Ruggero Eugeni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Immersioni quotidiane https://www.carmillaonline.com/2024/01/30/immersioni-quotidiane/ Tue, 30 Jan 2024 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80661 di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Filippo Fimiani, Barbara Grespi, Anna Chiara Sabatino (a cura di), Immersioni quotidiane. Vita ordinaria, cultura visuale e nuovi media, Meltemi, Milano 2023, pp. 330, € 22,00

Immersioni quotidiane esplora l’immersività mediale contemporanea intesa come condizione in cui i media, facendosi pervasivi e naturalizzati, divengono parte integrante della vita ordinaria agendo in maniera importante sulle soggettività e sui loro rapporti con gli altri e con il mondo. Ad essere esplorati sono pertanto alcuni aspetti della vita ordinaria contemporanea riguardanti l’identità, i corpi, i sensi, i luoghi, gli oggetti e le immagini, nel loro costante mutare alla luce [...]]]> di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Filippo Fimiani, Barbara Grespi, Anna Chiara Sabatino (a cura di), Immersioni quotidiane. Vita ordinaria, cultura visuale e nuovi media, Meltemi, Milano 2023, pp. 330, € 22,00

Immersioni quotidiane esplora l’immersività mediale contemporanea intesa come condizione in cui i media, facendosi pervasivi e naturalizzati, divengono parte integrante della vita ordinaria agendo in maniera importante sulle soggettività e sui loro rapporti con gli altri e con il mondo. Ad essere esplorati sono pertanto alcuni aspetti della vita ordinaria contemporanea riguardanti l’identità, i corpi, i sensi, i luoghi, gli oggetti e le immagini, nel loro costante mutare alla luce delle innovazioni tecno-estetiche e visuali prodotte dai nuovi media e dalle loro potenzialità immersive. Il volume si articola dunque in cinque capitoli in cui, attraverso una pluralità e una varietà di sguardi, vengono indagate forme e figure di esperienza della vita ordinaria e delle nuove tecnologie.

Gli interventi raccolti nel Primo capitolo indagano come i media visivi e audiovisivi tendano ad assegnare ruoli e posizioni soprattutto a soggetti marginalizzati ma anche come questi possano, grazie agli usi di tali dispositivi, sottrarsi agli incasellamenti sociali e culturali loro imposti. I saggi di Sofia Pirandello, Margherita Fontana, Alice Cati e Luisella Farinotti affrontano il rapporto delle donne con la fotografia nel suo oscillare tra pratica emancipatava e strumento di mantenimento, se non di rafforzamento, di incasellamento sottomissivo.

Il Secondo capitolo è dedicato alla costituzione della soggettività alla luce del ruolo svolto dai media nel plasmare e riplasmare il modo in cui il soggetto si presenta agli altri. Federica Villa si occupa della rappresentazione del volto e dei filtri digitali, Lorenzo Donghi e Deborah Toschi affrontano la rielaborazione in forma visiva dei dati derivanti dal self-tracking, Paola Lamberti e Clio Nicastro approfondiscono alcune forme di disagio contemporaneo alla luce dei media, dall’ansia giovanile su Tik Tok ai disturbi alimentari messi in scena dal cinema, Imma De Pascale, infine, si occupa della produzione fotografica di Vivian Maier.

Alle forme artistiche ottenute attraverso i dispositivi mediali contemporanei è dedicato il Terzo capitolo. Elena Lazzarini e Augusto Sainati ricostruiscono le tappe principali dell’“immersività” a partire dai sui esempi più remoti, Andrea Mecacci indaga il “Pop diffuso” inteso come processo di estetizzazione della società e della cultura che ha condotto all’esteticità diffusa e post-mediale di oggi, Luca Malavasi si occupa delle forme di espansione dell’universo immaginario e filmico che permettono processi di appropriazione e manipolazione mentre, viceversa, Adriano D’Aloia e Federica Cavaletti indagano casi in cui sono i media a “manipolare” i loro utenti, dal ruolo del selfie nel riorganizzare il rapporto del soggetto con sé stesso all’incidenza della realtà virtuale nel rapporto tra soggetto ed esperienze vissute negativamente come il senso di vergogna.

Il Quarto capitolo presenta una serie di saggi incentrati su come i media mutino tendendo ad adattarsi a determinati requisiti e usi, o abusi. Alessandro Costella ricostruisce la storia che ha condotto all’affermazione della superficie trasparente in varie tipologie di dispositivi visivi, «di quegli schermi cioè che non sono fatti per essere guardati, ma per farsi guardare attraverso», Diego Cavallotti guarda alla “trasparenza” come a una «condizione necessaria per la naturalizzazione o “banalizzazione” dell’uso dei media» esaminando in particolare il ruolo giocato dalle videocamere analogiche, Filippo Fimiani e Anna Chiara si occupano del ruolo delle immagini registrate dalle tante videocamere che riprendono il quotidiano, Max Schleser ragiona attorno al filmmaking portatile intendendolo come un genere cinematografico a sé stante, mentre Emilia Marra si occupa di come la fruizione degli archivi di materiale registrato sul web si rifletta sulle facoltà umane.

L’ultimo capitolo si concentra sui media all’interno del tessuto cittadino e comunitario mettendone in luce le valenze politiche. Ruggero Eugeni guarda all’automobile contemporanea come a un iper-medium, Arianna Vergari riprende le “sinfonie della città” realizzate a partire dagli anni Venti del secolo scorso osservando come queste rappresentino e de-familiarizzino l’esperienza quotidiana dello spazio urbano, Miriam De Rosa indaga come gli artefatti mediali attivino gli spazi in cui sono collocati, delle modalità di costruire spazi si occupa anche Roberto Pisapia esaminando il placemaking, il placetelling e il placedoing, infine Giuseppe Previtali indaga il ricorso ai meccanismi videoludici nella realtà quotidiana, nella comunicazione politica e, in particolare, nella comunicazione della “Guerra al Terrore”.

Nel loro insieme, i contributi raccolti in questo volume forniscono una pluralità e una varietà di sguardi su un fenomeno che oggi sembra tanto più urgente indagare, quanto più a portata di mano e sotto gli occhi di tutti noi. Un fenomeno forse unico, come lo è ogni fenomeno di un certo momento storico, ma né unitario né unificabile, e che anzi chiama a raccolta nuovi punti di vista, nuovamente e diversamente situati, che non potranno che essere seriamente curiosi e arrischiati, cioè davvero interdisciplinari. Perché le immersioni quotidiane nelle nuove tecnologie vanno insieme alle immersioni nel quotidiano grazie ai media e ai loro usi, e alle competenze ermeneutiche e critiche che da tali usi possiamo apprendere e sperimentare. Ogni giorno diversamente.

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Il reale delle/nelle immagini. Il cinema, il reale e l’immaginario negli articoli di Edgar Morin https://www.carmillaonline.com/2021/07/12/il-reale-delle-nelle-immagini-il-cinema-il-reale-e-limmaginario-negli-articoli-di-edgar-morin/ Mon, 12 Jul 2021 20:30:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67121 di Gioacchino Toni

«Come mai a volte la nostra realtà ci appare ovvia e familiare e a volte strana e sconosciuta? Come mai a volte la nostra realtà possiede una sua realtà assoluta e a volte invece ne ha così poca? Malgrado il sentimento indubitabile della nostra realtà, […] abbiamo a volte la sensazione della scarsa realtà della nostra realtà. Al cinema, invece, diamo una forte realtà ai personaggi e alle loro storie, e solo un piccolo barlume di vigilanza nella nostra mente non dimentica, durante la proiezione, che siamo spettatori seduti su [...]]]> di Gioacchino Toni

«Come mai a volte la nostra realtà ci appare ovvia e familiare e a volte strana e sconosciuta? Come mai a volte la nostra realtà possiede una sua realtà assoluta e a volte invece ne ha così poca? Malgrado il sentimento indubitabile della nostra realtà, […] abbiamo a volte la sensazione della scarsa realtà della nostra realtà. Al cinema, invece, diamo una forte realtà ai personaggi e alle loro storie, e solo un piccolo barlume di vigilanza nella nostra mente non dimentica, durante la proiezione, che siamo spettatori seduti su una poltrona. Da qui l’idea che la nostra realtà umana sia intessuta di immaginario: sogni a occhi aperti, fantasmi, immaginazioni, fantasie, desideri, romanzi, film, serie televisive e svaghi sono costitutivi della nostra realtà umana. L’immaginario collabora con il reale nelle arti dove si opera la nascita di un universo fantasma dotato di effetto di realtà. La missione del cinema è quella di affrontare questa doppia natura del reale. Obbliga gli spettatori a porsi domande fondamentali sulla loro vita, la loro società, il loro mondo, ossia sull’uomo stesso». (Edgar Morin)

Con queste parole si apre Le Cinéma, un art de la complexité (2018), di cui è appena uscita l’edizione italiana – Edgar Morin, Sul cinema. L’arte della complessità (Raffaello Cortina Editore, 2021) – tradotta da Anna Battaglia. Si tratta di un’ampia raccolta di articoli sul cinema stesi da Morin nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta – in buona parte pubblicati su riviste come la Revue internationale de filmologie e La Nef, oppure ritrovati in forma di bozze, dattiloscritti e manoscritti presso l’archivio del Centre Edgar Morin. Institut interdisciplinaire d’anthropologie du contemporain – proprio mentre lo studioso lavorava ad opere destinate a lasciare il segno come Le Cinéma ou l’homme imaginaire (1957), Les stars (1957) e L’Esprit du temps. Essai sur la culture de masse (1962).

A far da sfondo agli articoli riportati dal volume sono dunque le coeve riflessioni contenute in questi importanti saggi in cui Morin affronta la complessità dei fenomeni audiovisivi concependo l’immaginario come una parte costitutiva della realtà umana.

Le Cinéma ou l’homme imaginaire viene tradotto in italiano nei primi anni Sessanta faticando però ad incidere sul dibattito cinematografico nazionale, come ricostruisce puntualmente Francesco Casetti nell’introduzione all’edizione proposta da Feltrinelli nel 1982 e riportata in quella realizzata da Raffaello Cortina Editore nel 2016. In questo saggio Morin si concentra sul rapporto del cinema con il reale e l’immaginario evidenziando le relazioni con i processi profondi della psiche e della conoscenza.

L’illusione di realtà prodotta dal cinema, secondo il francese, risulta inseparabile dalla coscienza della sua illusorietà da parte del pubblico. Lo spettatore vive il cinema in uno stato di doppia coscienza: da una parte viene posseduto dalla magia delle immagini e dall’altro è cosciente di assistere ad uno spettacolo immaginario. All’illusione di realtà si sovrappone la coscienza dell’illusione. Il cinema, dunque, secondo Morin, permette allo spettatore di godere della “vertigine del doppio”, della duplicazione del reale, permettendogli di immettersi in questo simulacro sottraendosi dal reale. Lo spettatore, durante la fruizione del film in sala, entra a far parte di un universo nuovo senza sentirsi spaesato: è attraverso una trasfigurazione di ordine estetico che esso scopre il mondo.

