Rust Belt – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Hard working men /4 – Hillbilly highway https://www.carmillaonline.com/2024/09/04/unepica-proletaria-senza-rivoluzione-e-con-poco-dio/ Wed, 04 Sep 2024 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84158 di Sandro Moiso

J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024 (prima edizione italiana 2017), pp. 250, 15 euro.

«Nonna, Dio ci ama?» Lei ha abbassato la testa, mi ha abbracciato e si è messa a piangere. (J.D. Vance – Elegia americana)

Qualsiasi cosa si pensi del candidato vicepresidente repubblicano, è cosa certa che il suo testo qui recensito non potrebbe rientrare nel novero di quelli prodotti o tradotti in Italia all’ombra del brand “working class literature”, anche se contiene elementi di rappresentazione e analisi della classe operaia americana, in particolare di quella che ha le sue radici tra i montanari [...]]]> di Sandro Moiso

J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024 (prima edizione italiana 2017), pp. 250, 15 euro.

«Nonna, Dio ci ama?» Lei ha abbassato la testa, mi ha abbracciato e si è messa a piangere. (J.D. Vance – Elegia americana)

Qualsiasi cosa si pensi del candidato vicepresidente repubblicano, è cosa certa che il suo testo qui recensito non potrebbe rientrare nel novero di quelli prodotti o tradotti in Italia all’ombra del brand “working class literature”, anche se contiene elementi di rappresentazione e analisi della classe operaia americana, in particolare di quella che ha le sue radici tra i montanari del Kentucky, piuttosto significativi.

Per questo vale la pena di parlare dell’epopea famigliare narrata da J.D. Vance, a metà strada tra Mark Twain e l’etnografia, cui il film diretto da Ron Howard, Hillbilly Elegy, nel 2020 non ha reso del tutto giustizia. Una narrazione in cui il Mississippi di Huckleberry Finn è sostituito dalla hillbilly highway lungo la quale una parte consistente del proletariato bianco di origine scoto-irlandese della regione dei monti Appalachi (ancora oggi una delle zone più depresse dal punto di vista economico degli interi Stati Uniti) si è trasferita verso l’Ohio, il Nord industrializzato e le sue acciaierie, tra gli anni di Roosevelt e quelli successivi alla seconda guerra mondiale.

Un fiume di asfalto che ha portato lontano dal Kentucky e dal West Virginia anche i nonni dell’autore e, in seguito, il resto della famiglia. Destinazione Middletown, Ohio, e le acciaierie della Armco, in seguito Armco-Kawasaki, che proprio recentemente ha dovuto essere rifinanziata dal governo degli Stati Uniti con un maxi prestito da cinquecento milioni di dollari per poter rimanere in piedi1. Luoghi definiti solo dal lavoro nell’industria, in cui anche i nomi delle località sono meno significativi degli impianti produttivi che li caratterizzano ancora oggi.

Luoghi sospesi tra South Belt e Rust Belt, in cui le “fortune operaie” sono state e restano sospese a un filo sottile che, comunque, negli anni ha alimentato speranze di riscatto economico e sociale, ma che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha cominciato a mostrare di potersi spezzare in qualsiasi momento, ponendo fine al sogno americano e alimentando un paralizzante pessimismo molto diffuso sia tra i giovani che tra gli adulti.

Una storia di ordinaria violenza, problemi famigliari, affetti traditi, pregiudizi, armi diffuse, onore arcaico, dipendenze da droghe e alcol, religiosità primitiva, illusioni e delusioni, ideologia del “lavorar duro” (anche quando il lavoro manca), aspirazione alla redenzione sociale e rari successi individuali che ha fatto pensare a chi scrive ad una delle canzoni contenute nell’ultimo disco del cantautore australiano Nick Cave, Frogs, in cui gli esseri umani, paragonati a piccole rane, vivono tutto il tempo nelle acque torbide e fangose di uno stagno per poi riuscire, per brevissimi momenti, a saltarne fuori e illuminarsi di sole e aria pulita, prima di precipitare nuovamente nella melma dell’esistenza quotidiana.

Una storia che, però, travalica i limiti della soggettività, che caratterizza tante delle narrazioni dell’attuale working class literature (tale più per le dichiarazioni di intenti che da sempre l’accompagnano che per i contenuti reali), per trasformarsi, quasi obbligatoriamente, in narrazione epica, in cui il “noi” conta più dell’”io”. In cui le condizioni di partenza dei singoli, nella gara di sopravvivenza, sono simili, sia dal punto di vista famigliare che economico e culturale e il fatto che qualcuno riesca a rimanere sospeso nell’aria fuori dallo stagno mentre molti altri no, in fin dei conti, non modifica sostanzialmente le condizioni esistenziali della maggioranza, spesso rinunciataria nei confronti di qualsiasi possibilità di cambiamento.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità2.

Chi volesse vedere nelle osservazioni dell’autore sul senso di sconfitta e rassegnazione che accompagna gran parte dei componenti della classe sociale da cui proviene soltanto come una semplice esaltazione della capacità dell’individuo di realizzarsi attraverso il sogno americano pur che lo voglia, tema sicuramente presente nella conduzione della narrazione, coglierebbe soltanto un aspetto, forse il più marginale, tra i tanti contenuti nel libro. In cui, più che di rifiuto del lavoro in senso politico, si parla invece di perdita di fiducia nella capacità del lavoro di offrire una reale via di uscita dalla condizione di miseria, ancor prima morale e culturale che economica, del proletariato bianco del Midwest e degli Appalachi.

Per i miei nonni, Armco era sinonimo di benessere: il motore economico che li aveva portati dalle colline del Kentucky alla classe media americana. Mio nonno amava quell’azienda e conosceva tutte le marche e tutti i modelli di automobili costruite con il suo acciaio. Anche dopo l’abbandono delle scocche in acciaio da parte di quasi tutte le case automobilistiche americane, il nonno si fermava di fronte a una rivendita di auto usate tutte le volte che ci vedeva una Ford o una Chevy. «Questo acciaio l’ha prodotto l’Armco», mi diceva, lasciando trasparire un sincero orgoglio. Al di là di quell’orgoglio, però, non ci teneva proprio che andassi a lavorare lì3.

Una situazione che ha contribuito a cancellare e rimuovere anni di battagliere tradizioni di lotta e resistenza per sostituirli con dipendenze e traffici di sostanze medicinali prossime agli stupefacenti, come nel caso della contea di Harlan, cui l’autore accenna per la memoria delle lotte dei minatori4, che Alessandro Portelli ha reso di importanza centrale per comprendere l’evoluzione o l’involuzione dello scontro di classe in America con il suo saggio America profonda5.

Quello di Vance è un proletariato più vicino a quello descritto da Marx ed Engels nella Sacra famiglia, che a quello sempre combattivo e cosciente immaginato dai teorici dell’autonomia operaia; prossimo anche a quello descritto in altri romanzi semi-autobiografici come, ad esempio, quello di James Still, Fiume di terra, sempre ambientato tra i lavoratori poveri e i minatori degli Appalachi6. Ed è anche un proletariato lontano dalle note trionfalistiche dell’ideologia liberale dell’ormai beatificata Kamala Harris, motivo per cui le autentiche stronzate guerrafondaie e politically correct espresse da quest’ultima non possono nemmeno lontanamente sfiorarne gli interessi materiali.

Sono nato alla fine dell’estate del 1984, pochi mesi prima che il nonno desse il suo primo e unico voto a un repubblicano, Ronald Reagan. Portando dalla sua parte tanti democratici della Rust Belt come il nonno, Reagan ottenne la più grande vittoria elettorale della storia americana contemporanea. «Reagan non mi è mai piaciuto molto» mi disse tempo dopo il nonno. «Ma odiavo quel Mondale.» L’oppositore di Reagan, un democratico colto e raffinato del Nord, era l’antitesi culturale di mio nonno7.

Una distanza culturale che si mostra anche nelle aule giudiziarie, dove talvolta transita il narratore insieme ai suoi famigliari.

Sedevo in quell’affollata aula giudiziaria, circondato da una mezza dozzina di altre famiglie, identiche alla nostra. Le mamme, i papà e i nonni non indossavano completi come gli avvocati e il giudice. Indossavano pantaloni della tuta e magliette a maniche corte. I loro capelli erano un po’ crespi. Ed era la prima volta che notavo “accenti televisivi” neutri come quelli di tanti presentatori. Gli assistenti sociali, il giudice e l’avvocato avevano tutti un accento televisivo. Nessuno di noi lo aveva. Gli amministratori della giustizia erano diversi da noi, chi veniva giudicato era uguale8.

