Saddam Hussein – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gerusalemme ovvero come abbiamo perso la memoria https://www.carmillaonline.com/2017/03/30/gerusalemme-ovvero-perso-la-memoria/ Wed, 29 Mar 2017 22:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=37211 di Sandro Moiso

gerusalemme assediata Eric H. Cline, Gerusalemme assediata. Dall’antica Canaan allo Stato di Israele, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp.422, € 26,00

Karl Marx auspicava che un giorno storia dell’uomo e storia della natura finissero col coincidere, risolvendo così in positivo l’innaturale antagonismo tra specie umana e Natura stessa. Le continue rivelazioni che giungono dalle ricerche sull’origine dell’uomo o, perlomeno, della specie cui apparteniamo non fanno altro che confermare l’intuizione marxiana dimostrando, già ora, qui e adesso, che la maggior parte della nostra storia ha coinciso con quella naturale. Anche se, immancabilmente, per molti ricercatori e storici la sottile linea [...]]]> di Sandro Moiso

gerusalemme assediata Eric H. Cline, Gerusalemme assediata. Dall’antica Canaan allo Stato di Israele, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp.422, € 26,00

Karl Marx auspicava che un giorno storia dell’uomo e storia della natura finissero col coincidere, risolvendo così in positivo l’innaturale antagonismo tra specie umana e Natura stessa.
Le continue rivelazioni che giungono dalle ricerche sull’origine dell’uomo o, perlomeno, della specie cui apparteniamo non fanno altro che confermare l’intuizione marxiana dimostrando, già ora, qui e adesso, che la maggior parte della nostra storia ha coinciso con quella naturale. Anche se, immancabilmente, per molti ricercatori e storici la sottile linea di demarcazione costituita dall’esistenza, o meno, di una documentazione scritta continua a differenziare la Storia dalla Preistoria.

Eric H. Cline, docente nel Dipartimento di Lingue e civiltà classiche del Vicino Oriente e Direttore del Capitol Archaelogical Institute presso la George Washington University, ha al suo attivo 30 campagne di scavo in Israele, Egitto, Giordania, Cipro, Grecia, Creta e negli Stati Uniti. La sua professione di studioso e di archeologo lo pone pertanto nella posizione più vicina a quella di una possibile “paleontologia storica” destinata a superare anche i confini di quella storia di “lunga durata” di cui sono stati maestri, in Francia, la cosiddetta Scuola delle Annales, Marc Bloch, Lucien Febvre (entrambi suoi fondatori), Fernand Braudel e Jacques Le Goff.

Mentre la scuola francese, infatti, esercitò i suoi studi soprattutto sulla storia del Medio Evo e sulla transizione dall’Età Moderna all’attuale società contemporanea (o capitalistica), studiando le trasformazioni lente avvenute all’interno delle società nell’ambito dell’economia, delle pratiche quotidiane e dell’immaginario politico e/o religioso, da diversi anni l’archeologo e ricercatore americano si dedica alla ricostruzione di fatti complessi e drammatici, e talvolta decisivi per la sopravvivenza o meno delle antiche civiltà, che coinvolsero società e ambiente nell’Antichità.

Prova ne sia il suo testo più famoso, e più recente, 1177 BC. The Year Civilization Collapsed 1 in cui sono individuate e descritte le molteplici cause di uno dei più impressionanti punti di svolta della Storia. Quando forse il primo “mercato mondiale” formatosi attorno alle civiltà del Vicino Oriente e della Mezzaluna fertile fu travolto dall’arrivo dei cosiddetti “Popoli del mare” e dagli sconvolgimenti di ordine climatico e naturale che si manifestarono in quel periodo.

Anche nei suoi testi precedenti, The Battles of Armageddon. Megiddo and the Jezreel Valley from the Bronze Age to the Nuclear Age (2000)2 e Jerusalem Besieged. From Ancient Canaan to Modern Israel (2004),3 Cline si era spinto molto indietro nel tempo per ricostruire i percorsi storici e mitici che hanno determinato, soprattutto, la complessità, la contraddittorietà e la violenza (ancora attuale) dei conflitti sviluppatisi intono alla “nascita” e alla “storia” dello Stato di Israele.

Nel primo dei due testi si ricostruisce la storia della valle di Jezreel, Esdraelon per la Bibbia, integrata nell’attuale Israele, che ha forse visto il maggior numero di battaglie al mondo. A partire dall’antica città-stato di Megiddo, in una regione abitata fin dal 7000 a.C., ha visto infatti gli imperi scontrarsi per il suo possesso e dominio, almeno dal 2350 a.C., considerata la sua importante posizione strategica posta proprio al crocevia tra i sentieri, più che le strade, che collegavano tra di loro le antiche potenze economiche e militari: Mesopotamia ad Oriente, Egitto verso Sud , Anatolia verso il Settentrione, lasciando lo spazio mediterraneo ad Occidente.

gerusalemme 1 Un territorio, considerate soltanto le testimonianze riportate, teatro di guerre da almeno 4500 anni e di cui Gerusalemme fa parte. Da qui il testo in questione, interamente dedicato alla ricostruzione e alle motivazioni dei 118 conflitti che hanno interessato il suo territorio negli ultimi quattro millenni.
La lotta per il controllo di Gerusalemme e di tutto Israele continua senza tregua ai nostri giorni, perpetuando quattromila anni di scontri nel cuore della terra un tempo chiamata Canaan. Là dove anticamente le armi erano spade di bronzo, lance e asce da guerra, oggi sono diventate granate stordenti, elicotteri da combattimento, autobombe innescate a distanza e giovani uomini e donne suicidi imbottiti di esplosivo. Se da un lato sono cambiati gli individui e i loro armamenti, dall’altro le tensioni e le ambizioni sottostanti sono rimaste immutate. Per Meron Benvenisti, ex-vicesindaco di Gerusalemme, le opposte rivendicazioni ebraiche e musulmane sul Monte del Tempio sono «una bomba a orologeria di proporzioni apocalittiche»4

Il famoso geografo Strabone, vissuto nei secoli a cavallo dell’inizio dell’era cristiana, aveva scritto che Gerusalemme era sorta in un luogo che nessuno poteva invidiare e per il quale “nessuno avrebbe voluto pigliar guerra seriamente […] Infatti il terreno di Gerusalemme è tutto pietroso; e benché nella città si trovi abbondanza d’acqua, il paese all’intorno peraltro è sterile, arido e […] tutto roccioso”.5 Eppure, eppure…quanto si sbagliava!

Dove oggi volano droni israeliani e carri armati Merkava presidiano il territorio circostante, intorno al 1350 a.C. un piccolo monarca di una località che gli Egizi chiamavano Urushalim chiese aiuto al faraone , implorandolo: “Sono una nave in mezzo al mare!”, probabilmente circondato da qualche popolo cananeo. Manifestando così per la prima volta nella Storia conosciuta l’angoscia da accerchiamento di chi di volta in volta si è trovato a rivendicare o difendere la città o, più in generale, il territorio che corrisponde oggi all’attuale Israele.

Il moderno Stato di Israele– che si accinge a festeggiare il suo settantesimo compleanno – è stato definito un’isola circondata e assediata da un mare di forze arabe ostili. Riuscirà a durare quanto il Regno crociato di Gerusalemme? Il futuro del nuovo Stato palestinese, la cui nascita6 fa ancora sentire i suoi postumi dolorosi, è ancora più incerto; i suoi due avamposti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania possono essere dipinti a loro volta come isole circondate da un mare di forze israeliane sempre più ostili.7

Il primo a conquistare la città, narra la ricostruzione biblica, fu il re Davide, poi sarà la volta di Hazael, re di Aram, seguito da Sennacherib l’assiro, Nabucodonosor il babilonese, Tolomeo, Antioco, i maccabei, Ircano, i parti, Erode, Tito e Adriano. Dopo si aggiungeranno il califfo Umar, gli abbasidi, i fatimidi, i selgiuchidi, i crociati, Saladino, Federico II, gli ottomani e poi gli inglesi del generale Allenby che porteranno in Palestina i primi carri armati. Fino ai conflitti degli ultimi decenni.

Cline ci tiene a ribadire che “per nessun’altra città del pianeta si è combattuto tanto aspramente nel corso della storia. La denominazione di «città della pace» che spesso le viene attribuita è con buona probabilità un errore di traduzione e senza alcun dubbio un termine fuorviante”,8 considerato che “la città è stata completamente distrutta due volte, assediata ventitre volte, attaccata altre cinquanta volte e riconquistata quarantaquattro volte. E’ stata teatro di venti rivolte e innumerevoli tafferugli9

E torna anche a sottolineare, come già aveva fatto Strabone, che “anche ai nostri giorni, il paesaggio che si offre agli occhi di chi guarda a oriente da qualsiasi punto elevato della moderna città di Gerusalemme è quello riarso del deserto di Giudea, con le sue rocce scintillanti di calore. Le vestigia di fauna e flora sepolte nei suoi strati antichi testimoniano che l’ambiente non era molto diverso intorno al 1000 a.C. […] La presenza della sorgente di Gihon e la protezione garantita proprio dalle gole circostanti furono con buona probabilità tra le ragioni principali che, nel corso del III millenio a.C., spinsero i cananei a insediarsi per primi in questo luogo relativamente abbandonato. Di primo acchito, i suoi vantaggi sembrano finire qui. Il sito si trovava a notevole distanza dalle principali rotte commerciali che dall’Egitto a sud conducevano alle regioni dell’Anatolia e della Mesopotamia a nord e a est. Era immerso in un’area per lo più priva di risorse naturali e lontano dai porti marittimi che punteggiavano le coste del Mediterraneo.10

gerusalemme Quindi apparentemente nulla sembrerebbe giustificare l’utilità o le ragioni materiali dei drammatici eventi che l’autore ricostruisce nelle più di quattrocento pagine del testo.
Resta soltanto la presenza austera del Monte del tempio, un’altura chiamata in arabo Haram al-Sharif (Nobile Santuario) che domina sull’abitato circostante. “Su questa altura alberga una grande roccia che […]un tempo si trovava entro le mura del Tempio di re Salomone e più tardi in quello di Erode. Ancora oggi questa enorme pietra ha una presenza imponente sul Monte del Tempio. Riposa infatti sotto il tetto dorato della Cupola della Roccia e costituisce in elemento vitale del terzo sito più sacro del mondo islamico. In base alla tradizione musulmana, il profeta Maometto ascese al cielo proprio da questa roccia. Secondo la tradizione ebraica, invece, si tratta della pietra su cui Abramo offrì il figlio Isacco in sacrificio a Dio, E fu sempre qui che Davide fece collocare la sacra Arca dell’Alleanza, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.11

Intorno e su quell’altura hanno finito col depositarsi le rivendicazioni identitarie e nazionali sia della parte ebraica, che rivendica Gerusalemme e tutto il territorio della Palestina in quanto facente parte dell’antica Israele biblica, sia di quella araba e palestinese che, troppo spesso ha separato le rivendicazioni di classe e antimperialiste da una rivendicazione di carattere storico e nazionalistico che affonda anch’essa le sue ragioni nei millenni e nei conflitti trascorsi. Risalendo fino ai popoli che l’avevano abitata e fondata prima dell’avvento di Re Davide.

«I nostri antenati, i cananei e i gebusei», ha dichiarato Yasser Arafat, […] «hanno costruito le città e seminato la terra; hanno edificato la monumentale città di Bir Salim (Gerusalemme)». Il suo fidato consigliere Faysal al-Husaynī non la pensava diversamente. «Innanzitutto», affermò, «sono palestinese. Sono discendente dei gebusei, coloro che vennero prima di re Davide. Questa [Gerusalemme] era una delle più importanti città gebusee nella regione. […] Sì, è la verità. Noi siamo i discendenti dei gebusei»12

Oppure agli imperi che avevano sottomesso e tradotto in schiavitù gli ebrei. Come fece Saddam Hussein che “celebrò la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 586 a.C. nonché la sua riconquista da parte del Saladino dalle mani crociate nel 1187 d.C. in quanto precedenti delle sue azioni e intenzioni personali. In Iraq, spettacoli di luci laser, tabelloni e statue raffiguravano Hussein come il moderno successore di quegli antichi guerrieri13
Mentre, dall’altra parte “Theodor Herzl, Max Nordau, Vladimir Žabotinskij e altri sionisti impegnati a fondare l’attuale Stato di Israele evocarono nell’immaginario collettivo le gesta eroiche dei guerrieri maccabei nel 167 a.C. e la rivolta di Bar Kokhba contro le legioni romane del 135 a.C.14

Eppure nel testo curato da Telmo Pievani per una recente mostra tenutasi al MUDEC di Milano,15 intitolata “HOMO SAPIENS. Le nuove storie dell’evoluzione umana”, si afferma chiaramente che “E’ la storia del popolamento umano della Terra: una giovane specie africana si è irradiata ovunque, dando origine a migliaia di popoli diversi. Il nostro passato sembra lontano e dimenticato, sepolto una volta per tutte nel tempo profondo dell’evoluzione, ma in realtà si manifesta ogni giorno nei teatri dei conflitti mondiali più sanguinosi. Il Medio Oriente, il Caucaso, il Sudan, l’Afghanistan, il Corno d’Africa; la coincidenza è sorprendente e rivelatrice, perché tutte queste regioni martoriate sono state i più antichi e maggiori laboratori di diversità umana, culturale e linguistica. Sono stati i più tormentati crocevia del popolamento umano del pianeta”.16

Ecco allora che ci si accorge di come la Storia con la S maiuscola, non abbia fatto altro che rivestire di incrostazioni ideologiche, religiose, in fin dei conti mitiche, un percorso complesso, in cui, probabilmente, una stessa pietra poteva servire ad indicare una fonte d’acqua perenne e un luogo, quindi, sacro per coloro, singoli individui o gruppi più consistenti, che transitavano da lì, stretti tra il mare salato e i deserti orientali. Un luogo che le religioni animistiche potevano condividere, ma che le grandi religioni rivelate e del Libro avrebbero finito col rendere luogo di infiniti massacri ed infinite tragedie in nome di un’unica, mitica verità.17

Il libro di Cline è quindi interessante, utile e, soprattutto, di forte stimolo a superare non solo le barriere del tempo per comprendere il presente, ma anche, e forse involontariamente, a fare opera di disincrostazione di un immaginario talvolta troppo segnato dall’imperativo nazionalista o imperiale, frutto di una società divisa in classi recente, sconosciuta ai nostri antenati, ma che pretende di allungare i propri tentacoli sulle decine di migliaia di anni durante i quali la specie ha potuto farne tranquillamente a meno.

Purtroppo con la fasulla divisione tra Storia e Preistoria, tra natura e storia dell’uomo, abbiamo finito col perdere la memoria profonda della specie. Quella più importante e più vera di quella affidata ai re, agli imperatori, agli stati, ai loro scrivani e ai loro libri portatori di verità “certificate”.
Sotto questo punto di vista, Gerusalemme diventa allora, grazie anche alle pagine di quest’opera, il simbolo del passaggio della società umana dal nomadismo all’agricoltura, dalla condivisone dei beni alla proprietà privata.18 Anche di quell’acqua così sacra un tempo e posta al centro oggi di conflitti sempre più sanguinosi per il suo controllo, soprattutto nei territori che si trovano sotto il controllo sionista.

Passaggi che hanno richiesto la formazione di stati, imperi, ideologie e religioni rivelate che hanno contribuito ad affogare le popolazioni nel sangue e a cancellare la memoria comune dell’animale uomo. In nome di ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare “progresso”.


  1. Pubblicato anche qui in Italia, dove è giunto già ad una sesta edizione: Eric H. Cline, 1177 a.C. Il collasso della civiltà, Bollati Boringhieri 2014  

  2. Anch’esso tradotto in Italia come Armageddon. La valle di tutte le battaglie, Bollati Boringhieri 2016  

  3. Il testo qui recensito  

  4. pag. 17  

  5. Strabone, XVI.2.36, Della geografia di Strabone. Libri XVII, volgarizzati da Francesco Ambrosoli, Paolo Andrea Molina, Milano 1835 cit. in Cline, pag. 20  

  6. L’indipendenza dello Stato di Palestina fu proclamata nel 1988 dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, poi sancita dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale del 29 novembre 2012, mentre Israele non ne riconosce l’esistenza. Lo Stato di Palestina proclama Gerusalemme Est sua capitale anche se Israele controlla tutta la città, ma le Nazioni Unite e tutti gli Stati del mondo non riconoscono l’annessione di Gerusalemme Est a Israele proclamata con la legge israeliana del 1980. Il Parlamento europeo con la Risoluzione 2014/2964 del 17 dicembre 2014 ha votato a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina “in linea di principio”  

  7. pag. 23  

  8. pag. 17  

  9. pag. 18  

  10. pp. 18-19  

  11. pp. 20-21  

  12. pag. 29  

  13. pp. 22-23  

  14. pag. 23  

  15. dal 30 settembre 2016 al 26 febbraio 2017  

  16. Telmo Pievani (Testi e consulenza scientifica di), HOMO SAPIENS, Libreria Geografica, Novara 2016 (Prima edizione 2012), pag. 220  

  17. Si consulti sul tema della differenza politica e culturale tra religioni inclusive, politeistiche e orientate al mondo, e religioni esclusive, monoteistiche e negaatrici del mondo, l’ormai classico Jan Assman, La distinzione mosaica, Adelphi 2011  

  18. Prova ne sia la provocatoria affermazione che il Monte del Tempio possa rappresentare “la proprietà immobiliare più contestata sulla faccia della Terra“. Gershom Gorenberg, The End of Days. Fundamentalism and the Struggle for the Temple Mount, Free Press, New York 2000 (cit. pag. 20)  

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Laboratorio Rojava https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/ Wed, 16 Nov 2016 22:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34508 di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia [...]]]> di Sandro Moiso

donne-curde-4 Arzu Demir, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA. In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente, Red Star Press 2016, pp. 192, € 16,00

Michael Knapp – Ercan Ayboga – Anja Flach, LABORATORIO ROJAVA. Confederalismo democratico, ecologia radicale e liberazione delle donne nella terra della rivoluzione, Traduzione a cura di Rete Kurdistan Italia, Red Star Press 2016, pp. 280, € 20,00

Per Amore. La rivoluzione del Rojava vista dalle donne, Testi e foto di Silvia Todeschini, pp.246, 2016 todessil@gmail.com € 10,00

Immagino lo storcimento di naso che alcuni avranno fatto di fronte alla notizia, comunicata nei primi giorni di novembre dalle Forze democratiche siriane (Sdf), l’alleanza arabo-curda che agisce sul territorio siriano, l’offensiva congiunta su Raqqa la “capitale” siriana dell’Isis. Soprattutto, considerato che tale coalizione ha ricevuto l’appoggio dall’aviazione statunitense.

Certo nella vicenda c’è dell’ambiguità. Da parte degli Stati Uniti che, mentre da un lato hanno tra gli alleati i maggiori finanziatori dell’Isis (Arabia Saudita, Stati del Golfo, Turchia) dall’altro, cercano di sfruttare la legittima aspirazione all’autonomia dei curdi in funzione del proprio progetto di disarticolazione dello stato siriano e del regime di Assad. Oltre che, al momento attuale e dopo le capovolte di Erdogan, per fare indispettire il dittatore turco. Senza magari domani rinunciare ad abbandonare alla sua vendetta i curdi del Rojava in nome di una recuperata “sicura” alleanza. Cosa già messa in atto, tra l’altro dalle forze russe, dopo il riavvicinamento tra Putin ed Erdogan.

D’altra parte, a partita già iniziata e non da ora, come dovrebbero muoversi i curdi del Rojava per continuare a difendere i territori già liberati e per scacciare definitivamente i mercenari dell’Isis dai propri territori?
Certo qualcuno avrebbe trovato da ridire anche in occasione del trasferimento su un treno militare tedesco, da Zurigo a San Pietroburgo, di Lenin nel 1917 o chissà in quante altre occasioni, compresa la guerra civile spagnola, in cui chi la Rivoluzione la stava facendo, o almeno stava provando a realizzarla, è stato colpito dall’ostracismo ideologico di fazioni avverse ”più radicali” o “ortodosse”.

i-dont-fight-3 Non andrebbe però dimenticato che proprio la guerra siriana ha causato malumori tra gli stessi militari americani impiegati che, utilizzando i social network, hanno manifestato la loro contrarietà a combattere una guerra a vantaggio di Al Qaeda e contro le popolazioni civili, pubblicando foto in cui si coprivano il volto con scritte del tipo “I will not fight for Al Qaeda in Syria” oppure “Obama, I will not fight for your Al Qaeda rebels in Syria. Wake Up People!”. Contribuendo così, anche indirettamente, al successivo trionfo elettorale di Donald “Duck” Trump e alla sua, probabile, rottura con la tradizionale politica filo-jihadista della Segreteria di Stato americana, impostata a suo tempo dalla Clinton e dalla lobby petrolifera.

Certo, la semplificazione con cui i media, soprattutto nostrani, dipingono l’alleanza in atto nel Rojava come un’alleanza tra curdi e arabi potrebbe far pensare ad un indesiderabile accordo tra le forze delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg – Yekîneyên parastina gel) e le forze arabo-saudite. In realtà sul territorio del Rojava le unità militari curde operano con le formazioni militari locali create dalle comunità arabe e turcomanne che risiedono nello stesso territorio e che hanno accettato i presupposti di autogestione e confederalismo democratico e territoriale proposto dalle e dagli esponenti delle forze rivoluzionarie curde.

riv-rojava Proprio per comprendere meglio un esperimento complesso ed innovativo come quello in atto nel Rojava, la Red Star Press ha edito, nel giro di pochi mesi, due utili testi. Il primo, LA RIVOLUZIONE DEL ROJAVA, è stato scritto da una giornalista nata a Istambul nel 1974, che vive e lavora in Turchia ed è nota per suoi reportage dedicati alle più importanti questioni sociali del Medio Oriente.

