abitanti di Elmina […] Le elganti abitazioni allineate lungo la costa mi ricordavano le ampie dimore costruite in Liberia dagli ex-schiavi provenienti dalla Carolina del Sud e del Nord e dal Mississippi, che riproducevano quel mondo da cui erano migrati con l’eccezione che ora erano loro i nuovi padroni.
Le case dei ricchi erano anche un promemoria dolceamaro della libertà di cui non avrebbero mai goduto in America. Queste case annunciavano al resto di Elmina che i ricchi erano sbarcati, e che si trattava di neri uomini bianchi. Ogni mattone, ogni pilastro, testimoniava l’impossibilità di un ritorno e l’imprudenza di credere nelle origini, di provare a recuperarle. Costruite all’ombra del castello, a mo’ di provocazione – laddove una volta venivamo marchiati e venduti, ora prosperiamo – queste proprietà erano il frutto di una battaglia ancora in atto tra le razze creditrici e debitrici, predatori e prede, mercanti e schiavi10.

Se si è scelto, all’interno di una recensione che intende essere problematizzante, di soffermare maggiormente l’attenzione sulle vicende di coloro che, lasciandosi alle spalle gli Stati Uniti e credendo nel panafricanismo, avevano raggiunto il continente africano inseguendo un sogno di libertà e giustizia, è soltanto perché quel sogno portava con sé un mito. Lo stesso che insegue, in fin dei conti, anche l’autrice: quello del ritorno, impossibile, alle origini.

Origini talmente crudeli e devastanti da aver cancellato la possibilità di liberare i neri, africani e americani, inseguendo soltanto l’unicità e l’unità rappresentata dalla blackness o da una linea del colore capovolta. Come forse avrebbe voluto lo stesso Du Bois quando propose la formazione di uno stato afroamericano all’interno degli Stati Uniti11. Origini nazionali e culturali che, però, il proletariato non può permettersi di avere una volta formatosi come tale perché, in quanto tale, «non ha più nazione» e, tanto meno, può accettare di razzializzarsi, ovvero interiorizzare una razzializzazione imposta dall’alto secondo le ideologie nazionaliste, razziste o religiose.

Un sogno, quello abbozzato prima, che, sostituendo invece la razza o il colore della pelle alle classi in lotta tra di loro, indipendentemente dalle linee del colore utilizzate per avvantaggiarne soltanto alcune, è fallito ormai da tempo. Nonostante gli sforzi della borghesia bianca e nera di utilizzarlo contro la lotta di classe, al di qua e al di là dell’Atlantico.

Soprattutto dopo che un afroamericano ha raggiunto la carica più alta dello stato americano per ben due mandati, senza nulla poter o voler cambiare sia sul piano dei rapporti politico-economici che razziali, l’immagine dei neri uomini bianchi ricchi arrivati comunque troppo tardi richiamata dalle parole della Hartman sembra essere pienamente confermata, insieme alla negazione della speranza in quegli “uomini eccezionali” che secondo Du Bois avrebbero dovuto e potuto salvare “la razza Negra”12.

Rivelando così come il libro della Hartman sia allo stesso tempo doloroso e indispensabile, la cui lettura attenta e la riflessione che è destinata ad accompagnarla in ogni caso rimane indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi ai problemi e alle difficoltà connesse ai processi di liberazione di un’umanità divisa al suo interno lungo linee di ordine nazionalistico, razziale, religioso e cultural prestabilite, fino ad ora, dall’utopia capitale. Che proprio dall’Africa e dal commercio degli schiavi prese l’avvio per la sua affermazione e il suo dominio su scala planetaria.


  1. K. O. Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 36 -51. 

  2. K. O. Okoth, op. cit., pp. 42-44.  

  3. Nato nel 1863 nel New England, Du Bois fu il primo afroamericano a prendere il dottorato a Harvard (studiando con William James), si perfezionò a Berlino con Max Weber (e al ritorno fondò la sociologia moderna negli Stati Uniti), creò la National Association for the Advancement of Colored People, promosse i congressi panafricani che preparano le indipendenze africane, morì nel 1960 ad Accra, capitale di un Ghana appena diventato indipendente, dopo essersi iscritto, a novant’anni, al partito comunista. 