Un proletariato bianco che, in termini di emarginazione, non ha nulla da invidiare a quello afro-americano di cui spesso ha condiviso il destino sociale.

Middletown è una delle cittadine più antiche dell’Ohio, sviluppatasi nell’Ottocento grazie alla sua prossimità con il fiume Miami […] Sotto il profilo socioeconomico è prevalentemente operaia. Sotto il profilo razziale, è abitata soprattutto da bianchi e da neri (questi ultimi sono il prodotto di un’altra migrazione di massa). [Ma] La strada che era l’orgoglio di Middletown è diventata un punto di incontro di drogati e spacciatori. Oggi Main Street è il tipico posto dove nessuno ha il coraggio di avventurarsi dopo il tramonto.
Questo cambiamento è sintomo di una nuova realtà economica: la segregazione residenziale. Il numero di bianchi della classe operaia che vivono in quartieri degradati è in continuo aumento. Nel 1970, il 25 per cento dei bambini bianchi viveva in un quartiere in cui il tasso di povertà superava il 10 per cento. Nel 2000, quella percentuale è salita la 40 per cento. E oggi, quasi certamente è ancora più elevata. Come ha rivelato uno studio effettuato nel 2011 dalla Brookings Institution, « rispetto al 2000, tra il 2005 e il 2009 era più probabile che gli abitanti dei quartieri più poveri fossero bianchi nati localmente, diplomati o laureati, proprietari di casa che non beneficiavano della pubblica assistenza». […] Le ragioni sono complicate. La politica abitativa del governo federale ha incoraggiato attivamente l’acquisto di case, dal Community Reinvestment Act di Jimmy Carter alla “ownership society” di George W. Bush. Ma nelle Middletown di tutto il mondo la diffusione della proprietà immobiliare ha un costo elevatissimo: quando i posti di lavoro vengono meno in una determinata zona, il calo delle quotazioni immobiliari intrappola le persone in certi quartieri. Anche se vorreste trasferirvi, non potete, perché le case di livello più basso sono ormai fuori mercato: il valore nominale, quello su cui è stato erogato il mutuo, è superiore alla somma che sarebbero disposti a pagare i possibili acquirenti. I costi di trasferimento sono così elevati che molti rimangono dove sono9.

Ma questa segregazione e ghettizzazione forzata, che trasforma il sogno della casa di proprietà in un incubo senza risveglio, è ancora soltanto uno degli aspetti che potrebbero avvicinare il proletariato bianco povero a quello afroamericano10. Un altro era costituito (è ancora costituito?) dal rifiuto del nuovo arrivato nei luoghi in cui gli hillbilly migravano in cerca di lavoro,

Poiché le economie del Kentucky e del West Virginia erano cronicamente depresse rispetto a quelle degli altri stati vicini, le montagne avevano solo due prodotti appetibili per le fabbriche del Nord: carbone e robusti montanari. E gli Appalachi esportavano grosse quantità sia dell’uno che degli altri.[…] Negli anni Sessanta, sui dieci milioni di abitanti dell’Ohio, un milione erano nati in Kentucky, West Virginia o Tennessee. Questo dato non tiene conto del gran numero di immigrati in arrivo da altre zone degli Appalachi meridionali; e non include i figli o i nipoti di migranti che scendevano dalle montagne. Ce n’erano sicuramente tanti, perché gli hillbilly avevano tassi di natalità notevolmente superiori a quelli della popolazione indigena. [Ma] su chi lasciava le colline del Kentucky per cercare una vita migliore gravava un grosso pregiudizio negativo […] Per la classe media tradizionale dei bianchi dell’Ohio quegli hillbilly erano come alieni. Avevano troppi figli e ospitavano famigliari per troppo tempo […] Come si legge in un libro, Appalachian Odissey11, sulla migrazione di massa dei montanari nella città di Detroit: «il problema non era solo che gli immigrati in arrivo dagli Appalachi, ex-contadini “fuori posto” in quella grande città, davano fastidio ai bianchi metropolitani del Midwest. Il problema era che quegli immigrati venivano a confutare tutta una serie di assunti su come si presentavano, su come parlavano e come si comportavano i bianchi […]. La cosa inquietante degli hillbilly era la loro appartenenza etnica. Evidentemente appartenevano alla stessa razza di coloro che detenevano il potere economico, politico e sociale a livello locale e nazionale. Ma gli hillbilly avevano anche molti tratti in comune con i neri del Sud che affluivano a Detroit»12.

Non potrebbe esservi formulazione più chiara del fatto che linee del colore e linee di classe si sovrappongono talmente spesso da diventare sostanzialmente la stessa cosa. Dimenticarlo significa soltanto partecipare al grande gioco dei diritti umani usati come strumento di separazione e divisione all’interno del proletariato. Così ben espresso dalle politiche liberali in voga oggi sia in America che in Europa.

Un ultimo elemento di interesse, tra i tanti che si potrebbero ancora rilevare dalla lettura del testo di Vance, è quello sulla presunta religiosità del proletariato bianco, sempre e soltanto dipinto come misogino, razzista e ultraconservatore dal punto di vista religioso e politico, facendo come al solito di tutta l’erba un fascio come ben conviene ai difensori dell’ordine capitalistico dal “volto umano”. In realtà, come ci avverte ancora l’autore,:

nel cuore della Bible Belt, la pratica religiosa non è affatto diffusa. Contrariamente a quanto si crede, nella regione degli Appalachi — in particolare dall’Alabama settentrionale e dalla Georgia fino all’Ohio meridionale – le chiese sono molto meno frequentate che nel Midwest, in diverse zone del Mountain West e in gran parte del territorio compreso tra il Michigan e il Montana. Stranamente, noi ci crediamo più praticanti di quanto siamo in realtà. In un sondaggio effettuato recentemente dalla Gallup. gli abitanti del Sud e del Midwest dichiaravano tassi più elevati di frequentazione delle chiese di tutto il paese.
Questa ipocrisia ha a che fare con la pressione culturale. Nell’Ohio sudoccidentale, dove sono nato, sia l’area metropolitana di Cincinnati sia l’area metropolitana di Dayton fanno registrare tassi molto bassi di frequentazione della chiese, quasi nella stessa misura dell’ultralaica San Francisco. A San Francisco nessuno si vergognerebbe di non andare in chiesa. In Ohio è esattamente il contrario. [Così] in una parte del paese afflitta dalla deindustrializzazione, dalla disoccupazione, dall’abuso di alcol e di droghe e dal disgregarsi delle famiglie, la pratica religiosa è crollata13.

Lasciando ai soliti cospirazionisti di sinistra il compito di indagare i motivi che hanno spinto Vance in passato a scrivere questa elegia hillbilly, come recita il titolo originale, prima di convertirsi a Trump, il recensore non può far altro che consigliarne la lettura a tutti coloro che intendono ancora occuparsi degli Stati Uniti e delle contraddizioni sociali e “razziali” che li agitano, raccomandandolo a chiunque intenda occuparsi ancora di lotta di classe, poiché è sempre più utile e necessario meditare sulle contraddizioni della stessa, piuttosto che sulle facili e troppo spesso ambigue certezze trasmesse dagli slogan o dalle Convention di Chicago o Milwaukee.

Così. mentre gran parte della critica ne ha spulciato le pagine alla ricerca di indicazioni riguardanti il possibile risultato delle prossime elezioni presidenziali americane, l’impressione che se ne ricava è che il dibattito politico e letterario riposi, ancora, sulle rive di uno stagno in cui milioni di rane restano sul fondo in attesa, magari inconsapevole, di spiccare il prossimo salto, verso la luce e la rivincita di classe.


  1. M. Basile, Middletown e San Francisco, nuove città simbolo di sogno e disillusione americana, «la Repubblica» 25 agosto 2024  

  2. J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024, pp. 10-12.  

  3. Ibidem, p. 58.  

  4. In proposito si veda qui  

  5. A. Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli Editore, Roma 2011.  

  6. J. Still, Fiume di terra, Mattioli 1885, Fidenza 2018.  

  7. J.D. Vance, op. cit., p.50.  

  8. Ivi, pp. 81-82.  

  9. Ivi, pp. 51-55.  

  10. Su questa vicinanza che potrebbe dare inizio a diversi riposizionamenti nell’ambito della lotta di classe, come aveva previsto il presidente della sezione dell’Illinois delle Pantere Nere Fred Hampton, poi ucciso, nel 1969 a soli ventuno anni, dalla polizia e dal FBI nella sua casa di Chicago, si veda il film di Shaka King: Judas and the Black Messiah (2020)  

  11. Philip J. Obermiller, Thomas E. Wagner ed E. Bruce Tucker, Appalachian Odissey: Historical Perspectives on the Great Migration, Praeger, Westport 2000.  