Il secondo, LABORATORIO ROJAVA, è opera di uno storico che da sempre studia la questione curda e le pratiche alternative al capitalismo nell’età moderna (Michael Knapp), di un’etnologa che ha trascorso due anni nella resistenza femminile curda (Anja Flach) e di un ingegnere ambientale che vive nel Kurdistan del Nord ed è impegnato in particolare nelle lotte per la salvaguardia delle acque (Ercan Ayboga).

Già il lungo elenco di sigle di formazioni politiche e militari operanti sul territorio del Kurdistan, compreso nelle prime pagine del testo di Arzu Demir, dovrebbe da solo bastare a far comprendere la complessità di una situazione, sia politica che militare e territoriale, che non può essere liquidata semplicemente come “questione curda”. Da qui discende la necessità di rimarcare le differenze intercorrenti tra alcune delle principali organizzazioni: PDK (Partito Democrtaico del Kurdistan – iracheno), PKK (Partîya karkerén Kurdistan – Partito dei lavoratori del Kurdistan – turco) e PYD (Partiya yekîtiya demokrat – Partito dell’unione democratica – siriano).

lab-rojava Il primo è il partito che governa il Kurdistan meridionale (Bajûr, Nord Iraq), divenuto regione autonoma (KRG) dopo la cacciata di Saddam Hussein a seguito dell’invasione americana del 2003. E’ un partito nazionalista e decisamente schierato a fianco della politica americana nella regione e, di fatto, rappresenta gli interessi politico-petroliferi del clan Barzani. Il termine peshmerga, che storicamente definisce genericamente ogni “guerrigliero” o “soldato” curdo, ha finito col rappresentare i combattenti del PDK e del PUK (Yekêtiy nistîmaniy Kurdistan – Unità patriottica del Kurdistan – iracheno) di Talabani; mentre i partigiani del PKK e del PYD preferiscono definirsi col nome delle proprie organizzazioni oppure come gerîlla o partîzan. Ma è proprio sulla genericità e ambiguità del termine peshmerga che si è potuta costruire gran parte della confusione imperante nei media occidentali.

Il PKK opera da circa trent’anni nel Kurdistan settentrionale (Bakûr, sud-est della Turchia) per sostenere l’autodeterminazione e la sopravvivenza del popolo curdo contro l’aggressione e occupazione militare dello Stato turco. Inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dai paesi occidentali (USA ed Europa), sta provando a superare l’originaria ideologia nazionalista e marxista-leninista attraverso una critica radicale degli stessi concetti di Stato, Nazione, Partito e l’abbandono dell’obiettivo di uno stato curdo indipendente, attraverso la proposta di un confederalismo democratico rivolto a tutte le differenti comunità presenti sul territorio in cui opera.

Il PYD, le cui formazioni militari sono YPG e YPJ (Yekîneyên parastina jinê – Unità di difesa delle donne), è il partito maggioritario del Kurdistan occidentale (Rojava, Siria del nord). Condivide con il PKK la prospettiva della costruzione di una federazione di comunità indipendenti e autogovernate al di là dei confini nazionali, etnici e religiosi, le cui basi sono costituite dalla partecipazione dal basso, la parità di genere e la difesa dell’ambiente. Prospettiva che, a detta dell’autrice di La rivoluzione del Rojava, sta cercando di realizzare a partire dall’insurrezione di Kobane nel luglio del 2012.

Il testo di Arzu Demir si basa, principalmente su un lavoro di intervista condotto sul campo a donne e uomini delle comunità coinvolte nella guerra siriana e contro l’avanzata dell’Isis. Ma è una guerra condotta anche in casa, dove i residui del passato patriarcale, ancora sin troppo presente, dovranno essere seppelliti non dopo la lotta contro i regimi autoritari e il capitalismo che li ha prodotti, ma durante e insieme a loro.

L’essenza delle politiche del regime siriano verso il Rojava è stata quella di abbandonare la regione alla povertà e alla miseria politica, sociale, culturale ed economica per renderla dipendente dallo stato centrale. In altre parole lasciarla senza identità e senza riconoscimento. Da questo punto di vista ci sono delle somiglianze con le politiche coloniali dello stato turco nel Kurdistan settentrionale. L’unica differenza è che i curdi in Siria, almeno fino alla rivolta di Qamishlo nel 2004, non si sono mai ribellati in maniera aperta e diretta contro il regime e per questo il numero di massacri è molto minore […] La Repubblica araba siriana ha mantenuto come politica di stato quella di assimilare il popolo curdo all’interno del nazionalismo arabo. I curdi sono stati forzati ad abbandonare le loro terre e a migliaia sono stati esclusi dal diritto di cittadinanza siriana.” (pag. 31)

Parte da queste considerazioni una lunga ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo della resistenza curda e dell’attività forzatamente clandestina condotta dai partiti curdi in Siria almeno dal 1960 e dei motivi che hanno condotto il PYD a non schierarsi né con il governo di Assad né con i “ribelli siriani”, praticando una terza via che è consistita nel liberare e difendere il proprio territorio per amministrarlo, insieme agli altri partiti e realtà della società non solo curda, in una specie di “democrazia cantonale dal basso”.

donne-curde-1 In questa azione, che è stata politica e militare nel suo insieme, le donne hanno svolto un ruolo nuovo ed importante e la costituzione delle loro unità di difesa (YPJ) ha finito con l’essere uno dei punti di forza nella difesa del Rojava sia dai lealisti di Assad che dai “ribelli siriani” e dall’ISIS e jihadisti vari. Donne di ogni estrazione sociale, e spesso provenienti da altre nazioni, che ormai da anni versano il loro sangue e prestano le loro energie intellettuali e fisiche alla causa della rivoluzione. Come ben dimostrano le numerose interviste condotte dall’autrice a donne poi cadute in combattimento.

Una delle cose che la rivoluzione ha fatto per le donne del Rojava – in queste terre in cui il fatto che un uomo possa sposarsi con quante donne voglia o con una ragazzina è riconosciuto come un diritto culturale e legale – è stata quella di proibire il matrimonio in giovane età, la poligamia o i matrimoni combinati.[…] All’inizio del 2015 è stata emanata la cosiddetta «Legge delle donne», che tutela i diritti di queste ultime. Il primo articolo della legge in questione recita così: «la lotta alla mentalità patriarcale è responsabilità che poggia sulle spalle di tutti gli individui del Rojava autonomo e democratico». Con la Legge delle donne è stata riconosciuta parità di diritti in materia di eredità, divorzio e testimonianza in sede legale. La legge ha posto fine a pratiche, come lo herdel1 o la compravendita della sposa, che mercificavano la donna” (pp. 70-71)

Il testo però non dedica soltanto spazio alla situazione femminile nel Rojava e all’apporto che le donne hanno dato e danno all’esperimento sociale in corso, ma illustra anche con dovizia di fatti e di interviste un po’ tutti gli aspetti dello stesso: dalla gestione amministrativa comunalistica alle nuove forme di organizzazione economica e di autodifesa. Contribuendo così non soltanto all’informazione su ciò che sta succedendo nella Siria del nord, ma anche alla discussione su quali possano essere le forme organizzative, sociali, amministrative e culturali là dove sia già possibile una società in divenire.

Il taglio storico ed ambientalistico contraddistingue il secondo testo pubblicato dalla Red Star Press, che fin dalle prime pagine sembra aprirsi a scenari complessi.
I curdi sono il terzo gruppo etnico del Medio Oriente dopo arabi e turchi. Le stime sul numero dei curdi variano in modo notevole, ma le più realistiche si aggirano fra i 35 e i 40 milioni di persone.
L’area di insediamento curda, sebbene relativamente compatta, si trova oggi a cavallo tra gli Stati di Turchia, Iraq, Iran e Siria. La regione è d’importanza strategica anche per la facilità d’accesso all’acqua: i fiumi che bagnano la Siria e l’Iraq scorrono entrambi nella parte turca del Kurdstan (Bakûr). I linguisti collegano di comune accordo la lingua curda al ramo iraniano della famiglia indoeuropea, nonostante il curdo possa differire in modo significativo dal farsi. Non esiste una lingua comune curda, né un alfabeto standard o scritto, in parte a causa della divisione del Kurdistan e della proibizione della lingua curda in molti stati. I curdi parlano cinque dialetti principali o gruppi dialettali […] Questi dialetti sono talmente differenti che non sempre gli interlocutori riescono a intendersi
”. (pag. 23)

Primo problema: spesso a proposito del Medio Oriente, si parla di petrolio, ma troppo spesso ci si dimentica come per il futuro, e già oggi per il vicino Oriente, la questione della disponibilità d’acqua e del suo controllo sia vitale. Prova ne sia il conflitto aperto da Israele con la Siria per il controllo del Golan. Quindi un Kurdistan ricco di acque potrebbe essere in prospettiva più appetibile e più importante del Kurdistan ricco di petrolio.

Secondo problema: una lingua dispersa che potrebbe ritrovarsi a ragionare in maniera prossima all’iraniano potrebbe costituire un ulteriore motivo di contenzioso per l’attuale espansionismo iraniano che, come ho già spiegato in altra sede,2 è uno dei fattori degli attuali conflitti mediorientali.
Così un testo come Laboratorio Rojava può essere utile non solo per ciò che espone direttamente, ma anche per i problemi che può far sorgere indirettamente a seguito di una sua più attenta lettura.

donne-curde-2 Il testo si differenzia dal precedente soprattutto per il fatto che mentre Arzu Demir fa ancora uso di una lettura e, talvolta, di una retorica ispirate dal marxismo-leninismo,3 gli autori di Laboratorio Rojava si rifanno decisamente al nuovo corso ispirato dalle riflessioni del leader storico del PKK: Abdullah Öcalan.

Nel suo tratteggiare le tradizioni comunaliste della società primitiva, Öcalan si volge verso quella che lui stesso definisce società organica o naturale, esistita a suo parere alcune decine di migliaia di anni fa, organizzata in modo comunalista ed egualitario. Era una società matriarcale e si distingueva per l’uguaglianza di genere: «Nel Neolitico fu creato, attorno alla donna, un ordine sociale genuinamente comunalista, il cosiddetto ‘socialismo primitivo’, un ordine sociale che ‘non conosceva le pratiche coercitive dello Stato’» […] dal punto di vista del materialismo storico marxista, il «comunismo primitivo» doveva necessariamente essere superato per arrivare alla società statalista attraverso le varie fasi dello sviluppo economico, dalla società schiavista al feudalesimo, al capitalismo, al socialismo e infine al comunismo, in una successione di passaggi teleologica, deterministica.4 Nella visione di Öcalan, l’emergere della gerarchia, del dominio di classe e dello statalismo non era inevitabile: «La gerarchia e il conseguente sorgere dello Stato fu agevolato dall’ampio ricorso alla violenza e all’inganno. D’altra parte, le forze essenziali della società naturale hanno resistito senza tregua e devono essere continuamente respinte (dallo Stato stesso). Contro il principio marxista del passaggio necessario attraverso fasi di sviluppo, Öcalan ha elaborato la costruzione della democrazia radicale qui e ora” (pp.51-52)

Per questo motivo il modello organizzativo proposto per il Kurdistan è sostanzialmente quello della democrazia consiliare che ebbe inizio dalla Comune di Parigi. In questa formazione di una società civile senza Stato alcuni principi sono comuni a tutti gli aspetti della riorganizzazione sociale, sia per il movimento delle donne che per il sistema sanitario, la difesa, l’amministrazione della giustizia e altro ancora. “Le persone si organizzano in Comuni, formano commissioni e lavorano insieme alle organizzazioni democraticamente legittimate” (pag. 125)

Il testo dedica molto spazio alle forme organizzative e legislative che si sviluppano in questi ambiti e per questo vale veramente la pena di condurne una lettura attenta e meditata in quanto, ancora più che per il precedente, ogni pagina non è volta soltanto a ricostruire le vicende del Rojava rivoluzionario, ma anche a suggerire prospettive per il futuro. Compreso il nostro.

donne-curde-3 Il terzo testo, quello di Silvia Todeschini, che si può richiedere direttamente all’autrice tramite l’indirizzo e-mail sopra segnalato, si occupa specificamente dell’azione femminile nel Rojava e si basa ancora una volta sull’esperienza di soggiorno e sulle interviste raccolta dall’autrice tra le donne del Rojava. Come dice la stessa Todeschini in apertura: “Questo non è un libro sul Rojava; questo non è un libro sulle donne. Questo è un libro sulla rivoluzione, dal punto di vista delle donne” (pag.6)

Da questa impostazione sorgono ancora numerose riflessioni di cui varrebbe la pena di parlare, ma che richiederebbero una trattazione a sé stante e molto ampia (così come, tra l’altro, la richiederebbero anche molte parti del testo precedente), ma almeno due considerazioni vanno qui prese in esame. La prima riguarda il linguaggio che dovrebbe essere utilizzato nel trattare un genere ancora poco favorito dalla nostra lingua.

Afferma Silvia nella sua Piccola nota sul “maschile neutro” che non viene usato in questo libro: “In italiano, al contrario di molte altre lingue, non esiste il genere neutro. In italiano, per descrivere un gruppo di persone in cui sono presenti sia maschi che femmine, si usa il maschile. Se per esempio c’è un gruppo di 15 giardinieri, di cui 13 donne e 2 uomini che ha fatto n buon lavoro, secondo la grammatica italiana si dice «i giardinieri sono stati bravi». Equiparare il neutro al maschile è chiaramente sessista, perchè la presenza delle donne viene ignorata, vengono assimilate ai maschi. Che fare quindi? Secondo me è da modificare la lingua italiana, inserendo un plurale effettivamente neutro (come del resto esiste in curdo e in altre lingue). In attesa che si modifichi la lingua, come esprimersi in un modo che non sia sessista ma che resti comprensibile? […] altra possibilità è quella di coniugare il plurale neutro al femminile, «le giardiniere sono state brave»: questa possibilità è discriminante nei confronti dei maschi; però perlomeno è facile da leggere. E comunque potrebbe essere un buon mezzo per far comprendere quanto maschilista sia il maschile neutro. In attesa che la lingua venga modificata, e possa esistere un plurale non escludente, verrà quindi per questo libro assunto il femminile come plurale neutro: ciò significa che quando leggerete espressioni come per esempio «le compagne», è possibile che nel gruppo siano presenti anche compagni maschi” (pag.2)

La seconda, invece, tocca il tema della «bellezza», tema che troppo poco spesso o quasi mai i rivoluzionari hanno seriamente preso in considerazione.
Per lottare, infine, è necessaria la bellezza. E’ necessaria l’estetica. Non solo quella esteriore, ma anche o soprattutto quella dei comportamenti. Perché dire che stai dicendo cose giuste, ma il modo in cui le dice è sbagliato, equivale a dire che è sbagliato tutto, perché il modo in cui si fanno le cose è parte integrante di ciò che si fa. Perché il fine non giustifica i mezzi: i mezzi al contrario devono contenere in se stessi il fine, devono rispecchiarlo, i mezzi stessi sono parte del fine. Perché la strada deve essere innanzitutto essere bella, per poter essere percorsa..Perché non c’è una via verso la libertà che non ne contenga i semi al proprio interno; non è sufficiente avere un buon obiettivo, è necessario conseguirlo in maniera giusta, in maniera corretta. Un caro compagno un giorno mi ha detto che puoi riconoscere se una lotta è giusta in base a quanto bene stai nel farla. La bellezza della lotta non è secondaria, perché la lotta è bellezza. E la gioia che provoca, il sorriso sui nostri volti,è già di per se un coltello nel fianco del nemico. In Rojava si dice che l’estetica è come una rosa, a cui sono necessarie spine per difendersi; queste spine sono l’etica, i valori, ma sono anche la lotta, perché la bellezza senza lotta diventa vuota” (pag. 196)

E queste considerazioni finali mi portano a comprendere ancora di più la straordinaria vicinanza tra lotta dei curdi del Rojava e l’esperienza del Movimento No Tav in Val di Susa. Per cui mi permetto di segnalare, in chiusura, tre agili e sintetici, ma tutt’altro che superficiali, libretti prodotti da una casa editrice vicina al movimento No Tav sulla questione fin qui esplorata:

Dai monti del Kurdistan. Intervista a più voci in un villaggio del Kurdistan turco, Alpi libere, Cuneo maggio 2012, pp. 32, € 2,00

pepino-kurdistan Daniele Pepino, Nell’occhio del ciclone. La resistenza curda tra guerra e rivoluzione, TABOR edizioni, Valle di Susa, dicembre 2014, € 2,00

Janeth Bielh, Dallo Stato-nazione al comunalismo. Murray Bookchin, Abdullah Öcalan e le dialettiche della democrazia, TABOR “materiali”, Valle di Susa , giugno 2015, € 2,00


  1. Pratica matrimoniale che consiste nello scambio di spose tra famiglie. E’ spesso utilizzata per mettere fine a sanguinose faide inter-famigliari  

  2. https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/  

  3. Riferibili, o almeno così sembrerebbe dopo una prima lettura, in alcuni casi alle posizioni del Mlkp (Marksist-Leninist komünist partisi – Partito comunista marxista-leninista)  

  4. Questa ricostruzione, di per sé corretta, risente tuttavia delle forzature interpretative del pensiero di Marx fatte dagli stessi marxisti. Si veda in proposito il mio https://www.carmillaonline.com/2014/09/03/marx-contro-marxismo/  

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Io l’ho visto https://www.carmillaonline.com/2016/08/07/io-lho-visto/ Sun, 07 Aug 2016 17:59:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32420 di Alessandra Daniele

51Fra tutte le bugie che ci vengono sistematicamente raccontate su questa guerra, una delle più false è che sia cominciata l’undici settembre 2001. In realtà, quando le torri gemelle sono crollate lo Scontro di Civiltà andava già in onda da quasi undici anni. Io l’ho visto.

Il cielo verde di Baghdad. Emilio Fede che esulta per il primo bombardamento, e poi durante la diretta notturna, mentre si rifà il trucco, molla una battutaccia sulle cosce di Kay Rush come un generico in pausa sul set. Il sosia di Saddam [...]]]> di Alessandra Daniele

51Fra tutte le bugie che ci vengono sistematicamente raccontate su questa guerra, una delle più false è che sia cominciata l’undici settembre 2001.
In realtà, quando le torri gemelle sono crollate lo Scontro di Civiltà andava già in onda da quasi undici anni.
Io l’ho visto.

Il cielo verde di Baghdad.
Emilio Fede che esulta per il primo bombardamento, e poi durante la diretta notturna, mentre si rifà il trucco, molla una battutaccia sulle cosce di Kay Rush come un generico in pausa sul set.
Il sosia di Saddam del Tg iracheno.
Bellini e Cocciolone che leggono il gobbo.
L’inviato della CNN che si mette la maschera antigas soltanto durante il collegamento.
Il cormorano incatramato che in realtà viene dall’incidente con una petroliera.
La scia di automobili carbonizzate delle vittime d’una bomba USA Daisy Cutter.
I soldati iracheni che si arrendono alla troupe del Tg3.

Nel 2001 la guerra non è cominciata, ha solo avuto il primo reboot.
Le stesse immagini già viste centinaia di volte nei Disaster movies, Arrmageddon, Deep Impact, Godzilla, Indipendence Day, che improvvisamente invadono tutto il palinsesto.
George W. Bush che avvertito dell’attacco continua a leggere favole ai bambini.
Le voci su un quinto aereo. Un sesto aereo. Una bomba atomica portatile. Suore kamikaze in Vaticano.
Bruno Vespa che legge male “defilati” e commenta “I sospetti terroristi si sono depilati? Dev’essere un rituale islamico”.
L’esperto di strategia militare che s’impapera, e chiama le regole d’ingaggio delle truppe “regole d’inganno”.
La fialetta d’antrace mostrata all’ONU dal generale Powell, che in realtà contiene zucchero.
I video di Bin Laden dalla grotta del presepe.
Paolo Liguori che si vanta “La notizia era falsa, ma noi siamo stati i primi a darvela!”
George W. Bush che complimenta l’inglese di Berlusconi, che effettivamente è migliore del suo.
Saddam Hussein pescato da un tombino.
I selfie dei torturatori di Abu Grahib.
Gli effetti del fosforo bianco su Falluja.
Lo striscione “Mission Accomplished”.
Obama che assiste via satellite al blitz contro Osama, e il cadavere di Bin Laden che sparisce. Un caso di lupara bianca.

Col secondo reboot, l’ISIS prende il posto di Al Qaeda, e agli effetti speciali da blockbuster si sostituisce l’orrore quotidiano stile Bowling a Columbine.
I censori di Guzzanti e Luttazzi che twittano Je Suis Charlie.
Gli snuff dell’ISIS su YouTube.
Papa Bergoglio che promette un cazzotto in bocca a chi parlasse male di sua madre.
L’Aria Che Tira che usa i funerali di Valeria Solesin come promo.
I soldati USA nel deserto che cantano Call Me Maybe.
I profughi sotto la pioggia ammassati dietro il filo spinato.
I media che ormai di default fino a prova contraria attribuiscono qualsiasi fatto di cronaca all’ISIS.
Renzi in jeans e mimetica.