  4. S. Hartman, Perdi la madre, Tamu Edizioni, Napoli 2021, p. 53.  

  5. Si veda in proposito: T. Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Giulio Einaudi editore, Torino 2021.  

  6. S. Hartman, op. cit., pp. 17-18.  

  7. B. Ofosu-Somuah in S. Harman, op. cit., p. 7.  

  8. S. Hartman, op. cit., pp. 55-56.  

  9. Ivi, p. 57.  

  10. Ibidem, pp.130-131.  

  11. Si vedano gli scritti dello stesso contenuti in W.E. B. Du Bois, Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, a cura e con un’introduzione di Sandro Mezzadra, Bologna, Il Mulino, 2010.  

  12. W.E.B. Du Bois, The Talented Tenth (1903) ora in W.E.B. Du Bois, op. cit., con il titolo Il decimo con talento, pp. 155-177.  

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La rivoluzione come una bella avventura / 3: Ragazze selvagge https://www.carmillaonline.com/2024/12/18/la-rivoluzione-come-una-bella-avventura-3-ragazze-selvagge/ Wed, 18 Dec 2024 21:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85830 di Sandro Moiso

Saidiya Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 476, 20 euro.

Anche se la prima volitiva e combattiva eroina della letteratura occidentale moderna è da rintracciare nella figura di Clorinda, la guerriera saracena, che, racchiusa in una corazza che ne nasconde le sembianze, anima il feroce ed erotico duello con il cavaliere cristiano Tancredi, nel XII canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è vero che, ancora una volta, fu Emilio Salgari a riempire i suoi romanzi d’avventura con figure di donne dì eccezione, coraggiose, intrepide, affascinanti e, talvolta, crudeli.

Che si tratti [...]]]> di Sandro Moiso

Saidiya Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, pp. 476, 20 euro.

Anche se la prima volitiva e combattiva eroina della letteratura occidentale moderna è da rintracciare nella figura di Clorinda, la guerriera saracena, che, racchiusa in una corazza che ne nasconde le sembianze, anima il feroce ed erotico duello con il cavaliere cristiano Tancredi, nel XII canto della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è vero che, ancora una volta, fu Emilio Salgari a riempire i suoi romanzi d’avventura con figure di donne dì eccezione, coraggiose, intrepide, affascinanti e, talvolta, crudeli.

Che si tratti della Perla di Labuan, ovvero Lady Marianna Guillonk, dei romanzi del ciclo della Malesia, o di Donna Dolores, marchesa del Castillo, che si batte contro l’imperialismo yankee nei due romanzi dedicati alla guerra ispano-americana a Cuba e nelle Filippine del 1898; oppure di Yalla, moglie di Nuvola Rossa, e di sua figlia Minnehaha, la Scotennatrice, che si battono per il popolo Sioux contro l’invasione bianca del West americano o, ancora, di Maria Federowna che organizza la fuga del fratello dagli orrori della prigionia in Siberia cui era stato condannato come ribelle polacco; di Jolamda la figlia del Corsaro nero o di Honorata, la Regina dei Caraibi, nel ciclo dei corsari e dei pirati delle Antille, e, per finire, di Capitan Tempesta ovvero della bellissima Eleonora, duchessa d’Eboli, che, ispirata direttamente alla figura della Clorinda inventata dal Tasso, anima le pagine dei romanzi dedicati allo scontro tra mussulmani e imperi cristiani nel Mare Mediterraneo, sempre l’autore più celebre dei romanzi di avventura ci mette al cospetto di donne giovani, belle, dallo spirito ardente e fiero, incapaci di sottomettersi alla volontà di avversari più potenti o di uomini forti più per ricchezza che per coraggio proprio.

Molto prima delle eroine dei film di George Lucas o di Tarantino e di quelle che hanno in seguito animato mille pellicole avventurose, dagli ultimi film del ciclo di Mad Max a Rebel Moon e altri ancora, sono esistite donne, giovani, belle e coraggiose che, pur non essendo né nobili né ricche o di discendenza illustre, hanno davvero messo a soqquadro la società bianca e borghese americana a cavallo tra XIX e XX secolo. Certo, non allo stesso modo delle militanti della Comune di Parigi come Louise Michel oppure come Clara Zetkin e le altre donne terroriste russe del periodo precedente la Rivoluzione russa o, ancora, le giovani operaie di San Pietroburgo che l’avevano avviata nel febbraio del 1917, ma abbastanza decise e selvagge da mettere in allarme una società che dell’oppressione di genere, “razza” e classe aveva fatto, e fa tutt’ora, il suo tratto distintivo.
Ed è proprio di queste donne e delle loro vite ribelli e “bellissime” che ci parla la scrittrice e accademica newyorchese Saidiya Hartman, nel testo pubblicato da minimum fax: Vite ribelli, bellissimi esperimenti.