  12. J.D. Vance, op. cit., pp. 33-36.  

  13. Ibidem, p. 96.  

]]>
“Ci sono ancora persone sobrie nella Riserva” https://www.carmillaonline.com/2018/05/15/ci-sono-ancora-persone-sobrie-nella-riserva/ Tue, 15 May 2018 21:12:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45498 di Giacomo Marchetti

Il silenzio, dicono, è la voce della complicità Ma il silenzio è impossibile. Il silenzio urla. Il silenzio è un messaggio, così come fare nulla è un’azione (Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali. Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009. E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica. La pellicola è una co-produzione, anche italiana, [...]]]> di Giacomo Marchetti


Il silenzio, dicono, è la voce della complicità
Ma il silenzio è impossibile.
Il silenzio urla.
Il silenzio è un messaggio,
così come fare nulla è un’azione

(Leonard Peltier)

Land è un film sulla condizione dei nativi nord-americani oggi, girato dal quarantenne regista anglo-iraniano: Bebak Jalali.
Originario di un paese al confine tra l’Iran e il Turkmenistan, dedica a questa terra periferica e di confine, uno dei suoi primi lungometraggi, “Frontier Blues”, del 2009.
E la vita “di confine” e “ai margini” è al centro anche di questa narrazione filmica.
La pellicola è una co-produzione, anche italiana, che nasce da un progetto del Torino Film Lab, selezionata per la sezione Panorama della Berlinale di quest’anno, svoltasi alcuni mesi fa.
“La terra” nella finzione filmica è una riserva indiana chiamata “Prairie Wolf”, ma nella realtà del set è un territorio di confine tra USA e Messico: Tijuana, a qualche km da quel muro che divide “artificialmente” gli States dal Messico
Un confine che è stato al centro della propaganda politica elettorale presidenziale di Orange Man, attuale inquilino della Casa Bianca.
Una cesura che non ha nulla di naturale, quella tra USA e Messico, ma è il prodotto storico di un esproprio compiuto dagli Stati Uniti a metà dell’Ottocento in una delle prime guerre di conquista che ne caratterizzeranno la storia, così come nulla di “naturale” ha l’attuale situazione dei nativi americani in cui l’inizio del loro Olocausto coincide con l’approdo di padri pellegrini sul Mayflower nelle coste orientali del continente Nord-Americano a Cape Cod l’11 novembre del 1620.

Buona parte del territorio del sud degli Stati Uniti è infatti il risultato di una “guerra di rapina”, recentemente rievocata da un bel romanzo di Pino Cacucci: Quelli del san Patrizio in cui si narra le vicende dei disertori, per la maggior parte di origine irlandese, che passarono dalla parte dei messicani, formando un battaglione d’artiglieria nominato appunto San Patrizio al comando di John Riley, uno dei primi fulgidi esempi di “traditori di razza” della storia popolare nord-americana.

La linea di confine, “il dentro” e il “fuori”, la costruzione dell’identità, sono al centro della riflessione filmica, così come anche il tema del “traditore” – in questo caso traditrice – di razza, un ruolo – quest’ultimo – riservato nella pellicola ad una teenager bianca scevra dei pregiudizi della propria famiglia sui nativi americani, curiosa di conoscere la Storia, anzi le storie, di un popolo che vive ridotto alla condizione di reietto.
I nativi sono ancora odiati dai parenti della giovane che non provano alcun rispetto per “gli indiani” ma di cui hanno ancora timore.
I nativi costituiscono ancora una delle maggiori fonti di ricchezza attraverso la vendita di alcolici, business che oltre a lucrare sull’esistenza dei “pellerossa” contribuisce alla loro “anestetizzazione” sociale, rendendoli dipendenti dall’alcol (e quindi da chi lo vende) e incapaci di difendersi dai propri carnefici.
L’alcol ha svolto, e svolge, per i nativi americani la stessa funzione della diffusione massiccia di droghe nei ghetti delle città metropolitane nei confronti degli afro-americani: “la guerra chimica” denunciata ai suoi tempi della Pantere Nere.

Per citare la strofa di un verso di una famosa poetessa chicano-americana Gloria Anzaldua: to survive the Borderlands / you must live sin fronteras / to be a crossroads…
Il regista sembra ispirarsi proprio a questa strofa e stimolato da un servizio, apparso sul Guardian, si reca – per produrre il film – due volte in Nord America, visita una trentina di riserve e compie la selezione degli attori attraverso un casting aperto tra i nativi americani, persone che hanno quindi vissuto sulla propria pelle quella condizione che vuole far emergere, rendendo il film una sorta di docu-fiction in stile iper-realista.

Siamo in uno dei tanti territori rimasti ai margini dello sviluppo economico americano, dopo esserne stato al centro, qui si tratta di quella frontiera mobile un tempo fondamentale per l’espansionismo statunitense, ma la condizione di esistenza potrebbe essere la stessa, mutando di paesaggio e di composizione “etnica”: la periferia di Detroit, un tempo Motorcity, un villaggio ex-minerario nei Monti Appalachi, un quartiere di New Orleans colpito dall’uragano Katrina, in una tante città della rust belt: umanità di scarto in qualsiasi di questi contesti…

È la storia di una famiglia di nativi americani che vive nella riserva, e che passa gran parte della sua esistenza fuori dal territorio nativo stesso: un fratello, Ray, ex alcolista e diabetico lavora con il figlio in un allevamento di bovini mentre un altro combatte nell’Air Force degli Stati Uniti in missione in Afghanistan, un altro, Wes, passa la sua giornata in uno store fuori dalla riserva a bere birra (l’alcol è vietato nella riserva) con la madre – cattolica praticante ma tutt’altro che remissiva e perno del nucleo familiare – che lo porta in macchina quando inizia la sua giornata e lo va a prendere al calar del sole, mentre un terzo, che sembra godere di una certa agiatezza, si dedica al contrabbando di alcol nella riserva e non vive nella casa familiare.
La narrazione filmica si svolge quasi esclusivamente dentro le mura domestiche della famiglia nella riserva, dentro e nelle vicinanze del negozio che vende prevalentemente alcolici, nell’allevamento di bovini e lungo le strade polverose che collegano questi punti.
La riserva è una specie di non-luogo, solcato raramente da chi non ci vive ed è raro che qualcuno l’attraversi per raggiungere “un’altra meta”: non è mai un approdo, se non per chi ci vive come fosse un quartiere dormitorio in cui l’autorità poliziesca è svolta dalla tribe police, il cui unico compito sembra essere quello di verificare la presenza di alcolici sulle persone che ritornano alla Riserva.

Fuori dall’esercizio commerciale la telecamera si adagia sui nativi che passano il proprio tempo a bere, ridotti ad uno stato larvale, mentre sulle pareti un murale raffigurante il prigioniero nativo americano Leonard Peltier, e alcune scritte murali come “native proud” non potrebbero dare un senso di maggior contrasto tra una storia fatta di resistenza e volontà di riscatto ed un presente di marginalità e rassegnazione, a cui nel corso del film i protagonisti reagiscono trasformando una narrazione distopica nel suo contrario.

Gli eredi dei cowboys, non sembrano essere meno aggressivi dei loro predecessori e la tensione è palpabile in ogni scambio verbale tra i membri della famiglia che gestisce lo store, tranne la già ricordata teenager (l’unica che si interessa del co-protagonista alcolizzato), e la famiglia di nativi americani: la linea di separazione tra le due comunità deve essere netta e invalicabile, l’ostilità reciproca il metro del loro relazionarsi, non ha caso alla ragazza viene impedito di frequentare Wes.
La linea del colore, per citare W.E.Du Bois è ancora una discriminante e demolisce le retoriche obamiane della società statunitense come post-razziale.
In questo tempo, fuori e dentro, la riserva il tempo sembra essersi fermato.
Sanno che con i fumi dell’alcol Wes, perde i suoi filtri, e riporta a galla la storia, anche recente, di sopraffazione che la giovane non deve ascoltare: ma è proprio dalla comprensione di ciò che è attraverso ciò che è stato che la ragazza diviene complice indiretta della reazione dei nativi americani, provando probabilmente quello stesso senso di identificazione che le prime abolizioniste provavano nella condizione degli afro-americani di fronte al potere degli WASP, come ci ricorda Angela Davis in un libro recentemente ri-tradotto e ri-pubblicato: Donne, razza e classe.