Nella prefazione all’edizione del 1977 de Il cinema o l’uomo immaginario il francese sottolinea come reale ed immaginario si intersechino a partire dall’era cine-fotografica:

l’unica realtà di cui siamo sicuri è la rappresentazione, cioè l’immagine, cioè la non-realtà, dato che l’immagine rimanda a una realtà sconosciuta. Certo, queste immagini sono vertebrate, organizzate, non solo in funzione degli stimoli esterni, ma anche della nostra logica, della nostra ideologia, e cioè anche della nostra cultura. Tutto il reale percepito passa quindi per la forma immagine. Poi ricompare sotto forma di ricordo, vale a dire come immagine di immagine. Il cinema, come ogni figurazione (pittura, disegno), è un’immagine di immagine ma, come la fotografia, è un’immagine dell’immagine percettiva e, più della foto, è un’immagine animata, cioè viva. Proprio perché rappresentazione di rappresentazione viva, il cinema ci chiama a riflettere sull’immaginario della realtà e sulla realtà dell’immaginario1.

Ed ancora:

l’immagine non è solo il punto di incontro tra reale e immaginario ma è l’atto costitutivo radicale e simultaneo del reale e dell’immaginario. A questo punto si può concepire il carattere paradossale dell’immagine-riflesso o “doppio”, che da una parte esprime un potenziale di oggettivazione (distinguendo e isolando gli “oggetti”, permettendo il distacco e la presa di distanza) e contemporaneamente, dall’altra, esprime un potenziale di oggettivazione (la virtù trasfigurante del doppio, il “fascino” dell’immagine, la fotogenia…). Bisogna quindi arrivare a concepire non solo la distinzione ma anche la confusione tra reale e immaginario; non solo la loro opposizione e concorrenza, ma anche la loro complessa unità e complementarità2.

Sempre nel corso degli anni Cinquanta lo studioso pubblica Les stars (1957), ove approfondisce i processi psichici e affettivi di proiezione e identificazione e mette in relazione la dimensione economica con l’immaginario collettivo, invitando a leggere il divismo come un prodotto della società capitalistica e al contempo come una risposta a bisogni antropologici profondi riconducibili addirittura al mito ed alla religione.

Ciò che invece Morin delinea nel successivo L’Esprit du temps. Essai sur la culture de masse (1962), ripubblicato nel 2017 in italiano da Meltemi in un’edizione tradotta da Claudio Vinti, curata da Andrea Rabbito ed impreziosita da un’introduzione di Ruggero Eugeni, si rivela utile ad una comprensione critica del potere delle nuove immagini proposte dalla scena mediatica contemporanea.

È in tale contesto di riflessioni sul cinema e sull’immaginario condotte nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta che Morin scrive gli articoli raccolti nel volume Sul cinema. L’arte della complessità. Questi suoi pezzi partono pertanto dalla convinzione che la realtà umana sia intessuta di immaginario; che si tratti di sogni a occhi aperti, fantasmi, desideri, romanzi o film, l’immaginario collabora con il reale ogni qual volta si dà vita a «un universo fantasma dotato di effetto di realtà»3. Il cinema, nell’affrontare questa doppia natura del reale, obbliga gli spettatori a «una riflessione, una presa di coscienza, un’apertura al pensiero che interroga, al pensiero che cerca»((Ivi., p. X.)), dunque a porsi domande sulla vita, sulla società, sul mondo, in definiva sull’essere umano stesso.

Per farsi un’idea di come Morin traduca le sue riflessioni generali relative al rapporto tra cinema, immaginario e realtà nel “quotidiano” di brevi articoli per qualche rivista riferiti a singoli film o alle poetiche autoriali, si possono prendere in considerazione, tra i tanti contenuti nel volume, gli scritti Elogio del Grido e Ingmar Bergman. L’uomo che pone domande.

Nello pezzo relativo al film del 1957 di Michelangelo Antonioni – pubblicato originariamente in La Nef, gennaio 1959 – Morin sottolinea come la sua bellezza derivi da

una combinazione intima tra il senso profondo di una storia, questa stessa storia e i mezzi formali di una tecnica raffinata. Questa raffinatezza dell’immagine e anche del montaggio sembra a priori mal adattarsi all’esiguità, alla semplicità della vicenda. Eppure è proprio questa dissonanza a emozionarci fino in fondo, a darci quell’emozione che solo una grande opera può procurare: un’emozione che non si riduce all’emozione estetica, ma che non potrebbe sgorgare senza l’emozione estetica4.

La scelta di ambientare il film tra i paesaggi invernali di un’Italia settentrionale periferica coperta da un cielo uniformemente grigio, secondo lo studioso si rivela in grado di conferire al film la sua vita interiore. «Questo paesaggio sarà l’anima stessa del film, l’anima svuotata del protagonista del film: l’operaio Aldo»5. L’intera vicenda è contenuta tra il momento in cui l’uomo è «colpito a morte» – quando Irma, la donna con cui vive, lo lascia – «e il momento in cui cade» morendo «senza neanche compiere un gesto attivo nel suicidio, lasciandosi cadere dall’alto della torre della raffineria dove lavorava»6, dopo aver rivisto, a distanza di tempo, la donna amata che nel frattempo si è costruita un’altra vita senza di lui. Tra questi due terminali c’è il girovagare di Aldo, che diserta il lavoro e cerca di riempire in qualche modo le sue infinite e vuote giornate.

È dunque, di fatto, la storia di un’agonia che dura un anno o due, ma un’agonia intima, di cui nulla ci è mostrato esteriormente. È dalla fatica sempre più grande, dall’indebolimento progressivo dei riflessi di Aldo, che noi capiamo che lui si sta svuotando delle ultime riserve biologiche. Una successione di episodi, sulla sua strada, distraggono lo spettatore dalla visione permanente di ciò che di fatto è un pellegrinaggio di morte. Potremmo anche lasciarci prendere da questo rosario di incontri pittoreschi, di piccoli casi fortuiti, di piccoli avvenimenti, se non ci fosse permanentemente il cielo grigio e il fiume snervato, lento, che con la sua presenza sempre uguale ci fa entrare nell’anima di un uomo. Il film è intriso di una vita interiore suggerita dal paesaggio7.

Antonioni, sostiene Morin, mantiene per tutto il film una “distanza clinica” nei confronti della soggettività del protagonista osservandolo con un’apparente non-partecipazione. Il film ci mostra un essere umano

schiacciato da forze che lo sovrastano, e alla fine domato o distrutto. […] Nulla può essere più doloroso dello spettacolo di un uomo ridotto ad automa, quando ogni sua intima risorsa si è spezzata, e quando si è esaurita ogni sua energia vitale. […] Ne Il grido non si tratta di un automa convenzionale: è l’uomo automatizzato che rimane quando ogni autonoma spinta si è spenta in lui e quando l’energia vitale si è prosciugata in lui. Che cosa straordinaria e rara sullo schermo, la sofferenza silenziosa di un uomo! Diciamo anche soltanto la sofferenza d’amore di un uomo. Il fatto è che il cinema attribuisce sempre solo alle donne i temi profondi dell’amore. Si vedono, è vero, uomini che si suicidano per amore, ma per un gesto di nobiltà o per sacrificio, e sono personaggi, del resto, secondari. Non si è mai visto un uomo agonizzare d’amore per tutto un film. Eppure, i fatti di cronaca dimostrano che anche gli uomini sono capaci di disperazione e di follia. E non sono neanche uomini particolarmente deboli o particolarmente provati e neanche frustrati. Sono come Aldo, degli esseri condotti all’estrema debolezza, all’estrema frustrazione, perché hanno perso ciò che era essenziale per la loro vita. Ne Il grido ci troviamo proprio lì, nell’universo dei fatti di cronaca. Nella cronaca gelida e nebbiosa dell’inverno italiano che riesce a darle musicalità, pur mantenendoci nello “spaccato di vita”. È solo alla fine del film, quando Aldo torna a morire sui luoghi della felicità di un tempo, è solo allora che il fatto di cronaca si trasforma in tema da romanzo, persino romantico8.

Le scelte estetiche del regista ferrarese, continua lo studioso, si adattano a questo racconto sin dalla scelta di mettere lo spettatore nell’incapacità di comprendere esattamente ciò che sta accadendo pur sapendo che qualcosa di tragico accadrà. «Nell’attesa abbiamo gli eventi di superficie» che potrebbero far dimenticare il nulla interiore di Aldo.

E invece Il grido è un film riuscito proprio perché sono queste descrizioni periferiche a rivelarci quel nulla. Nella vita di Aldo non c’è più niente che quella cinepresa possa trattenere, come scene di vita lungo una strada che si percorre velocemente. Le impressioni si succedono tanto per noi spettatori, quanto per il protagonista, ormai passivo, spettatore anche lui9.

Dopo il lento trascinarsi dello svuotamento di Aldo, sul finale Antonioni interviene bruscamente ricorrendo agli strumenti del teatro, del romanzo, della sinfonia:

Aldo arriva nella sua borgata. È assediata dai carabinieri. La folla è in agitazione. Questo tumulto teatrale e sinfonico viene spiegato: vogliono espropriare il comune per costruire un aerodromo. Ma, esteticamente, siamo entrati nel turbine della tragedia o dell’opera da cui sgorgherà il grande tema romanzesco e musicale: la fine che si ricongiunge con l’inizio, il grande ritorno al punto di partenza. Lo spettatore si accorge a stento di questa mutazione, perché il grande grido di orrore che irrompe è stato preparato, lungo tutto il film, come dentro una crisalide10.

Morin accosta la pellicola di Antonioni a quelle di altri registi – Sogni di donna (1955) di Bergman, Senso (1954) di Visconti, Una vita (1958) di Astruc (1958), Gli amanti (1958) di Louis Malle – che, per quanto diversissime tra loro, possono essere accomunate, secondo il francese, dalla comune volontà di approfondire il tema dell’amore in maniera più amara, realistica e tragica.

Tutto ciò, del resto, va di pari passo con l’indebolirsi dei temi sociali e politici che, intorno al 1936 in Francia e nell’immediato dopoguerra in Europa occidentale, attiravano i registi non conformisti. In altre parole, all’avanguardia che significava rivoluzione succede un’avanguardia che significa amore. La promozione del tema dell’amore non è affatto da deplorare, come fanno alcuni critici; ciò che bisogna deplorare è la scomparsa della questione sociale11 .

Nello pezzo relativo a Bergman – pubblicato originariamente in La Nef, n. 27, aprile 1959 – Morin sottolinea come l’originalità del regista svedese risieda sopratutto nella sua capacità di superare, pur mantenendolo,

il piano del racconto, della descrizione, della tesi, per rimanere costantemente al livello dell’interrogazione […] Ciò che mi colpisce in Ingmar Bergman è ch’egli interroga […] tutto. Il reale e il sogno, (il teatro, i guitti), la vita e la morte, il dolore e la felicità, l’uomo e la donna. […] L’interrogazione permanente di Bergman ritorna spesso a posarsi sul volto femminile, come se fosse lì, dietro quel volto, che risiedono i segreti più preziosi che si stanno cercando, come se le verità più profonde si manifestassero attraverso il volto […] La domanda che Bergman pone ai volti di donna non è “Cos’è la donna?”, è “Cos’è l’umanità?”. L’interrogativo di Bergman privilegia la donna, ma la domanda è generale: come vivere? Cosa significa vivere?12.