La studiosa, che è nata nel 1961 ed insegna alla Columbia University, si occupa di storia culturale, fotografia e filosofia etica e durante l’intera sua carriera si è concentrata sulla cultura afroamericana e sulle intersezioni tra diritto e letteratura. Oltre che di quest’opera, pubblicata in lingua originale nel 2019 con il titolo Wayward Lives, Beautiful Experiments. Intimate Histories of Social Upheaval, è stata autrice di Perdi la madre, pubblicata in Italia da Tamu nel 2021 (qui) e di Scenes of Subjection: Terror, Slavery, and Self-Making in Nineteenth-Century America. Tra i molti riconoscimenti, ha ricevuto una borsa di studio Fulbright, una Guggenheim Fellowship nel 2018, una MacArthur Fellowship nel 2019. Nel 2022 è entrata a far parte dell’American Academy of Arts and Sciences.

Puoi trovarla nel gruppetto di attraenti teppisti e ragazze troppo sveglie che si radunano all’angolo della strada e canticchiano l’ultimo ragtime, o mentre se ne sta di fronte a Wanamaker e fissa bramosa un bel paio di scarpe esposte in vetrina come fossero gioielli. Guardala nel vicolo mentre si passa un boccale di birra con le amiche, bella e sfacciata, col suo vestito preso in saldo e i nastrini di seta; ammirala mentre si sporge dalla finestra di un palazzo, gustandosi lo spettacolo del quartiere e sfidando la forza di gravità. Imbocca una qualsiasi delle strade che attraversano la città tentacolare e la incontrerai mentre se ne va girovagando. I forestieri chiamano «slum» le strade e i vicoli che formano il suo mondo. Per lei è semplicemente il posto in cui vive.1.

E’ questo l’incipit di un libro di storia sociale che si legge, davvero, come un romanzo. E’ questa figura senza nome e senza identità ufficiale, che riassume in sé tutte le figure di donne che verranno nelle successive 450 pagine. Più che un’introduzione, La terribile bellezza dello slum, il primo capitolo del testo della Hartman, che inaugura anche il primo libro, Lei, il suo cammino errante attraverso la città, pare un trailer cinematografico tanta è la forza visiva con cui l’autrice ci porta nel mondo che intende narrare e ricostruire.

Cosa significa, infatti, desiderare una vita bella quando la sopravvivenza stessa non può essere data per scontata? Come si fa a immaginare la libertà quando si è costrette a sottostare alle regole dell’esclusione? Due o tre generazioni dopo la fine della schiavitù, le giovani donne nere scoprivano la città e le sue promesse e rifiutavano i ruoli angusti che la società aveva loro assegnato. Prima degli scrittori, prima dei predicatori e degli studiosi di questioni razziali, le ragazze nere si interrogavano sul senso profondo della libertà e scoprivano che era possibile portare avanti una vera e propria rivoluzione agendo sull’unica dimensione di cui potevano avere almeno il parziale controllo, quella della loro vita individuale.

In fin dei conti non è forse questo il motore di ogni avventura e di ogni ribellione? Contro l’ingiustizia; contro la miseria, esistenziale ancor più che economica; contro la norma abitudinaria, creata dagli oppressori ma interiorizzata dagli oppressi. E non è forse, in tante avventure, la gioventù a rivoltarsi contro, non la vecchiaia, ma contro un mondo vecchio, nelle sue forme e nelle sue leggi?

Per descrivere il mondo attraverso gli occhi delle donne nere, giovani e ardimentose, Saidiya Hartman parte dagli archivi – fascicoli della polizia, articoli, album di famiglia, resoconti dei sociologi – da cui trae l’ossatura delle vicende che racconta. Soprattutto dalle fotografie d’epoca e d’archivio di cui, fin dalle prime righe, trasmette al lettore la grande forza documentaristica ed evocativa. Fotografie, come quella di Ada Overton Walker usata per la copertina che pare riassumere in sé, in un unico scatto del 1917, tutta la bellezza e l’orgoglio contenuti nelle storie narrate.

Vite ribelli, bellissimi esperimenti racconta storie di amore liberissimo, di madri «single» ma tutt’altro che sole, di lavori umilianti rifiutati e di affetti nati dentro le stanze di un carcere femminile. Riportare alla luce ciò che è stato cancellato o rimosso, dare la parola al silenzio: questo è il lavoro straordinario che Hartman svolge con rigore e partecipazione, incrociando le storie di queste donne disobbedienti a quelle di personaggi e vicende più noti, ma lasciando che sia sempre «il coro» ad occupare il centro della scena.