L’unica attività di svago sembra essere il combattimento tra galli, che la crudeltà umana piega alla sua etica di scontro mortale cingendo con una lama metallica affilata ricurva una zampa del volatile.
Il combattimento tra questi animali, che è una sequenza centrale di Land, è una metafora di questa lotta mortale tra discendenti dei coloni e quelli dei nativi su una terra arida, sullo sfondo di uno sviluppo che concede solo le briciole in quella terra di nessuno alla componente bianca e che continua quel rapporto di dominio iniziato con la “Conquista del West”.

Il motore filmico è la notizia dell’uccisione del fratello in missione in Afghanistan, e le vicende si svolgono lungo il tempo d’attesa della possibilità di riavere il corpo del defunto per celebrare il rito funebre.
La “locandina” del film riprende un frame della pellicola nella scena al confine tra il territorio degli Stati Uniti e quello della riserva, con la bara coperta dalla bandiera statunitense e cattura lo sguardo d’odio del padre verso la cassa da morto in cui un vi è il corpo senza vita del figlio.

I parenti di Floyd e gli abitanti della riserva attendono la salma, sostituendo la bandiera a stelle a strisce e il picchetto d’onore dell’aeronautica: uno dei dialoghi più intensi del film è quello della nonna e del padre con l’ufficiale dell’Air force che ha il compito di occuparsi del figlio morto.
Floyd è morto “per il proprio Paese” secondo l’ufficiale, mentre per la sua famiglia quello era solo il suo lavoro, saranno loro a seppellirlo e non i militari nonostante la prassi esiga il contrario.
I nativi americani sono tra coloro che sono destinati essere la “carne da cannone” per le imprese belliche dell’Impero americano, ed il mestiere delle armi è una delle poche possibilità, insieme al crimine, di emancipazione economica per le “minoranze razziali” statunitensi.

La cerimonia funebre è dilatata nel tempo a causa dell’inchiesta che deve rilevare i motivi del decesso, e se il militare si è attenuto al regolamento, il che permetterebbe di godere alla famiglia di una cifra pari a 100.000 di dollari di risarcimento come militare ucciso in combattimento, rispetto ad una decima parte che gli spetterebbe comunque come soldato in missione.
La voce dell’ufficiale sfuma in questa scena che si svolge nell’ufficio della base militare dell’aeronautica, mentre elenca i vari benefits di cui ha diritto comunque la famiglia a causa del decesso (tra cui l’accesso a cure mediche gratuite…).

Nel tempo dell’attesa l’aggressione fisica gratuita da parte dei figli dei gestori dello store nei confronti del fratello etilista è l’altro motore filmico che fa schizzare la tensione tra gli eredi dei cowboys e quello dei guerrieri “indiani”. L’attesa della vendetta e della possibile reazione a questa in un contesto in cui non c’è alcuna autorità legittima che tuteli l’incolumità dei cittadini e ne punisca i trasgressori proiettano la vicenda in un continuum storico in cui la violenza era e rimane il rapporto sociale tra questi raggruppamenti umani che si tratti dello stupro travestito da prostituzione, o del linciaggio vero e proprio come strumento per imporre con il terrore il proprio dominio se minacciato.

Ed è significativo che la violenza che si consuma su Wes da parte dei due giovani avviene a causa della sua insistenza nel volergli ricordare un linciaggio di due “cacciatori indiani” avvenuto in passato recente di cui loro padre dovrebbe serbare ricordo, cioè esserne probabilmente il responsabile e non è difficile supporre si tratti proprio dell’uccisione del padre di Wes, di cui non si parla mai esplicitamente nel film.

L’equilibrio dato dall’impunità della sopraffazione si rompe e se ne stabilisce un altro in cui la possibilità di rispondere agli attacchi perpetrati nei confronti dei nativi americani non solo vendica un torto subito, ma stabilisce un precedente: ci sono ancora persone sobrie nella riserva risponde la madre zittendo la gestrice dell’attività commerciale che gli paventa rappresaglie per la giusta punizione inflitta ai suoi figli per ciò che hanno fatto a Wes.
Ed anche il figlio etilista, può farcela, se aiutato a disintossicarsi…

E in questa riaffermazione di sé e della propria storia di resistenza, che le parole dell’ex leader dell’American Indian Movement, Leonard Peltier, citate all’inizio della recensione ritrovano la loro forza vitale.
Peltier ha scontato ingiustamente 40 anni di carcere e ora settantenne è chiuso dietro le sbarre di una prigione, per avere difeso armi in pugno la propria comunità dagli assalti alla riserva di Pine Ridge, sfuggita alla dinamiche “interne” di perpetuazione della dominazione dello Zio Tom.
La poesia citata si conclude con queste strofe: Voi siete le vostre azioni / voi siete il risultato delle vostre azioni / diventate il vostro messaggio / Voi siete il messaggio.

]]>
Outsiders vs. Establishment? https://www.carmillaonline.com/2016/06/24/outsiders-vs-establishment/ Fri, 24 Jun 2016 20:00:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31312 di Sandro Moiso

Trump_cover Andrew Spannaus, Perché vince Trump, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 106 pagine, € 10,00

Andrew Spannaus, esperto di macroeconomia e geopolitica di origine americane, vive ormai da 18 anni in Italia e negli ultimi anni è spesso intervenuto nella discussione sulle cause e le conseguenze della crisi economico-finanziaria. Nell’istant book appena pubblicato da Mimesis, nella collana “Il caffé dei filosofi”, egli affronta in maniera agile e concisa il tema delle attuali elezioni presidenziali americane dedicando particolare attenzione ai motivi che hanno fatto sì, da un lato, che Donald Trump sia diventato il candidato repubblicano alla Casa [...]]]> di Sandro Moiso

Trump_cover Andrew Spannaus, Perché vince Trump, Mimesis edizioni, Milano – Udine, 2016, 106 pagine, € 10,00

Andrew Spannaus, esperto di macroeconomia e geopolitica di origine americane, vive ormai da 18 anni in Italia e negli ultimi anni è spesso intervenuto nella discussione sulle cause e le conseguenze della crisi economico-finanziaria.
Nell’istant book appena pubblicato da Mimesis, nella collana “Il caffé dei filosofi”, egli affronta in maniera agile e concisa il tema delle attuali elezioni presidenziali americane dedicando particolare attenzione ai motivi che hanno fatto sì, da un lato, che Donald Trump sia diventato il candidato repubblicano alla Casa Bianca e, dall’altro, il relativo successo di Bernie Sanders nei confronti dell’attuale candidata democratica, e tutt’altro che sicura del successo nella corsa elettorale, Hillary Clinton.

Nell’analizzare le due “sorprese” della campagna elettorale svoltasi negli Stati Uniti nel corso degli ultimi mesi, Spannaus fa largo uso dell’aggettivo “outsiders” ovvero esclusi, almeno potenzialmente, e da qui fa derivare un’analisi, non sempre scontata, della società americana che li ha votati e che, allo stesso tempo, ha davvero escluso altri candidati dati per favoriti (all’interno del Partito Repubblicano) oppure limitato il successo di colei che vorrebbe ammantarsi del titolo di prima donna alla Presidenza degli U.S.A.

I due outsider settantenni di cui si parla non potrebbero essere, tra di loro, più dissimili: fascistoide, razzista, misogino il primo e dichiaratamente socialisteggiante il secondo. Ancora, mentre il primo è “un immobiliarista e star della televisione che predilige la provocazione e l’insulto per attirare attenzioni su di sé”, il secondo è “un vecchio attivista di sinistra che si batte da decenni per l’uguaglianza e contro le discriminazioni”. Eppure alla base del voto, sostanzialmente di protesta, che li avvicina ci sono elementi che affondano le radici nella stessa crisi economica e sociale che accomuna, di fatto da anni, le differenti componenti della società americana bianca dalla middle class in giù.