La guerra durerà 30 giorni, promette il governo, che s’appresta a partecipare all’ennesimo bombardamento. Questa guerra è cominciata nel 1990. Fra 4 anni potremo chiamarla la nuova Guerra dei Trent’anni.
Una Magdeburg grande come un sub-continente.

Che cosa abbiamo visto?
Perlopiù quello che volevano farci vedere.
E qualche volta quello che non sono riusciti a impedirci di vedere.

I film post-apocalittici si aprono spesso con un montaggio rapido d’immagini da telegiornale che riassume le circostanze del crollo della civiltà umana.
Nel nostro caso, sarà una puntata di Blob.

[Scheggetaglienti è aggiornato] 

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Hard Rock Cafone #2 https://www.carmillaonline.com/2015/09/10/hard-rock-cafone-2/ Thu, 10 Sep 2015 20:36:14 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24770 di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways  California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in [...]]]> di Dziga Cacace

Prima e dopo la scatola non c’è niente 

hrc201Le Runaways 
California, metà anni Settanta: sole, frisbee, i primi skateboard, il paese impazzito per Happy Days e un democratico dentone che vende noccioline alla Casa Bianca. È il 1976 quando un produttore scafato (e criminale) come Kim Fowley capisce che il suo sogno, una band formata da sole ragazze giovanissime, possibilmente svestite, è a portata di mano (quella libera). Ha infatti trovato cinque teenagers che sanno suonare e sono pure delle sventole: le Runaways, il sogno proibito di ogni adolescente in tempesta ormonale. E non solo: etero e omo, rimangono tutti soggiogati dallo sguardo strafottente e dai corpi in fiore della band, in un’epoca in cui la maggiore età non era considerata un vincolo sessuale. Dopo gli assestamenti iniziali le Runaways presentano in formazione la superdotata (anche tecnicamente) Lita Ford, che secondo il dittatoriale producer è “Ritchie Blackmore e Sophia Loren fuse in un’unica persona”. Alla voce c’è Cherie Currie, una minorenne che sale sul palco vestita soltanto di sottoveste e calze con giarrettiera. All’altra chitarra Joan Jett che tutti conosciamo per l’inno universale che ha regalato qualche anno dopo: la cover di I Love Rock’n’Roll. Completano basso e batteria di Jackie Fox e Sandy West. L’impatto visivo e musicale è clamoroso e anche le polemiche e le virgulte rispondono alle accuse di bieco marketing sessista con un rock semplice e trascinante: vagamente punk e con la schitarrata hard quando serve. Vanno in tour coi grandi dell’epoca, fanno le cattive ragazze e finiscono in carcere in Gran Bretagna e diventano big in Japan dove registrano anche il loro album migliore, un live. Poi la rottura col maligno produttore guru, che sarà anche accusato a più riprese di abusi sessuali (con le ex Runaways reticenti o mute, anche se la violenza carnale sulla Fox, drogata, sembrerebbe inequivocabile) e il via alle defezioni, a partire dalla Currie. Che oggi fa la scultrice con la motosega (potete verificare su chainsawchick.com) ma è stata anche attrice e ha scritto un’autobiografia che non le ha però evitato di essere mandata a cagare dalle altre ex compagne. La band va in malora nel 1978 e Joan Jett prova la carta solista. Deve insistere un po’ ma poi ottiene successo con i suoi Blackhearts e ancor oggi – da autentica icona – è spesso in tour. Intanto la chitarrista Lita Ford, da ragazzina che era, diventa una bella donna con abnorme testata di capelli vaporosi e orecchini simili a lampadari, e si dedica al metal per scalare le classifiche col disco di platino Lita dove duetta con Ozzy Osbourne. Oggi omaggiate da biopic vezzose e assurte a status di superstar post-mortem, durarono poco, le Runaways, ma ruppero apparentemente il tabù machista del rock, anche se esattamente plagiate da quell’atteggiamento. La recente morte della batterista Sandy West sembra aver riavvicinato quelle che fecero da battistrada a tutto il rock femminile di là da venire, buono o cattivo, Bangles, Hole, L7 e Bikini Kill comprese, ma ci sono ancora troppi scheletri nell’armadio e non c’è da temere alcuna reunion nostalgica.
(Marzo 2007)

hrc202Milano imbevibile 
Milano la cosmopolita, Milano al centro dell’Europa, Milano ombelico del Mondo. Ha il traffico di Calcutta, l’inquinamento di Shangai, l’allegria di Bucarest e i servizi di Kinshasa. Senza offesa (per gli abitanti di Kinshasa, ovvio). È amministrata da decenni da gente che non ha mai preso un tram in vita sua e che pensa solo a riempire i vuoti urbanistici e gli ultimi residui di verde (avete capito di cosa canta Elio in Parco Sempione?) per fare felici palazzinari, archistar cialtroni e complici e pure i poveri muratori che, se non muoiono prima in cantiere, almeno hanno un po’ di lavoro. Avrà le sue ragioni Manuel Agnelli degli Afterhours a dirci che Milano è una città vitale, ma, sarà che non porto pantaloni attillati di pelle e non uso creme di bellezza, io l’unica vitalità che vedo è quella del sacco edilizio continuo di questa metropoli. A scapito di spazi, anche musicali. Nel mio isolato hanno appena riempito un vuoto tra due case e abbattuto una costruzione aerea ed elegantissima di fine anni Sessanta. Adesso ci sono un 5 piani terrazzato come se fossimo a Miami e un 6 piani monolitico che starebbe bene a Berlino. Gli stessi che grufolano contro le moschee, autorizzano poi questi scempi. L’ultimo assessore all’urbanistica, tal Milko Pennisi assurto a gloria nazionale, ha patteggiato due anni e dieci mesi per tangenti: ma chi patteggia i reati contro la logica e l’estetica? Ma il vero problema è che a un isolato dal mio hanno chiuso il vecchio Transilvania che, dopo un’agonia di neanche tre anni come MusicDrome, tornerà ad essere un’autorimessa. Nessuno mi ridarà la comodità di intervistare un artista e invitarlo a casa a prendersi un caffè, magari avendo nascosto prima i bootleg e i cd masterizzati. Non vedrò più aggirarsi nel mio quartiere gli ultimi dark con gli occhi cerchiati come opossum o i metallari tutti borchie e catene (ed educatissimi). Mi mancherà anche l’invasione degli springsteeniani di tutta Italia come la sera in cui suonò Southside Johnny con gli Asbury Jukes. E per la strada, davanti al cancello del locale, non incontrerò più J. Mascis o Ed Wynne, impegnati a bersi una birra e a parlare coi fan venuti a sentire il soundcheck. Oggi su quel cancello c’è solo un malinconico cartello: ultimi box in vendita. Riposa in pace, Transilvania, garage eri e garage tornerai a essere. Intanto è evaporato anche lo storico Rolling Stone, perché lì conviene tirarci su sei piani, altro che concerti. E prima o poi toccherà al Palasharp, perché anche là c’è la sua convenienza (e pure dell’amianto da smaltire). E in compenso allo stadio di San Siro non si può far casino se non per le partite di calcio, una ogni quattro giorni. Ma il rock no, perché fa rumore. Sporca. Non so cos’abbia in testa il sindaco Moratti – a parte la cofana catarifrangente simil-Mirigliani – ma nella metropoli dell’Expò gli spazi da concerto ormai si contano sulle dita di una mano e il Comune, figurarsi, non ne ha uno suo. Tutto questo mentre il promoter Claudio Trotta rischia una sanzione pesantissima, grazie a fantomatici comitati di quartieri guidati da invasati che lamentano insonnie e crisi di panico per i 22 minuti di rock extra, regalatici dal Boss una sera del 2008, alle 23 e 30, mica alle 4 del mattino. La Milano da bere, decennio dopo decennio, è solo un bel bicchiere di merda.
(Giugno 2010)

hrc203Frate Metallo: pace e bene 
Un anno fa, Frate Metallo non se l’è fatto mancare nessuno, la stampa italiana, quella straniera e perfino il perfido Lucignolo televisivo. Ma messi da parte sensazionalismo e bigottismo musicale, che fine ha fatto il fratacchione? Lo chiamo e scatta la segreteria telefonica, la meno ansiosa che abbia mai sentito: “Sono Frate Cesare, pace e bene!”. Qualche giorno dopo sono nel convento dei frati minori a Musocco, Milano. Gli occhi chiari, sinceri, le mani robuste, una certa somiglianza col Santa Claus della Coca Cola, Fra Cesare ha l’entusiasmo di un ragazzino e la saggezza di un uomo che è stato operaio, bersagliere, vagabondo scalzo e infine missionario e cappuccino francescano. Riavvolgiamo il nastro: come giovane assistente spirituale dei tranvieri milanesi capisce che dove non arriva una predica può arrivare la musica. Lui ha una bella voce e un certo orecchio e comincia a scrivere canzoni, alcune religiose, ma perlopiù laiche (nel senso che può intendere un religioso, eh?). Quando canta raccoglie un sacco di offerte ma in cambio dei soldi preferisce dare delle cassette prima e dei Cd poi. 10 anni fa Costanzo lo chiama al suo show e l’esperienza è salutare: da allora rifiuta qualunque apparizione televisiva, rifiutando il ruolo della scimmietta. Ha le idee chiare su tutto: sulla beneficenza (“Vado al concerto se mi piace, non per aiutare qualcuno”), sugli autori musicali cattolici (“Che cosa significa, scusa?”) e sul successo (“Non me ne frega niente: sai quante volte mi hanno offerto Sanremo?”). È sanguigno e pacifico e il rock lo fa scattare in piedi, roteando il cingolo che gli stringe il saio, in estasi metallica. Ma ha cantato anche altri generi, ammettendo il fallimento solo quando ha sperimentato anche il liscio (!). Il suo disco metal è un’opera curiosa dove non senti il Padre nostro o l’Ave Maria al contrario, bensì Cesare che incattivisce la voce su ritmiche hard. Quando ringhia il growl sembra una parodia fatta da Elio, però lode al tentativo, senza pretese e senza presunzione, per divertirsi. Mangiamo assieme (e in modo parco) al refettorio del convento. I confratelli di Cesare sono tutti sorprendentemente simpatici, più o meno coinvolti dalla sua attività canora e c’è chi lo sfotte amabilmente in nome di altri credo musicali. Da questo incontro esco con la convinzione che Frate Metallo non è un furbetto, tutt’altro. Quelli sono gli artisti indie nerovestiti, che poi a Sanremo ci vanno eccome facendo la faccia contrita, o i giornalisti che non potevano credere di avere per le mani un francescano metallaro, due freak in uno. Il top sarebbe stata anche una disgrazia fisica, ma per fortuna Cesare è perfettamente integro. In tutti i sensi. Pace e bene.
(Giugno 2009)

HRC204Aphrodite’s Child: tzatziki rock!
Caldo. Spiagge. Massì, vi racconto due o tre cose della Grecia diverse da quelle che rimbalzano dai giornali, ma prima faccio un brevissimo ma palloso preambolo: il rock progressivo è un’astrazione terminologica. Per alcuni – detrattori ma anche ammiratori – significa solo supergruppi con assoli lunghissimi e clamorose capacità strumentali; per altri critici più elastici è quella musica che progrediva, nel senso che bruciava tappe e superava i confini temporali dei 3 minuti e quelli stilistici del beat. All’origine di tutto ciò ci sono pionieri come Moody Blues, Colosseum o Procol Harum e quando la sbobba non s’è allungata o è diventata autocelebrativa, si sono avuti autentici colpi di genio dove il rock incontrava tempi dispari, nuovi strumenti e contaminazioni coraggiose. Tra i pionieri di questa musica, nel bene e nel male, prima con singoli smielati poi con un’opera epocale, ci sono gli Aphrodite’s Child, trio di figli d’Afrodite che nasce nella Grecia dei Colonnelli e subito si trasferisce a Londra. Vi consiglio di cercarne delle foto, perché per sottolinearne la provenienza ellenica un P.R. in acido fece conciare i tre corpulenti e irsutissimi musicisti come delle comparse di Troy, con tuniche, foglie d’acanto in testa e cetre in braccio. Il gruppo conquista la Francia in rivolta del Sessantotto con Rain and Tears, singolo con più di un’assonanza con A Whiter Shade of Pale. Anche questa è una rilettura di un’aria barocca (là Bach, qui Pachelbel; e – scoop! –gli stessi accordi di Albachiara!) e l’effetto in classifica è immediato. Dopo altri singoli pop di successo, si decide per l’opera definitiva, turgidamente rock: l’album 666, prima bloccato dalla casa discografica, infine uscito a gruppo sciolto nel 1972. Affascinante, eterogeneo e inventivo, spazia dai Beatles a momenti pesanti come un capitello dorico sulle palle: è un sinistro concept sull’Apocalisse che nel tempo otterrà un successo clamoroso, diventando uno dei capisaldi del prog, altro che il sirtaki. E ora la carrambata per i meno avveduti: degli Aphrodite’s Child erano leader il romantico Demis Roussos che ha poi venduto 50 milioni di dischi in Francia, e soprattutto Evangelios Papathanassiou, cioè Vangelis, l’uomo che ha scritto score immortali per Momenti di gloria e Blade Runner o jingle ipnotici per la Barilla. E forse era meglio l’Apocalisse. Ah: se volete altri greci rock settantini, consiglio i santaniani (!) Peloma Bokiou. Buone vacanze.
(Agosto 2010)

hrc205aL’hard de noantri
Nell’Italietta delle bombe fasciste c’è – tra le tante – anche un’esplosione gioiosa, il corrispondente musicale della meglio gioventù, il cosiddetto “pop” o “progressive” italico, quando, a fianco di formazioni come PFM, Banco e Orme, cresce una generazione di rocker, l’hard de noantri: uno spaghetti-rock casereccio ma energico e senza mandolino, se non pesantemente elettrificato. Qui non si rischia l’orchite ascoltando pensosi concept che parlano di un pinguino (esiste, eccome, e non è neanche male); qui si picchia duro: tra riffoni, schitarrate, power chords e cavalcate solistiche, in 35 minuti di LP trovate idee che oggi coprirebbero cinque anni di carriera. Del resto l’imperativo musicale e ideologico era l’originalità e niente era peggio dell’accusa di “venduto”. E mancando il “venduto”, qualche gruppo durava lo spazio di un album… Il primo vagito è del Balletto di bronzo che con Sirio 2222), disco ricco di chitarre e assoli mordaci, cerca un’ingenua ma personale via italiana all’ombra del dirigibile di piombo. Più o meno contemporaneamente, il virtuoso tastierista Joe Vescovi espande volume e improvvisazioni con i suoi Trip, influenzato dai Vanilla Fudge, gruppo seminale che introdusse il concetto della cover stravolta e dell’utilizzo di pieni e vuoti strumentali. Joe compone album bellissimi (partite da Caronte), tant’è che anni avanti verrà convocato a Los Angeles da sua maestà Blackmore per suonare nei Rainbow. “Ma ero troppo morbido!”, mi confessa telefonicamente.
hrc205bUn altro che il rock duro l’ha sempre costeggiato è Alberto Radius, sia con la Formula 3, sia a fianco di Battisti. Radius (1972), prodotto dal Lucio nazionale sotto lo pseudonimo Lo Abracek, è forse il più compiuto hard rock nostrano, registrato in tre giorni di furiose jam con i futuri Area, la sezione ritmica della PFM e altri amici assortiti: rock senza frontiere attraversato da lampi di psichedelia, jazz e boogie, con la chitarra che fa di tutto. Come avrebbe poi continuato a fare, contribuendo in maniera fondamentale al successo di Franco Battiato a inizio anni 80. A chi dubita dell’essenza rock di quei lavori, solo una dritta: la micidiale outro solistica di Strade dell’Est, ne L’era del cinghiale bianco. Oggi Radius è un giovane molto cool di 62 anni con più capelli di Tina Turner. Lo incontro nel suo studio e mi presenta Please My Guitar, il suo ultimo disco. Lo definisce “Un album stradale!”. Mi fa sentire alcune tracce: canzoni solide, senza troppi assoli; per l’improvvisazione c’è tempo dal vivo e del resto Alberto si fa oltre un centinaio di concerti ogni anno, con la Formula 3 o con la Notte delle Chitarre.
Ora dimenticate certe recenti oxate o alcuni coretti beegeeseggianti: i New Trolls sono stati il gruppo che, a tratti, ha saputo fare l’hard italiano più maturo. Hanno flirtato col sinfonico e col beat, ma a trent’anni di distanza la chitarra del “Piccolo Hendrix” Nico Di Palo e la furiosa carica del gruppo genovese bruciano ancora. L’apice improvvisativo è nel lato live del Concerto grosso (1971) quando i nostri eroi fan profumare di basilico il verbo dei Deep Purple. Diverse spinte (hard contro pop e, si dice, anche divergenze politiche) portarono il gruppo a una scissione durata due anni, nei quali Di Palo diede sfogo alla sua Les Paul nei massicci Ibis, prima della riconciliazione con Vittorio De Scalzi e nuove separazioni.
hrc205cAddirittura heavy erano i Rovescio della medaglia che ci han lasciato una Bibbia (1971) registrata in presa diretta e tostissima. Al virulento chitarrista Enzo Vita si attribuisce l’immortale affermazione: “Mo’ che è morto Hendrix, semo rimasti in tre: Page, Blackmore e io!”. Dimenticava per esempio i Campo di Marte (Lp antimilitarista e durello del 1973) o anche Mario Schilirò, uscito da una cantina romana con i ventenni Teoremi, quartetto di geometrica potenza. Il chitarrista – oggi anche produttore – ha poi suonato a lungo con Venditti e da anni presta servizio con Zucchero. L’album eponimo (1972) è una bella botta, per niente derivativo e con una chitarra potente. Un solo album (1973) anche per il Biglietto per l’inferno ed è probabilmente uno dei più bei dischi italiani di sempre, ripubblicato recentemente con Dvd, album inedito e testimonianza live. Il tastierista “Baffo” Banfi ricorda con ironia i suoi vent’anni, quando “In mancanza di una motocicletta, rimorchiavi solo se suonavi in una band”. La sua era formata da cinque amici, trascinati dall’eccezionale frontman Claudio Canali, oggi frate benedettino ma trent’anni fa, altro che Fra Cionfoli: una furia sul palco e in studio.
C’è poi chi al vinile non arrivò neppure, come gli zeppeliniani Crystals (album del 1974 stampato solo ora dalla Akarma) o i Moby Dick, anch’essi profondamente influenzati dal Martello degli dei. Incontro il loro batterista, Adriano Assanti a Chiasso (e dove, se no, per parlare di hard rock?) e davanti a una pizza Adriano ricorda: c’erano una volta quattro ragazzi di Napoli, del Vomero, stufi marci dei soliti tre accordi e abbastanza matti da lasciar perdere le remunerative serate nei night. Altro che Rose rosse con Ranieri, l’imperativo stilistico del gruppo era suonare così forte da incrinare la ceramica dei water (in lingua: spaccamm’ ‘o cess!). Mica facile però: nel 1968 non ci sono Internet né tutorial. Per imparare la “nuova” musica devi svegliarti alle tre di notte, captare Radio Luxembourg e il giorno dopo affidarti alla memoria. Ma suonare i Led Zep nell’Italia del 1970, è come provare a vendere oggi i libri della Fallaci in Iran. Allo storico festival di Caracalla, per dire, gli staccarono l’amplificazione al secondo pezzo. E un disco? I Moby Dick avevano idee molto chiare: o lo si registra a Londra, come si deve, oppure meglio lasciar stare. E accadde il miracolo: il quartetto volò in Inghilterra e in una settimana incise l’album della vita, potente, bellissimo. Solo che l’abitudine di arrangiarsi e farsi prestare gli strumenti, all’Olympic Studios non funzionava: il conto divenne salatissimo e il manager non riuscì a vendere subito i nastri. Passano giorni, mesi, anni e poi c’è la vita, che è dura, con i membri della band ormai sparsi per il mondo e con altri mestieri, pur senza mai abbassare le chitarre. Oggi l’album dei Moby Dick c’è (di nuovo Akarma) ed è un po’ l’epilogo classico di tutte queste vicende: da metà anni Settanta in poi il rock italiano entrò in crisi, tramortito dalle discoteche, falcidiato dal servizio militare o da micidiali furti di strumenti e amplificazioni (giuro). Ma fu solo una ritirata strategica, credetemi: i dischi son lì ad aspettarvi e i musicisti li trovate ogni sera sui palchi di tutt’Italia. A suonarvele.
(Dicembre 2004)