Interrogando la vita, puntualizza Morin, il regista svedese interroga la morte. Nonostante il cinema sia pieno di morti a mancare in esso è proprio la morte e Bergman per parlarne direttamente

è obbligato a ricorrere al mito supremo della morte, alla Morte-Personaggio, allo Spettro, al Doppio. Cioè a una faccia della morte che sia quella dell’uomo, misteriosa quanto la faccia dell’uomo e per la quale l’uomo non possiede alcuna risposta. Dio è invocato solo come un’impossibile possibilità. È l’interrogazione bergmaniana che ha la prima e l’ultima parola. Il rifiuto della Salvezza non è una sfida. È l’atto stesso del pensiero che interroga. Eppure in questa opera senza Dio e senza Salvezza, senza Provvidenza, senza ricompensa, la disperazione non si chiude in se stessa. Non si chiude proprio per il fatto che quest’opera è innervata dalla permanenza stimolante dell’interrogazione, da quel cortocircuito innescato dalla curiosità appassionata e attenta che nega la disperazione stessa. Non si chiude anche perché è costantemente interrotta da qualcosa di affascinante e stupefacente che è il gioco, anzi il doppio gioco tra il sogno e la realtà, il teatro e la vita. […] Bergman inserisce spesso un teatro nel teatro, ed è in questo doppio della vita, della sua quintessenza, in questa vita recitata e rappresentata, in questa sorta di ebbrezza che, malgrado le infelicità, i dolori e le domande senza risposta, la vita è finalmente accettata e assunta13.

In chiusura Morin invita a riflettere sui motivi per cui, nonostante Bergman goda dell’ammirazione incondizionata della critica, i suoi film non siano riusciti ad entrare nel grande circuito commerciale pur toccando, in molti casi, problemi quotidiani che gli spettatori conoscono in prima persona. Si può incolpare la stoltezza di molti distributori e proprietari di sale ma, conclude amaramente il francese, si può

anche pensare che lo spettatore sia talmente pavlovizzato dal cinema tradizionale da essere incapace, oggi, di aderire a un cinema senza provvidenza, un cinema che interroga, un cinema dove non è il pubblico a proiettare i propri sogni, le proprie sofferenze, la propria sete ardente di felicità e di avventura, ma che proietta, lui, cinema, sul pubblico, la mediocrità e la follia della vita – senza offrirgli la risposta salvifica14.

 


Il reale delle/nelle immagini – serie compelta


  1. Edgar Morin, Il cinema o l’uomo immaginario, Raffaello Cortina Editore, 2016, pp. 6-7. 

  2. Ivi. p. 7. 

  3. E. Morin, Sul cinema. L’arte della complessità, Raffaello Cortina Editore, 2021, p. IX. 

  4. Ivi., p. 195. 

  5. Ivi., 196. 

  6. Ibidem. 

  7. Ivi., pp. 196-197. 

  8. Ivi., pp. 197-198. 

  9. Ivi, pp. 199-200. 

  10. Ivi., p. 200. 

  11. Ivi., p. 201. 

  12. Ivi., pp. 204-206. 

  13. Ivi., pp. 207-208. 

  14. Ivi., p. 209. 

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Nemico (e) immaginario. Il terrore ad intensità variabile. Media, migranti-zombie e terroristi-cloni https://www.carmillaonline.com/2019/05/07/nemico-e-immaginario-il-terrore-ad-intensita-variabile-media-migranti-zombie-e-terroristi-cloni/ Mon, 06 May 2019 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52213 di Gioacchino Toni

«Nello scenario contemporaneo, le immagini ci restituiscono […] un mondo attraversato da nuove forme di paura, una paura radicale, non più di questo o quell’oggetto, di questa o quella situazione, ma una paura radicale, totale, che si insinua nei meandri del nostro sentire, facendo tremare le radici stesse del nostro essere al mondo» («Fata Morgana» 38/2018)

Il numero 38/2018 di «Fata Morgana» – rivista che dedica fascicoli  monografici ai nodi problematici della contemporaneità affrontati attraverso il cinema e le diverse forme audiovisive – prende in esame il tema della “paura”. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Nello scenario contemporaneo, le immagini ci restituiscono […] un mondo attraversato da nuove forme di paura, una paura radicale, non più di questo o quell’oggetto, di questa o quella situazione, ma una paura radicale, totale, che si insinua nei meandri del nostro sentire, facendo tremare le radici stesse del nostro essere al mondo» («Fata Morgana» 38/2018)

Il numero 38/2018 di «Fata Morgana» – rivista che dedica fascicoli  monografici ai nodi problematici della contemporaneità affrontati attraverso il cinema e le diverse forme audiovisive – prende in esame il tema della “paura”. L’immagine cinematografica, che sin dalla sua nascita ha saputo suscitare insieme alla dimensione della fascinazione anche quella della paura, soprattutto nella sua variante horror contemporanea, cinematografica o seriale che sia, si presenta come uno degli spazi in cui prendono forma, in maniera concentrata, quelle paure dell’esistenza che caratterizzano i nostri tempi e che ritroviamo, ben oltre il genere horror (mai come ora genere ibrido), magari in forma meno diretta, un po’ in tutte le produzioni audiovisive contemporanee. Per certi versi gli audiovisivi sembrano essersi trasformati in testimoni dell’orrore contemporaneo tendenti a riflettere e mettere in scena l’esistenza sotto forma di paura.

Nell’introdurre il numero di «Fata Morgana» dedicato alla paura, gli autori sottolineano che da qualche tempo le sue forme, nell’impossibilità di individuare un oggetto concreto capace di suscitare paura, che dunque possa essere individuato ed affrontato, si sono indirizzate vero l’immateriale, l’invisibile e l’informe. «Una nuova forma di “paura assoluta” forse, la paura di un conflitto invisibile e allo stesso tempo diffuso, che rende insicuro e a rischio ogni gesto quotidiano come quello scatenato dal terrorismo contemporaneo, produce spesso l’immagine dell’assedio […] negli ultimi anni prolifera in modo esponenziale. L’assedio come una delle figure, delle immagini dell’esistenza. Il cinema lavora infatti da tempo sulla necessità di dare un’immagine allo spazio vuoto che il nemico occupa nello scenario attuale. L’immagine documentaria o l’immagine di finzione costruiscono, ognuna a suo modo, narrazioni della contemporaneità, nuove immagini del nemico forse, ma sempre più spesso, immagini della paura del nemico, della paura della sua irriconoscibilità».

Ci soffermeremo qua sul contributo di Massimiliano Coviello e Giacomo Tagliani, “Le intensità variabili del terrore: migranti e terroristi nel mediascape contemporaneo” («Fata Morgana», 38/2018), in cui viene messo in luce come nell’universo mediatico contemporaneo il sentimento della paura sembri ruotare attorno a due questioni: il terrorismo e l’immigrazione. Dall’analisi condotta dai due studiosi sulle rappresentazioni audiovisive dei media italiani, facendo riferimento in particolare al 2015, emerge come i due fenomeni, attorno ai quali si rimette in gioco il rapporto con l’alterità, siano stati affrontati dai media attraverso retoriche differenti pur riconducibili all’interno di campi discorsivi non troppo distanti.

Tanto la retorica della chiusura delle frontiere per sottrarsi all’invasione migrante, quanto quella della sicurezza preventiva per preservare il paese dalle minacce terroristiche, fanno leva, pur a livelli differenti, sulla paura di una minaccia incombente. Con riferimento al periodo esaminato gli autori indagano le modalità di creazione della paura che coinvolgono migranti e terroristi indicandole, in base al diverso grado di “intensità passionale” che le contraddistinguono, rispettivamente come “bassa” ed “alta”.

Se il cinema ha storicamente avuto a che fare con la messa in forma della paura, è interessante valutare il processo inverso: «ovvero come la produzione della paura abbia attinto e tuttora attinga dall’immaginario, dall’estetica e dalle retoriche cinematografiche per incrementare la propria efficacia discorsiva» (p. 114). Dunque, si chiedono Coviello e Tagliani, «Cosa accade invece nel momento in cui la trasmissione della paura e del terrore avvengono utilizzando esplicitamente gli strumenti del cinema, ricalcando i modelli consolidati di Hollywood, dal montaggio all’uso degli effetti speciali, dai paratesti al marketing, e dunque rivoltando le armi e gli strumenti del consenso contro chi li ha originariamente pensati?» (p. 115).
Ruggero Eugeni, ad esempio, nel suo saggio “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia” – in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) –, mostra alcuni esempi di come il terrorismo mediorientale abbia assorbito la cultura visuale occidentale e non esiti a ricorrere ad essa per potenziare il livello di terrore che intende esercitare.

Coviello e Tagliani approfondiscono le modalità con cui le immagini massmediatiche di migranti e terroristi contribuiscano a rafforzare paura e terrore non di rado attingendo da un’iconografia del contagio e da un immaginario epidemiologico costruito sulle figure dello zombie e del clone.
Da ormai diverso tempo gli zombie vengono presentati dalle produzioni audiovisive come una massa indistinta, feroce ed in continua crescita, che invade gli spazi cittadini a caccia di prede, mentre la figura del clone compare in diverse varianti che vanno dai replicanti agli ibridamenti tra essere umano e parassita alieno. Zombie e cloni, nella loro potenziale riproducibilità infinita, rappresentano, sostengono i due studiosi, «il perfetto personaggio distopico dell’era della riproducibilità genomica».

Visto che parallelismo tra le immagini del terrore e la loro diffusione virale e tra l’insediarsi dei terroristi all’interno del corpo sociale e la clonazione è già stato efficacemente proposto da William J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La Casa Usher, 2012), Coviello e Tagliani preferiscono concentrarsi sul parallelismo tra zombie e migranti.

L’anno 2015 si rivela importante per lo sviluppo della percezione dei migranti e dei terroristi per alcuni eventi in particolare: l’attraversamento dei confini europei di migliaia di profughi iniziato il 4 settembre a Budapest e gli attentati che hanno colpito Parigi, soprattutto il 13 novembre al Bataclan. Secondo i due studiosi tanto la marcia dei migranti, quanto gli attentati parigini si sono rivelati particolarmente eclatanti, oltre che per la loro portata storica, anche perché «si sono innestati […] su delle configurazioni visive ampiamente riconoscibili, incrinandone al contempo lo stato di normalità e serialità e i conseguenti effetti di assuefazione e anestetizzazione sugli spettatori» (p. 119).

Al fine di comprendere tale dinamica, nel saggio vengono ricostruiti i tratti salienti che si sono sedimentati nell’immaginario collettivo analizzando alcune immagini ricorrenti nei media italiani in cui i due eventi risultano rappresentati distintamente con specifiche modalità iconografiche e ciò risulta particolarmente evidente  se si mettono a confronto due servizi giornalistici trasmessi da canali Mediaset, «TgCom24» e «Tg5», a distanza di un solo giorno uno dall’altro.

Nel servizio del 16/02/15 di «TgCom24» viene trasmesso un video diffuso da Daesh contenente le immagini della decapitazione di cattolici egiziani sulle coste libiche, in cui il commento giornalistico (con voce fuori campo) sottolinea come sembrino accorciarsi tanto le distanze fisiche, quanto culturali (il ricorso alla lingua inglese) tra “noi” e “loro”. Evitando di mostrare esplicitamente le decapitazioni il servizio si chiude «con l’immagine del mare tinto di rosso: l’inizio del contagio (il sangue degli infedeli che arriverà sino alle coste europee) si unisce all’imminenza dell’attacco trasmessa dalla frontalità della minaccia» (p. 120).