La prima comunanza tra i due outsider è data dal necessario rovesciamento del discorso politico operato da entrambi nei confronti dei discorsi ufficiali e ormai pluridecennali condotti dai loro rispettivi partiti. Tanto, infatti, il Partito Repubblicano e quello Democratico hanno difeso la liberalizzazione dei mercati e dei servizi, con tutta la relativa pletora di azioni destinate a dare alle banche (e alla finanza) sempre più libertà di iniziativa e di speculazione, tanto i due candidati indicano in Wall Street la fonte principale dei mali che attanagliano l’economia e la società americana.

Questo tema, e lo vedremo meglio in seguito, accompagna il dibattito economico e politico americano, anche a livello di classe dirigente, da molto tempo. “Da sempre esiste un conflitto interno agli Stati Uniti, tra la fazione più liberista, spesso alleata della vecchia potenza imperiale, la Gran Bretagna, e i nazionalisti che hanno utilizzato strumenti statali per avviare grandi periodi di progresso economico e sociale, da Alexander Hamilton ad Abramo Lincoln, da Franklin fino a Delano Roosevelt.1 Da circa quarant’anni, si può affermare senza paura di essere smentiti che la fazione liberista sta vincendo. Il modello del New Deal di Roosevelt è stato gradualmente smantellato, ed entrambi i grandi partiti hanno accettato la mentalità dei tagli al bilancio pubblico e del ruolo importante – spesso più importante dello stesso Governo – della finanza di Wall Street “ (pag. 59)

La conseguenza materiale, però, di tali scelte è stata che “in tutto questo la classe lavoratrice come esisteva nel periodo del dopoguerra ha infine pagato buona parte del conto. La divisione economica in atto vede consolidarsi una classe benestante che copre il 25-30% della popolazione; dall’altra parte c’è la maggioranza degli americani che non solo non fa progressi nelle sue condizioni, ma spesso va addirittura indietro.

È indubbio che oggi quasi tutti abbiano la possibilità di acquistare un numero considerevole di beni di consumo, soprattutto elettronici, dai televisori ai telefonini. Quando si parla di posizione economica però bisogna considerare quanto si lavora per ottenere quello che si ha; e le statistiche di lungo termine non sono confortanti. In media il potere d’acquisto reale della popolazione, quindi corretto per l’inflazione, è pressoché uguale a quello del 1979.
Cioè quello che si riesce a comprare con lo stipendio è rimasto uguale, in media, da 35 anni. In termini monetari, per eguagliare uno stipendio di 4,03 dollari all’ora del 1973, occorrono 22,41 dollari all’ora oggi. Le fasce più alte del Paese superano tranquillamente questa cifra; la classe media e bassa invece no. Infatti, il potere di acquisto reale della popolazione è rimasto uguale in media, il che significa che per alcuni settori della forza lavoro le cose vanno anche peggio.
Per dare un esempio, dal 2000 il 10% più ricco della popolazione ha visto un aumento del 9,7% della propria capacità di spesa; il 25% più povero invece ha visto una diminuzione del 3%. Per metterla in altri termini, si può calcolare il tempo che occorre lavorare per avere un certo tenore di vita. Ci sono studi che dimostrano che già tra gli anni Settanta e gli anni Novanta è aumentato enormemente il numero di stipendi necessari per acquistare certi beni primari: la casa, l’automobile, la lavatrice. Oggi si hanno più cose, ma bisogna lavorare di più per avere quello che si ha.
” (pp. 60 -61)

Accade così che, nell’affrontare il problema, entrambi i candidati finiscano con il puntare il dito sulla perdita di posti di lavoro nei settori forti, ovvero produttivi, dell’economia americana anche se poi le ricette sono talvolta contigue e altre volte molto distanti tra di loro. Per esempio, secondo Spannaus, all’interno del discorso di Trump il famigerato progetto di costruzione di un muro lungo la frontiera messicana (sicuramente costosissimo e quasi impossibile da realizzare) va visto più in funzione anti-NAFTA2 che in funzione di lotta all’immigrazione. Mentre in una parte del discorso di Sanders vi è più attenzione alla necessità di riabilitare quella divisione rigida tra banche commerciali e banche d’affari che il New Deal aveva imposto e la cui abolizione ha portato3 ai successivi disastri speculativi degli anni 2000.

coalSolo dal 2000 gli Stati Uniti hanno perso circa 6 milioni di posti di lavoro nel settore manifatturiero. Fa parte di un processo lungo che risale anche a prima del passaggio del NAFTA. A partire dagli anni Settanta iniziò una graduale trasformazione dell’economia americana in senso post-industriale. […] Il cambiamento che veniva presentato come necessario per evitare squilibri monetari diede il via a una nuova epoca dell’economia mondiale: dalla stabilità e dalla pianificazione, al sorpasso del potere dei mercati rispetto alle decisioni dei governi sovrani. Negli anni a seguire furono gradualmente smantellate le regole economiche del dopoguerra nel mondo transatlantico. Con la deregulation delle industrie aumentava la competizione sui costi; con la deregulation finanziaria i grandi capitali acquisirono un peso enorme, promettendo grandi guadagni a chi si poteva permettere partecipazioni azionarie nei mercati finanziari, guadagni che spesso erano legati all’indebolimento dell’economia reale.” (pag. 58)

La perdita di posti di lavoro nell’industria americana, con la sostanziale deindustrializzazione che ne è conseguita, a favore di una più ampia disponibilità e manovrabilità internazionale dei capitali ha fatto sì che entrambi gli avversari, Trump e Sanders, nel loro discorso politico abbiano manifestato la volontà di difendere la necessità di rilanciare la manifattura americana anche a costo di misure protezionistiche delle aziende straniere (ad esempio cinesi) o americane che abbiano scelto la delocalizzazione delle loro produzioni con il favore del NAFTA.

Anche se a livello di welfare e di altre politiche le scelte dei due candidati risultano essere estremamente differenti, è interessante qui sottolineare la vicinanza delle proposte dei due nel campo dell’economia industriale. Questo spiega anche perché entrambi i candidati non abbiano riscontrato soverchie simpatie tra le cosiddette minoranze che spesso hanno votato in blocco, là dove lo hanno fatto, per Hillary Clinton che dei discorsi spesso vaghi e inconsistenti su minoranze e genere ha basato parte del suo successo elettorale. Il polo di riferimento di entrambi gli outsider era infatti, anche se le frange nere più radicali hanno accolto e appoggiato Sanders là dove erano presenti, la working class bianca impoverita e privata di quei benefici economici di cui aveva goduto per anni.

Uno dei fattori principali dietro a questa difficoltà della classe media è proprio la perdita dei posti di lavoro ben pagati nel settore manifatturiero. Oggi molte più persone lavorano nei servizi, che di media pagano ben meno. Se negli anni Sessanta il 24% dei lavoratori era impiegato nelle manifatture, oggi, nel 2016, quella cifra è solo dell’8%. Questo settore contribuisce solo per il 12 per cento del Pil americano – percentuale decisamente più bassa di Paesi come l’Italia, la Germania e il Giappone. Negli ultimi anni il comparto ha visto una ripresa modesta, rispetto ai servizi e al retail, ma nonostante gli iniziali trionfalismi sul ritorno della manifattura americana in realtà il settore rimane ancora molto debole. Buona parte dei posti di lavoro che vengono creati sono invece in settori con salari bassi, come il commercio al dettaglio, i ristoranti, gli alberghi. Dunque a livello complessivo si assiste a un aumento della precarietà e un abbassamento dei redditi.” (pag. 61)

rust belt Ma questo spiega anche perché Sanders abbia potuto tranquillamente affermare che il voto dei minatori del West Virginia che lo ha premiato alle primarie (e forse avrebbe potuto aggiungere di tutta quella fascia di stati un tempo roccaforte dell’industria americana e da anni ormai trasformatasi nella Rust Belt – la cintura della ruggine), potrebbe passare in blocco a Trump nell’ormai certo scontro elettorale tra l’immobiliarista newyorkese e la Clinton, vista comunque come vera rappresentante egli interessi di Wall Street oltre che moglie di quel presidente che proprio gli accordi del NAFTA ha firmato nel 1994.4

Occorre poi sottolineare come Donald Trump non sia il rappresentante preferito dal Tea Party o dai movimenti conservatori evangelici, il cui vero rappresentante era l’ultra-conservatore e reazionario Ted Cruz. Guarda caso più attento a dialogare, talvolta rovesciandole, con le proposte contenute nel programma della Clinton. Mentre, allo stesso tempo, una parte dell’elettorato di quest’ultima è spesso caratterizzato dall’essere da sempre, o almeno negli ultimi decenni, abituato a condizioni di lavoro precarie e mal pagate, privo di quelle garanzie economiche ancora ricordate dalla white-male working class.