hrc206aIan Gillan, parla con me
Fuori dal camerino, l’avvertimento: “se vi offende la nudità, non entrate!”. Dentro c’è Ian, vestito attillato di nero, come un mimo, che sorseggia una minestra in bicchiere. 61 anni, la faccia stanca di chi sta facendo un tour di successo ma anche il piacere della rivincita.
Com’è che non ti vediamo mai, in tivù?
Sai, le nuove generazioni cresciute con la tivù, la conoscono bene, sanno usarla. E sono giovani e belli. L’idea di un sessantenne sudato che si agita ha senso in un club, non nel tuo soggiorno. Noi siamo un po’ come gli stand up comedian: se vai in tivù a dire una battuta, la bruci per sempre. In un club puoi dirla quante volte vuoi, c’è un’audience diversa ogni sera. Questo è il bello di un tour.
Starai in giro tanto?
Un anno e mezzo, senza mai tornare a casa. Con mia moglie organizziamo delle vacanze sparse qui e là per il mondo, durante le pause del tour. Mi raggiunge lei.
E ti piace visitare altri paesi?
Sí, è molto educativo! Sono cresciuto nei suburbi di Londra e ho amato l’Inghilterra del dopoguerra. Era un paese ospitale. Ora non sono più tanto sicuro di amarla. La successione dei governi ha portato a una separazione culturale, non c’è più un’unità. Come negli USA: entità diverse, gruppi etnici diversi, fratture sempre più profonde.
Parli mai di calcio con Steve Morse (il chitarrista americano dei Deep Purple)?
E come potrei? Non capisce niente! Del resto io non so nulla di football americano. Cos’è un down? Ma dai…
Tolto Pavarotti, conosci qualche altro rocker italiano?
C’è il tizio ubiquo… quello che ha fatto dei duetti…
Ramazzotti?
Ma no, quello che è sempre in giro con tutti e li invita negli album, dai…
Zucchero?
Zucchero! E beh, come fai a non conoscerlo?
Fai ancora una vita da rocker… che gente frequenti?
Io adoro la gente che incontri di notte. Quando ero giovane finivo di lavorare alle tre del mattino, con cinque show sulla schiena, stanco morto ma pieno di adrenalina. E frequentavo chi era ancora in piedi a quell’ora: camerieri, ballerine, strippers e prostitute… Son cresciuto con loro e sono le persone più eccezionali. Sincere, affidabili, meglio di quelle che incontri di giorno.
I Deep Purple non hanno fama di grande profondità, ma forse è perché nessuno s’è mai messo a leggere i loro testi. L’ultimo album (Rapture of the Deep, il più venduto dagli anni Ottanta) ha una qualità spirituale… sei religioso?
Io non sono religioso ma capisco chi lo è. Il senso di appartenenza, di congregazione. È una ricompensa per soddisfare certe curiosità spirituali. Non vorrei essere blasfemo, ma è come un orgasmo collettivo, la religione. Ricordo che da bambino tornavo a casa, dopo la comunione o la messa, e praticamente volavo sul terreno. Ma non era soddisfacente dal punto di visto intellettuale. All’epoca non me ne curavo perché non ci pensavo, ma ora sí. M’interessa molto la metafisica, adesso…
hrc206bMetafisica, una rockstar?
Sí, mi sono appassionato al lavoro dei poeti metafisici o a Tennyson… e trovo eccezionali anche gli scienziati di fine Ottocento, come Charles Darwin. Quello che ha scritto, ora lo leggiamo non solo come testo scientifico ma anche come commento sociale a una società razzista e classista. Darwin ha ritardato la pubblicazione de L’origine della specie per qualcosa come vent’anni, ma a un certo punto era abbastanza anziano da non aver paura delle reazioni della chiesa… E grazie a dio l’ha pubblicato! Sai, la mia vita è quasi finita (vedendolo così vispo, Gillan doppierà i cent’anni, probabilmente sul palco)… non sono religioso, no, ma esaltatissimo dal futuro!
Senti, ti posso chiedere cosa pensi della guerra in Iraq?
Credo che il nostro primo ministro (non si degna neanche di citarlo) dovrebbe essere processato. Ha preso per il culo il parlamento, i reali, l’opposizione e la gente comune, per trascinarci in una guerra di cui non ha minimamente valutato le conseguenze. Abbiamo imposto artificialmente dall’esterno il nostro credo politico, ideologico e religioso ad un paese… quanto è morta la democrazia, così?
Di solito rispondono “Però adesso abbiamo Saddam Hussein”…
E allora? Con le sanzioni, negli ultimi dieci anni Saddam non ha fatto niente! Lo stanno processando per cose più vecchie, come aver trucidato 170 persone in un villaggio… George W. Bush, quando era governatore del Texas, ha firmato senza neanche leggerle le condanne a morte per 273 persone. Okay, erano stati processati, ma in processi dove le prove erano rifiutate nel dibattimento e cose così…
Non hai grande fiducia nei leader occidentali…
I leader dell’ovest sono cresciuti giocando a Monopoli, quelli dell’est giocando a scacchi e sanno prevedere qualche mossa più in là. Questo oltre ad avere una consapevolezza della vita più profonda della nostra.
E tu l’hai capito il senso della vita?
(Gli si illuminano gli occhi) Certo, assolutamente! Devi avere presenti due cose per essere felice, una fisica e l’altra metafisica: il senso di appartenenza e uno scopo. Ricordarti da dove vieni e sapere dove stai andando. Senza, la vita non ha senso.
(2 marzo 2006)

(Continua – 2)

La prima puntata è qui.

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Divine Divane Visioni (Cinema porno 08/11) – 72 https://www.carmillaonline.com/2015/06/11/divine-divane-visioni-cinema-porno-0811-72/ Thu, 11 Jun 2015 20:00:11 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22948 ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992 Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è [...]]]> ddv7201di Dziga Cacace

They’re talkin’ ‘bout a revolution, it sounds like a whisper

799 – Ho fatto la cavia con Mutande pazze di Roberto D’Agostino, Italia 1992
Tra le colpe imperdonabili di Tangentopoli c’è il non avere impedito per tempo la realizzazione di questa cosa urendissima, che decido di vedere stoicamente perché il film è sempre portato ad esempio del malcostume dei finanziamenti pubblici da gente che poi in realtà il film non l’ha visto. E sono una cavia perfetta: del topo ho il colorito, la voracità e pure il cervello. Innanzitutto, attenzione, non è un film truffa! I soldi spesi si vedono e forse, sulla carta, a livello di soggetto e sceneggiatura, questa satira del mondo della tivù poteva anche sembrare un progetto sensato. Poteva. Il fatto è che ne è venuto fuori un film girato coi piedi da uno che regista non è, senza alcun controllo su copione e attori, volgare e ipocrita in modo accecante: sono volgari le facce, i costumi, i dialoghi, la fotografia fuori controllo, gli zoom continui e sgraziati, le scenografie, i gesti, la musica, la messa in scena generale. E’ il classico caso in cui la rappresentazione diventa più grottesca dell’oggetto rappresentato, e – mi sbilancio – ciò accade perché c’è una collusione indistricabile. A dir la verità ci sono anche due momenti in cui ho però vacillato (ché in fondo sarebbe meglio vedere un film decente che una porcata, eddài) e mi son detto: sta a vedere che il D’Agostino (quello dell’edonismo reaganiano o del sublime Il peggio di Novella 2000, con Arbore) piazza la zampata di genio, la scintilla di fosforo che potrebbe comunque autorizzare questo sciupio. Il primo lampo è la scena almodovariana di seduzione di Eva Grimaldi nei confronti di un giovanissimo Raoul Bova, sulle note di Io tu e le rose. L’altro è quando le protagoniste si rivolgono direttamente alla cinepresa, un momento surreale inaspettato. Ma sono purtroppo fuochi di paglia perché le intuizioni finiscono in vacca in pochi secondi. E le dichiarazioni delle attrici in camera diventano farneticazioni dove si rivendica l’importanza di darla via, che è l’unico modo per farcela (sfogliando la margherita: “Gliela do o non gliela do? Tanto gliela do lo stesso!”), asserendo che, anzi, sputtanarsi è una dimostrazione femminista di potere. Ecco, questa presunta satira del maschilismo del mondo dello spettacolo non sarà maschilismo tout court? l film prevede l’intreccio di tre vicende esilissime: la conduttrice tivù (Monica Guerritore) disposta a tutto che vuole passare da un programma della mattina alla prima serata; l’aspirante attrice (Grimaldi) che si vedrà soffiare il posto dalla mai più sentita Barbara Kero (in una sorta di Eva contro Eva Grimaldi); la valletta (Deborah Calì, vedasi la pregevole pagina Wiki con i seminari frequentati) che – spinta da una zia arrivista – vuole impalmare un dirigente tivù. Finirà tutto in gloria durante una festa drammatica alla Hollywood Party, con come sottofondo L’italiano di Toto Cutugno, accostamento che vorrebbe essere grottesco mentre è perfettamente azzeccato. Citando Zabriskie Point esplodono tette mentre mutande e lingerie volano nel cielo… Il film m’è parso sinceramente emetico ed allucinante: uno di quei casi maldestri in cui si vuole fare satira e non ci si rende conto che il mondo satireggiato è esattamente quello che può produrre questo cinema non-cinema sbracato e presuntuoso. Facciamo un po’ di Dagospia? Nel cast di amici e correi ci sono: la Guerritore di cui si dice che se li sceglie solo potenti; la suina e burrosa Grimaldi, un’altra che le malelingue dicono essersi sistemata ben bene; Sergio Vastano con le guance vaiolose come “Faccia d’Ananas” Noriega; il comico Dario Cassini 150 chili fa; un finto Sgarbi, pressoché identico (a quello vero D’Agostino ha lasciato 5 dita sulla faccia in una storica trasmissione tivù di Giuliano Ferrara); un finto Brass (che grida “Viva il culo”) e un vero Busi che il culo lo mostra tutto contento. Film visto mentre è scoppiato il caso dei lauti compensi concessi da Sandro Bondi a una sconosciuta attrice bulgara venuta in Italia a spese nostre con folta compagnia, per un film che nessuno vedrà mai (oltre a incarichi a compagna, figlio dell’ex moglie e cose così…): Bondi per la Cultura è come Saddam per il Kurdistan. (Dvd; 27/10/10)

ddv7202800 – Zombie for dummies? Grindhouse – Planet Terror di Robert Rodriguez, USA 2007
Film che ha apparentemente un solo, semplice messaggio: “divertiti come un dodicenne”. Una marea di archetipi del cinema horror, exploitation e non solo, sono presi e potenziati visivamente e narrativamente, tralasciando i contenuti occulti che caratterizzavano gli originali, perlomeno esplicitamente, perché la metafora è ormai evidente, sempre, quando si parla di zombie. Ci si perde parecchia intelligenza (rispetto a un Romero, per dire), ma si guadagnano un po’ di cheap thrills e non sarò io a lamentarmi, perché – accettando il patto – la messa in scena è superba. E poi c’è l’infezione virale, la proliferazione e l’assalto degli zombie, il gruppo di sopravvissuti in fuga, i militari subdoli e, ovviamente, come da Ombre rosse in poi, l’eroe delinquente e l’eroina che vuol farla finita con la sua vita da poco di buono. Tra le cose rubacchiate qui e là c’è anche l’elicottero finale di Zombi, anche se l’aggiornamento dell’utilizzo fa sghignazzare. Rodriguez mette su un baraccone coloratissimo che gioca con lo spettatore, la sua memoria e le manie degli americani: il sesso, il cibo, la violenza. Tra cameo imprevedibili (tra cui Tarantino a cui cascano letteralmente i coglioni) musiche tirate, cromatismi e gag riuscite (“la ricetta per la miglior salsa barbecue del Texas”), viene fuori un festival di liquidi organici che schizzano e membra corporee che si spappolano allegramente. Come in un blues d’altri tempi, alla fine, la salvezza è south of the border… a Tulum! (Chissà se c’è dell’ironia; io a Tulum, fra rovine secolari, avrei fatto volentieri una strage di turisti panzoni yankee, a torso nudo e birra in mano che pensavano di essere in un parco giochi). Ad ogni modo: Barbara irritata, io ottusamente divertito. Ma molto! (Dvd; 30/10/10)

ddv7203801 – L’agghiacciante The Pacific di Aa.Vv., USA 2010
Che uno dice: ma non potevano lasciarle perdere queste isolacce di merda dell’oceano Pacifico, che ogni volta ci perdevano una marea di uomini? Non potevano puntare direttamente sul bersaglio grosso e portargli la guerra in casa, gli americani ai giapponesi? Poi vedi come andavano le cose contro pochi soldati e capisci che pensare di combattere contro un popolo intero, invadendo la loro terra, sarebbe stato un suicidio, l’ennesimo ma su scala macrospica. The Pacific – prodotto da Steven Spielberg e Tom Hanks – è allucinante: senza alcun compiacimento estetico, senti la fatica, la disperazione, la fame, la sete, la mancanza di sonno, come se ci fossi anche tu, spiaggiato sotto il fuoco nemico, di un nemico che non si arrende manco per niente, che non cede di un millimetro, che piuttosto che arrendersi si fa bruciare vivo. E che poi passerà attraverso l’olocausto atomico, in una insensatezza senza limiti. I protagonisti sono il giornalista Bob Leckie (che sopravvive grazie anche alla scrittura e al distacco intellettuale); il valoroso John Basilone (eroe a Guadalcanal, poi mandato a raccogliere soldi e infine, dopo un fugace amore, di nuovo in trincea); il ricco sudista Eugene Sledge (che non vuole rimanere a casa per un soffio al cuore e che scopre l’orrore rimanendone traumatizzato); senza dimenticare, tra i personaggi secondari, l’eccezionale e allucinato Snafu. Sceneggiato ossessivo, agghiacciante e infine commovente, quando sui titoli di coda attribuisci delle facce vere a queste storie che sembrano inventate tanto sono disumane e bestiali. Meno “divertente” di Band of Brothers, anche The Pacific si concentra sugli uomini, senza interrogarsi sulle cause e sugli esiti della guerra, ma già così c’è fin troppo dolore. (Dvd; dicembre 2010 e gennaio 2011)

ddv7204802 – Fare il papà è veramente pericoloso: Winx Club 3D – Magica Avventura di Iginio Straffi, Italia 2010
Prendo posto con Sofia nella sala semivuota e alle mie spalle sento chiaramente una mamma che commenta con la figlia: “Guarda che sfigato quel papà! Lo devono aver costretto!”. In effetti, sì, porco Giuda: ho perso una riffa micidiale con Barbara e nel cinema siamo giusto in tre uomini di genere maschile, attorniati da bimbe rincitrullite (tra cui mia figlia) e mamme anch’esse ricattate se non citrulle e volontarie massacratrici dell’immaginario della figliolanza. Perché questa film vomitorio è un vero e proprio attentato reazionario e maschilista all’universo fantastico cui fanno riferimento i bimbi. È un incubo rosa confetto dove la trama è presto detta: ci sono i buoni contro i cattivi. E i buoni sono buoni perché sono buoni e fighetti. E i cattivi son cattivi perché cattivi. Amen: non c’è motivazione, sviluppo, evoluzione, lezioni da imparare o messaggi da comunicare. Anzi, sì, qualche messaggio c’è ed è unicamente la promozione pubblicitaria di tutto quanto sia firmato Winx. Insomma, se incontro Iginio Straffi – che ho visto sfilare sciarpettato alla Festa del cinema di Roma con la sicumera del tycoon de noartri –  rischia veramente di finire a schifìo. Insaporito da musiche per bimbominkia orrende, la pellicola (“film” sarebbe sinceramente troppo) è un inno alla volgarità televisiva: le donne sono rappresentate come delle ninfette sciampiste dagli zigomi tirati, col pancino scoperto, le lunghissime gambe stivalate e l’intelligenza di una gallina petulante. Le vediamo armeggiare coi cellulari, laccarsi le unghie e vagheggiare shopping o romantiche storie d’amore. Poi quando si tratta di lavare i piatti, ovviamente tocca a loro, mica ai maschietti della vicenda, degli pseudo tronisti muscolati con facce inespressive. Ma forse questo è anche dovuto al livello dell’animazione: sembra di vedere un videogioco di 10 anni fa, coi movimenti ancora rigidi, le articolazioni bloccate e le espressioni esaltate dal botulino. Del resto anche la vicenda procede per schemi, come un elementare videogioco. La seconda parte, per onestà, è migliore e in crescita, ma si rimane comunque in una piattezza devastante, senza alcuna minima profondità, senza un pizzico di humour, figuriamoci poi d’ironia. Io sono profondamente offeso da questa roba e voglio fare una class action contro Straffi assieme ad altri genitori indignati. Scorrono i titoli di coda e scopro l’estrema beffa: questa cosa qui ha avuto il riconoscimento dell’“interesse culturale senza contributo”. In una repubblica seria, l’autore di siffatta barbarie andrebbe punito e dovrebbe pagare lui i danni alla comunità. E bisognerebbe costringere Bondi a vedersela sui ceci, questa cagata pazzesca. Magari a Pompei, a fianco di una parete pericolante, così, per avere almeno un po’ di suspense. (Cinema Ducale, Milano; 13/11/10)

ddv7205803 – Lo stupefacente La città incantata di Hayao Miyazaki, Giappone 2001
Lo propone Barbara, che lo vede lì da secoli, nella pila di Dvd acquistati bulimicamente. E io che faccio, rifiuto? Macché, colgo l’occasione al volo, tanto più che vivo da anni il senso di colpa di non essermi mai cimentato abbastanza col maestro dell’animazione nipponica. E vengo catapultato in un mondo abitato da rospetti, uccellini panzuti, suini giganteschi, bimbi obesi, esseri polipeschi, ravanelli gonfi, spiriti neri, nuvolette di fuliggine e palle di melma cagosa. La piccola Chihiro sta traslocando coi genitori ma, lungo il percorso verso la nuova casa, imbocca un tunnel misterioso e finisce in un parco abbandonato dove si trova un bagno termale per spiriti (!): mamma e papà diventano due maialoni e lei affronta mille prove per liberarli dall’incantesimo seguendo i consigli del bellissimo maestro Haku o relazionandosi con la temibile Yubaba che sembra una Lina Volonghi agromegalica. Alla fine uscirà dal tunnel e da questo sogno popolato da incubi come se si fosse persa per un attimo solo, anche se lei sa e noi sappiamo che il tempo è passato sul serio. Barbara e io abbiamo assistito attoniti, come due pungiball. Tutti mi avevano detto: “è un capolavoro, credimi” e io che francamente queste cose non le capisco proprio e mi sembrano inafferrabili come la partita doppia in contabilità o le regole del baseball, beh, sarà per la bellezza delle immagini, per la dolcezza del racconto stralunato, passin passetto son stato conquistato da questo mondo fantastico che al confronto Dalì era un impiegato del catasto e Bosch un ragioniere. Per cui non so se sia una capolavoro (e poi chi sono io per dare questa patente?) e non so se vedrò altri di film di Miyazaki, però La città incantata mi ha lasciato un piacevole senso di inquieta e malinconica serenità. Devo averlo capito poco, ma m’è istintivamente piaciuto molto. (Dvd: 17/11/10)

ddv7206804 – La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa! del sempre compagno Sergio Sollima, Italia 1977
Secondo episodio (stavolta cinematografico) non granché ma che Sofia gradisce comunque. Sandokan s’è ritirato nella giungla del Bengala, Yanez s’è sposato e a Mompracem regna un nuovo rajah, un panzone libidinoso con un fracco di mogli. Ma la guerriera Jamilah (interpretata da Teresa Ann Savoy) non ci sta (“Gli europei in Asia o sono in uniforme o sfruttano il popolo!”) e mette su la resistenza, aiutata dall’infido greco Teokritis che si rivelerà poi un traditore. Solite manfrine, duelli, battaglie, avventure e anche un po’ di commedia, con l’umorismo affidato a Yanez (a un certo punto si finge consigliere militare prussiano, tanto di cappello nero col teschio come le SS). Musiche dei fratelli De Angelis con un tema scopiazzato da Impressioni di settembre della PFM; luci non al meglio, certe volte accecanti, altre da “effetto notte”, con risultati decisamente stranianti. Il tigrotto Kammamuri è Sal Borgese, visto mille volte in tutto il cinema di genere italiano degli anni Settanta e ti aspetti che nelle scene di combattimento saltino fuori Bud Spencer e Terence Hill. Mah! (Dvd; 28/11/10)

ddv7207806 – Molto carino, dài, School of Rock di Richard Linklater, USA 2003
Premetto che a me Jack Black non ha mai fatto ridere: ha la faccia da cazzo ed è simpatico come un gancio da macellaio su per il culo. Si agita, fa le faccine e ballonzola, con gli occhi stanchi, piccoli e inespressivi, eppure è considerato un fenomeno della commedia USA, anche in ragione di questo School of Rock. Amici fidati mi dicono: se vuoi una bella favola musicale per Sofia, questo è il film che fa per te. Oltre tutto Linklater è un regista interessante, mai banale. Proviamo. Trama all’osso: un rocker fallito si finge supplente e insegna a una classe di tappetti di dieci anni a suonare il rock. Ragazzi: “bimbi + rock = eureka”, è una formula perfetta, anche se del rock si prendono i più vieti luoghi comuni, l’ipocrita ribellione a buon mercato e l’estetica più dozzinale. Ma siccome il rock è e deve essere dozzinale, alla fine questo trattatello musicale per pigmei funziona eccome, diverte e, alla fine, commuove pure. Nessuno scarto da una trama abbastanza telefonata e assecondata con mestiere, una classica scena finale ricattatoria perfetta cui non puoi sfuggire, bambini che recitano benissimo, titoli di testa intelligenti e musiche – ma sbagliare sarebbe stato impossibile – azzeccate. Sentiamo Led Zeppelin, Ac/Dc, Kiss, Cream, Deep Purple, Who e anche Stevie Nicks, passionaccia della rigida preside della scuola, che quando la ascolta si smolla anche un po’ (attrice comica bravissima, lei, tra l’altro). Non avrei mai visto School of Rock, non fosse stato per la varicella dell’entusiasta Sofia: tutto sommato m’è andata bene. (Dvd; 2/12/10)