Il servizio del «Tg5» del 17/02/15 mostra, invece, una colonna di migranti, di cui non si vede né l’inizio né la fine, incamminata verso una direzione indefinita. «La ripresa da dietro e in lontananza rassicura lo spettatore, ponendolo a una distanza debita dalla marcia». Alle immagini che mostrano un incedere apparentemente casuale di tale massa umana, succedono quelle di una tendopoli, forma instabile dell’abitare per eccellenza. «Il messaggio implicito viene designato principalmente dal reticolato di rimandi e allusioni che emerge dalla dimensione visiva e sonora: l’accenno ad un numero esorbitante di sbarchi verso le coste italiane si sovrappone all’immagine finale di un barcone ripreso dall’alto sovraffollato da migranti, elemento ricorrente nell’iconografia delle migrazioni» (p. 120). Tale servizio si inserisce all’interno di un immaginario diffuso ormai convinto di trovarsi di fronte ad un fenomeno che, giorno dopo giorno, erode la stabilità socio-economica occidentale con la sua forza trasformatrice continua seppure a bassa intensità.

Nonostante di tanto in tanto l’analogia tra migranti e terroristi faccia capolino nella retorica dei media e dei politici, in generale le rispettive rappresentazioni restano differenziate, pur contribuendo a dar ad un insieme omogeneo. «La polarità vita-morte è la potente cornice semantica entro la quale entrambi i fenomeni vengono inscritti, benché posti sugli estremi opposti dello spettro. La bassa intensità del terrore migrante corrisponde anzitutto a una edulcorazione dei toni cruenti per garantire la massima capacità di circolazione del discorso (che consiste principalmente nello scongiurare l’accusa di razzismo) e al contempo la massima potenza “terrorifica” (evidenziare la minaccia per la condizione attuale degli “ospitanti”)» (p. 121). Sovrapponendosi alla figura dello zombie, sostengono gli studiosi, il migrante si presenta come «non-(ancora) morto, alternativamente vittima da compatire o elemento infetto da non toccare. Un umano troppo umano che condensa sul proprio corpo i due poli antitetici che circoscrivono la condizione biologica del vivente» (p. 121).

Se lo zombie-migrante, nel suo suscitare terrore a bassa intensità, minaccia di contagiare il corpo sociale occidentale, il terrorista-clone, con il suo produrre terrore ad alta intensità, minaccia la negazione dell’umanità, la sua distruzione. «Privato di qualsiasi tratto umano, il terrorista è dunque un clone, un replicante senza soggettività alcuna, contro il quale è lecito scagliarsi preventivamente. Se il migrante era come noi, il terrorista non lo è mai stato: alle sue spalle non c’è una storia altra, ma solo una conferma di una progettualità tanatopolitica. Il terrore di cui si fa portatore è evidente e non c’è ragione di celarlo: se il migrante tiene la morte con sé senza mai lasciarla, il terrorista non aspetta altro che donarla al prossimo. Terroristi e migranti si fanno dunque portatori di una dialettica tra vita e morte opposta, che permette loro di mantenere inalterate le proprie peculiarità per continuare ad essere strumento propagatore – agente patogeno attivo o passivo – di terrore» (p. 121).

Su tale categorizzazione generale vanno dunque ad innestarsi i tratti specifici delle rispettive iconografie. Il terrore a bassa intensità incarnato dai migranti si struttura sull’immagine della moltitudine, quello ad alta intensità incarnato dal terrorista tende alla singolarità. Se il migrante esiste soltanto nell’anonimato di gruppo (la massa-zombie), il terrorista sfodera la sua potenza dirompente nell’imprevedibilità del gesto isolato che necessita però di dotarsi di un’immagine riconoscibile nella rivendicazione.
Ed ancora, se «il terrorismo è identitario in quanto i suoi esponenti sono sempre più indistinguibili dal corpo sociale che intendono aggredire, l’immigrazione è costitutivamente sotto il segno dell’alterità. Possiamo scorgere inoltre una seconda linea identitaria questa volta interna al fenomeno terroristico stesso, nei termini di un esercito di replicanti tutti uguali fra loro; al contrario, la massa informe e indistinta che governa la rappresentazione del viaggio del migrante si scioglie in una diversificazione interna per quanto concerne l’immigrato. Il migrante non è portatore di confusione circa la sua natura, che rimane necessariamente altra rispetto alla comunità nella quale intende inserirsi; l’incubo peggiore per quanto riguarda il terrorista, invece, è la sua capacità di replicarsi all’interno del tessuto sociale che intende colpire» (p. 122).

Nelle immagini mediatiche, sottolineano Coviello e Tagliani, il terrorista ci guarda negli occhi mentre il migrante procede indifferente al nostro sguardo. «L’interpellazione implica dunque un obiettivo e un progetto sottesi all’azione, l’oggettiva invece una casualità senza scopo e una messa a distanza utile a rassicurare lo spettatore che vuole immedesimarsi nel punto di vista che inquadra la scena» (p. 123).

È sul suolo libico, luogo di partenza dei viaggi ed al contempo avamposto di Daesh vicino al suolo italiano, e proprio durante il 2015 che le categorie dei migranti e dei terroristi hanno iniziato a vedere sovrapposte le rispettive configurazioni iconografiche e con esse i due livelli di intensità del terrore negli occidentali, dando luogo ad una sorta di intensità mista, come accade in un servizio del «Tg2» del 15/05/15 in cui sia la voce narrante che le immagini palesano il rischio della presenza di terroristi tra la folla in attesa di provare a raggiungere le coste italiane. La folla migrante viene mostrata non di spalle, come avviene di solito, ma frontale e mentre si dice del rischio di presenze terroristiche lo sguardo della telecamera si fissa sul volto di una donna indossante un burka. «Il cambio di prospettiva dal generale al particolare introduce così la sovrapposizione tra la figura del migrante – privo di identità e forte solo della presenza numerica – e quella del terrorista, resa efficace dalla ricerca da parte dell’obiettivo del dettaglio all’interno di una pluralità apparentemente omogenea » (p. 125).

Ad evitare la sovrapposizione terrorista/migrante, sostengono gli autori, hanno concorso gli eventi. «La marcia dei migranti e gli attentati parigini hanno infatti originato effetti passionali opposti, ribaltando paradossalmente la percezione del pericolo proveniente dall’esterno e dall’interno. Così, i profughi in marcia attraverso l’Europa hanno stabilito un principio di soggettivazione svincolandosi dalla rappresentazione di massa priva di volontà e progetto, costringendo i media a posizionarsi diversamente» (p. 126). I giornalisti sono stati costretti a mostrare la marcia frontalmente e ad altezza d’uomo, conferendo ai partecipanti l’immagine che nell’immaginario collettivo richiama l’avanzare delle masse proletarie ottocentesche. Quell’attraversamento europeo ha, perlomeno per qualche tempo, riscritto l’immagine migrante dimostrando come questa sia comunque sottoposta a negoziazione.

Nonostante non manchino esempi di ricorso a terrore ad intensità media in cui si sovrappongono migranti e terroristi, secondo Coviello e Tagliani, in generale se i migranti-zombie, continuano ad essere mostrati come massa indistinta di esseri privi di identità e di parola, i terroristi-cloni sono invece presentati come “esseri di slogan”, dunque dotati di una soggettività replicabile e trasmissibile.


Serie completa di “Nemico (e) immaginario

 

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Guerrevisioni. Tendenze iconoclastiche, visioni aumentate, combat video, cinema e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2018/08/26/guerrevisioni-tendenze-iconoclastiche-visioni-aumentate-combat-video-cinema-e-videogiochi/ Sat, 25 Aug 2018 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48000 di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social [...]]]> di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social network? In che modo la modificazione quantitativa e qualitativa dei media ha mutato il nostro modo di guardare gli eventi bellici, rispetto anche solo ad alcuni decenni fa? Che cosa vediamo e che cosa non siamo più in grado di vedere delle guerre contemporanee?» (p. 9).

Il libro analizza il rapporto immagine/guerra nella contemporaneità tenendo ben presente che se quest’epoca da un lato offre inedite modalità comunicative e di produzione diffusa e decentrata delle immagini, dall’altro si caratterizza per una concentrazione monopolistica senza precedenti dei flussi di informazione sia nel web che nelle modalità più tradizionali.

Il corposo volume risulta suddiviso in tre parti: nella prima si ragiona sull’utilità delle immagini dei conflitti mondiali nella comprensione delle attuali guerre; nella seconda si indagano le modalità con cui le arti possono oggi testimoniare gli eventi bellici; nell’ultima parte si analizzano i conflitti contemporanei che si danno grazie alle immagini. Facendo riferimento proprio a ques’ultima sezione del libro intitolata Pensare le guerre con gli occhi (e con le loro protesi), in questo scritto ci soffermeremo sui contributi di Mauro Carbone e Ruggero Eugeni che si occupano rispettivamente della paradossale piega iconoclasta che sembra attraversare una contemporaneità che si vuole votata al visivo come non mai, il primo, e delle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna, il secondo.

Mauro Carbone, nel suo “L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica?”, torna, dopo essersene occupato nel libro Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri, 2007), a riflettere su come le immagini televisive dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, in particolare quelle relative alle persone lanciatesi nel vuoto per sfuggire alle fiamme, dopo essersi impresse nella memoria collettiva a livello planetario grazie ai media, siano immediatamente divenute oggetto di una vera e propria strategia di rimozione. Ad essere in gioco, sostiene lo studioso, sono la memoria e l’oblio collettivi di un evento che ha aperto il nuovo millennio nonché inaugurato quella che W.J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La casa Usher, 2012) ha definito l’attuale “guerra delle immagini”.

Alle immagini è spettato un ruolo fondamentale nella percezione collettiva della tragedia dell’11 settembre: non fosse stato per esse, quella delle Twin Towers sarebbe stata una tragedia simile a tate altre e ciò, sostiene Carbone, dovrebbe «aiutarci a considerare sino in fondo l’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno» (p. 305). Secondo l’autore il sistema mediatico si è preoccupato di an-estetizzare il trauma dell’11 settembre 2001 attraverso l’incessante ripetizione dello stesso, ricorrendo alla riproduzione della medesima sequenza televisiva che mostra un aereo che attraversa lo schermo fino a schiantarsi contro una delle due torri provocando un’esplosione spettacolare. Lo studioso riprende a tal proposito ciò che ha scritto Allen Feldman nel suo “Ground Zero Point One: on the Cinematics of History” (2002): “Era come se al pubblico fosse stata data una terapia temporale facendolo testimone, più e più volte, di una sequenza meccanica di eventi che restaurava la linearità del tempo sospesa con gli attentati”. Carbone individua in tale an-estetizzante ripetizione ossessiva della medesima sequenza una certa convergenza e complementarietà con la strategia di rimozione delle immagini degli individui lanciatisi nel vuoto ed è proprio proprio sul rilievo assunto da tali immagini «nel progetto di costruzione di una certa memoria collettiva dell’11 settembre» (p. 306) che riflettere in questo scritto.