Vale la pena di soffermarsi così a lungo su questi aspetti della campagna elettorale americana e dei programmi dei due candidati proprio a causa delle similitudini che intercorrono tra il tipo di proposte portate avanti dai candidati outsider, o almeno apparentemente tali, nei confronti del capitalismo finanziario oggi dominante in Occidente al di là e al di qua dell’Oceano Atlantico. E contemporaneamente anche al complesso di relazioni e di conflitti, in seno alle stesse classi dirigenti europee e americane, che si manifestano anche attraverso la crescita dei cosiddetti populismi e della stessa uscita dall’Unione Europea, probabilmente non solo della Gran Bretagna. Uno scontro ormai ben visibile sia a livello nazionale, qui in Italia, che internazionale.5

Per anni gli effetti negativi del processo di deindustrializzazione dell’economia americana sono stati camuffati dalla grande crescita della finanza. Il trickle-down funzionava: giravano tanti soldi su Wall Street, i ricchi diventavano più ricchi e l’effetto indotto si sentiva a tutti i livelli. Nel 2007-2008 tutto questo crollò in modo violento. C’erano già stati crolli più piccoli in precedenza. Nel 1987 la Borsa di New York visse la sua giornata peggiore di sempre in termini percentuali, con un crollo del 22,6%, ovvero di 508 punti. Negli anni successivi iniziò la fase dei soldi facili, con immissioni enormi di liquidità nel mercato sotto la tutela di Alan Greenspan, l’allora capo della banca centrale americana, la Federal Reserve. L’esplosione di nuovi strumenti speculativi “derivati” avvenne negli anni Novanta, insieme alle teorie sull’importanza di diversificare il rischio. Ora le società potevano coprirsi contro i cambiamenti repentini nei mercati per i beni reali con contratti che rappresentavano una sorta di assicurazione. Solo che entro pochi anni la parte assicurativa – i derivati – diventò più grande della parte dell’economia reale che doveva essere assicurata. Infatti, dagli anni Novanta in poi il valore nominale dei titoli finanziari supera di circa 10 volte il valore del Pil mondiale Nel 2001 scoppiò la bolla della New Economy, provocando perdite in tutto il mondo, ma ben presto gli operatori di mercato trovarono un nuovo giocattolo, quello dei mutui.[…]. La bolla dei mutui subprime non va vista come un evento in sé, ma appunto come parte di questo processo più lungo di finanziarizzazione. La gravità del crollo non fu semplicemente il risultato degli errori e delle frodi sui mercati immobiliari, ma soprattutto del massiccio effetto-leva insito nel sistema finanziario grazie al meccanismo dei derivati: a un operatore bastava fornire una garanzia di appena il 4% o il 5% del valore nominale che andava a movimentare. Dunque con un dollaro di capitale si disponeva di uno strumento che ne valeva venti volte tanto. Permetteva di fare grandi guadagni su piccole variazioni nel mercato, ma anche grandissime perdite quando la direzione del mercato si invertiva. La risposta delle istituzioni pubbliche al crack del 2008 fu di correre a salvare il sistema. Si temeva la fine del mondo, una situazione in cui i mercati si sarebbero fermati, le banche sarebbero fallite, e l’economia sarebbe entrata in uno stato di caos totale. Con questa giustificazione furono fornite quantità enormi di denaro (elettronico) al settore finanziario. Da una parte con il programma pubblico denominato TARP, creato con uno stanziamento di 700 miliardi di dollari da parte del Congresso Usa; dall’altra la Federal Reserve si mosse per fornire cifre ben superiori, fino a oltre 10 trilioni di dollari tra prestiti a tasso essenzialmente zero e garanzie per chi rischiava il default.
Gli effetti del crack sull’economia reale sono stati devastanti. Quando Barack Obama arrivò alla Casa Bianca nel gennaio 2009 in America si stavano perdendo tra 700 e 800 mila posti di lavoro ogni mese. La Grande Recessione era iniziata, e nei media affioravano i resoconti di come banche e finanziarie avessero impostato un modello per defraudare la gente.
” (pp. 62 – 63)

Ma se tali effetti, come si è già sottolineato, sono stati devastanti per i lavoratori, un tempo, garantiti, altrettanto lo sono stati per le piccole e medie imprese che spesso costituiscono, non solo in Italia, il cuore pulsante delle attività economiche produttive. Anche a livello di distribuzione delle merci. E diventa così possibile spiegare perché, ad esempio, in Italia le Coop, soprattutto “rosse”, si siano trasformate da strumento di distribuzione e commercializzazione delle merci a strumento di raccolta di fondi (i capitali grandi, piccoli e anche piccolissimi dei soci) per le attività finanziarie, mentre l’economia tedesca, ancora, almeno apparentemente, impostata sulla produzione industriale sul continente europeo, spesso entri in conflitto con le politiche della Banca Centrale Europea più propensa alla difesa delle attività speculative e finanziarie. Tant’è che l’attuale uscita della Gran Bretagna dall’Europa, così vituperata a parole, potrebbe rivelarsi per la Germania un’occasione di rafforzamento della propria autorità economica e politica sul continente.

Risulta altresì evidente che la critica rivolta a Trump dalla cosiddetta “sinistra” benpensante, europea e americana,6 non ne tocca gli assunti fascisti reali (sostanzialmente il governo dei produttori di cui la Carta del Lavoro mussoliniana del 1927 fu il manifesto politico), ma sostanzialmente gli aspetti più platealmente provocatori e offensivi (proprio come nel caso dei populismi europei) per non dover rispondere sul piano economico delle proprie scelte, tutte fatte a vantaggio della finanza globale e di quella miserrima percentuale di speculatori internazionali che si accaparra ormai una quota rilevantissima di ricchezza mondiale.7

uto pia Il testo di Spannaus affronta ancora tantissimi altri elementi della campagna elettorale americana e sottolinea molte altre diversità, per esempio sulla guerra, dei due outsider nei confronti dei due partiti di riferimento, ma ciò che occorre qui infine cogliere è che, pur nella simpatia che Bernie Sanders può ispirarci e che ha ispirato tanti elettori e giovani americani che il Partito della Clinton non esita a definire “conservatori”, in assenza di un’autonoma azione di classe il mondo del lavoro, femminile o maschile, bianco o nero o immigrato che sia, è destinato, nonostante tutto, ancora a sottostare a scelte che prima di tutto, anche quando sembrano staccarsi drasticamente dai modelli politici ed economici dominanti, appartengono soprattutto a fazioni divergenti e in lotta della stessa classe dirigente. Come questo utile testo contribuisce, anche involontariamente, a dimostrare. Piaccia o meno.

brexit4 D’altra parte l’analisi del voto britannico, che ha determinato l’uscita del Regno Unito dall’Europa comunitaria, rivela che le aree ex-industriali ed ex-minerarie dell’Inghilterra e del Galles, ancora una volta piaccia o meno, sono risultate determinanti ai fini del risultato. Confermando così il contenuto di protesta di tale scelta, al di là del nazionalismo e del razzismo presentati come unica motivazione per i cittadini che hanno scelto l’uscita da parte dell’establishment economico, finanziario, politico e mediatico di Bruxelles. Il quale ultimo ha inutilmente cercato sul corpo e l’omicidio della parlamentare laburista Jo Cox la giustificazione, cinica e inconsistente, a favore del remain (e della susseguente speculazione bancaria).
Eppure c’è uno slogan, partito dalla Valle di Susa, che dovrebbe far riflettere le classi dirigenti europee e i loro media asserviti, condotti (soprattutto dopo i dibattiti televisivi di giovedì sera) da comici da avanspettacolo, sul loro inequivocabile destino: “Non potete fermare il vento, gli fate solo perder tempo!