ddv7208807 – Fish Tank di una ciarlatana, Gran Bretagna 2009
Siamo a Genova per tre veri giorni di vacanza come non ne capitavano da un anno intero. La prima sera, dai miei, il babbo giulivo produce un Dvd che annuncia come un gran film, osannato dalla critica, vincitore di premi e quant’altro. Siccome sono una merda, comincio a fare polemica: e chi l’ha detto? Ma siamo sicuri? Vabbeh, proviamo. Il film parte e lo squallore invade lo schermo: casermoni popolari, tivù sempre accesa, alcol come se fosse acqua; mamma è sola e le piacciono i maschiacci, la primogenita Mia ama ballare l’hip hop e la sorellina di dodici anni fuma e parla come un portuale. Alé, sembra la famiglia di Cristina Parodi. Mia – faccia torva – continua a gironzolare intorno a una cavalla che vuole liberare, ai margini della periferia. Perché cavalla uguale libertà, io vuole ballare, io beve perché disperata. Ma cara la mia regista (tale Andrea Arnold): un bel vaffanculo non te lo ha mai gridato nessuno? E a voi critici radical chic che a queste porcate abboccate per senso di colpa? Dopo trenta affettati minuti di questo quadro devastante di abbrutimento, assassinato in più da un doppiaggio da far rizzare i capelli, con voci sbagliate come età e come adesione alla recitazione, penso che sia meglio un qualunque scabeccio Disney di Sofia che un film d’autore di successo a Cannes (premio della giuria! Ma cosa s’erano calati?). Lo faccio notare ad alta voce (in realtà rompo le balle fin dai titoli di testa, commentando ogni cosa) e allora papà innervosito esibisce con sicurezza un po’ incrinata le recensioni di non so quanti quotidiani e riviste di cinema. Non mi trattengo: “Ancora Cineforum, leggi?”, e qui lui ha un travaso di bile e alza la voce, stufo. Barbara – che intanto dormiva beata – si sveglia, sente una battuta atroce dallo schermo e prorompe in un tempistico: “E questo cosa cazzo è?”. Papà è in piena crisi isterica, sudato e paonazzo: temo gli venga un infarto e decido di lasciarlo in pace, avendogli già ampiamente rovinato la serata. Il film lo vedo finire in originale, da solo, il giorno dopo. E le cose sinceramente sembrano migliorare. Ma neanche troppo, nel senso che – è vero – ci son delle belle facce e la regia e il montaggio sono nervosi il giusto. Però prevale una messa in scena fredda, senza alcuna compassione e neanche rabbia, dove la bruttura altrui è fotografata con compiacimento. E poi la trama, scusate: mamma ha un nuovo uomo, il simpatico rossocrinito Connor (Michael Fassbender). Sesso e birrazza e Mia che scruta da dietro la porta e si scopre incuriosita dall’irlandese. Il quale dà qualche lezione di vita e incoraggia Mia nella sua passione per la danza. Lei – che nel frattempo ha un sincero flirtino con Bobby, il ragazzo che tiene il cavallo di cui si diceva – intravede una via di fuga in un concorso per ballare in un locale, Connor la sprona e poi – ma chi l’avrebbe mai detto! – alla mamma sfatta e ‘mbriaca preferisce la carne fresca della quindicenne. Alla prima occasione, zac, todo dentro! Viene in un minuto e si pente in 30 secondi. Ovviamente quella cosa là, che senza precauzioni si rimane incinta, da quelle parti deve essere ritenuta leggenda, ma non stiamo a sottilizzare. Connor molla tutto e scappa, ma Mia non ci sta e scopre che il bel tomo tiene pure famiglia e allora rapisce sua figlia (!) e in un comprensibilissimo moto di nervosismo la getta nella foce del Tamigi (!!!). Però poi la recupera e la riporta a casa, beccandosi giusto un ceffone, ché in Gran Bretagna non hanno Chi l’ha visto, evidentemente, e la scomparsa di una bimba viene vista come pura sbadataggine. E poi, siccome Fish Tank non è Flashdance (ma magari, porca Eva, magari!) l’audizione è per ballerine da night scosciate e possibilmente zoccole e Mia rinuncia. Va a cercare la cavalla ma Bobby ammette che l’hanno soppressa. Per cui Mia si fa un bel piantino e decide di andare in Galles con Bobby stesso. Prima, però, ballo finale a casa, con mamma e sorellina. E poi via!, che a Cardiff ci si deve divertire veramente un mondo. E mentre la macchina parte, un palloncino a forma di cuore vola via. Il palloncino a forma di cuore… non ci posso credere. Salutata come erede di Ken Loach, a mio modesto avviso questa regista non si merita altro che una scarica di nerbate con bambù fresco sulla schiena, altroché. (Dvd; 27/12/10)

(Continua – 72)

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La Controfigura https://www.carmillaonline.com/2015/05/02/la-controfigura-2-eduardo-rozsa/ Sat, 02 May 2015 20:23:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21991 di Luisa Catanese 

Seconda parte  [Qui la prima parte]

tumblr_lci97cNbNO1qb0bzxo1_1280Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania… Per Eduardo non piango una sola lacrima perché non saprei chi sto piangendo. Ora che sono padre provo a pensare che i suoi genitori sono morti prima di lui: non gli capiterà di leggere e di ascoltare quello che si dice e si scrive di loro figlio. Eduardo Rózsa Flores era un mercenario che voleva uccidere il presidente Evo Morales. Era un neofascista [...]]]> di Luisa Catanese 

Seconda parte 
[Qui la prima parte]

tumblr_lci97cNbNO1qb0bzxo1_1280Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania… Per Eduardo non piango una sola lacrima perché non saprei chi sto piangendo. Ora che sono padre provo a pensare che i suoi genitori sono morti prima di lui: non gli capiterà di leggere e di ascoltare quello che si dice e si scrive di loro figlio.
Eduardo Rózsa Flores era un mercenario che voleva uccidere il presidente Evo Morales. Era un neofascista che intendeva promuovere l’insurrezione e la secessione del dipartimento di Santa Cruz, ricco di risorse, dal resto della Bolivia. Dunque, prendo nota: organizzazione di una milizia, repressione dell’esercito statale, intervento straniero, riconoscimento dell’indipendenza o di qualcosa di simile.
Prima di partire per l’America Latina ha rilasciato un’intervista a un giornalista ungherese: affermava di non aver nulla contro Morales, ma che presto sarebbe tornato nel paese natale per organizzare la difesa dall’imminente attacco dell’esercito boliviano.
Su un periodico venezuelano si sostiene che chiunque dipinga Rózsa Flores come fascista è un diffamatore: lui era amico del rivoluzionario, prigioniero politico nelle carceri francesi, Ilich Ramírez. Visto che Ramírez, detto Carlos lo Sciacallo, è un pen-friend del presidente Hugo Chávez, alleato fraterno di Evo Morales, allora Rózsa Flores non può che essere un combattente per la libertà e per la giustizia.
Leggo qua e là che Eduardo Rózsa Flores collaborava con la CIA. Faceva il doppio o magari il triplo gioco. È stato chiamato in Bolivia dalle forze di sicurezza governative per decapitare l’organizzazione dei secessionisti: ha esplosivo che può avergli dato solo l’esercito boliviano. Le forze speciali dell’esercito lo hanno ucciso perché non risultasse che era stato reclutato per colpire affaristi, faccendieri, uomini politici secessionisti.
Era legato a croati di estrema destra, residenti in Bolivia nel dipartimento di Santa Cruz, loschi figuri che trafficano armi e droga. Aveva senza dubbio legami stretti con riviste di destra e collaborava con Jobbik, partito di estrema destra ungherese, che pare non disdegni di essere finanziato da potenze straniere del Vicino e Medio Oriente e da gruppi dell’Islam radicale.
Dai magiari più nazi, che per qualche tempo forse lo hanno considerato un camerata o un possibile alleato, ora viene giudicato un ebreo, un falso eroe, un agente bisessuale del Mossad, infiltrato nella destra ungherese.
C’è l’imbarazzo della scelta, insomma. Era uno psicopatico, uno Zelig nazionalista alla ricerca del pericolo per farsi di adrenalina e morire come un Che Guevara? No, dice qualcuno, era un impulsivo che si butta generosamente nella mischia senza riflettere: uno che ha tutti i pezzi del mosaico in tasca, ma li ricompone troppo in fretta e male. Lo possiamo dunque immaginare come una creatura di laboratorio, fuggita dalle gabbie del socialismo autoritario, una chimera che cuciva insieme le membra del cane da guerra e del capro espiatorio? No, assicura un altro, aveva un progetto chiaro. Era un musulmano sincero, la cui memoria viene infangata: un combattente internazionalista dell’Islam politico, vittima di un complotto.
Vedo dei corpi nudi, quasi nudi, lordi di sangue, riversi sul pavimento. Eduardo, un irlandese, un magiaro di Romania. Vedo altri due uomini, vivi, un croato e un ungherese, che presto saranno chiusi nelle galere della Bolivia: sono incappucciati, in ginocchio, la schiena nuda, segnata. Vedo Eduardo che abbraccia i suoi commilitoni, che ancora ride, che mostra all’obiettivo pistole e munizioni disposte su un tavolo. Lo vedo mentre finge di dormire tra due armi automatiche, con la testa su un guanciale e la mano sinistra poggiata sulla pancia, coperto solo da un lenzuolo che lascia in mostra la maggior parte del suo corpo tarchiato, pesante. Vedo le foto del suo cadavere supino: addosso ha un orologio e un braccialetto di corda sottile, un tatuaggio sulla spalla sinistra, un altro più piccolo sulla spalla destra, i fori delle pallottole. Lo zigomo destro è livido e lacerato, la fronte e il naso sembrano contusi. Tanto sangue rappreso a terra, tra il corpo e il pavimento.
«L’obiettivo del fotografo è dalla parte della testa. Il corpo è disteso e preme lungo una cassettiera. L’avambraccio destro è sollevato da terra, il polso è piegato; le nocche, il pugno semiaperto poggiano sulla parte bassa del torace. Il braccio sinistro, che preme contro la cassettiera, attraversa il petto. C’è un cassetto aperto che pende sul corpo. Non si capisce da dove venga questo cassetto. Sembra che lo abbiano aperto per sostenere uno di quei cartoncini gialli che si mettono sulla scena del delitto. Sul cadavere c’è questo cartoncino giallo e sopra è scritto il numero uno. Il cartoncino poggia sul cassetto e sulla pancia. I genitali e l’ombelico sono coperti dal cartoncino. I capezzoli sono coperti dal braccio sinistro. C’è qualcosa che vela un angolo della foto e la parte superiore della testa, dove i capelli sono più radi».
«L’hanno ucciso senza troppi complimenti, ma sembra che abbia approvato la sceneggiatura. Se è una fiction, dobbiamo aspettarci di rivederlo ancora vivo».
«Nato e morto a Santa Cruz. Ucciso in Bolivia come Che Guevara. Forse tradito. Eroe e vittima… Lo devo dire a Daniele».
«Credi che volesse morire così?»
«Ho trovato l’intervista a un uomo e a una donna ungherese. Sono presentati come il miglior amico e la fidanzata. L’amicizia risale al 1998. Invece con la fidanzata stava insieme da tre o quattro anni. Si erano conosciuti in un parco di Budapest, dove portavano il cane; ma non ci abitavano più a Budapest, si erano trasferiti in una cittadina di campagna. Ho visto la foto della donna. Sullo sfondo c’era un orto».
«Viene fuori qualcosa?»
«L’amico conferma la versione di Eduardo. Quello che dice nell’intervista rilasciata prima di partire: io non ce l’ho con Evo Morales, vado là per difendere Santa Cruz dall’esercito. L’amico dice che Eduardo alle elezioni stava dalla parte di Morales: un indigeno, una bella novità per la Bolivia eccetera eccetera. Ma poi la novità indigena in pochi mesi diventa il rischio di una dittatura ed Eduardo Rozsa Flores doveva salvare la patria, che non è più l’intera Bolivia ma solo il dipartimento di Santa Cruz. Poi va a Santa Cruz e la situazione non è quella che si aspettava…»
«Lo dice questo fantomatico amico? Che cosa vuol dire?»
«Io ti riferisco che il giornalista dice che l’amico magiaro dice che Eduardo diceva… Eduardo si aspettava un’altra situazione. La situazione in cui si trovava era diversa da quella per cui si era preparato un piano. Non lo so, troppo fumo, contraddizioni, ingenuità poco credibili. La fidanzata sostiene che Eduardo non apprezzava la vicinanza tra Morales e Chávez. Però, sei mesi prima che l’uccidano, Eduardo viene intervistato da un venezuelano, vicino a Chávez, nonché ammiratore di Ilich Ramírez, lo Sciacallo, che come sai era una vecchia conoscenza di Eduardo. L’intervistatore chiede a Eduardo: che cosa ne pensi della fase politica, cioè di Hugo Chávez? Eduardo ci gira un po’ intorno, non si sbilancia sulla politica interna venezuelana: la butta sulla fratellanza e l’avvenire dei popoli dell’America Latina, un continente attraversato da un vento di rinnovamento. Poi, però, dice chiaramente di apprezzare la politica estera di Chávez: Palestina, Iran… Non te la faccio lunga. Esiste forse una coerenza nascosta, un filo di qualche colore che tiene unite le toppe. Però Eduardo continua a cantarla in modo un po’ diverso secondo il pubblico… Uno che è fuggito da un paio di golpe in Sud America, che ha servito l’esercito nel Patto di Varsavia, pensa che Evo Morales aspiri alla dittatura? A me sembra ridicolo, assurdo, o almeno molto strano. Forse sono io superficiale. Secondo la fidanzata, Eduardo in Croazia formò la sua brigata internazionale per proteggere gli inviati di guerra, dopo che alcuni giornalisti stranieri erano stati uccisi».
«Era una donna nei secoli fedele. Pensi che sia davvero così ingenua?»
«Il busto di Stalin, che teneva in camera da letto, era stato ricollocato nel giardino di casa loro. Ci aveva scritto sotto: “Vomitate qui”. E quando c’era una festa, gli invitati sbronzi potevano vomitare in faccia a Stalin».
«Ha mai detto una sola volta: io ho sbagliato?»
«Ogni volta dissimula qualcosa. Vuole eliminare le contraddizioni. Forse il busto di Stalin, quando abitava coi genitori, lo teneva in camera per fare un dispetto al padre. O magari gli cambiava di posto, secondo l’ospite… Dopo essere stato in Russia alla scuola del KGB, ha un’illuminazione: “Mi resi conto che tutto era puro teatro, parole vuote, che non significavano nulla”. L’ho trascritto da un’intervista recente. Però a quei tempi continuava a lavorare per i servizi segreti ungheresi. E allora non si capisce bene cosa fossero questo “puro teatro” e queste “parole vuote”. Il teatro gli piaceva moltissimo. E non era solo teatro: la guerra e la polizia segreta le sapevano fare bene. Lui partecipava e ha imparato. Nel regime ci stava di casa, come soldato, come agente segreto».
«Lì non preparava insurrezioni».
«Forse sì, in Romania, per la minoranza magiara. Ma siamo già in un romanzo… In Ungheria non credo, ma a questo punto… Daniele si ricorda che diceva parole di ammirazione per János Kádár, che ha governato l’Ungheria per decenni. Ci indicava la casa. Lo stimava. Forse era riconoscenza…»
«Le parole vuote che sentiva a Mosca potevano essere uguaglianza, proletariato, internazionalismo. Doveva trovarle così vuote che, per dare sostanza al suo teatro, e a se stesso, e forse anche alla sua vaga idea di giustizia, poi ha riempito gli stampi col materiale che trovava per strada».
«La sua idea di autodeterminazione, applicata alla realtà, sembra una versione di destra del frazionismo dell’estrema sinistra. I suoi amici negano che lo facesse per soldi. Ho provato a scrivere su un foglio tutte le definizioni, oltre a mercenario, che mi venivano in mente o che trovavo scritte su di lui. Sei pronta? Islamista rivoluzionario, anti-imperialista e anti-capitalista, ma disposto ad alleanze tattiche con chiunque, con nazionalisti o con potenze locali e mondiali; sovranista, giustizialista, rossobruno, montonero di religione islamica; socialfascista, neofascista, socialista nazionale o, se preferisci, nazional-socialista delle piccole patrie; autonomista differenzialista; nazionalista antiautoritario, anarconazionalista, etnoinsurrezionalista…»
«Basta anche meno».
«Potrei continuare. È più utile rintracciare le contraddizioni, le continuità…»
«Stava nella corrente. Voleva partecipare, ma voleva ancora di più essere un protagonista. Si adeguava ai luoghi e ai tempi, ma non faceva autocritica. Nascondeva le contraddizioni, sbianchettava una parte del suo passato. Le cancellature, gli errori non si dovevano vedere. Desiderava sentirsi al centro del mondo. Aveva un ego smisurato».
«Mostra una vocazione religiosa, missionaria, umanitaria: si converte a ogni cambio di stagione, dopo la caduta di Saddam Hussein si propone come mediatore o come portavoce del governo provvisorio dell’Iraq, porta aiuti umanitari in Sudan e in Indonesia, muore come un martire a Santa Cruz».
«Non poteva scegliere un luogo migliore».
«Rozsa e Croce… Opus Dei, Rosa e Croce. E nel 2007 ha scritto versi sufi in ungherese».
«Già su questo si potrebbe scrivere un romanzo».
«Ma ha un’altra vocazione, forse più sincera, o forse no, per le armi e la guerra. Per lui la lotta di classe era diventata una di quelle parole vuote. Alla fine degli anni Ottanta le minoranze nazionali gli sembrano più tangibili, più disponibili, più facili della lotta di classe».
«Sembra che il conflitto non possa essere altro che lotta armata, guerra di soldati. Guerra tra popoli; mai lotta di proletari, operai, scioperi, movimenti. Mai movimenti di donne. Un affare di maschi armati che si mettono in posa per un film o per una foto, a quanto vedo. Uomini che spargono sangue per spartirsi la Terra. Non mi hai parlato quasi mai di donne. C’era la madre ed è morta. Mi hai raccontato che aveva qualche storia…»
«Delle hostess. Me l’ha ricordato Daniele».
«C’è l’ultima fidanzata che ripete quello che lui dice, e forse ci crede. Dove sono i proletari? Dove sono le donne? Nella sua vita, nella Storia…»
Le donne nella sua vita, nella Storia… Durante il viaggio in Europa, mentre Daniele riusciva a trovare il tempo per leggere qualche pagina in francese del saggio De l’amour, il suo balordo compagno di stanza, che si sentiva in dovere di conoscere molte ragazze, prima di uscir la sera trovava giusto il tempo per lavarsi e cambiare la biancheria. Avremmo incontrato, conosciuto, parlato, solo parlato, con parecchie ragazze ma non a Budapest.
«No, compañera. Le donne in lotta non stavano nel fascio di luce… Era fidanzato. Lei dice che si sarebbero sposati presto».
«Che poi fosse bisessuale o no non cambia niente. Sui diritti dei gay scommetto che la pensava più o meno come il collega Vladimir Putin. Direi che gli piacevano le persone che affascinava, che accettavano la sua autorità».
«Una donna c’è: sua sorella ***. Io e Daniele non l’abbiamo incontrata perché non era a Budapest. È l’unica rimasta della sua famiglia».
«Già, me l’avevi detto».
«In un’intervista viene fuori che il fratello con le sue donne era un po’ despota. Dice che la relazione più lunga era stata con una chica russa che lo avrebbe definito l’uomo della sua vita. Non so se questa ragazza esiste. Mi pare che a Budapest lui frequentasse un’ungherese. Non era la chica russa di cui parla la sorella. Noi non le abbiamo mai viste. In un parco una sera ci ha presentato un paio di ragazze. Non abbiamo fatto a tempo nemmeno a dire due parole».
«La sorella esiste, però».
«Dirige il Museo di Arte contemporanea a Santa Cruz. In quel museo ci sono anche i quadri del padre».
«Dunque, esiste. Ormai esiste più del fratello».
«Nel film su Eduardo lei non esiste. Il protagonista non ha una sorella».