Differenziandosi da tanto accademismo afro-americano, ma non solo, che ha dato della condizione nera una formulazione che di fatto la assolutizza, privandola di qualsiasi possibilità e capacità di rottura con l’esistente:

Saidiya Hartman enfatizza la capacità di resistere della gente nera. In Vite ribelli, bellissimi esperimenti impiega il metodo della “affabulazione critica” per svelare le storie delle giovani donne nere e delle persone di genere non tradizionale negli Stati Uniti a cavallo del ventesimo secolo. In città come New York e Filadelfia, queste donne, a poche generazioni di distanza dalla schiavitù, erano sottoposte a nuove forme di razzializzazione e di asservimento e oppressione di genere. Hartman argomenta che queste donne nere erano impegnate in “piccole” rivoluzioni “per costruire vite autonome e bellissime, sottrarsi alle nuove forme di asservimento che le attendevano, e vivere come se fossero libere”. Hartman crea una contro-narrazione rispetto ai documenti ufficiali, nei quali troviamo silenzio o rimozione quando cerchiamo prove di queste vite ribelli. In una breve annotazione teorica, ci ricorda che il termine “ribelle” fa parte di una famiglia di parole che include “errante, fuggitivo, recalcitrante, anarchico, ostinato, spericolato, fastidioso, riottoso, tumultuoso, ribelle e selvaggio”2.

Per la Hartman, sempre secondo Okoth:

l’abolizione formale della schiavitù negli Stati Uniti non ha prodotto una reale discontinuità nella violenza razziale. Troviamo oggi i segni di tale violenza nelle “ridotte chance di vita, nel limitato accesso alla salute e all’educazione, nelle morti premature, nelle incarcerazioni e nell’impoverimento” della gente nera. L’abolizione formale e la Ricostruzione non hanno portato all’emancipazione. Questi eventi sono piuttosto serviti come tappe della “transizione fra modi di servitù e subordinazione razziale”. Mettendo in primo piano il violento processo di subordinazione razziale, Hartman vuole mostrare che la violenza della schiavitù non è limitata alla “costruzione dello schiavo come oggetto”; infatti l’umanità dei soggetti resi schiavi era fondamentale per il progetto di subordinazione razziale. I neri, perciò, non sono oggetti subumani, come affermano Wilderson, Sexton e Warren3, bensì soggetti razzializzati che sono assolutamente parte della sfera sociale e politica4.

Il documento fotografico, come si è già detto prima, è importantissimo all’interno di una ricerca in cui l’enfatizzazione e la comprensione dell’ambiente urbano di provenienza dei soggetti analizzati, ovvero delle giovani donne afro-americane povere del periodo compreso tra la grande migrazione a Nord e il Rinascimento di Harlem cui avrebbe posto fine la grande crisi economica a cavallo tra anni Venti e Trenta, svolge un ruolo chiave.