La strategia di rimozione delle immagini dei cosiddetti jumpers lanciati nel vuoto prende il via sin dal giorno successivo ai fatti, quando un’ondata di proteste, in particolare negli Stati Uniti, colpisce i quotidiani accusati di sciacallaggio per aver pubblicato soprattutto la fotografia che mostra un uomo, divenuto noto come Falling Man, in una caduta verticale incredibilmente composta con la testa in giù, le braccia lungo i fianchi e una gamba piegata in linea con le geometrie del palazzo. Da allora questa fotografia, ben riuscita dal punto di vista formale, non è più stata pubblicata negli Stati Uniti nonostante possieda una carica attrattiva che l’accomuna all’immagine dell’aereo che impatta con una delle due torri. La straniante perfezione dell’immagine del Falling Man «riesce tanto a sospendere il tempo – proprio come abbiamo sentito Feldman dire che gli attentati hanno fatto – quanto a capovolgere lo spazio. Al punto da spingere a chiedersi se la foto sia stata bandita malgrado le sue qualità formali oppure proprio per queste. Dubbio legittimo, che rivela come la bellezza, anziché mitigare, possa acuire l’atrocità di un’immagine. Dubbio che comunque non deve far dimenticare una ben più generale verità: la documentazione visiva sui cosiddetti jumpers, nel suo complesso, ha avuto una sorte analoga a quella della foto di Falling Man, specie negli Stati Uniti» (p. 307).

Secondo Carbone anche se la strategia di rimozione sembrerebbe derivare da una questione di privacy da rispettare, in realtà già nel corso del primo anniversario della strage sono state soggette ad aspre critiche, dunque rimosse, alcune opere d’arte evocanti i tragici eventi pur senza fare alcun riferimento a individui specifici violandone la privacy. Il risultato è che negli Stati Uniti si è smesso di mostrare e di parlare di quegli individui gettatisi nel vuoto. «Ecco allora che la memoria del “giorno più fotografato e più videoregistrato della storia mondiale” si confessa abitata da una paradossale volontà iconoclastica, che segnerà ambiguamente anche molti altri combattimenti della “guerra delle immagini” esplosa quel giorno» (pp. 308-310).

Volontà iconoclastica che, secondo lo studioso, ritroviamo anche nell’attentato del 2015 alla sede del giornale satirico francese «Charlie Hebdo», definito da «Le Monde» “L’11 settembre francese”. Nel presentarsi come una rappresaglia per la pubblicazione di alcune caricature di Maometto, il gesto palesa la volontà iconoclastica degli attentatori. «Né questa volontà risulta di per sé contraddetta dall’enorme impatto, non solo emotivo ma anche politico, esercitato nel settembre dello stesso anno dalla fotografia del corpo annegato del piccolo migrante siriano Aylan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum: un impatto che, proprio per la valenza politica assunta, da più parti si cercò di contrastare bollando quella foto come manipolata. E gli esempi di tale volontà iconoclastica – rintracciabile, pur con ovvie e significative differenze, in schieramenti culturali, ideologici e mediatici dichiaratamente opposti – potrebbero continuare» (p. 310).

Nella parte finale dell’intervento, l’autore prende in considerazione la conclusione del romanzo di Jonathan Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, 2005) in cui un bambino decide di invertire la sequenza delle immagini di un altro falling man e con essa degli eventi, immaginando il padre che dal suolo, salendo con l’ascensore, finisce col raggiungerlo nell’appartamento. «In questo testo e nella sequenza rovesciata d’immagini che l’accompagna sembra agire appunto una precessione reciproca del tragico reale e dell’immaginario infantile, i quali non cessano di rinviare l’uno all’altro pur rimanendo disperatamente divergenti come solo possono esserlo il trauma e l’inconsolabile desiderio di cancellarlo. Emozione contrastata. Emozione dalla cui violenza è impossibile difendersi. Diversamente dal sublime kantiano, lo spettatore non riesce più a distinguersi dal naufrago. Così, se Kant può immaginare il sublime come “l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta”, un testimone dell’11 settembre non ha potuto fare a meno di modificare implicitamente quell’immagine scrivendo: “il dolore che avvolge queste colonne è inimmaginabile e continuiamo a fissarlo come travolti da un mare in tempesta”. Non c’è possibile “distanza di sicurezza” dal naufragio. E tanto peggio per noi se speriamo di poterla creare alzando muri. Perché tale naufragio non si limita a essere “incredibilmente vicino”, come annunciava il titolo del romanzo di Foer, ma è piuttosto il nostro stesso naufragio. Per questo si rivela abitato da quella che prima chiamavo “strategia di rimozione”. Anche per questo una guerra alle immagini percorre l’attuale guerra delle immagini» (p. 317).

Ruggero Eugeni, nello scritto “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia”, prende in esame alcune tecnologie di assistenza-potenziamento della visione umana in condizioni di scarsa visibilità, riflettendo soprattutto sulle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna. Dopo aver tratteggiato lo sviluppo di alcune tecnologie visive – image intensification, active illumination, thermal imaging – dapprima in ambito militare e, successivamente, civile, lo studioso analizza alcuni combat video sottolineando come le modalità con cui sono stati montati e la diffusione in internet tendano a trasformarli da materiale di documentazione in propaganda. In molti di questi video esiste un «legame metonimico fortemente esibito tra appropriazione visiva e appropriazione fisica del territorio» (p. 326). Non a caso, continua Eugeni, la conquista dei differenti spazi, nel corso delle operazioni belliche riprese, viene da un lato esaltata dalla natura “embedded” della videocamera (al contempo testimone impersonale e parte integrante del movimento di conquista) e dall’altro resa possibile e visibile dal ricorso a dispositivi di visione notturna, «atto di vittoria preventiva sulle “tenebre” del male che circondano i corpi dei soldati e minaccerebbero altrimenti di inghiottirli» (p. 326). I combat video sono spesso girati in prima persona secondo modalità stilistiche molto simili a quelle che si ritrovano nei videogiochi del genere first person shooters di guerra; è evidente come videogiochi e combat video si rimandino a vicenda.

Nei videogiochi di ambientazione bellica più avanzati si ha una «sovrapposizione metonimica tra superiorità visiva garantita dalle tecnologie di visione notturna, e superiorità tattica espressa in atti di conquista e di “bonifica” del territorio mediante un sistematico sterminio dei nemici impossibilitati ad agire nel buio» (p. 328). Vi sono però altri due elementi importanti messi i luce dall’autore: «la struttura del videogioco in prima persona non solo esprime la conquista visuale, sensomotoria e militare di un territorio, ma permette al giocatore di viverlo direttamente grazie a una esperienza di simulazione incorporata. In secondo luogo, nei paratesti che hanno accompagnato il lancio del gioco la superiorità tecnologica e militare della visione notturna viene fatta rimare metaforicamente con la superiorità tecnologica del videogioco stesso (e quindi, ancora metonimicamente, con la fluidità dell’esperienza di gioco e il relativo piacere), la cui costruzione assume tutti i connotati di una delle operazioni belliche che vengono epicamente narrate» (p. 328).

In questi casi di combattimento al buio registrati attraverso sensori notturni (gli stessi videogiochi simulano tale modalità), lo spettatore viene calato nella medesima situazione di “vantaggio scopico” di cui si avvalgono i combattenti “armati di visori”. «La rilevanza di questo fatto per quanto concerne l’esperienza spettatoriale emerge chiaramente se analizziamo al contrario casi in cui allo spettatore viene negata, almeno a tratti, questa condizione» (p. 329). A tal proposito il saggio porta come esempio la sequenza finale del film Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow in cui si mostra l’assalto notturno al rifugio in cui è nascosto Osama Bin Laden realizzata montando in alternanza immagini a luce naturale scarsamente visibili e immagini realizzate con visori notturni. Tale alternanza risponderebbe «a una precisa strategia espressiva ed emotiva: nel momento di massima tensione, lo spettatore viene calato in una situazione alternativamente di sollecitazione e deprivazione visuale e sensomotoria. Per un verso la presenza intermittente delle immagini girate coi sensori stimolano il suo coinvolgimento nell’azione secondo un modello di simulazione incorporata […] per altro verso l’irrompere e il prorompere dell’oscurità lo risospingono in una condizione di spaesamento e deprivazione: essi innescano dunque un disperato bisogno di informazione percettiva indispensabile per portare a temine i processi di simulazione incorporata dell’azione precedentemente innescati» (pp. 332-333).

Un effetto visivo analogo lo si ritrova in Flames of War. Fighting Just Begun (settembre 2014), un video di propaganda realizzato e diffuso dall’Isis. «Anche qui le immagini, girate da una helmet cam, sono spesso quasi indistinguibili o completamente buie. Di tanto in tanto tuttavia alcune riprese con sensori notturni mostrano immagini di soldati siriani morti, abbattimento di porte, scene di combattimento, ecc. con assolvenze e dissolvenze al nero a far sì che la piena visibilità della scena sia costantemente compromessa» (p. 333). Non è difficile, continua Eugeni, cogliere la volontà da parte dell’Isis di fare il verso alle sequenze finali del film della Bigelow: «la conquista della base di Raqqa diviene nella retorica del video la eroica “risposta” dei mujahidin di Daesh alla uccisione del leader di Al Quaeda – o per meglio dire: il racconto visuale dell’una diviene la risposta al racconto visuale dell’altra» (p 334).

Nella parte finale del saggio vengono ricostruite le analisi relative alle relazioni tra guerra, media e tecnologie del visibile prodotte da autori come Paul Virilio, Friedrich Kittler e Jean Baudrillard, mettendo però in luce come tale dibattito necessiti di essere aggiornato alla luce dell’uso e degli effetti della visione aumentata dai dispositivi visivi contemporanei.

Se Paul Virilio tende, sin dalla metà degli anni Ottanta, a porre l’accento sull’assorbimento di tecnologie mediali da parte dell’industria militare, indicando in particolare il ricorso nelle guerre novecentesche a tecniche cinematografiche, lo studioso tedesco Friedrich Kittler sostituisce alla “logistica della percezione” di cui parla il francese, una “logistica dell’informazione” e sostiene invece che sono le esigenze belliche a determinare lo sviluppo e la logica dei media.

La questione posta da Virilio circa la progressiva “smaterializzazione” della guerra, la si ritrova per certi versi anche in Jean Baudrillard che da parte sua «sviluppa una teoria dei media basata sull’idea di una loro autoreferenzialità e della cancellazione del loro referente “reale”. Il motto mcluhaniano “il medium è il messaggio” va reinterpretato secondo Baudrillard: i media hanno prodotto una implosione del sistema di distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione mediata, e hanno dato luogo a un sistema di simulazione e di iperrealtà diffuse» (pp. 337-338). Mettendo a confronto i due studiosi Eugeni nota che se Virilio «prende in esame tecnologie di svolgimento del combattimento e sottolinea l’importanza crescente del momento scopico di sorveglianza rispetto a quello pratico del combattimento, Baudrillard dal suo canto si focalizza sulle strategie di rappresentazione mediale (soprattutto televisiva) della guerra e sottolinea la sua derealizzazione» (p. 338). Entrambi insistono comunque sul processo di smaterializzazione subito dalla guerra nel momento che questa ha iniziato la sua «interazione con tecnologie visuali sia panottiche che rappresentative: le tecnologie visuali per i due studiosi sottraggono il soggetto da un confronto diretto e pratico con il mondo isolandolo in una dimensione di sguardo distante, simulacrale o impersonale che sia» (pp. 338-339).

Secondo Eugeni, se a proposito delle modalità di relazione tra i media e gli apparati bellici, Virilio e Kittler hanno il merito di aver posto in evidenza una presenza “extramediale” dei media, «il limite del dibattito su media e guerra risiede [nel fatto] di opporre semplicemente tecnologie del visibile mediali e belliche per studiare le forme di scambio e di influenza delle une sulle altre e/o viceversa» mentre, continua lo studioso, in una condizione postmediale pienamente intesa occorrerebbe «radicalizzare questo modello e pensare piuttosto i differenti dispositivi di visual data setting come capaci di lavorare contemporaneamente all’interno di differenti e numerose cornici e pratiche sociali: non solo l’ambito dei media in senso stretto e non solo la ricerca e le applicazioni belliche, dunque, ma anche la sorveglianza, l’astronomia, i trasporti, la produzione industriale, la meteorologia e così via» (p. 340).