Verosimile ma falso. Inverosimile ma vero. Ogni verità sembra parte di una menzogna, dice Luisa. Ogni scelta sembra sfuggire a una strategia chiara.
Dovrei prendermi la briga di cercare i suoi libri, i suoi articoli in ungherese. C’era un ragazzo di Napoli o di Salerno che avevo conosciuto in sala studio… Ha vissuto per anni in Ungheria, e chissà dove abita ora: lui potrebbe aiutarmi a tradurre, se trovassi il suo indirizzo, se ricordassi ancora il suo cognome. L’ho rivisto per caso una volta che passava a Bologna; gli ho chiesto se conosceva il nome di Eduardo, che ancora era vivo, e gliel’ho ripetuto tre volte, ma lui niente, mai sentito. Avevo scritto l’indirizzo su un biglietto che ho infilato nel portafoglio, che poi ho svuotato in un cassetto, che poi ho riversato in uno scatolone prima del trasloco… Tre scatoloni sono ancora chiusi, in cantina. La carta è più difficile da falsificare. Le enciclopedie online vengono continuamente modificate. Di Eduardo ci sono poesie, memorie, scritti politici, articoli sui giornali. È tutto una menzogna, un alibi? Devo mettere tra parentesi le sue imprese in Croazia e i suoi rapporti con l’estrema destra ungherese. Provo a prendere sul serio le sue parole.
«L’immoralità, la menzogna, i crimini commessi in nome del “socialismo reale” sono imperdonabili. Bisogna usare molto detersivo per lavare questa ignominia. Ti parlo della realtà, non delle idee. Non della necessità, che davvero esiste, di costruire una società più giusta. Bisogna in primo luogo tenere in considerazione i veri desideri del popolo. Ciò che facciamo non è contro ma per il popolo, nell’interesse delle nostre nazioni. Imparai a odiare le famigerate élite del campo socialista per un semplice motivo: questi miserabili erano più interessati, anzi, erano interessati solo a restare al potere, con i loro privilegi, coi loro vantaggi. Per loro il “socialismo” era solo una copertura, che non aveva nulla a che fare con ciò che in basso, il popolo, sentiva e desiderava. Sono arrivato alla conclusione che non si può parlare di socialismo né realizzarlo se non si rispettano pienamente la libertà e il diritto all’autodeterminazione, sia degli individui che compongono la società, sia dei popoli e delle nazioni. Se no che cosa ci distingue da quelli che diciamo di odiare, se commettiamo i loro stessi errori, i loro stessi crimini. Una cosa è prendere il potere, con o senza armi, imporre una direzione, innescare un processo. Ma più tardi non è possibile prendere tutte le decisioni, necessarie o no, al posto del popolo, per cui abbiamo preso il potere o fatto la rivoluzione o vinto una guerra di indipendenza. Per questo ritengo che uno degli esempi più validi sia quello della Rivoluzione sandinista in tutto il suo sviluppo… Nessuno ha il diritto di soppiantare il popolo. Noi siamo servi, impiegati, schiavi di una causa, e non abbiamo più diritti degli altri. Sulle nostre spalle abbiamo doveri, compiti da adempiere».
Lo pubblica il 31 ottobre e muore ucciso il 19 aprile, in compagnia di un contractor irlandese e di un magiaro transilvano di estrema destra, che cantava e scriveva canzoni.
Bisogna usare molto detersivo per lavare questa ignominia, diceva. Bisogna lavare l’ignominia del passato con un sapone nero, esfoliante. Sapone di Croazia, abluzioni rituali, candeggina Jobbik.
Per loro il socialismo era solo una copertura. I veri desideri del popolo. Nell’interesse delle nostre nazioni.
Quali desideri? Quali nazioni? Quanti desideri, quante nazioni? Bisogna dividere chi canta la ninna nanna in serbo-croato da chi la canta in croato-serbo. I bambini potrebbero confondersi. Gli altri fanno il segno della croce al contrario. Chi vuole ricevere una cartolina in cirillico sta da una parte, chi la desidera in alfabeto latino dall’altra. Quali desideri del popolo? I desideri del popolo prima di colazione o dopo cena? Quale popolo? Il popolo del dipartimento, della provincia, del comune, del quartiere, del condominio… I desideri di un imprenditore sono i desideri del popolo? Sono legali o illegali questi desideri? Per quanto tempo? Quanti giorni prima e quanti giorni dopo aver votato a un referendum o alle elezioni?
Il popolo desidera servire chi parla e prega in dialetto. Non vede l’ora di lavorare per i capaci e i meritevoli della sua piccola grande patria. Equilibrismo, stare a galla, volontà di emergere, cavalcare la tigre. Dal piccolo padre alla piccola patria. Dalla periferia bisogna tornare in centro; poi ci ritiriamo in campagna a coltivare l’orto; e finalmente vai a morire ammazzato sotto la Santa Croce materna. Voleva essere ricordato. Era un protagonista secondario. Ha vissuto molte vite, una vita romanzesca. Ha giocato su più tavoli. Tutte le nazioni giocano lo stesso gioco? Un’alleanza tra una parte dell’islamismo radicale e movimenti nazionalisti di destra contro il nemico. Contro il capitalismo globale, contro l’impero, contro gli imperi? Cerca alleati per combattere il nemico, ma come fa a invitare tutti gli amici al compleanno? Alle feste beveva alcolici? E durante il Ramadan? Perché combatte contro Morales? È troppo moderato, troppo pacifico, troppo indio? Neanche la socialdemocrazia della Svezia era abbastanza eroica. Il presidente indio pianifica di segregare, deculturare, sbattezzare, sterilizzare, drogare, umiliare, sfruttare, torturare, incarcerare, tassare i borghesi cattolici bianchi di Santa Cruz? Chi è questo imprenditore boliviano di destra, questo Branko Marinkovic Jovicevic, figlio di un croato, che vuole la secessione?
Poniamo che Eduardo non fosse in Bolivia per assassinare Morales. Mettiamo che non volesse uccidere qualche notabile locale, a destra o a manca, perché si gridasse al lupo, per giustificare una secessione, per rendere vero il risultato di un referendum ritenuto illegale. Lo hanno ucciso senza armi in pugno, senza processo. E forse lo hanno anche torturato. Ma non riesco, Luisa, a trovare una ragione per il resto. Non riesco a trovare una sola ragione per riabilitarlo, giustificarlo, scagionarlo… Per riconoscerlo come un amico, per perdonargli di avere assunto le sembianze e il ruolo di un nemico. Questo non è un gulag. Qui dentro lo giudico. Voglio e posso confrontare quello che dice con quello che fa, quello che fa oggi con quello che faceva ieri, quello che dice a te con quello che dice a un altro, quello che fa con uno con quello che fa con un altro, quello che dice e fa con i risultati che si producono nel mondo… Perché organizzare una milizia contro il governo boliviano? Infuriava la repressione? Perché favorire una cricca di proprietari bianchi avversi al presidente indio, eletto e confermato dal voto? Perché una faccia nota, un nome noto, uno come Eduardo che scrive e parla volentieri, che si fa notare in mille modi, dovrebbe riuscire a giocare alla guerra senza pagarne il prezzo? Perché sta in posa sul letto di un albergo di non so dove fingendo di dormire tra due armi automatiche? Perché parte in quarta, perché si gingilla con le armi, perché rischia di innescare una guerra civile, la secessione di una regione che non è colonizzata, che non è davvero assediata dall’esercito, che non subisce un’oppressione razzista o di classe?
Volevi evitare che Santa Cruz fosse schiacciata dalle forze armate boliviane? Non mi pare che sia successo. Sulla tua lapide qualcuno potrà scrivere le parole vittima, eroe, sacrificio. Col tuo sacrificio hai impedito che l’esercito della Bolivia mettesse a ferro e fuoco la tua città natale o con la tua morte hai legittimato l’invio di forze militari nella regione? Hai giustificato e favorito, in forma più blanda, quello che ritenevi una minaccia? Hai sventato un complotto contro Morales? Hai aiutato il governo a sgominare una banda di affaristi che volevano la secessione?
Ho letto che negli ultimi anni Evo Morales ha aumentato il suo consenso nel dipartimento di Santa Cruz. Sono ignorante, vivo a migliaia di chilometri. Sono un moralista ottuso. Mi hai fatto bere champagne a digiuno. Mentre ero nudo in un bagno turco, mi hai detto: «No, non credo che siamo pronti per la democrazia: io sono per la monarchia costituzionale».
Vuoi cambiare idea? Ne hai diritto, compagno post-stalinista. Ma prima di passare al nazionalismo del popolo grasso devi chiedere scusa. A qualcuno devi chiedere scusa. Devi chiedere scusa anche a me.

Lo hanno ucciso. Non posso testimoniare che le teste di cuoio lo abbiano torturato. Sulle schiene dei due che sono ancora vivi qualcuno riesce a distinguere segni che i miei occhi non riescono a vedere. Sono quasi sicuro: lo hanno ucciso mentre era disarmato. Forse li hanno lasciati morire dissanguati. La porta è sfondata, il camerata irlandese è a terra bocconi. Si intravede un tatuaggio sull’omero sinistro, il grande letto è disfatto, da una grande borsa fiorisce una sporta di plastica bianca. Il frigo bar è aperto, il televisore che guarda verso i letti è al suo posto, intatto. L’irlandese è morto tra il televisore e il letto. Due sedie stanno attorno a un piccolo tavolo tondo, la camicia di Eduardo è poggiata sullo schienale di una sedia, un’altra camicia sull’altro schienale.
Ecco l’obitorio. Ci sono tre corpi distesi su tre tavoli. Uno, due, tre teste a destra. Tre corpi su tovaglie che sono buste di plastica grigia. Oltre i cadaveri c’è una finestra, piastrelle bianche. Dalla parte dei piedi, in un angolo, appeso alla parete, c’è un tubo di gomma arrotolato. Ci lavano i pavimenti e tutto quello che si può lavare. L’acqua e il sangue escono da un tombino, come in una grande doccia. La luce al neon viene dall’alto. Un uomo canuto, calvo, capelli corti, grandi occhiali, vestito di bianco, guarda Eduardo in faccia. Sul petto del morto è posato qualcosa che somiglia a un piccolo sacco di carta marrone. Il torace dell’irlandese è ancora sporco di sangue. Il mento è alto, la bocca semiaperta. Il terzo cadavere, vicino alla finestra, ha la testa reclinata verso sinistra, le braccia rigide, gli avambracci sollevati. Sembra che i polsi siano legati.
Ti rivedo su un tavolo. La luce è diversa. Ti guardiamo da sopra la testa. Ti tocca un guanto che riveste la mano sinistra di una donna. La mano poggia, copre il pettorale destro. Il corpo è pulito; i capelli corti, radi, sono ancora bagnati. Non saprei dire se quelli che vedo sono i fori di sette pallottole. Un colpo, una ferita, una bruciatura è vicina alla clavicola. Sembra piovuta dall’alto. Ne ho abbastanza. Se gli sbirri boliviani sono cattivi, voi tre mi piacete ancora meno. Non lo so, non me ne intendo, non sono un medico legale, ho la nausea.
L’irlandese è stravolto; tu invece hai la faccia serena, quasi sorridi. Si dice spesso: sembra che dorma. Ti hanno ricomposto il viso, ti hanno lavato. Ti hanno portato fuori dall’albergo. Qualcuno, immagino, ha riconosciuto il tuo cadavere. Eri davvero tu il parassita inquieto che sommuoveva il sacco sigillato di finta pelle?
«Aveva pubblicato questa intervista, nel suo blog, sei mesi prima di morire in Bolivia. Qui, leggi tu dallo spagnolo, dichiara di apprezzare la Rivoluzione sandinista. In tutto il suo sviluppo, dice. Direi che si riferisce al sandinismo fino a oggi… Esiste l’Alleanza bolivariana per l’America Latina. Nicaragua, Bolivia, Venezuela, Cuba, quando è stato ucciso, erano già alleati. Perché lui dovrebbe andare a uccidere Morales? Perché dovrebbe favorire la secessione del dipartimento di Santa Cruz? Se si prendono sul serio le sue parole, queste sue parole… Forse non dovrei prenderlo troppo sul serio. A volte immagino, non ci credo, non sono così matto, ma immagino che sia vivo da qualche parte. E mi viene da pensare al Nicaragua. Forse c’è stato negli anni Ottanta. Prima di te. Era un militare. Un giornalista italiano scrive che gli mostrò una foto, un ritaglio di giornale, in cui Eduardo, con occhiali da sole, col kalashnikov in mano, stava dietro a Daniel Ortega…»
«È possibile. Quando i paesi socialisti europei rifornivano di armi i paesi fratelli, c’erano degli esperti che accompagnavano la spedizione…».
«Eduardo diceva che l’uomo della foto non era lui. Era un sosia. Penso che sia vero in ogni caso. Lui è stato più volte il sosia di se stesso… Mi viene da pensare che in Nicaragua vive un sosia di Eduardo che forse è Eduardo. Me lo immagino su una spiaggia. Non so se gli piacesse il mare. Gli piacevano i bagni turchi, le saune e le piscine. E senz’altro gli piaceva tenere pochi vestiti addosso. Tu, Giorgio, vorrei che mi dicessi se c’è un posto in Nicaragua dove ti saresti rifugiato, per viverci, per nasconderti».
«A Casares, all’hotel El Casino. Era una vecchia costruzione in legno, stile coloniale: un enorme patio interno, dove si mangiava, e tutte le stanze al piano di sopra… Tra una stanza e l’altra c’erano solo divisori: i letti, i rumori, gli odori, ogni cosa sotto lo stesso grande soffitto, e anche i pipistrelli che volavano dentro. Ai piedi dei letti c’era la polverina gialla contro le zecche. Sembrava di tornare indietro di un secolo. Ricordo che servivano le langostas tamaño familiar. Ogni tanto si sentiva ovunque un sibilo, più che altro un acuto. Annunciava l’ennesima aragosta che finiva viva nella pentola dell’acqua bollente di Doña Florinda, che poi morí sotto le macerie del suo hotel. E poi si digeriva con la solita media de Flor de Caña 7 años… El Casino fu distrutto dal maremoto del 1992. Sì, sul Pacifico. L’hanno ricostruito…»
«Forse un giorno mi arriverà una cartolina dal Nicaragua».

Ogni verità sembra parte di una menzogna, dice Luisa. Ogni sua scelta sembra sfuggire a una strategia univoca: «C’è chi ritiene che ci siano strategie senza stratega. Alcuni strateghi possono essere piccoli azionisti di una strategia più grande. Chi possiede quote di una piccola strategia, che controlla a sua volta quote minoritarie di una strategia più grande, si accontenta di piccoli guadagni, strategici per lui ma solo tattici per la strategia più grande. Molti possiedono quote di una strategia, ma ignorano o non si preoccupano di sapere che questa detiene un pacchetto di azioni di un’altra».
Per moltiplicare le trame, per evocare teorie più o meno fondate, per fornire materiale a parecchi libri e fiction televisive, mi bastava andare a cercare fra le vecchie lettere, disseppellire agende, quaderni impalliditi in un cassetto.

89 dic. Budapest
Caro Alberto!
Auguri por Natale 1989
e felicita e succesi per
il nuovo anno 1990!
affetuosi abbracci
tuo
Eduardo Rózsa

Mi scriveva questa cartolina, chiusa in una busta, forse pochi giorni prima della fucilazione del dittatore rumeno Ceaușescu. Non trovavo più l’involucro, ma la cartolina, che al posto del mio indirizzo recava una faccina sorridente, doveva essere arrivata in una busta affrancata.
Tra la rivolta di Timisoara, la sollevazione popolare nella capitale della Romania e finalmente l’uccisione del tiranno, voluta da un’ampia fazione del partito comunista rumeno, passarono meno di dieci giorni. La scintilla della rivolta di Timisoara era stata la repressione poliziesca contro László Tőkés, un pastore protestante, un cittadino rumeno della minoranza ungherese, che dal 2007 siede nel Parlamento europeo.
Eduardo conosceva certamente László Tőkés, forse ce ne aveva anche parlato. Non posso sapere se avesse contatti con lui, se il pastore fosse un agente segreto ungherese, come oggi in Romania qualcuno si permette di dire. Non so se Eduardo fosse andato in quel periodo a trovarlo, quale sia stata la rilevanza dell’azione di Eduardo in quegli anni, se Eduardo lo abbia incontrato in quei giorni o in altre occasioni. Immagino che fosse una impresa difficile, rischiosa, magari superflua… Quella cartolina così buffa, tenera, innocente, scritta a penna rossa, su cui Eduardo aveva disegnato una faccina tonda, allegra, rubiconda, quella cartolina che a gennaio del 1990 mi aveva fatto sorridere, dopo più di vent’anni, ora che mi fermavo a osservare sull’altra facciata l’immagine spettrale, invernale, notturna – il disegno di una casa, la finestra sbarrata, accesa tra due grandi alberi spogli – quella cartolina mi ricordava il giorno, l’assemblea in cui l’avevo conosciuto e avevo ascoltato per la prima volta la sua denuncia della persecuzione di una minoranza etnica, la sua difesa dei magiari della Romania.
Lungo questo filo – un filo che avevo toccato, che avevo intercettato per caso, un filo che era mio, che avevo afferrato perché non ne avevo altri, perché a Eduardo arrivai così – lungo questo filo forse si collegavano, si traducevano, si scaricavano, fluivano l’uno nell’altro il prima e il dopo, il comunista, che oltre frontiera difendeva un’immagine violata del se stesso ungherese, e il nazionalista, un nazionalista ubiquo, che si separa da una potestà considerata, sentita come illegittima. Era una vicenda per certi versi simile a quella di molti attori, grandi e piccoli, del socialismo reale: ceto politico, burocrazie, militari, agenti segreti, che si erano convertiti, se si trattava di conversione, in apparenza senza trauma e tormenti interiori, talora al mercato e a interessi privati non sempre legali, talora invece al nazionalismo separatista, allo stato etnico, allo sciovinismo e alla geopolitica. Eduardo forse si era preso qualche rischio in più, dava l’impressione di svolte più inspiegabili, radicali, individuali. Ma era davvero così? Nel primo Eduardo, che difendeva i magiari rumeni dal dittatore della Romania, non si trovava già una prefigurazione dell’Eduardo futuro?
Eduardo forse era andato in Croazia per vigilare sulle frontiere di una Grande Ungheria certo defunta, sepolta, immaginaria, ma che si doveva inventare di nuovo, che poteva rinascere solo trasfigurata. La Slavonia, la regione della Croazia dove Eduardo aveva combattuto per la secessione dalla Iugoslavia, confinava con l’Ungheria. La Croazia e l’Ungheria, come l’Austria, dove Eduardo si era affiliato all’Opus Dei, dovevano tornare a essere delle nazioni cattoliche. La Croazia, una Croazia alleata, più centro-europea e meno ingombrante della Iugoslavia, era una via d’accesso al Mediterraneo per uno stato come l’Ungheria che poteva sporgersi fino al mare solo attraverso il lungo corso tortuoso del Danubio. I reduci della Guerra d’indipendenza croata avrebbero potuto seguirlo in altre imprese. La conversione all’Islam poteva servire a creare prossimità, amicizie, alleanze, magari a collegare nuovi oleodotti, con stati dell’Asia ricchi di petrolio. La missione in Bolivia, a favore dei separatisti o anche dei loro nemici bolivariani, poteva rientrare nella stessa strategia di conquista delle risorse energetiche fossili.
Dio, petrolio, patria, famiglia… L’origine è la meta. In Bolivia Eduardo doveva lacerare ma allo stesso tempo ricucire la propria intimità, doveva riparare l’ordine corrotto da quel padre che soltanto dopo il matrimonio aveva confessato alla madre di essere comunista ed ebreo. La leale, la fedele, la cattolica Nelly Flores Arias aveva amato il comunista György Rózsa. La madre non aveva accettato, come il marito le suggeriva, di rifugiarsi con i figli a Panama: aveva scelto di non allentare i vincoli della famiglia, aveva deciso di rimanere sempre al fianco del marito, di abbandonare la patria per seguirlo in Cile, in Svezia, in Ungheria…
Qui potrebbe iniziare la storia di Eduardo in un universo possibile che assomiglia abbastanza a quello in cui viviamo.
Troppo, troppo in fretta. Eccessivo come Eduardo György Rózsa Flores. Devi diffidare del troppo, ma non sai di quale eccesso si tratti. Diffida delle storie troppo chiuse e complete; di quelle troppo piene; di quelle troppo romanzesche. Dovresti trovare il tempo, il coraggio di parlarne con la sorella di Eduardo. Dovresti parlarne con Eduardo, che forse ora è vivo in Nicaragua, in Iran… Per le strade di Budapest, sul filobus o sul tram, ma per questo sarebbe meglio chiedere conferma alla memoria di Daniele, Eduardo ci diceva che Il fu Mattia Pascal era il suo romanzo italiano preferito. E ora lui è libero dal passato, si è separato da quell’identità troppo faticosa.
Voleva chiudere il libro, uscire dal romanzo. La serie era troppo lunga, poco credibile. Voleva una vita nuova, nuda, senza peso. Voleva smettere.
Nell’isola, su una spiaggia del Pacifico, Eduardo ha trovato la pace, un Venerdì lo ha rieducato a uno stato di natura vero, riposante come la morte. Le cellule si disgregano, i liquidi fluiscono, impastano la terra, gli atomi di carbonio viaggiano tra genti e mari oltre ogni frontiera. Il conflitto è nella storia, nella natura, ovunque: non dico la guerra ma il conflitto sì. Gli interessavano i conflitti tra nazioni, dice Luisa, non i conflitti di classe e di genere, che così allo stato puro, fuori dalla mente, se sei privilegiato, spesso si faticano a vedere, richiedono discrezione, autocritica più che armi, risvegliano contraddizioni che lacerano gli individui, le famiglie ma non i territori, non sempre i corpi. Non guerre tra stati; lui voleva guerre di popolo che fondano nuovi stati, spezzando quelli vecchi. Guerre per affrontare i piccoli tiranni senza decapitare la sua piccolissima tirannia.
Volevi essere un capo. Fare quel cazzo che ti pare con il silenzio assenso degli Ordini superiori, con il beneplacito del Capo supremo: Dio, la dura Necessità, il grande Alleato, la Nazione, i veri desideri del Popolo… Purché si mantenga un privilegio, un capitale di prestigio, una patente di ribelle che sa adattarsi all’ordine mondiale.
I conflitti ti andavano bene se potevi essere un eroe. Uno dei tanti non ti accontentavi di essere. Perché quelle tre ragazze italiane se la prendono con il tipo che interviene all’assemblea? Solo perché porta una maglietta su cui sono disegnate cosce e reggicalze? Per il tono arrogante? Per la mascella? Per quello che dice? Lasciatelo parlare, su ragazze, fate le brave. Non è il caso di contestare il Rettore. Ci ha invitati in gita fino a qui, ci ospita a casa sua, questa sera siamo in vacanza. Operai, donne, fabbrichette occupate, centri sociali, giovinastri dei collettivi, gruppetti di femministe, volantini di due cartelle, riunioni in ritardo, contestazioni isteriche, cortei di studenti, conflitti di classe palesi e occulti, reduci irriducibili, assemblee fumose, precari, anarchici, anarcoidi, sindacati di base, occupanti di case, gruppi di autocoscienza, frocie in movimento, antagonisti… Siete fuori dalla vera storia. C’è qualcuno che oserebbe darti torto? Avresti dovuto restare confuso fra tanti; e tanti, per te che sei una moltitudine, sono sempre troppi. Non ti potevamo assoldare in una guerra seria. Conflitti disarmati, scioperi selvaggi, vetrine infrante ma assicurate, calci negli stinchi, manganellate, sputi vaganti, slogan, balletti, qualche sasso, lividi, nasi rotti, picchetti, qualche anno di carcere, rarissimi i morti. Niente di più. Solo guerricciole senza armi automatiche. E tu eri un soldato. Eri un soldato a cui l’esercito regolare andava stretto. «Niente di più noioso che fare il soldato in tempo di pace», dicevi. E allora meglio servire in segreto, nei sotterranei, per poi uscire a combattere le guerre che ci sono e magari quelle da inventare.
A Budapest guardavo le vetrine dei negozi, che in Italia non mi interessavano più; annotavo il salario di un operaio, il costo di un’automobile. Ti chiedevo: «Gli appartamenti di quei palazzoni quanto sono grandi? Quanta gente ci abita?» Tu sorridevi, non sapevi rispondere alle mie domande filistee, e io mi giustificavo in modo maldestro, o forse con ironia, ormai chi può dirlo: «Sai, per noi, in Occidente, la casa in cui vivi è importante».
Ero un ragazzo cresciuto lontano dalla guerra. Nella mia città poteva scoppiare una bomba alla stazione, una banda di poliziotti poteva rapinare e uccidere per anni, ma niente di più. Contraddizioni, conflitti, violenze alla periferia della storia: l’ombra di un colpo di stato, la mafia, qualche omicidio politico, ma lontano dalle grandi e piccole guerre tra stati. Fin da bambino vedevo la guerra al cinema, alla tivù, nei libri illustrati, la ascoltavo nei racconti degli antenati: guerre lontane come il Vietnam e la Linea Gotica, come l’invasione degli alieni, come la fine del mondo civile dopo una guerra con armi nucleari.
«Ricordo che in pullman, mentre si andava a San Leo dal Rettore, qualcuno cantava. Lui si buttava sempre nella mischia. Stava in piedi in coda al pullman: cantava, rideva, raccontava barzellette. Si cantava di tutto. Un festival della prima stronzata che ti viene in mente. A me, con un faccia giuliva, uscì fuori: dai, cantiamo anche gli inni nazionali degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Credo che non ci fosse un solo studente di questi paesi. Non ti so dire. Credo di no. Forse pensavo alla parodia di un videoclip sulla pace nel mondo. We are the world. Non mi ricordo. Lui si fece serio per un attimo e mi disse quasi sottovoce che non era il caso. Lo diceva come a uno che sta facendo una gaffe. Perché? Che cosa voleva dire?»
«Non lo so, Alberto, non ne ho idea. Ci dovrei pensare».
«Tu pensi che ne faccio una questione personale… Non lo è. Ma se uno ti dice “sei un amico”, è anche un fatto personale».
Dove vivrebbe, Eduardo, se fosse ancora vivo?
Con la fidanzata, forse. Non in questa cartolina.
Si vede il Castello di Praga da un’altura, da un parco innevato. Me l’aveva scritta al tavolo di una birreria o prima di prendere sonno in un albergo. L’aveva affrancata con un bollo da mezza corona, su cui non ci sono timbri, e se l’era portata in valigia o in tasca fino a Budapest, da dove l’aveva spedita dentro una busta su cui riesco a leggere il timbro postale dell’11 gennaio 1989. Sulla cartolina, con una penna di un altro colore, aveva aggiunto: «Sono stato a Praga per Natale e Capodanno». E la data: 8 gennaio 1989.