Non capiteresti mai nel suo isolato a meno che tu non ci abiti, o ti sia perso, o non te ne vada in giro in cerca dei piaceri forniti dall’altra metà del mondo. I voyeur nelle loro spedizioni nei bassifondi si nutrono della linfa del ghetto, la desiderano e al tempo stesso la disprezzano. I sociologi e i benefattori con le loro fotocamere e i loro studi non sono tanto meglio, intenti a osservare tutti quegli strani esemplari. Il suo distretto è un labirinto di vicoli sporchi e cortili malconci. È Africa Town, il quartiere nero, la zona dei nativi. Italiani ed ebrei, fagocitati per prossimità, scompaiono. Celato dietro la facciata della metropoli ordinata, c’è un intero mondo: gli edifici non ancora fatiscenti e le case dignitose che affacciano sulla strada nascondono i caseggiati del vicolo in cui vive. Imboccando il passaggio laterale che porta al vicolo, si varca la soglia di un mondo turbolento e rumoroso, un luogo definito dal tumulto, dal volgare collettivismo e dall’anarchia. È una fogna umana popolata dai peggiori elementi. È il regno dell’eccesso e dell’esagerazione. È un luogo di dannazione. È la piantagione estesa alla città. È un laboratorio sociale. Il ghetto è uno spazio di incontro. […] una comunità urbana in cui i poveri si riuniscono, improvvisano forme di vita, sperimentano la libertà e rifiutano quell’esistenza servile che gli è stata ascritta. È una zona di estrema privazione e di spreco scandaloso. Nei caseggiati popolari gli onesti convivono serenamente con i dissoluti e gli immorali. Il quartiere nero è un luogo privato di ogni bellezza e stravagante nel suo modo di sfoggiarla. […] Nello slum scarseggia tutto tranne le sensazioni. L’esperienza è troppa. La terribile bellezza è più di quanta si potrebbe mai sperare di assimilare, ordinare e spiegare. I riformatori sociali scattano foto agli edifici, alle kitchenette5, ai fili stendibiancheria e alle latrine. Lei passa inosservata mentre li scruta dalla finestra del terzo piano della casa nel vicolo in cui vive, ridendo della loro stupidità. […] Si chiede cosa li affascini tanto nei fili stendibiancheria e nelle latrine. Fotografano sempre la stessa roba. Le mutande dei ricchi sono tanto meglio di queste? Il cotone è così diverso dalla seta ed è esteticamente meno bello drappeggiato come uno striscione da una parte all’altra della strada? I forestieri e gli «uplifter»6 non capiscono, non colgono il punto. Vedono solo un tipico vicolo del quartiere nero, ciechi agli scambi di sguardi e ai morsi del desiderio che sconvolgerebbero le loro didascalie lasciando intravedere la possibilità di una vita che va oltre la povertà, un tumulto e uno sconvolgimento che non possono essere arrestati dalla fotocamera. Non riescono a discernere la bellezza e vedono soltanto il disordine, non si rendono conto che la gente nera crea la vita e trasforma i bisogni basilari in un’arena di elaborazione.[…] I giornalisti sbottano sulle pagine dell’Harper’s Weekly: «Oltre agli ebrei, nei caseggiati, tra scene di indescrivibile squallore e abiti pacchiani, ci vivono i neri, facendo una vita spensierata tra piaceri mondani, confusione, musica, rumore e lotte feroci che li rendono spaventosi sia per i vicini bianchi che per i proprietari di casa». Indignati alla vista di domestiche, inservienti e stivatori in abiti eleganti, di ragazzi dell’ascensore con copricapo stravaganti che si pavoneggiano all’angolo della strada, di neri esteti felici di buttar via soldi in lussi, ornamenti e luccichii, i sociologi li esortano a imparare il valore del denaro dai vicini italiani ed ebrei. I neri devono abbandonare il lassismo, l’indulgenza sessuale e gli eccessi sfrenati, usanze tipiche degli schiavi. Il passato-presente di servitù involontaria si manifesta per le strade, e la famiglia, completamente distrutta dalle navi schiaviste e dalla promiscuità delle piantagioni, viene ora distrutta di nuovo, sfasciata perché accoglie estranei. I sensi sono iperstimolati e sopraffatti. Guarda e lascia che gli occhi riescano a cogliere tutto: quegli splendidi teppisti nel cortile, in riga come sentinelle; la smodata esposizione di splendide fioriere sistemate sul davanzale di un caseggiato, le lenzuola, i fazzoletti con le iniziali ricamate, le calze di seta ricamate, l’intimo di una prostituta appeso al filo sul vicolo, quasi a sfoggiare rapporti clandestini, vite ribelli, faccende carnali. Donne con pacchetti legati con lo spago sfuggono come ombre. La luce violenta alle loro spalle le trasforma in silhouette; forme scure e astratte prendono il posto di chi sono davvero7.

Per scoprire il meraviglioso segreto e le vicende racchiuse nelle oltre quaranta biografie contenute nel testo non resta ora altro, per il lettore, che sprofondarsi nella sua lettura, per esserne affascinato e stimolato come avviene con tutti i migliori romanzi di avventura.


  1. S. Hartman, Vite ribelli, bellissimi esperimenti, Edizioni minimum fax, Roma 2024, p. 19.  

  2. Kevin Ochieng Okoth, Red Africa. Questione coloniale e politiche rivoluzionarie, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 43-44.  

  3. Autori e ricercatori accademici appartenenti alla corrente definita da Okoth come Afro-Pessimismo 2.0. Si veda la recensione del testo di Okoth su Carmilla qui  

  4. Kevin Ochieng Okoth, op. cit., pp. 42-4.  

  5. Minuscoli appartamenti diffusi, a partire dagli anni Venti, soprattutto nei quartieri abitati dalla comunità afroamericana di Chicago e New York, ottenuti suddividendo abitazioni più grandi per massimizzare il profitto.  