Per quanto riguarda invece la questione della smaterializzazione e della virtualizzazione della guerra derivate dall’utilizzo di tecnologie visuali, nonostante il merito di aver sottolineato il ruolo dei media «in una condizione postmediale all’interno dei fenomeni geopolitici contemporanei», le analisi di Virilio e Baudrillard, sostiene Eugeni, non possono essere condivise in quanto «il caso dei sistemi di visione notturna e aumentata dimostrano chiaramente che le tecnologie visuali si pongono al servizio di una relazione situata e incarnata del soggetto con il mondo: esse sono finalizzate ad accrescere la sua “consapevolezza situazionale” al fine di una gestione ottimale del suo agire. Non si assiste dunque a una assolutizzazione autoreferenziale del visibile, quanto piuttosto a una negoziazione dei suoi limiti rispetto all’invisibile» (p. 341).

 

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Il primo Kubrick tra sperimentalismo linguistico e psicanalisi junghiana https://www.carmillaonline.com/2018/08/03/il-primo-kubrick-tra-sperimentalismo-linguistico-e-psicanalisi-junghiana/ Thu, 02 Aug 2018 22:01:16 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47386 di Gioacchino Toni

Facendo il punto sugli studi su più recenti a proposito dell’opera di Stanley Kubrick, Ruggero Eugeni, nell’introduzione al libro di Saverio Zumbo, La trappola del testo. Sul primo Kubrick (Mimesis, 2018), individua la presenza di due filoni principali: il primo indirizzato verso studi empirici basati sui materiali preparatori ai film del regista e il secondo tendete a leggere il cineasta come parte integrante della cultura novecentesca. Se la prima tendenza, sostiene Eugeni, ha il merito di mettere in luce la complessità e la variabilità stilistica e tematica dell’autore, la seconda tende a sostituire l’idea che lo voleva un [...]]]> di Gioacchino Toni

Facendo il punto sugli studi su più recenti a proposito dell’opera di Stanley Kubrick, Ruggero Eugeni, nell’introduzione al libro di Saverio Zumbo, La trappola del testo. Sul primo Kubrick (Mimesis, 2018), individua la presenza di due filoni principali: il primo indirizzato verso studi empirici basati sui materiali preparatori ai film del regista e il secondo tendete a leggere il cineasta come parte integrante della cultura novecentesca. Se la prima tendenza, sostiene Eugeni, ha il merito di mettere in luce la complessità e la variabilità stilistica e tematica dell’autore, la seconda tende a sostituire l’idea che lo voleva un «regista splendidamente e gelidamente isolato» con «il profilo di un artista in grado di giungere a sintesi estremamente dense tanto della modernità (e talvolta della postmodernità) culturale quanto del modernismo estetico novecenteschi» (p. 7).

È proprio a questo ultimo filone che deve essere ricondotto il contributo di Saverio Zumbo che nel suo recente libro riprende il suo lavoro precedente: R. Lasagna, S. Zumbo, I film di Stanley Kubrick (Falsopiano, 1997).

Zumbo ritiene che se le primissime opere del regista risultano contraddistinte sia da uno sperimentalismo in linea con la lezione modernista votata all’autoriflessività, che da un costante riferimento alla psicanalisi junghiana, successivamente le cose cambiano e il connubio tra sperimentalismo linguistico e i modelli interpretativi proposti da Jung si allenta: così come l’inclinazione autoriflessiva della prima produzione, pur non venendo mai meno nelle opere successive, sembra via via diradarsi e perdere in incisività, anche il riferimento profondo alla psicanalisi junghiana sembra attenuarsi lasciando il posto a rimandi freudiani.

Scrive Zumbo che Il modernismo di Kubrick deriva tanto dalla sua partecipazione alle spinte neoavanguardiste dell’epoca in cui lavora che dalla sua conoscenza delle avanguardie storiche.

«Modernismo, dunque, anche nel senso, se così si può dire, più “classico” del termine. In riferimento al fenomeno che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ha attraversato le arti avendo come trait-d’union la riflessività. In letteratura, con T. S. Eliot e James Joyce come massimi teorici, oltre che esponenti di spicco, col funzionalismo in architettura, con lo “straniamento” del teatro epico brechtiano, con le sperimentazioni della musica contemporanea, con l’astrattismo nelle arti figurative. Sintomatica, nell’ambito di queste ultime (ma nel quadro di una ricognizione estetica più generale che trascende le stesse), l’elaborazione teorica di Clement Greenberg, che afferma la necessità di una riflessione, da parte di ciascuna arte, sul medium che le è proprio, sulla sua “opacità”» (p. 15).

Pertanto, il primo Kubrick andrebbe a collocarsi «tra l’onda lunga delle avanguardie storiche e la riscoperta neoavanguardistica delle stesse da parte della modernità cinematografica. Non stupisce quindi che il belga Raymond Haine […] rilevi, nell’intervistare il regista per i “Cahiers”, uno “stile d’avanguardia estremamente datato” nel Bacio dell’assassino. Il tutto da inquadrarsi, ironia della sorte, in prossimità del terremoto che il neo-brechtismo godardiano innescherà di lì a poco. È questo Kubrick che, a differenza di altri analisti, ritengo incarni lo spirito più genuino del modernismo, ovvero la sua caratteristica tendenza a demistificare e problematizzare la rappresentazione. Là dove il Kubrick “consacrato” apparirà maggiormente preoccupato della solidità del mondo diegetico. Sempre più concepito come storia, come realtà di cui penetrare il senso profondo. Sempre meno come discorso. Dal mondo del testo, se vogliamo, al testo del mondo» (pp. 15-16).

Circa l’approccio psicanalitico, sostiene Zumbo che questo «vada modulato, a secondo dei casi, in riferimento a matrici e correnti diverse, dalla psicoanalisi in senso stretto alla psicologia “del profondo” o analitica. Fear and Desire, ancora, presentando forme e tematiche che sono, a mio avviso, di indubbia derivazione junghiana, ha avuto un ruolo fondamentale nel determinare l’evoluzione del mio sguardo su Kubrick. All’analisi enunciativa, che rimane tutt’oggi la più adatta allo studio delle emergenze metadiscorsive, si unirà perciò, in senso lato, la psico-analisi dei testi filmici. Non tanto perché alla prima si affianchi la seconda, ma soprattutto perché, nelle configurazioni più stimolanti, autoriflessione e “psichicità”, come mi sforzerò di mostrare, saranno “facce della stessa medaglia”, andranno di pari passo. Stando allo sguardo analitico scorgere l’una o l’altra. O preferibilmente, ritengo, entrambe ad un tempo » (pp. 13-14)

Secondo Eugeni il libro di Zumbo ha il merito di rilanciare gli studi sull’opera di Kubrick su un duplice versante: favorire un’analisi junghiana della sua opera e proporre una discussione a proposito delll’appartenenza moderna e/o modernista del cineasta. Anche se le opere posteriori a Lolita (1962) risentono maggiormente del paradigma freudiano e i riferimenti junghiani risultano scissi dalle scelte linguistiche adottate dal regista, lo studioso ritiene che il lavoro di Zumbo possa comunque favorire una rilettura dell’opera di Kubrick in chiave junghiana e ciò risulterebbe importante visto che, nonostante tutto, ritiene Eugeni, anche nel suo cinema maturo persistono elementi junghiani.

«Anzitutto è profondamente junghiano il tema della difficoltà (e spesso l’impossibilità) per l’individuo di condurre un cammino verso il sé che gli permetta di superare il riassorbimento in un inconscio e/o in una coscienza collettivi e impersonali: la collettività, in Jung come in Kubrick, incombe sul soggetto e rende precari, scivolosi, perfino profondamente dolorosi i percorsi di individuazione del sé. Parimenti junghiana è l’idea ben presente in Kubrick di una Storia pensata come patrimonio di immagini dalla esistenza sincronica e trans-temporale: immagini che possono invadere il soggetto e all’interno delle quali questi deve imparare a vivere e a orientarsi – un tema che aprirebbe peraltro una riflessione sui rapporti tra Kubrick, Jung e Aby Warburg. Proprio la figura ricorrente dell’invasione improvvisa e devastante dell’immaginario nel simbolico (per usare una terminologia lacaniana ricorrente negli studi kubrickiani) è un ulteriore elemento che lega a mio avviso Jung a Kubrick: come non pensare a Shining leggendo l’allucinazione del giovane Jung che “prevede” lo scoppio della prima guerra mondiale nell’inverno del 1913 vedendo l’Europa invasa da “sangue, sangue a fiumi”» (pp. 9-10).

Per quanto riguarda l’appartenenza moderna e/o modernista del regista, continua Eugeni, anche se «l’interesse di Kubrick si sposta dalle strutture del linguaggio cinematografico e da quelle del testo filmico alle strutture del mondo e dei soggetti che lo abitano» (p. 10) sembra possibile individuare una qualche forma di continuità nella differenza.

Riprendendo l’opinione di Philippe Fraisse, espressa in Le cinéma au bord du monde. Une approche de Stanley Kubrick (Gallimard, 2010), che individua «un Kubrick in qualche modo surrealista e bretoniano», scrive Eugeni, «giungiamo a un’ipotesi ulteriore: lo spostamento di cui ci parla Zumbo dal testo al mondo è conseguente alla intuizione profonda che il mondo funziona esattamente come il testo: con i suoi rapporti liberi di forme e di forze; con i suoi giochi di rime, simmetrie, casualità, doppi e ombre; con le sue catastrofi, le sue derive e soprattutto il suo scorrere implacabile delle immagini nel tempo» (pp. 10-11).

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Il reale delle/nelle immagini. Lo spirito del tempo alla luce delle nuove immagini https://www.carmillaonline.com/2017/12/19/reale-dellenelle-immagini-lo-spirito-del-tempo-alla-luce-delle-nuove-immagini/ Mon, 18 Dec 2017 23:02:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42057 di Gioacchino Toni

Grazie all’editore Meltemi ritorna in libreria Lo spirito del tempo di Edgar Morin, saggio che, uscito nei primi anni Sessanta, nonostante il passare dei decenni, si dimostra ancora capace di offrire importanti spunti di riflessione. Di questa nuova edizione, in cui è contenuta anche una Prefazione inedita in lingua italiana stesa dall’autore nel 2006, occorre assolutamente menzionare la cura prestata alla traduzione affidata a Claudio Vinti – professore ordinario in Lingua e traduzione francese presso l’Università di Perugia e profondo conoscitore del cinema francese – e alla studiosa Giada Boschi. [...]]]> di Gioacchino Toni

Grazie all’editore Meltemi ritorna in libreria Lo spirito del tempo di Edgar Morin, saggio che, uscito nei primi anni Sessanta, nonostante il passare dei decenni, si dimostra ancora capace di offrire importanti spunti di riflessione. Di questa nuova edizione, in cui è contenuta anche una Prefazione inedita in lingua italiana stesa dall’autore nel 2006, occorre assolutamente menzionare la cura prestata alla traduzione affidata a Claudio Vinti – professore ordinario in Lingua e traduzione francese presso l’Università di Perugia e profondo conoscitore del cinema francese – e alla studiosa Giada Boschi. L’attenzione riservata alla traduzione è particolarmente meritoria vista la complessità linguistica che contraddistingue i testi di Morin, come testimoniano le note di apertura dei due traduttori.