  1. Occorre qui sottolineare che già Marx, nei suoi scritti sulla Guerra Civile americana, interpretava il conflitto tra Sud e Nord in termini di scontro tra la classe dirigente del Nord che intendeva emanciparsi definitivamente sul piano industriale dalla dipendenza dalla Gran Bretagna e quella del Sud che continuava a dipendere dal Regno di Albione in termini di esportazione di materie prime agro-alimentari verso l’ex-madrepatria. Naturalmente la causa della liberazione dei neri risultava assolutamente secondaria, al di là delle leggende solo successivamente accreditate, visto che il proclama di Lincoln per la liberazione degli schiavi fu emanato soltanto nel 1863, un anno di pesanti difficoltà per gli eserciti del Nord  

  2. Il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio), è un trattato di libero scambio commerciale stipulato tra USA, Canada e Messico e modellato sul già esistente accordo di libero commercio tra Canada e Stati Uniti (FTA), a sua volta ispirato al modello dell’Unione Europea. L’Accordo venne firmato dai Capi di Stato dei tre paesi (il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il Presidente Messicano Carlos Salinas de Gortari e il Primo ministro del Canada Brian Mulroney) il 17 dicembre 1992 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1994. (https://it.wikipedia.org/wiki/North_American_Free_Trade_Agreement)  

  3. La divisione tra le attività bancarie di “retail” e “trading” risale all’epoca del New Deal, con la legge Glass – Stagall Act del 1933 adottata come risposta alla grande depressione del ’29 e rimasta in vigore per circa settanta anni. La separazione netta tra banche commerciali e banche d’affari è stata, poi, soppressa nel 1999 con il Gramm – Leach – Bliley Act, durante la presidenza di Clinton (http://www.avantionline.it/2014/01/banca-commerciale-o-di-investimento-un-divorzio-utile-anzi-urgente/#.V2ZHLdSLRkg)  

  4. Si veda, a proposito degli interessi che appoggiano la Clinton, sia nel Partito Democratico che in quello Repubblicano, https://www.carmillaonline.com/2016/05/02/donne-sui-tre-lati-della-barricata/  

  5. Ad esempio in un articolo, pubblicato su Il Giornale, del marzo 2015, le riflessioni di Spannaus sull’attuale Premier e le vere cause della crisi vengono così riassunte: ”Il Premier punta molto sull’appoggio dei settori che hanno interessi internazionali così da poter fare da una parte il “rottamatore” all’interno dell’Italia e “farsi bello”, e dall’altra rimanere attaccato alle stanze che muovono grandi interessi. Facendo un passo indietro poi Spannaus conferma che il disastro creato da Mario Monti e dal suo governo di tecnici ” non é stato casuale, bensì voluto”. Anche Monti e Amato lo hanno confermato. In soldoni ci hanno detto che l’Italia si sarebbe fatta finanziare il deficit dall’estero perché da sola non era in grado, e che quindi si riducevano i consumi dei cittadini. Quali sono le vere intenzioni? ” Ecco, l’intenzione è quella di sfruttare la crisi economica per rafforzare le strutture sovranazionali. Con Mario Monti si sono trasferite le sovranità dalle nazioni all’Unione Europea. Solo in periodo di crisi, approfittando del momento, questo é stato possibile” – afferma Spannaus. Il dramma é che la popolazione e il governo non hanno più alcun potere e le decisioni vengono prese a livelli più alti”.
    http://www.ilgiornale.it/news/cronache/mossa-voluta-crisi-mettere-ginocchio-italiani-1102028.html  

  6. Varrebbe ancora la pena di ascoltare oggi le ironiche parole della canzone “Love Me, I’m A Liberal” di Phil Ochs, il cantautore americano socialista che la compose alla metà degli anni Sessanta  

  7. Basti ricordare che i 62 individui più ricchi del mondo si accaparrano la ricchezza equivalente a quella di metà della popolazione del globo: 3 miliardi e mezzo di persone  

]]>
Detroit è morta, viva Detroit! (prima parte) https://www.carmillaonline.com/2013/08/09/detroit-e-morta-viva-detroit-prima-parte/ Thu, 08 Aug 2013 23:00:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8246 iggy1di Sandro Moiso

E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu  Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri  del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del [...]]]> iggy1di Sandro Moiso

E’ stata la capitale mondiale dell’auto. La Parigi dell’Ovest del XIX secolo americano. Un tempo fu  Fort Pontchartrain du Détroit, fondato nel 1701 dai francesi e poi conquistato dai fucilieri  del maggiore inglese Rogers. Fu al centro della guerra franco-indiana e poi della guerra del 1812 tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Oggi, con i suoi settecentomila abitanti è praticamente una sorta di ghost town, cui rimane il merito di essere la capitale di quella che fu chiamata rust belt a partire dagli anni ottanta del secolo appena concluso. Eppure,eppure…

Heavy Music

 Non fatevi fregare dalle critiche compiacenti: l’ultimo album di Iggy and the Stooges fa cagare! Molto peggio del penultimo e senza paragoni rispetto a quelli degli anni sessanta e settanta. Il chitarrista James Williamson non ricorda nemmeno vagamente gli assalti sonici di Raw Power, Iggy s’è giocato la voce ai dadi e il resto del gruppo…beh, meglio lasciar perdere. Eppure Ready To Die, con la foto di copertina che ritrae Iggy  avviluppato da  una cintura esplosiva  sui fianchi e sul torace nudo può rappresentare simbolicamente (e non solo per il titolo) un ottimo punto di partenza per un viaggio a ritroso nella storia politica, sociale,economica e culturale della città del Michigan. Un viaggio, come quello di Iggy, a ritroso verso la gloria di un tempo, oggi forse definitivamente perduta.

 Perché proprio a partire dagli Stooges? Perché Detroit fu una delle capitali del rock alternativo e del rock blues degli anni sessanta e settanta. Tutti ricordano i luoghi sacri del rock’n’roll: Memphis e la Sun Records, San Francisco e la scena acida e psichedelica, New York e la provocazione delinquenziale dei Velvet prima e del primo, selvaggio punk poi; i fuori di testa texani e i compiti bostoniani indecisi tra psichedelia selvaggia e pop. Ma Detroit ragazzi…oh, Detroit!?! Fu la patria di quella che Bob Seger battezzò con il titolo di un suo brano: Heavy Music.

 Musica rock infarcita di blues e chitarre metalliche, di provocazione politica e incitamento alla rivolta. Piena zeppa di cantanti furiosi  e esplosioni soniche free form rubate al jazz più innovativo di quegli anni. I Motor City 5 (MC5) legati al White Panther Party e a John Sinclair, gli Up che si facevano fotografare armati fino ai denti con baionette e fucili M-1 (riparleremo più avanti di questo modello di fucile), Iggy che si contorceva sulla scena come un rettile mentre il resto del gruppo inscenava truculentissime gag a base di sangue (vero) e svastiche (false) come simbolo del potere dominante.

E poi Sun Ra che si spostava lì da Chicago, con la sua Arkestra, per partecipare al festival annuale della cittadella universitaria di Ann Arbor, più famosa per la riottosità dei suoi studenti che per la qualità delle sue accademie. E ancora Alice Cooper, incontrastato re del glam, benedetto agli esordi dal genio di Zappa che lo volle per la sua (fallimentare) Bizarre Records oppure la Tamla Motown (Motor Town) una delle grandi etichette di musica nera: innovativa, arrabbiata e fiera di esser tale.

I Rationals e il loro garage venato di  blues e, in seguito, i Grand Funk Railroad, in origine pesanti e metallici forse più dei veicoli prodotti dalla Ford della loro originaria Flint; la James Gang e gli assoli rock blues infiniti, Bob Seger con il suo Sound System ispirato al soul e alla cultura blue collar, fino ai catastrofici Destroy All Monsters di Ron Asheton (ex- Stooges) e della indemoniata cantante  Niagara nei primi anni ottanta. Senza dimenticare il grande Sixto “Sugarman” Rodriguez, i cui testi costituiscono sicuramente uno dei prodotti più genuini della street e class culture della Detroit di quegli anni. Qualcuno o qualcosa è stato certamente dimenticato, ma già questi bastano  a dar vita a un bel gruppo di kamikaze sonori e culturali.

Oggi la stampa nazionale e internazionale parla della crisi di Detroit come del fallimento del welfare e delle conseguenze della globalizzazione, ma ignora tutto ciò e quello che qui seguirà perché dovrebbe porsi domande imbarazzanti. Come, ad esempio: Da dove proveniva tutta questa energia? Quale era il tessuto sociale e culturale che la propagava? Perché è finita?