Caro Alberto,
non me ho dimenticato
di te! Ti ricordo, e nella
mia memoria sei un amico
[illeggibile] … (peccato) e tanto lontano,
ma ho la speranza di rive-
derti un giorno… prossimo!
(Amico! Questa è la seconda
cartolina che ti escribo, espero
che la riceverai e me scriverai!)
un abrascione
tuo
Eduardo Rózsa

Scrivemi e anche enviami una
fotografia di te!

È la sua lettera più vecchia. La precedente, che dice di aver spedito, non l’ho mai ricevuta o non riesco più a trovarla. Forse giace in un archivio della Repubblica Ceca o magari in un cassetto, a casa mia o di Daniele.
Dal Nicaragua non riceverò, non riceveremo mai una lettera. Eduardo non scriverà dall’isola del Pacifico del romanzo di Michel Tournier di cui ci raccontò la storia. Eduardo è morto, ma se anche fosse vivo, più che mai vivo sulla spiaggia più selvaggia del Pacifico, non avrebbe nessuna buona ragione, né il tempo né il desiderio, per scriverci.
Questo pensavo, ricordavo e mi aiutava a ricordare Daniele. Questo raccontavo alla mia compagna. Questo discutevo con Giorgio e con Luisa, finché non ho trovato una sua lettera.
Non era nella buchetta della posta, non era la prova che Eduardo è ancora vivo chissà dove. L’avevo cercata ancora una volta nei soliti cassetti. Avevo rovistato in quelle urne, in quei loculi di colombario che conservano i resti di molti incontri casuali, amicizie spente, frammenti di vecchie conoscenze, polvere di carta, ombre del futuro. Questa volta non mi ero soffermato su ogni brandello di carta, sui volantini consumati, sui biglietti d’auguri, su ogni cartolina ricevuta, sulle lettere scritte a metà e mai spedite. Avevo invece cercato quella sola lettera con una certa ansia, con fretta minuziosa, senza mettermi comodo a sedere, senza il gusto di fermarmi a ricordare chi fosse, che faccia avesse quel nome che a prima vista non mi diceva più niente.
Ecco, l’avevo trovata.
Ma non era la prima lettera che Eduardo diceva di avermi spedito nel dicembre del 1988. Era una lettera dell’anno successivo. Era solo una busta vuota. L’involucro vuoto che aveva custodito le parole, che conoscevo già, di quella cartolina in cui Eduardo, con ortografia incerta, mi augurava successi e felicità per il 1990, mi abbracciava con affetto, mi sorrideva con una buffa imitazione della sua faccia larga e allegra.
Avrei potuto inventarla questa lettera nascosta, rubata, smarrita, rivelatrice, esotica. Avrei potuto inventare altri futuri, inesistenti, del suo passato, e parlarvi di una lettera, minacciosa o consolatoria, giunta fino a me da un rifugio lontano. Avrei potuto rivelare dove Eduardo Rózsa Flores, che negli anni ha cambiato volto e nome, che non è più l’uomo che ho conosciuto, se mai lo è stato, mi ha confessato di vivere ora.
Mentirei. Ho trovato solo una busta vuota su cui un giorno Eduardo scrisse il mio nome e il mio indirizzo. E da qui potrei tornare a raccontare le nostre storie agli amici, ai compagni, alle compagne vicine, lontane, disperse tra le agende di un cassetto. Potrei raccontare quello che non so, quello che ho dimenticato, quello che ancora non mi hanno detto, quello che forse ho taciuto.

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La bomba iraniana https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ Mon, 06 Apr 2015 19:57:00 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21799 di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità. La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da [...]]]> di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.

Che questo fosse già inscritto negli avvenimenti degli ultimi anni e, in particolare, degli ultimi mesi, a seguito del riacquistato ruolo di interlocutore politico e militare dell’Iran e degli sciiti in Iraq e nello scontro con lo Stato Islamico di Abū Bakr al-Baġdādī, non poteva e non può lasciare spazio ad alcuna ombra di dubbio, ma l’accordo raggiunto nei primi giorni di aprile, e che andrà definitivamente confermato a giugno, apre la porta ad una serie di interrogativi di carattere geopolitico, economico e militare riguardanti gli sviluppi possibili dei rapporti tra mire imperialistiche, nazioni e classi nel quadro mediorientale.

E’ chiaro, intanto, che intorno al tavolo delle trattative non erano presenti soltanto i rappresentanti degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa Occidentale, ma anche i fantasmi del mai sopito antagonismo di Israele e dei Paesi del Golfo, e dell’Arabia Saudita in particolare, nei confronti della Repubblica islamica Iraniana.1 Tutti motivati da interessi parzialmente diversi e solo in superficie pienamente convergenti i primi, ma anche profondamente collegati tra di loro quelli dei secondi, almeno in questa fase. Ma proviamo a capire perché.

L’Iran è stato per secoli un fattore determinante per le politiche imperiali, statuali ed economiche di quell’area strategica che va dal Medio Oriente all’area transcaucasica fino all’Asia Centrale e dal Golfo Persico all’Oceano Indiano. Uno dei quadranti più importanti dal punto di vista geopolitico dello scacchiere mondiale. L’impero persiano aveva infatti costruito su quell’area, che arrivò per un certo periodo fino al Mediterraneo, la più grande realtà statuale dell’antichità prima dell’impero romano.

Ora se per l’italietta post-risorgimentale, mussoliniana e democristiana il Mare Nostrum ha sempre rappresentato un illusorio e pericoloso richiamo alla potenza del passato, proviamo ad immaginare quanto quell’antica funzione unificatrice di popoli possa essere rimasta impressa nel genoma della nazione persiana. Unita al fatto che alcuni di quei popoli che la fondarono nel mondo antico, in particolare i Parti, risultarono a lungo invincibili anche per grandi potenze successive come quella romana ad Occidente e quella dell’impero cinese ad Oriente.

Ruolo millenario, interrotto e ripreso più volte tra invasioni e guerre che sottomisero momentaneamente o percorsero il territorio iraniano, che lo Scià Mohammad Reza Pahlavi non dimenticò di sottolineare con le celebrazioni organizzate a ridosso di quella rivoluzione detta khomeynista che l’avrebbe rovesciato nell’inverno tra il 1978 e il 1979, dopo decenni di repressione sanguinosa di qualsiasi opposizione seguita al colpo di stato che nel 1953 aveva allontanato dal potere e condannato Mohammad Mossadeq, colpevole del primo tentativo di nazionalizzazione del petrolio iraniano e di democratizzazione della monarchia Pahlavi, istituita nel 1925 da Reza Khan padre di Mohammad Reza.

Monarchia che avrebbe costituito per decenni il vero architrave della strategia anglo-americana in quella parte del mondo: a cavallo tra il petrolio mediorientale e l’odiata Unione Sovietica. Architrave che la rivoluzione khomeynista fece saltare, contribuendo a spingere sempre di più Stati Uniti e Israele gli uni nelle braccia dell’altro e viceversa. E qui sta proprio uno dei motivi più profondi dell’attrito tra le due potenze locali: due architravi nello steso spazio non possono esserci. O l’uno, Israele, oppure l’altro, l’Iran.

Anche se occorre dire che nella strategia americana è intuibile il solito divide et impera su cui l’egemonia statunitense cerca ancora di basare il proprio potere, in diverse aree del globo, nell’epoca del suo tramonto. Controbilanciando le sempre più esose richieste di fedeltà alla causa sionista provenienti dal governo di Israele con la riapertura del dialogo con il “demonio” iraniano.
Così che le roboanti dichiarazioni anti-israeliane dei governanti di Teheran finiscono col rispecchiare le stesse ragioni profonde delle paure e dell’allarmistica propaganda anti-iraniana di Benjamin Netanyahu. Mentre non è nemmeno escluso che la partecipazione delle armi iraniane al conflitto con l’Is sia visto dalla diplomazia della Casa Bianca come una ripetizione del conflitto tra l’Iraq di Saddam e l’Iran dell’ayatollah Khomeyni che, negli anni ottanta, dissanguò l’allora appena nata Repubblica Islamica.

Difficilmente però i governanti iraniani e la borghesia “liberale”, che abbiamo visto festosamente manifestare in questi giorni nelle strade del paese, si lascerebbero coinvolgere in un conflitto ai propri confini senza esser sicuri di portare a casa un risultato. Magari non solo militare, ma anche diplomatico ed economico, come sembra essere l’attuale accordo raggiunto tra i 5 + 1 di Losanna. Anche se, tra il 1980 e il 1988, la fedeltà delle Forze Armate e il rinnovato spirito nazionale2 permisero all’Iran di tener testa all’aggressione di un Iraq armato e finanziato dagli Stati Uniti (dopo il disastroso tentativo di liberazione degli ostaggi americani dell’ambasciata di Teheran messo in atto dal presidente Jimmy Carter), dall’Egitto, dai Paesi del Golfo Persico, dall’Unione Sovietica e dai Paesi del Patto di Varsavia, dalla Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Brasile e dalla Repubblica Popolare Cinese (che vendeva però armi anche all’Iran).

Unica e autentica rivoluzione nazionale democratica avvenuta in tutta l’area,3 la rivoluzione khomeynista sembrò condividere, almeno in parte, il destino e l’involuzione della rivoluzione russa (anch’essa nazionale e democratica ancor prima che proletaria) del 1917. Vittoria rapida degli insorti, caduta del regime autoritario precedente, scatenamento di una guerra internazionale contro la neonata repubblica, morte del leader (Lenin nel 1924, nel caso della Russia, e Khomeyni nel 1989, nel caso dell’Iran), restrizione delle libertà democratiche per far fronte alle difficoltà economiche e all’inevitabile risistemazione politico-economica del paese.

Questo parallelo, per quanto possa apparire ad alcuni blasfemo, può servire a comprendere sia le chiusure di spazi democratici all’interno dell’Iran nel corso degli anni successivi, dettate spesso da motivi più politici che religiosi, sia l’uso estenuante di parole d’ordine come quella della “distruzione dello Stato di Israele” sbandierata ai fini del consenso interno, così come già Stalin negli anni trenta aveva costantemente sventolato la bandiera della lotta al capitalismo, sia, last but not least, l’orrore delle petrolmonarchie del Golfo nei confronti di una rivoluzione che per prima aveva aperto la strada alle libere elezioni e ad una maggiore età di 16 anni (solo recentemente portata a 18) in un paese che custodiva e continua a custodire nelle sue viscere le seconda riserva mondiale di petrolio e di gas.

Sì, perché l’altro implacabile avversario dell’Iran è costituito dall’Arabia Saudita e dall’insieme di regimi sunniti del Golfo, unici stati dell’area ad applicare interamente una presunta legge coranica ricca di fustigazioni in pubblico, taglio di teste in piazza e sottomissione totale della donna (al contrario dell’Iran dove negli anni accademici 2005-2006 e 2009- 2010, solo per fare un esempio, il numero di donne iscritte all’Università è stato più alto di quello degli uomini). Terrorizzati anche solo dall’ipotesi di un cambiamento democratico al loro interno e che fingono tuttora di sostenere le sempre presunte primavere arabe affinché gattopardescamente tutto cambi senza cambiare nulla.

Petrolio e rivoluzione nazionale, più che la tradizionale contrapposizione tra sunniti e sciiti, dividono Iran e Arabia Saudita in tutto il quadrante mediorientale: dalla Palestina, al Libano, alla Siria e fino a ciò che resta dell’Iraq. E per capirlo basta guardare ai differenti attori che le due forze contrapposte appoggiano sul campo: i movimenti nazionali di Hamas in Palestina (anche se, guarda caso, sunnita) e Hizbullah in Libano e Siria da parte dell’Iran e la fu al-Qaeda e l’esercito del califfato islamico da parte dei paesi del Golfo in tutti i settori dell’attuale scacchiere di guerre e guerriglie africane e mediorientali.

L’altra grande differenza è che con i suoi 29 milioni di abitanti (di cui alcuni milioni di proletari immigrati dall’estremo oriente) l’Arabia Saudita ha da vendere all’Occidente quasi soltanto il suo petrolio e la promessa dei suoi investimenti nelle economie europee e americane, mentre l’Iran con i suoi 78 milioni di abitanti (che supereranno i 100 nei prossimi decenni) oltre che per le materie prime può costituire un mercato interessante per le merci e i capitali occidentali, a caccia di paesi già industrializzati in cui investire.

E questo è l’altro, e non secondario aspetto, degli accordi di Losanna; quello per cui abbiamo visto sostanzialmente le folle festanti nelle strade di Teheran: la fine dell’embargo e la ripresa dei commerci e dei finanziamenti tra aziende iraniane ed aziende e banche occidentali. La parte dell’accordo, cioè, che forse interessa di più anche agli europei. Non ultima la nostra italietta che dai 7,2 miliardi di euro che aveva di interscambio con quel paese nel 2011 è passata a 1,6 miliardi nel 2014 grazie anche alla politica delle sanzioni.

Da sempre privilegiato, fin dai tempi di Enrico Mattei, nei rapporti commerciali con l’Iran, sia sul piano energetico che militare ed industriale, il nostro paese spera oggi di tornare ad un interscambio valutabile intorno agli 8 miliardi di euro annui. E questo spiega anche bene l’entusiasmo dimostrata dall’ Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, nei confronti del trattato firmato a Losanna.

Follow the money! E prima o poi troverete anche la guerra perché, se la prima e fin troppo essenziale sintesi finora qui esposta dovesse rivelarsi vera, è chiaro che tutto ciò non potrà far altro che aumentare, invece che contribuire a far diminuire, la conflittualità nell’area mediorientale e nord africana. Rafforzando da un lato i tentativi arabo-sauditi ed israeliani di limitare, se non distruggere, la rinnovata potenza iraniana e dall’altro fornendo ottimi motivi per il rinnovato orgoglio nazionale e per il programma di trasformazione socio-economica e politica dello stesso scacchiere necessario al rafforzamento della società, dell’economia e dell’industria iraniane.

iran 2 La rinnovata spinta iraniana potrebbe essere il motore di una modernizzazione dell’area che avrebbe nella Palestina rifondata, in Libano, nella vicina Siria e in Iraq una base per una diversa distribuzione di poteri e compiti economici. Soltanto per fare un esempio: l’Iran ha ancora oggi un 23% della popolazione impegnata nell’agricoltura, la quale soffre, come del resto gran parte della società iraniana, a causa della scarsità di risorse idriche; in un paese in cui il 65% del territorio è considerato arido, il 20% semi-arido e solamente il 25 % è considerato arabile, mentre per il resto è composto da zone desertiche o da aree montuose. Proviamo quindi ad immaginare cosa possono rappresentare per l’Iran le acque della Mesopotamia e delle alture del Golan. Ma qui si torna, obbligatoriamente, al conflitto con Israele e alla costante caccia a nuove risorse idriche messa in atto dallo stato sionista. Fin dai tempi della Nabka, ovvero della cacciata dei palestinesi dalle loro terre.

In tutta l’area le ferite dei trattati successivi alla fine del primo conflitto mondiale sono ancora aperte: territoriali, etniche, economiche e sociali. Le frasi fatte e i facili slogan non basteranno certo a dirimere tanti e tali problemi e contrasti, tanto meno le dichiarazioni di principio, le dichiarazioni di intenti oppure le fin troppo facili contrapposizioni religiose e culturali. Mentre i cannoni faranno sentire ancora a lungo e sempre di più la loro voce in tutta l’area. Come già anche nello Yemen sta avvenendo, vedendo contrapposti da un lato i ribelli houthi, filo-iraniani, e dall’altro Egitto ed Arabia Saudita, affiancati da Stati Uniti e formazioni qaediste, a sostegno del governo fantoccio in carica.

Senza poi contare che al quadro fin qui delineato andrebbe ancora aggiunto il ruolo ambiguo della Turchia di Erdogan: giovane potenza industriale che con un numero di abitanti simile a quello dell’Iran mira anch’essa a far rivivere l’antico sogno imperiale ottomano tra regioni caucasiche, Mar Nero, Mediterraneo e gran parte del Vicino Oriente. Potenziale avversario “storico” dell’Iran, il paese dei turcomanni vive però oggi una forte contraddizione politica tra una borghesia dinamica, nazionalista e laica e un governo che fonda la sua forza sugli strati sociali più arretrati della campagna, dei bazar e delle città, sventolando un integralismo che lo spinge poi a sbilanciarsi pericolosamente a favore dello Stato Islamico, senza dichiararlo ma cogliendo in esso un ottimo alleato per liquidare le frange più avanzate della resistenza curda.

Far finta di non vedere o ignorare tutto ciò oppure, peggio ancora, schierarsi con gli imperialismi coinvolti o con i loro rappresentanti costituirebbe un autentico suicidio, non soltanto politico. Per tutti.


  1. Per tranquillizzare i quali il Pentagono ha affermato di aver “potenziato e testato la più grande bomba “bunker buster” del proprio arsenale, capace di colpire barsagli sotterranei o pesantemente difesi, quindi di distruggere o disattivare anche i siti nucleari iraniani più protetti qualora l’accordo sul nucleare con Teheran non venisse rispettato e la Casa Bianca decidesse di intraprendere un’azione militare” (USA, pronta una superbomba se l’accordo con l’Iran fallisse, Repubblica.it, 4 aprile 2015)  

  2. Basato anche su una solida coesione tra le varie etnie, tra le quali la principale è proprio quella persiana con il 65% della popolazione e caratterizzata anche da una quasi totale assenza della divisione in clan e tribù che invece costituisce ancora oggi un aspetto importante di gran parte delle società arabe, se non di tutte  

  3. Occorre tener conto del fatto che i cambiamenti di regime istituzionale avvenuti in Egitto, Libia e Iraq erano stati tutti frutto di colpi di stato militari più che di vere e proprie rivolte di popolo, come invece fu in Iran dove milioni di iraniani lottarono scesero in piazza per anni fino alla definitiva caduta dello Scià nel gennaio del 1979. Paragonabile forse soltanto alla nascita della nazione algerina, ma caratterizzata, quest’ultima da una componente anti-coloniale assente quasi del tutto nel caso dell’Iran.  