  6. Persone che si dedicavano alla cosiddetta «elevazione della razza», ossia al miglioramento sociale, culturale, intellettuale e morale delle persone nere.  

  7. S. Hartman, op. cit., pp. 19-23.  

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Il viaggio nella memoria della schiavitù https://www.carmillaonline.com/2021/07/28/il-viaggio-nella-memoria-della-schiavitu/ Wed, 28 Jul 2021 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67272 di Francesco Festa

Saidiya Hartman, Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi, trad. Valeria Gennari, Tamu Edizioni, Napoli, 2021, pp. 332, € 18,00

Le parole sono pietre. E come pietre acquisiscono forza quando sono lanciate contro il velo che cela verità evidenti, oppure diventano ancor più potenti se scagliate contro le menzogne spacciate per narrazioni, o peggio, agiscono lapidariamente contro le verità da interdire e da seppellire nelle pieghe della storia. Anche se le parole, diverse eppure uguali, sono le stesse usate per sussurrare le cristalline e coraggiose verità, [...]]]> di Francesco Festa

Saidiya Hartman, Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi, trad. Valeria Gennari, Tamu Edizioni, Napoli, 2021, pp. 332, € 18,00

Le parole sono pietre. E come pietre acquisiscono forza quando sono lanciate contro il velo che cela verità evidenti, oppure diventano ancor più potenti se scagliate contro le menzogne spacciate per narrazioni, o peggio, agiscono lapidariamente contro le verità da interdire e da seppellire nelle pieghe della storia. Anche se le parole, diverse eppure uguali, sono le stesse usate per sussurrare le cristalline e coraggiose verità, per lasciare intendere nelle frasi sospese o per gridare a gran voce la verità che va sputata in faccia all’autorità, al potere e all’ordine del discorso borghese.

Il libro di Saidiya Hartman, Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi, traduzione di Valeria Gennari, edito in Italia da Tamu Edizioni – cui va immensa gratitudine per l’impegno profuso – è un esercizio di parresìa, un libro dai tratti straordinariamente potenti. Una messa a fuoco del diritto-dovere di parlare con franchezza, del bisogno di sputare in faccia la verità al potere, scarnificando le parole, e quelle d’amore e quelle di odio. È un andirivieni fra passato e presente nella vita di Saidiya Hartman, un movimento a ritroso lungo la tratta atlantica, sulla rotta delle “navi negriere”, dal Nord America verso il continente africano, tentando di dar voce alla diaspora dei dimenticati.

La struttura narrativa infatti si muove su registri di scrittura differenti. Autobiografia che emblematicamente s’inscrive nella cornice storica dell’Africa pre e post-coloniale. Le parole alternano toni aspri, spietati, alla tenerezza che riappare quando l’autrice ricorda il suo passato. Sono parole che ti entrano sotto pelle; trascinano il lettore in un passato sempiterno, nella memoria e nella identità dell’autrice, e che travolgono anche la nostra, di identità, quale cifra storica del continente africano e, all’oggi, dell’Occidente capitalistico.

La tratta degli schiavi incombeva su di me più di qualsiasi ricordo di un glorioso passato africano o di un senso di appartenenza al presente […] Non stavo cercando di scansare i fantasmi della schiavitù, ma di affrontarli. A quale scopo? Questa era l’unica domanda […] Ero nera, ed era stata una storia di terrore ad aver prodotto quell’identità. Il terrore era ‘una prigionia senza possibilità di fuga, violenza senza scampo, vita precaria (pp. 60-61).

Il viaggio di Saidiya Hartman incomincia con questo terrore: quello di un’identità e di una storia poste nel vicolo cieco della storia e di una posizione nella società inamovibile, sebbene l’inquilino della Casa Bianca fosse un figlio della diaspora. Ciò nonostante, da studentessa presso la biblioteca di Yale, va alla ricerca del proprio passato. Una curiosità vitale che la porta ad aprire l’archivio del “Black Atlantic”, da dove vien fuori quella che è la “doppia coscienza”, prendendo in prestito un concetto di Paul Gilroy, quella presente e quella da scacciare, obnubilare della diaspora nera. Il rompicapo che la assale è il riconsiderare la propria appartenenza, l’identità e la memoria, immergendosi sempre più nei documenti e nelle testimonianze degli schiavi dell’Alabama. Attenzione, però, s’incorrerebbe in errore se s’intendesse l’archivio come luogo neutro o addirittura immobile. L’archivio che interroga l’autrice è una raccolta antropologica che parla al presente: un assemblaggio di storie che non potrebbe mai chiudere le porte al passato, perché il presente continua a farle domande che eccedono la sua coscienza.