Società multirazziale, lotta di classe e laboratorio sociale

Nel 1820 la città, sorta sule rive del fiume Detroit nella regione dei Grandi Laghi, contava 1.422 abitanti; nel 1900 ne contava 285.704, nel 1920 ben 993.678, mentre nel 1950 raggiunse la cifra di 1. 849.568. Una crescita esponenziale, legata soprattutto all’industria dell’auto, da quando Henry Ford, nel 1904, iniziò a realizzare lì la prima vettura”di massa”: la Model T. Mentre, sempre nella stessa città, anche i fratelli Dodge (John Francis e Horace Elgin) e Walter Chrysler iniziavano a  produrre automobili. Crescita demografica dovuta dunque all’enorme massa di diseredati, bianchi e neri e di differenti nazionalità, che si riversò  nella città a caccia di un posto di lavoro.

Con la seconda guerra mondiale e lo sviluppo delle industrie belliche l’afflusso, soprattutto dagli stati del Sud, divenne gigantesco, finendo anche con l’aumentare le tensioni razziali e di classe che già si erano manifestate nel corso delle lotte sindacali degli anni trenta e delle race riot  del 1943. Ancora oggi una qualsiasi cartina stradale ci mostra, figurativamente, qual’era la posizione centrale di Detroit rispetto all’industria americana.

A circa 380 chilometri ad Est sorge Chicago, che era stato l’altro grande collettore di manodopera nera e immigrata più o meno negli stessi decenni e in cui, dalla seconda metà dell’Ottocento, l’industria della carne in scatola (con relativi mattatoi e macelli) aveva fato da traino. Un po’ più a sud, sulla riva opposta dello stesso lago, si trova Cleveland, con i suoi impianti industriali in disuso, e poche miglia più a sud di questa troviamo Akron, ex-capitale della gomma  e della produzione di pneumatici.

Scendiamo ancora e troviamo, non molto distante, Pittsburgh con le sue acciaierie e, verso est, Buffalo, centro portuale ed industriale da tempo riciclato in città turistica e “culturale”. Siamo nel cuore del cuore delle vecchie regioni industriali. Là dove il conflitto sociale può vantare decenni di storia e gli IWW avevano giocato le loro sorti e quelle del sindacalismo d’industria nei primi quarant’anni del XX secolo. Si potrebbe dire di essere in prossimità di quello che, in un tempo neppure troppo lontano, è stato  il cuore del conflitto sociale degli Stati Uniti.

Ancora nel 1972, Detroit costituiva  il quartier generale dell’industria dell’auto, quella che all’epoca dava lavoro ad un americano su sei. E proprio in quell’anno Lawrence M. Carino, Presidente della Camera di Commercio di Detroit, poteva dichiarare: ”Detroit è la città dei problemi. Se ne esistono, noi probabilmente li avremo. Sicuramente non ne avremo l’esclusiva. Ma certamente li avremo prima di altri…La città è ormai diventato il laboratorio vivente  per il più completo studio possibile sulla condizione urbana in America*.

Cinque giorni a luglio

Nel momento in cui rilasciava questa dichiarazione, Carino doveva ancora avere ben in  mente i cinque giorni del luglio 1967 in cui la città era stata protagonista della più grande rivolta urbana della storia degli Stati Uniti dopo quella di New York del 1863 contro la leva obbligatoria istituita nel corso della Guerra Civile. In quel caso fu l’artiglieria ad essere usata contro i rivoltosi nelle strade di New York City, mentre a Detroit si fece ricorso ai carri armati e all’aviazione in dotazione alla Guardia nazionale.detroitriot 1

Tutto era iniziato a causa di un intervento della polizia per chiudere un locale privo della licenza di vendita per le bevande alcoliche che si trovava nei locali della United Community League for Civil Action, sull’angolo della Dodicesima Strada  con Clairmount Street nel Near West Side. Gli agenti pensavano di trovare poca gente poiché erano le 3:45 del mattino di una domenica. Invece nei locali si trovavano 82 afro-americani intenti a festeggiare alcuni loro amici appena tornati dal servizio in Vietnam. Come la polizia tentò di arrestarli tutti, nelle strade si radunò una folla enorme che costrinse gli agenti ad una precipitosa ritirata sotto una pioggia di bottiglie e sassi. Era il 23 luglio.

Nel corso dei giorni successivi vi furono 43 morti (34 neri e 9 bianchi, tra i quali l’unico agente di polizia ucciso durante i disordini), 1189 feriti, 7200 arresti e 2000 edifici distrutti. Furono assaltati supermercati e negozi, mentre la polizia lamentò (senza mai provarlo veramente) la presenza di cecchini tra i manifestanti. Per sedare i disordini fu richiesto prima l’intervento della Guardia Nazionale, autorizzato dal Presidente Johnson il 25 luglio, e, successivamente, di reparti aviotrasportati dell’esercito.

Di fatto la città finì con l’essere occupata militarmente da 8000 soldati della Guardia Nazionale e 4700 paracadutisti del 32° Airborne oltre che da 360 agenti della Michigan State Police. Nei giorni successivi la presenza massiccia di truppe sul territorio urbano contribuì ad incrementare il numero degli uccisi, dei feriti e degli arrestati, ma rischiò anche di degenerare in scontri a fuoco tra soldati della Guardia nazionale (prevalentemente bianchi) e paracadutisti (prevalentemente neri). Tanto che  fu ordinato ai paracadutisti di far ricorso alle armi soltanto su ordine o in presenza di un ufficiale bianco.

Con il 27 luglio la rivolta ebbe termine e l’ordine tornò a regnare su Motor City, ma il segnale era stato allarmante e l’establishment politico ed economico si rese conto che le conseguenze sociali e politiche avrebbero potuto essere ben più gravi. Dopo quella rivolta la rabbia nera perse, però, le sue connotazioni esclusivamente razziali per conseguire una maggiore coscienza di classe che si sarebbe da lì a poco manifestata attraverso nuove e più politicizzate forme di organizzazione.

John Lee Hooker per primo si fece cantore della rivolta con il suo blues Motor City Is Burning, ma anche il cantautore canadese Gordon Lightfoot le dedicò la sua Black Day in July. Ma si può tranquillamente affermate che fu proprio la rivolta a cambiare l’attitudine di numerose rock band che fino a quell’anno erano state prevalentemente legate al garage per poi passare dopo quegli eventi ad un atteggiamento più rabbioso ed impegnato. Primi fra tutti i Motor City 5 di Fred Sonic Smith, Wayne Kramer  e Rob Tyner.detroit-riots

I danni furono calcolati intorno ai 500 milioni di dollari;  tra gli arrestati più di 6000 erano adulti e quasi un migliaio gli adolescenti. Il più giovane aveva 4 anni e il più vecchio 82, mentre 5000 persone rimasero senza casa. Quando agli inizi del XX secolo gli afro-americani erano emigrati dagli stati del Sud verso il Nord, in quella che è ancora de finita la Grande Migrazione, la popolazione cittadina, come si è già visto, si era enormemente incrementata, ma non così l’offerta e la disponibilità di case per nuovi venuti. In questo modo i neri di Detroit furono pesantemente discriminati sia sul piano sociale che su quello lavorativo.

Nei primi anni sessanta la loro condizione era parzialmente migliorata e si andava formando una classe media di origine afro-americana, ma alla vigilia della rivolta molti appartenenti alla comunità nera si ritenevano insoddisfatti o delusi dai lenti progressi di cui erano testimoni e/o attori. La commissione di inchiesta formata dopo la fine della rivolta accertò che, prima della rivolta, il 45% degli agenti di polizia operanti nei quartieri abitati prevalentemente da afro-americani erano decisamente “anti-negro” (come li definì la stessa commissione) e che un altro 34% era costituito da agenti significativamente marchiati dal pregiudizio razziale.

Nell’insieme il corpo di  polizia della città di Detroit era formato al 93% da agenti bianchi a fronte di un 30% di residenti neri nella città. Così era facile che gli agenti di pattuglia si rivolgessero ai maschi neri di qualsiasi età con il termine “Boy” e alle donne di colore con i termini confidenziali “Honey” o “Baby”. Queste ultime venivano poi spesso fermate ed arrestate per “prostituzione” se camminavano da sole per strada. Senza contare, poi, che un certo numero di residenti in città, non solo neri, dichiarò che uno dei problemi principali durante la rivolta di luglio era stato costituito dalla brutalità e dal comportamento aggressivo della polizia.

* Dan Georgakas, Marvin Surkin, Detroit: I Do mind Dying, South End Press, Cambridge, Ma, 1998, prima edizione 1975, pag.1

(Fine prima parte – continua)

]]>