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War! https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ Mon, 09 Sep 2013 23:00:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9243 di Sandro Moiso

Strangelove“War / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della [...]]]> di Sandro Moiso

StrangeloveWar / What is it good for / Absolutely nothing / War / What is it good for / Absolutely nothing / War is something that I despise / For it means destruction of innocent lives / War means tears in thousand of mothers’ eyes / When their sons go out to fight to give their lives”( Norman Whitfield – Barrett Strong, War, 1969)*

Abituati ai tempi del web e della “diretta” televisiva e al tempo ormai digitalizzato degli orologi e della produzione “just in time”, spesso ci si dimentica che i tempi della storia sono più vicini a quelli della tettonica a zolle piuttosto che a quelli (fasulli) di Italo e dell’alta velocità.

Accade così che l’opinione pubblica come si stupisce, immancabilmente e ogni volta, di fronte al fatto che città costruite lungo la faglia adriatica siano destinate, prima o poi, a soccombere sotto la furia di “imprevedibili” terremoti, altrettanto  si stupisca di fronte al fatto di trovarsi davanti al pericolo di un nuovo, imponente, devastante e altrettanto “imprevedibile” conflitto mondiale.

Ciò non sarebbe grave se lo stupore riguardasse soltanto la tanto denigrata pubblica opinione e l’arrendevolezza mentale al quieto vivere dettato dai media di ogni formato, ma lo diventa quando tale sorpresa riguarda anche chi di tale modello di pensiero quieto dovrebbe farsi critico o antagonista. Così, per decenni, una certa sinistra, da quella democratica e riformista fino a certe frange della cosiddetta estrema sinistra, ha potuto crogiolarsi nell’illusione che la guerra, come strumento di risoluzione delle contraddizioni dell’imperialismo, fosse ormai superata.

Sì, certo, poteva svilupparsi qua e là in giro per il mondo sotto forma di scontro tra stati e regimi sottomessi all’impero della finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi e i popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per dio, sempre a casa d’altri. Non ora, non qui.

Come se il Mediterraneo fosse lontano, come se i Balcani appartenessero a un altro continente, come se i paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente si trovassero su un altro pianeta. Già: non adesso, non qui a casa nostra. Eppure, eppure… il rischio di un conflitto allargato, destinato a coinvolgere anche e, soprattutto, tutte le grandi potenze è esploso letteralmente tra le mani di capi di stato, di uomini politici di piccola e media statura, di esperti (quanto?) di affari internazionali, di analisti politici e vassalli dell’informazione di regime, degli imprenditori e, anche, del clero e dei suoi massimi vertici.

Tutti a dire: ”sì, un po’ di guerra ci va bene…anzi è essenziale per i nostri affari, ma dislocata un po’ più in là e con motivazioni condivisibili”. Da lì l’eterna e mefitica barzelletta delle guerre umanitarie, delle operazioni di polizia internazionale, delle missioni di pace ONU e così via. Mentre chi da tempo indicava la guerra come fase ultima della risoluzione dei conflitti economici e sociali scatenati dalle brame capitalistico-finanziarie finiva con l’essere indicato, a seconda delle occasioni, come visionario, profeta di disgrazie o portavoce di una concezione politica ormai definitivamente morta e sepolta.

Così da un lato si è finiti spesso col cadere in una passiva accettazione dello status quo dettato dall’immagine che lo stesso ordine capitalistico voleva e vuole dare di sé e dall’altro nell’eleggere la volontà del capitale a forza capace di  dominare le proprie, inevitabili contraddizioni (Trilateral, G 8 – 10 – 20 oppure SIM – Stato Imperialista delle Multinazionali). Posizioni, a sinistra, che finiscono col riflettersi specularmente l’una nell’altra e destinate a far cadere quel potente baluardo di classe sempre rappresentato dall’antimilitarismo attivo e cosciente.

Non è un caso che in questi giorni agitati, mentre gli italiani continuano a trascorrere lieti week-end estasiati di fronte alle vetrine dei negozi che riaprono per la stagione autunno-inverno, l’unica forza che si è mobilitata davanti al pericolo di una nuova guerra sia stata quella della Chiesa e del pacifismo di stampo cattolico. Forza che oltre a perseguire propri scopi geo-strtategici e politici (presenza cristiana in Siria, problema dei rapporti con il mondo islamico, origine argentina del novello Papa), ha il difetto di restringere la critica alla guerra a una semplice occasione di accettazione del verbo cristiano e a scelta etica e morale individuale.

 Tanto è vero che al digiuno “vaticano” hanno potuto appellarsi non solo le decine di migliaia di credenti affollatisi in Piazza San Pietro il 7 settembre, non solo i rappresentanti di tutta la chiesa cattolica nelle funzioni domenicali dell’8 settembre, i rappresentanti del mondo islamico e ortodosso, ma anche personaggi che del gioco imperiale fanno parte come la Ministra degli Esteri o, addirittura, il Ministro della Difesa che, mentre da un lato digiuna per la pace, dall’altro insiste per l’acquisto degli F – 35, che strumenti di pace non sono. Non occorre qui ricordare che il buon Anton Čechov affermava che “se un fucile appare appoggiato al caminetto durante il primo atto (di un’opera teatrale), sicuramente avrà sparato prima della conclusione dell’ultimo”.

Occorrerà tornare ancora su questo argomento, ma, ora, è meglio tracciare per linee ampie e (forse) grossolane il quadro di instabilità politica, militare, sociale ed economica (ultima nell’elenco, ma non per importanza) che ha portato alla situazione attuale. Osservando però che, a differenza di quanto molti credono, l’imperialismo traccia il quadro generale della sua attività di dominio ed espansione, ma non può determinare con certezza tutte le conseguenze delle sue scelte. Come dire: l’imperialismo è la causa di ogni guerra moderna, ma non sempre la vuole.

Scriveva Lev Trotskij nel 1937: ”le contraddizioni internazionali sono così complesse e intricate che nessuno può prevedere con esattezza dove la guerra potrà scoppiare, né come si delineeranno gli schieramenti contrapposti. Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti […]. Tutti vogliono la pace, soprattutto coloro che non possono aspettarsi nulla di buona da una guerra […]. Nessuna delle piccole potenze potrà restare in disparte. Tutte verseranno il loro sangue […] Gli schieramenti dei campi belligeranti e il corso della guerra non saranno determinati da criteri politici, razziali o morali, ma da interessi imperialistici. Tutto il resto non è che polvere negli occhi. Le forze che operano sia per un’accelerazione sia per un rinvio della guerra, sono così numerose e così complesse da rendere rischioso ogni tentativo di azzardare previsioni sulle date. Tuttavia esistono punti di riferimento che consentono un pronostico**.

Qualche lettore potrà dire : ”Ma una guerra, anzi più guerre sono già in corso…”. E’ vero, d’altra parte anche quando il rivoluzionario russo in esilio scriveva già più guerre erano in corso, preludendo al secondo conflitto mondiale: guerra civile spagnola, guerre d’occupazione italiane in Africa orientale, occupazione giapponese della Cina, solo per citare le più evidenti. E infatti oggi affermare che la seconda guerra mondiale si è svolta tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945 non è più così corretto. Sono date di comodo, soprattutto per i manuali scolastici, ma è chiaro che il secondo conflitto mondiale andrebbe datato almeno dal 1936, se non addirittura dagli accordi di spartizione degli imperi firmati a Versailles.

Così la guerra futura, anche se  dovesse iniziare nei prossimi giorni oppure negli anni a venire,  affonderebbe chiaramente le sue radici almeno negli avvenimenti seguiti alla caduta dello Scià di Persia, alla fallita invasione sovietica dell’Afghanistan e in quelli successivi alla fine dell’URSS (1989) e alla riunificazione tedesca (1990) con la Guerra del Golfo e le guerre balcaniche (1991). Da allora, infatti, gli Stati Uniti hanno perseguito un obiettivo di destabilizzazione completa del Mediterraneo e del Vicino Oriente che, con la caduta di Assad, dovrebbe essere ora portata a termine.

Ma si sa, non tutte le ciambelle riescono col buco. Nei trent’anni trascorsi dall’affermazione dell’ayatollah Khomeyni in Iran molte cose sono cambiate sotto il cielo e non tutte sono andate per il verso desiderato dalla potenza imperiale americana. Che dopo aver fatto scannare per dieci anni il regime di Saddam Hussein con la nascente Repubblica Islamica iraniana, si vide costretta a fare sempre più affidamento su Israele e Arabia Saudita per il mantenimento della propria supremazia petrolifera, militare e politica nell’area.

Sul ruolo di Israele all’interno delle strategie americane poco ci sarebbe da aggiungere se non che data proprio dal 1978 (anno dell’inizio della rivolta popolare contro Mohammad Reza Pahlavi che l’avrebbe costretto, un anno dopo, alla fuga e all’esilio) quella mini-serie televisiva (“Olocausto”) che avrebbe così potentemente rilanciato l’immagine di Israele nel mondo (attraverso la messa in scena  della Shoa come spettacolo) dopo la sconfitta militare del 1973 ( ad opera delle forze armate egiziane) con la perdita del Sinai. E che è andata crescendo ininterrottamente fino all’altra sconfitta militare israeliana avvenuta nel 2006, in Libano, ad opera di Hezbollah e del suo braccio armato.

Ed è proprio la comune opposizione all’islamismo sciita iraniano e libanese ad aver avvicinato negli anni, in un’alleanza a tempo e blasfema, i due poli dell’azione americana: il regno saudita e lo stato ebraico. Che dei misfatti attuali in Nord Africa, Medio Oriente e Siria sono tra i principali protagonisti e  non solo  strumenti.

L’Arabia Saudita, che detiene, insieme agli altri emirati, oltre che una delle più vaste riserve petrolifere del globo anche una discreta parte dell’imponente debito pubblico americano, sta presentando il conto dei suoi “fedeli” servizi. Il finanziamento e il sostegno dei mujāhidīn in Afghanistan durante l’occupazione sovietica, nei Balcani negli anni novanta e successivi, il concorso al mantenimento di un prezzo (di volta in volta basso oppure alto) dell’oro nero conveniente alle multinazionali petrolifere. Conto forse già presentato in maniera poco elegante con l’attentato alle torri gemelle nel 2001 e col lasciar correre (ma solo fino al 2 maggio 2011) le “birichinate” terroristiche e indipendentistiche di Osama Bin Laden (con buona pace di chi voleva anche qui da noi suggellare un patto politico con i “fratelli” dell’integralismo sunnita armato).

E lo presenta in maniera pesante, tanto da determinare, ben più dell’Occidente nel suo insieme, le politiche interne del Nord Africa e dell’Egitto. Tanto per fare un esempio: mentre in tempi di crisi l’Unione Europea ha promesso 500 milioni di euro  e gli Stati Uniti un miliardo di dollari ai militari egiziani, l’Arabia Saudita ha letteralmente “sganciato” 12 miliardi di dollari (sostanzialmente a fondo perduto) al regime che ha rovesciato il governo dei Fratelli Mussulmani (che, non dimentichiamolo, ci piaccia o meno, era stato democraticamente eletto).

Lo fa armando e appoggiando le bande di “guerriglieri” islamici, spesso vicini ad Al Qaeda, che scorrazzano ormai dalla Libia al Mali, dalla Somalia alla Siria. In territori dove rendono difficile non solo la possibile penetrazione cinese, ma anche la presenza diplomatica russa e quella economica europea. Insomma “questa è casa mia” inizia a dire la monarchia saudita, ricca di dollari e petrolio e povera, fino a ieri, di peso politico e diplomatico. Ma questa strategia la spinge inevitabilmente a scontrarsi con quella della “Grande Israele” voluta dai sionisti.

Certo, in comune tra Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti, c’è di fondo l’interesse per il ridimensionamento politico, economico e militare dell’Iran e il fine ultimo dell’attuale crisi siriana dovrebbe, nel loro intento portare ad una guerra contro la repubblica islamica di Teheran, ma, oltre allo scontro tra sunniti e sciiti  e al di là della sempre centrale questione del controllo delle principali risorse petrolifere, nella crisi mondiale attuale altre forze sono destinate a entrare in campo.

Se si analizza attentamente chi, al G 20 di Pietroburgo, si è opposto all’intervento militare in Siria ci si può rendere facilmente conto che tutti i BRICS (Brasile, Russia, Cina, India e Sud Africa) lo hanno fatto compatti. Non è più tempo di paesi non allineati dipendenti da questo o quel blocco. Se si aggiunge l’Indonesia, il più grande stato islamico con circa 240 milioni di abitanti, che si è espressa contro l’intervento, si arriva a quasi 4 miliardi di abitanti sui 7  dell’intero pianeta. Ma è il peso economico dei BRICS a contare e giusto il 27 marzo 2013, a Durban in Sud Africa, questi si sono accordati per la creazione di una banca internazionale per lo sviluppo economico da contrapporre alla Banca Mondiale e al FMI, enti di controllo economico legati a doppio filo alla finanza americana e inglese.

La Russia di Putin, che non è più quella stremata di Michail Gorbačëv e neppure quella dell’etilico Boris Eltsin, è quindi capofila (a denti stretti se si considera la Cina) del gruppo più importante di quelli che un tempo erano definiti paesi emergenti. Lo spostamento di navi e truppe davanti alla Siria non riguarda quindi soltanto la difesa dell’unica base navale e militare che la Russia, sempre a caccia di porti fuori dal Mar Nero e dal Mar Glaciale Artico fin dai tempi di Pietro il Grande, ha sul Mediterraneo a Tartus, a circa 200 chilometri da Damasco. Ha anche a  che fare con la volontà dei suddetti paesi di manifestare la propria rappresentatività diplomatica, politica e militare e il proprio peso economico nell’economia mondiale.

L’azione dei BRICS, di Arabia Saudita e di Israele è legata significativamente alla crisi di rappresentatività e di potenza militare ed economica degli USA e dell’Occidente. Non vi è dubbio che le guerre imperiali americane nel Golfo e in Afghanistan, oltre che destabilizzanti, sono state oltremodo dannose per l’immagine degli USA come potenza militare. I pashtun afghani hanno segnato più di un punto a proprio favore contro le truppe statunitensi. Più di quanti, probabilmente, i comandi americani fossero intenzionati a concedere.

La caduta del regime di Gheddafi e il crollo prima di Mubarak e poi di Morsi in Egitto hanno gravemente nuociuto agli interessi italiani nel Mediterraneo e provocato subdoli e inevitabili contrasti all’interno dello schieramento europeo, che si sta presentando all’appuntamento siriano estremamente diviso e accomunato formalmente soltanto da una mozione che dice tutto e il contrario di tutto. La Gran Bretagna indebolita dalla crisi economica tarda a riconoscersi nelle scelte di Cameron, la Francia vorrebbe trattare Libia e Siria come ai tempi degli splendori imperiali, ma oggi non è più quella di un tempo. La borghesia italiana paga pesantemente il mancato proseguimento delle autonome politiche mediterranee perseguite dalla DC, da Enrico Mattei fino a Giulio Andreotti, e l’essersi lasciata imbarcare in imprese contrarie ai propri interessi nei Balcani e nel Nord Africa. Così ancora una volta si trova costretta a presentarsi al mondo con le solite due facce: quella della Bonino, contraria all’intervento militare se non supportato dalle Nazioni Unite, e quella di Letta, fedele alleato degli USA sulla linea di D’Alema e dei ministri della difesa e degli esteri berlusconiani.

Mentre la Germania è tentata di coccolare di più le sue strategie a Est con la Russia e le sue joint-venture con la Cina, anche un’altra potenza è entrata in gioco, per quanto piccola territorialmente. L’attuale fibrillazione pacifista di Papa Francesco non rappresenta soltanto la pruderie del pacifismo di stampo cattolico, rappresenta anche la preoccupazione che il mondo cristiano (cattolico e ortodosso) sia completamente espulso dal Vicino Oriente e dal Nord Africa a vantaggio dell’islamico radicale sunnita che pesta anche i piedi degli interessi russi nel Caucaso e cinesi nell’Asia Centrale.

Ma rappresenta anche, e non da ultimo, gli interessi di quei paesi del Sud America che, a partire proprio dall’Argentina di papa Bergoglio e del Venezuela dello scomparso Chavez, intendono perseguire autonome politiche di sviluppo e di regolamentazione del mercato mondiale del petrolio. Sì, insieme all’Iran e senza dimenticare che l’Argentina non ha mai digerito l’appoggio dato dagli USA, non solo al golpe militare degli anni settanta, ma anche alla Gran Bretagna nella contesa sulle Isole Falkland. Utili e possibili basi per il controllo delle rotte verso le ricchezze (future) dell’Antartide, sulle quali l’Argentina vanta vasti diritti contrapposti (anche nel continente di ghiaccio) agli interessi britannici .

Ultimo, ma non secondario, protagonista dell’attuale contesa è il presidente turco Erdogan che sembra costretto e determinato, allo stesso tempo, a perseguire politiche di espansione di stampo ottomano, soprattutto dopo l’esclusione della Turchia dalla comunità europea. Gli incidenti di Istanbul, in cui è scesa in piazza una parte significativa della borghesia laica del suo paese e la sempiterna questione kurda lo costringono, poi, a cercare comunque un momento di unità nazionale attraverso la guerra, anche se i rapporti con Israele variano dall’alleanza alla ruggine formale di stampo sunnita.

Così, mentre appare sempre più chiara la bufala, grazie anche alle rivelazioni del giornalista belga Perre Piccinin appena liberato dai presunti “ribelli” siriani,  con cui Obama sta cercando di coinvolgere gli “alleati” e gli americani in un conflitto in cui si è trovato anche lui trascinato un po’ per forza, fondamentale e predominante appare  la crisi economica mondiale, che spinge tutti gli attori qui nominati e, probabilmente, molti altri ancora verso l’appuntamento fatale. Al di là delle volontà e delle scelte. Esattamente come la Grande Crisi fu la causa detrminante del secondo conflitto mondiale. Poiché “il grande Spinoza ci insegnava giustamente: non ridere, né piangere, ma comprendere***, è utile a questo punto cercare di trarre alcune conclusioni dai fatti e non dai desideri.

Per i lavoratori e i giovani di tutto il mondo non vi è scelta: il vero nemico è sempre quello che sta in casa, quello più vicino: i governi  e le camarille finanziarie e imprenditoriali nazionali. Per questo motivo occorre essere anti-militaristi sempre, contro le guerre di aggressione imperialistiche, ma anche contro le guerre di pretesa difesa degli interessi nazionali, sempre contrari agli interessi del 99% della popolazione. Così, anche se, in assenza di una rivoluzione sociale unica e vera alternativa alla guerra, dal futuro e inevitabile conflitto sarebbe meglio che uscissero sconfitti gli Stati Uniti e l’Occidente, l’Arabia Saudita e Israele, questo non deve imprigionare la lotta contro la guerra in una scelta di parte. Così come, purtroppo, avvenne al termine del disastroso secondo conflitto mondiale.

Che si sparerà è certo, ma non si sa da dove verranno i colpi e contro chi saranno diretti**** appunto. Ma non vi è ragione nazionale o migliore per gli oppressi se si rimane in ambito capitalistico. I regimi più o meno dittatoriali che si scontreranno nella conflagrazione sono tutti egualmente nemici dei giovani che manderanno a morire accampando mille demagogiche scuse e dei lavoratori che dovranno sacrificarsi in nome dell’interesse nazionale e del profitto di impresa. L’opposizione non potrà essere solo morale ed etica, dovrà essere attiva e non potrà attendere il massacro di milioni di civili per manifestarsi pietosamente ed “è necessario che il proletariato mondiale non sia preso di nuovo alla sprovvista dai grandi avvenimenti*****  di cui tutti parlano celandone però le reali ragioni d’essere.

Ma, di certo, anche se sul momento le manovre diplomatiche messe in atto nei confronti della Siria, del suo regime e delle sue presunte o reali armi chimiche dovessero servire a rinviare il momento dell éclatement generalizzato, i primi e incerti passi verso l’inferno sono già stati fatti. Il piano delle contraddizioni politiche ed economiche si è fatto più inclinato e scivoloso e chiunque o qualunque presunto leader, partito o gruppo politico si allontani da una chiara e precisa scelta anti-imperialista e anti-militarista non potrà diventare altro che un avversario della lotta di classe e della lotta per la liberazione dell’umanità da quest’orrido presente storico.

 * Ne è consigliabile l’ascolto nelle versioni di Edwin Starr (1970), The Temptations (1970) e Bruce Spingsteen (live, 1985).

 **Lev Trotskij, Di fronte a una nuova guerra mondiale (9 agosto 1937), in Guerra e rivoluzione, Mondadori 1973, pp. 3 – 10.

 *** L. Trotskij, op. cit., p. 21

 **** L.Trotskij, op. cit., p. 3

 ***** L. Trotskij, La situazione mondiale e la guerra (18 marzo 1939), in op. cit., p. 48.

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