Le storie di mio padre sul razzismo erano poche. Ricordava di essere stato chiamato negro per la prima volta quando era arruolato nell’aeronautica militare […] ma non l’ho mai sentito pronunciare le parole ‘schiavo’ o ‘schiavitù’ […] Mi imbattei nella mia trisnonna materna durante la mia ricerca di tesi, all’interno di un volume di testimonianze sulla schiavitù in Alabama. Mi sentii entusiasta di averla scovata tra gli scaffali impolverati della biblioteca di Yale […] Quando le era stato chiesto cosa ricordasse della schiavitù, aveva risposto: ‘Proprio nulla’. Mi cadde il mondo addosso. Sapevo che non era vero. Riconoscevo l’esistenza di un mucchio di ragioni che spiegavano la riluttanza della mia trisavola a parlare di schiavitù […] il suo silenzio risvegliò i miei interrogativi sulla memoria e sulla schiavitù: cos’è che decidiamo di ricordare del passato e cos’è che siamo disposti a dimenticare? […] Ero determinata a riempire gli spazi vuoti delle fonti storiche e a rappresentare le vite di quelli ritenuti non degni di essere ricordat” (pp. 30-33)

La sua famiglia e i tanti africani non ricordano, le indicano di andare oltre, obliterando verità che nuocciono. L’assenza di memoria agisce come la sindrome descritta da Frantz Fanon per cui il colonizzato o il “negro” continua ossessivamente a porsi la domanda, e schizofrenicamente ad allontanarla, “Chi sono io in realtà?” È qui che si situa il “grande rimosso”, il non ricordo dei figli della diaspora. Che è, per dirla con Miguel Mellino, anche il grande rimosso della cultura e della filosofia storicista, dove Hegel rimuove dalla narrazione tutto ciò che potrebbe essere un processo di soggettivazione nera (ad esempio, l’insurrezione antischiavista dei neri in Haiti guidata da Toussaint Louverture), definendo “il presupposto politico del tutto in sintonia con l’immaginazione culturale europea sulla missione-condizione storica della borghesia dopo la Rivoluzione francese”, e a sostegno della colonizzazione e dell’inferiorizzazione degli schiavi. Il non ricordare, d’altronde, è la forma mentis del colonizzato, una sorta di “orientalismo” interno, che tiene a debita distanza, vuoi per paura vuoi per assoggettamento, l’invito di Dipesh Chakrabarty, a Provincializzare l’Europa, a liberarsi proprio del pensiero dell’imperialismo e della colonizzazione.

Con il fardello del disincanto, Hartman procede contro i suoi famigliari, ma senza condannarne la scelta, poiché ammette di essere “la reliquia di un’esperienza che i più hanno preferito non ricordare […] un promemoria del fatto che dodici milioni di persone attraversarono l’oceano Atlantico […] schiavizzati.” (p. 34).

Il viaggio a ritroso verso il Ghana (ex Costa d’Oro) ha come prima tappa Accra, dove l’autrice deve fare i conti con il senso di estraniamento, di diffidenza del popolo che la definisce una obruni (straniera) perché nera, ma pur sempre americana (“non importa quanto grandi siano gli occhi di uno straniero, essi non possono vedere”). Così, incomincia a sentire lontane le sue radici, non così facili da riconoscere, sente il peso di una storia africana senza passato, senza gloria, né identità.

Il viaggio va oltre: a centocinquanta chilometri, a Elmina, lungo le nove rotte che conducevano i prigionieri dall’entroterra al mare aperto. Come un segugio, Saidiya Hartman segue le tracce degli oppressi, stipati in magazzini o in città-fortezze e comunità costruite esclusivamente per produrre soggettività schiavizzate. Dal Cinquecento al Seicento, portoghesi, olandesi, inglesi, francesi, danesi, svedesi e brandeburghesi, eressero circa cinquanta avamposti e città permanentemente destinate al commercio di esseri umani. Ancora oggi, il Ghana è la regione con più prigioni e galere di schiavi di tutta l’Africa Occidentale.