Compongono il volume anche due preziosi contributi di Ruggero Eugeni, professore ordinario di Semiotica dei Media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Andrea Rabbito, professore associato di Cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli studi di Enna “Kore”. L’intervento di Eugeni mette in luce la rilevanza del contributo offerto da Morin, per certi versi in anticipo sui tempi, a proposito della condizione mediale contemporanea, mentre lo scritto di Rabbito, curatore del volume, approfondisce il legame tra Lo spirito del tempo e il mondo della cultura visuale sviluppato dalle nuove immagini che, nel loro illudere una perfetta duplicazione del reale, non provocano più la sensazione che in esse il rappresentante ceda il posto al rappresentato ma, piuttosto, l’assenza del rappresentante e la percezione di trovarsi il rappresentato presente davanti agli occhi. Sarà proprio sulle letture dell’opera moriniana effettuate alla luce dell’oggi proposte dai questi due studiosi che ci soffermeremo.

Ruggero Eugeni, nel suo scritto “I media o l’uomo post-immaginario”, propone quattro possibili letture contemporanee del libro di Morin. Una prima lettura si “limita” a esporre sinteticamente i contenuti de Lo spirito del tempo: nella prima parte Morin introduce l’oggetto (la cultura di massa), il metodo (fondato sulla volontà di mettere da parte le letture prevenute nei confronti della cultura di massa e sulla necessità di un approccio multidisciplinare) e lo sfondo (la ludificazione, la spettacolarizzazione e l’erotizzazione dell’esistenza dell’individuo postindustriale). Dall’incrocio di queste tre componenti, sostiene Eugeni, emerge sia il carattere dialettico e dinamico della cultura di massa, oscillante tra la standardizzazione-omogeneizzazione e la creatività-individualizzazione, sia il ruolo centrale dell’immaginario. «Un’analisi di tali contenuti corrisponde dunque a una radiografia della psiche collettiva dell’uomo occidentale» (p. 14) e ciò è affrontato da Morin nella seconda parte de Lo spirito del tempo, ove si occupa delle forme della mitologia contemporanea.

Una seconda lettura contemporanea del volume di Morin, sostiene Eugeni, è di tipo storico ed è volta a individuare nel testo un quadro del contesto in cui è stato elaborato e steso dallo studioso francese a cavallo tra gli anni Cinquanta ed i Sessanta del Novecento, in un contesto panorama culturale caratterizzato da importanti studi cinematografici e antropologici, semiologici e mediologici, sulle comunicazioni di massa e sulla psicanalisi lacaniana.

La terza lettura oggi possibile, continua Eugeni, è prospettica, nel senso che risulta interessante valutare quanto Lo spirito del tempo abbia saputo anticipare gli sviluppi della sociologia e pure, suggerisce lo studioso, alcune argomentazioni sviluppate da Guy Debord ne La società dello spettacolo, testo uscito sul finire degli anni Sessanta. Lo stesso Morin in uscite successive – alcune delle quali meritoriamente riportate in appendice dall’edizione presentata da Meltemi – rispetto alla prima stesura del suo volume non manca di evidenziare alcuni limiti della sua ricerca vista alla luce delle novità portate dal Sessantotto.

La quarta lettura del saggio dello studioso francese suggerita da Eugeni viene definita archeologica. «Si tratta in questo caso […] di chiedersi a partire dalla situazione attuale dei media cosa il libro di Morin ci dice sulla condizione precedente e in cosa tale condizione ci appare oggi superata» (p. 17). Da un lato Morin intende i media «come strumenti di produzione di ibridi che mediano e contaminano il reale e l’immaginario; dall’altro lato, tale ibridazione e contaminazione avviene a partire da una rete di dispositivi individuabili e localizzabili. In tal modo Morin coglie bene e traduce in modo originale lo spirito del tempo dei primi anni Sessanta: l’idea che i dispositivi mediali nella loro riconoscibilità costituissero strumenti di artifcializzazione dell’esperienza intima e sociale dei soggetti» (p. 20). Dunque, Morin legge il processo di artificializzazione dell’esperienza alla luce di una doppia ibridazione: «i dispositivi e gli universi mediali riformulano i dispositivi e gli universi mitologici e simbolici delle culture premoderne; in tal modo all’ibrido reale/immaginario si sovrappone quello moderno/premoderno» (p. 20). Eugeni concentra il suo intervento sulla lettura di Lo spirito del tempo alla luce delle trasformazioni dei dispositivi mediali contemporanei da lui approfonditi, questi ultimi, nel saggio La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni (2015).

Da parte sua Andrea Rabbito, nel suo prezioso intervento “Morin e la cultura visuale contemporanea”, sottolinea come il francese sia stato per certi versi lungimirante nel prospettare le trasformazioni avvenute nei decenni successivi alla stesura del testo, tanto da risultare in grado non solo di cogliere «lo spirito del tempo che animava gli anni Sessanta, ma anche quello che caratterizza i giorni nostri e anticipa percorsi di ricerca attuali o, meglio, ne apre le strade, indicando un metodo che risulta particolarmente produttivo» (p. 289). Basti pensare a come alcune riflessioni dello studioso francese sulla centralità dell’immagine nella vita quotidiana siano alla base dei cultural studies diffusisi soprattutto nel corso degli anni Novanta. Gli studi di Morin si sviluppano lungo un percorso che parte da Il cinema o l’uomo immaginario (1956) [ne abbiamo parlato su Il Pickwick: Cinema ed immaginario secondo Edgar Morin] e prosegue con Le star (1957), Lo spirito del tempo (1962) per poi giungere a L’Esprit du temps 2. Nécrose (1975). I quattro volumi, sostiene Rabbito, formano una tetralogia omogenea utile alla comprensione del nuovo tipo di immagini caratteristiche della contemporaneità. Importante risulta, inoltre, il metodo adottato da Morin,

particolarmente audace nel suo intento di ibridare, fondere più saperi per lo studio del fenomeno preso in considerazione; ma è proprio quest’audacia che gli permette di precorrere i tempi e di entrare nel cuore della questione, e, in questo caso, nella questione della cultura visuale che le nuove immagini determinano […] Proprio il posizionarsi sulla linea di confine, sull’impercettibile linea d’ombra che separa i diversi saperi, viene reputata da Morin la condizione più privilegiata e più proficua per cogliere gli aspetti di ciò su cui si focalizza, e nello specifico […] sulle nuove immagini (pp. 291-292).

Morin si è rivelato capace di ricomporre la spaccatura esistente tra cultura umanistica e cultura scientifica tentando di elaborare un metodo in grado di articolare ciò che si presenta separato e di collegare quanto è disgiunto con il fine di «riconoscere la complessità dei fenomeni [e] valorizzare un “paradigma unitario di connessione e distinzione”» (p. 293). Rabbito avanza l’ipotesi, suffragata anche da alcune riflessioni dello stesso studioso francese, che tale metodo derivi anche dagli studi che il francese ha dedicato alle nuove immagini. Le proposte moriniane paleserebbero, secondo Rabbito, l’intento di individuare e comprendere la complessità del mondo delle nuove immagini

interpellando vari campi scientifici e creando un dialogo fra questi, per meglio approfondire la sua analisi: antropologia, sociologia, mediologia, filosofia, estetica, psicologia, film studies, studi letterari, storia dell’arte, scienze cognitive, sono queste le varie discipline che vengono fuse assieme, ibridate, per dare vita a quello che Morin definisce come “pensiero multidimensionale” […] E tale multidimensionalità del pensiero è stata proprio dalle nuove immagini sollecitata durante lo studio condotto da Morin, in quanto la loro natura raccoglie molteplici aspetti individuabili solo attraverso la visione mediante le diverse lenti che i vari saperi propongono (p. 294-295).

Morin si rivela consapevole anche di dover adottare una strategia capace di controllare «l’indebolimento e il nutrimento della vita pratica messa in atto soprattutto dalle nuove immagini» (p. 315). Su tali problematiche Rabbito stesso ha insistito parecchio nella sua personale tetralogia di saggi composta da: Il cinema è sogno. Le nuove immagini e i principi della modernità (2012); L’illusione e l’inganno. Dal Barocco al cinema (2010); Il moderno e la crepa. Dialogo con Mario Missiroli (2012) e L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale (2015). In particolare dell’ultimo saggio dell’autore abbiamo già avuto modo di occuparci dettagliatamente su Carmilla [L’onda mediale e Forme di resistenza all’onda mediale].

Rabbito si sofferma, inoltre, sulla questione del rapporto tra modernità e arcaismo che ha attraversato l’intera opera moriniana e che ha portato il francese a coniare, proprio in Lo spirito del tempo, il termine “neoarcaismo”, allargando il discorso ben oltre il cinema e aprendo così la strada a riflessioni utili alla comprensione dell’incidenza sullo spettatore di mass media, new media e nuove immagini.

Gli studi di Morin si rivelano pertanto fondamentali alla costruzione di una strategia che ha come suoi obiettivi tanto la comprensione del potere delle nuove immagini (come vengono intese e cosa producono), quanto di fornire all’utente di queste strumenti di difesa, rendendolo consapevole delle forme di rappresentazione che lo circondano.

Lo studio dell’immagine, da un lato, e la diffusione del sapere sull’immagine, dall’altro, si offrono in questo modo come i due processi principali della strategia da attuare, al fine di circoscrivere la potenza del diluvio delle immagini […] Il fine è dunque quello di far sviluppare allo spettatore una audiovisual e media literacy, una conoscenza sulle nuove immagini, che gli garantisca di avere una propria autonomia di pensiero, una capacità di corretto uso dei vari media, e che lo renda in grado di non essere fortemente influenzato da ciò che gli viene proposto (p. 328).

Morin ne Lo spirito del tempo sostiene che una cultura è in grado di orientare, sviluppare e addomesticare certe potenzialità umane, inibendone e proibendone altre e ciò che occorre ostacolare, sottolinea Rabbito,

sono proprio le forme di inibizione e proibizione che la cultura visuale mette in atto; e inoltre bisognerà tener ben conto nella strategia che si vuole portare avanti con i visual studies che, come evidenzia sempre Morin, ci troviamo dinnanzi ad una “seconda colonizzazione” che riguarda quella grande Riserva che è l’anima umana. Studiare attentamente la cultura visuale e diffondere un sapere adeguato su di essa permetterà di contrastare questo fenomeno di colonizzazione e di convertirlo in una dinamica che risulti proficua per tutti noi utenti delle nuove immagini. Ed è proprio quello che Morin ha proposto e continua a proporre con i suoi studi, dimostrandosi così, ancora una volta, un punto di riferimento imprescindibile per la comprensione dello spirito del nostro tempo (p. 339).