Tutti quei terribili dettagli sulla tratta mi tuonavano in testa, e passai la giornata a combattere la nausea […] non riuscivo a liberarmi dalle atrocità commesse durante le guerre di cattura e le razzie di schiavi: anziani e infermi massacrati dall’esercito conquistatore, neonati le cui teste venivano sbattute contro gli alberi fino a ucciderli, donne incinte sventrate con una lancia, ragazze stuprate, giovani uomini sepolti in giganteschi formicai, gettati dentro pire e bruciati vivi. Né riuscivo a togliermi dalla testa ciò che gli storici avevano descritto come la scia di ossa scolorite che dalle zone dell’interno portavano al mare. E neppure a dimenticare le mogli disobbedienti vendute con il pretesto della stregoneria, i giovani attaccabrighe condannati alla schiavitù per essere dei piantagrane e la lista, sempre più lunga, di futili infrazioni punibili con la schiavitù che costarono la vita a molta gente comune (p. 48)

Eppure gli émigrés degli anni Sessanta, ritornati in Ghana per ricollegarsi ad un passato ricco e glorioso, ma che metteva ancora più in oblio la realtà storica della schiavitù, avevano creduto nel sogno di un’Africa unita, un sogno che l’autrice chiama Afrotopia.

Il mio arrivo in Ghana non era promettente. La mia non era l’epoca dei sogni ma del disincanto. Ero cresciuta nel periodo successivo all’indipendenza africana, ai diritti civili, alle lotte del Black Power e, come molti della mia generazione, ero pessimista rispetto al mio futuro, sia in patria che all’estero […] Il sogno apparteneva agli émigrés, il cui ‘orizzonte di speranza’ erano i detriti storici del mio presente. (p. 58).

Dopotutto, anche il sogno degli émigrés sfuma, come se non vi fosse via di fuga dal cortocircuito del passato presente dove la “pelle nera” funge da “maschera bianca.” Hartman afferma che con l’avvento del postcolonialismo, il panafricanismo va trasformandosi in nuove forme neocoloniali, perdendo vigore ideale, mentre il “socialismo africano” è andato appiattendosi sul business dei ricchi africani asserviti all’Occidente.

Il viaggio, però, non era perduto del tutto. Lungo la rotta atlantica, Hartman attraversa la città di Gwolu, dove si erano rifugiati quegli schiavi fuggitivi che erano riusciti a sottrarsi ai mercanti e agli agguati dei predoni

Erano fuggiti dai cacciatori di schiavi, dagli stati predatori, da siccità e terre stremate, e avevano desiderato di non volerne sapere più niente, in questa nicchia isolata della savana. Ognuno aveva un sogno diverso riguardo alle possibilità che si aprivano nel momento in cui non si doveva più pensare a guardarsi le spalle, rispondere al nome di ‘barbaro’, consegnare la propria figlia o nipote come tributo, dimenticare i propri antenati o abbandonare le proprie divinità. (276)

A Gwolu s’interrompe la colonizzazione e la “normalizzazione” del non ricordo o dell’essere subalterni e assoggettati. È come se qui il sistema di significazione viene interrotto da linee di fuga, laddove le linee segmentali che riducono il significato all’uno, al “negro” e allo schiavo, esplodono, mentre, come gazzelle, le donne e gli uomini liberi fuggono dalle fortezze coloniali:

finalmente al sicuro, ci siamo messi insieme, qui dove nessuno può più raggiungerci, il villaggio degli uomini liberi, qui parliamo di pace, un luogo di abbondanza, un rifugio […] i fuggitivi e gli esclusi di altri luoghi, la loro identità era definita tanto da ciò che si lasciavano alle spalle quanto da ciò verso cui correvano […] rifugiati, fuggitivi e vagabondi inondavano la savana. Sotto la spinta della fuga e della ribellione vennero creati nuovi popoli e nuove società furono costruite. (pp. 276-277)

In questi villaggi non è dispersa la memoria, non è persa la “madre Africa”. Anzi, tramite la fuga le donne e gli uomini liberi hanno cercato di ricostruire l’identità e riacciuffare la memoria, consci che obliterarne i tasselli della propria storia, non può che indebolire, provocando il riacutizzarsi di nuove forme di colonizzazione e nuove pratiche schiavistiche, non più in Africa, ma nel cuore dell’Occidente capitalistico. Occorre parlarne e squarciare il velo, sarà un modo, fra i tanti, per tessere una tela e generare organi di collegamento fra i nuovi dannati della terra, a patto che si nomini, ad alta voce, quello che sono le radici ed è l’attualità dell’accumulazione capitalistica, ossia la schiavitù.

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