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini

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La maniera liquida del cinema italiano https://www.carmillaonline.com/2016/12/02/la-maniera-liquida-del-cinema-italiano/ Fri, 02 Dec 2016 22:30:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34621 di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua [...]]]> di Gioacchino Toni

lessico_tre_volumiRoberto De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, Mimesis edizioni, Milano-Udine, Volume I, 2014 pp. 554, € 28,00 – Volume II, 2015, pp. 556, € 28,00 – Volume III, 2016, pp. 532, € 28,00

Più di milleseicento pagine suddivise in tre volumi raccontano – attraverso ventuno voci, un’introduzione del curatore Roberto De Gaetano ed una postfazione di Francesco Casetti – il cinema italiano con modalità differenti rispetto agli sguardi storici di Gian Piero Brunetta e dell’opera monumentale promossa da Lino Micciché per il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nella sua introduzione all’opera, Roberto De Gaetano sostiene che essendo i sentimenti a definire l’orientamento nel mondo di un individuo e di una comunità, se questi non danno forma a comportamenti finiscono col riversarsi nelle forme di rappresentazione. Secondo lo studioso l’elaborazione dei sentimenti popolari operata dal cinema italiano, soprattutto attraverso la commedia ed il melodramma, ha provveduto a dare espressione a sentimenti e stati d’animo altrimenti privi di espressione. «Nella nostra tradizione si viene dunque a determinare una frattura decisiva tra le forme del sentire e quelle dell’azione. Le prime, non trovando risposta efficace nelle seconde, trapassano nelle forme di espressione, a partire dal cinema, che diventano i veri operatori di una individuazione senza identità (nazionale), della creazione di uno stile di vita, di un modo di immaginare e abitare il mondo» (Vol. I, p. 9).

Secondo De Gaetano quello italiano «è un cinema che, contrariamente alla letteratura, non si è di fatto mai posto un problema di identità nazionale, ma è stato sempre vicino alla vita sentita e pensata oltre le forme della società civile, dello Stato, della nazione e della storia» (Vol. I, p. 11).

Se l’America può dirsi coincidere con il suo cinema in quanto questo risulta direttamente iscritto nel dispositivo produttivo capitalista, non si può invece dire che l’Italia sia il suo cinema nonostante questo possa definirsi profondamente italiano avendo raccontato, nel corso della sua storia, quella “nascita mai avvenuta di una nazione” attraverso il suo essere radicato nella realtà.

lessico_del_cine_546e10358a219«Da Roma città aperta a Salò, dalle torture dei nazisti a quelle dei fascisti, è un arco di tempo che dal 1945 al 1975 non solo segna un trentennio in cui il cinema italiano, proprio essendo specificamente italiano, ha avuto capacità e forza di conquistare (per credito e fama) il mondo intero, ma segna il momento in cui il dispositivo cinematografico, interno alla macchina capitalista, rivela il suo rovescio. Se il capitalismo è un sistema produttivo e culturale che agisce sulla sfera di una potenza sempre continuamente attualizzata, che tende a non lasciare varchi né faglie ma a suturare infinitamente tutto (e di cui il denaro è il segno distintivo), e se Hollywood ha rappresentato la forma stessa di questa saturazione progressiva, nei modi di un’adozione infinita, attiva e passiva, di immaginari e stili di vita, il cinema italiano ha rappresentato l’altro lato di questa potenza pura, non quella di cui si è appropriato il capitale, svuotandola in una perenne alimentazione di sé, ma quella che, smascherando il dispositivo di appropriazione e rivelandone le falle interne, ha avuto la capacità di affermare, anche in forme esagerate, la potenza eccedente ogni attualizzazione (di cui è immagine icastica e cliché insuperato l’otium italiano). E se il neorealismo lo ha fatto […] affermando lo splendore, sia pur nel dramma, della contingenza, e una certa commedia lo ha fatto riconsegnando alla maschera la capacità di scartare da se stessa (è il caso di Sordi), questa affermazione, dopo il passaggio attraverso il “libero indiretto” degli anni sessanta, giunge a Pasolini, dove la potenza svincolata dall’atto viene a coincidere con la morte. Il cerchio si è chiuso: le torture di Salò svuotano il corpo di ogni potenza, lo abbandonano come cosa inerte, lo separano da sé riconsegnandocelo come “nuda vita”, invertendo il percorso avviato da Roma città aperta, dove il corpo torturato era comunque redento dal suo sacrificarsi per la rinascita e la libertà di una comunità, e diventava dunque il corpo di un martire, come quello della Magnani caduto a terra inseguendo l’uomo amato prelevato dai tedeschi, o come quello dei resistenti torturati e uccisi, come don Pietro, sotto gli occhi dei bambini-testimoni» (Vol. I, pp. 30-31)

Nel cinema italiano, soprattutto a partire dalla metà degli anni ’60, si è sviluppata una tendenza inaugurata dai generi popolari come il “western all’italiana”, che mette in scena un sentimento scettico e cinico della vita lontano dal moralismo della commedia e, a tal proposito, sostiene De Gaetano che nel cinema dei generi popolari, e soprattutto nel western all’italiana, «L’uniforme diventa un’esplicita, ironica e grottesca veste che non si modella più sulla vita sociale ma sulle derive di un immaginario cinematografico scaturito dalla grande tradizione americana. Dal mito dell’America, avviato dall’antologia del 1941 di Vittorini, poi ripreso nel secondo dopoguerra dal neorealismo, dal boogie, dal piano Marshall, da Nando Mericoni, dalla Hollywood sul Tevere, si giunge con il western all’italiana a ribaltare dall’interno quel mito, smascherando il motore del capitalismo americano: l’adozione, non più di stili di vita […] ma di un immaginario svuotato, restituito in forma esagerata e ironica. […] nel western all’italiana viene svelato ed esautorato il motore stesso del capitalismo americano, la sua pratica adottiva, ridotta all’esposizione ironica e grottesca di un immaginario non più simbolizzabile. Il “nudo immaginario” di Leone (e del western all’italiana), grado estremo di un’adozione vuota, fa da pendant alla “nuda vita” di Pasolini, e getterà un ponte verso il futuro, con un potere d’anticipazione straordinario. È qui che il nostro cinema popolare di genere comprende cosa resta di un immaginario triturato da forme di vita perennemente alimentate e bruciate dal consumo e dalla spettacolarizzazione di tutto, dove il cinismo dell’eroe del western all’italiana diviene immagine di un disincanto profondo nei confronti del mondo, e la forma si trasforma in un campo d’azione meramente ludico» (Vol. I, pp. 34-35).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-volDunque, il “nudo immaginario” che attraversa il cinema italiano dai film di Leone fino al citazionismo di Sorrentino, sostiene De Gaetano, si pone come alternativa al filone avviato dal neorealismo. Questo cinema nazionale che ha preso il via con il western all’italiana appare «caratterizzato da uno “strizzare l’occhio” allo spettatore, che diviene l’indice più rilevante di una scrittura ironica, che liquida il debito nei confronti di qualsivoglia tradizione (italiana in primis), si estromette dalla Storia, fagocita e denuda immaginari privi di mondo, come privi di mondo, e perfino di nome, sono i suoi protagonisti» (Vol. I, p. 37).

Tale direttrice di cinema ha finito col dare forma ad un immaginario sempre più disincantato. «Un cinema fatto da un popolo senza uniforme, che se in politica ha significato attitudine ad indossarne molte, e dunque al trasformismo, in arte e nelle forme di vita quotidiana ha riguardato vicinanza alla potenza e ambivalenza della vita, che è stata anche la ragione per cui, pur essendo singolarmente e specificatamente italiano, il nostro cinema è stato universale. È stato il rovescio del cinema americano, ha espresso le profonde contraddizioni di una società e di un sistema culturale incapace di assimilare potere economico e potenza della vita (come nel pieno capitalismo). Tutte le contraddizioni di un sistema di vita e culturale che il cinema americano ha saputo raccontare in forma impareggiabile, ma rimanendo sempre all’interno di quella “assimilazione”, per cui la vita e la sua potenza tendono ad essere suturati dal potere e dall’azione (anche immaginaria) del capitale, si sono trasformate nel cinema italiano in opportunità impareggiabili per far emergere nel e attraverso il cinema qualcosa che eccede e scarta quest’assimilazione, rivelando attraverso stasi ed esagerazioni lo stallo non solo dell’azione (Antonioni), ma anche di una società divenuta spettacolo (Fellini) e perfino della civiltà stessa (nelle visioni apocalittiche di un Pasolini e di un Ferreri)» (Vol. I, p. 38).

Da tali considerazioni del curatore prende il via Lessico del cinema italiano ove, attraverso ventuno voci affrontate dai diversi autori, il cinema italiano viene indagato con nuove modalità. Ognuna di queste voci viene affrontata passando in rassegna venticinque film a partire da un’opera recente.

Secondo Francesco Casetti, che con la sua Postfazione chiude il Terzo volume e l’intera opera, «ciò che caratterizza il cinema nazionale non è uno stile, né una storia ricorrente, né un canone [quanto piuttosto] una sorta di abbandono al flusso dell’esistenza, un’allergia a delle regole condivise, un’unità che si costruisce come difficile ricomposizione di singolarità, una diffidenza nei confronti delle istituzioni, una capacità di risposta che nasce dalla situazione concreta […] il cinema italiano preferisce il rischio di stare attaccato alle cose piuttosto che il piacere di una formula espressiva condivisa e stabile; in esso il flusso della vita vale più delle forme che dovrebbero catturarlo. Ciò gli consente una straordinaria apertura “all’esteriorità del mondo e all’incompiutezza che lo definisce”» (Vol. III, p. 474).

Nel corso della sua storia il cinema italiano ha saputo sfruttare diversi modelli senza che questi giungessero mai a stabilizzarsi secondo un canone definito. Secondo lo studioso si può parlare di formule ricorrenti che scompaiono e ricompaiono in altri modi. «Le formule non mancano, ma la loro tenuta fa problema; sono pronte a riapparire, ma anche a squagliarsi. Il sentimento della vita è ciò che entra nel cinema attraverso queste faglie, queste rotture. È ciò che emerge quando una formula, anziché consolidarsi e diventare un canone, comincia a sbriciolarsi o a ristrutturarsi in altre condizioni» (Vol. III, p. 475).

mimesis-roberto-de-gaetano-lessico-cinema-italiano-vol-3Le formule della cinematografia nazionale sembrano presentarsi come “nonformule”, come un insieme di variazioni su un tema. Il cinema italiano «si è costantemente trovato a mal partito con i generi che riposano su un forte processo di astrazione, o che si appoggiano a degli schemi ideali. In particolare, il cinema italiano sembra incapace di praticare da un lato la tragedia, dall’altra il melodramma (nel senso anglosassone del termine). La coesistenza di due opzioni entrambe necessarie ma incompatibili, e che dunque non lasciano via d’uscita (tragedia), o il conflitto tra due modelli di condotta tra cui un soggetto è obbligato a scegliere, perdendo comunque una parte di sé (melodramma), non fanno parte dei plot ricorrenti […] La versione italiana della tragedia è Il sorpasso, in cui la corsa verso la morte è guidata non dal destino, ma dal caso; così come la versione italiana del melodramma non è tanto il filone di Catene e Tormento, quanto C’eravamo tanto amati, in cui sono i fatti della vita a modellare gli ideali cui ispirarsi, e non viceversa» (Vol. III, pp. 477-478).

Se da una parte la blanda formalizzazione nel cinema italiano ha permesso al sentimento della vita di emergere, ciò non vuol dire, puntualizza Casetti, che non sia possibile individuare “maniere” italiane, ma storicamente queste sono state individuate soprattutto da “occhi stranieri”. La “maniera” italiana «non fornisce una collezione di formule fatte e finite; semplicemente testimonia il desiderio di formalizzare un’espressione che altrimenti sarebbe informe. È una “maniera” che appunto abita i piani bassi del cinema e che subito emigra altrove, una maniera “dislocata”. È spesso anche una maniera che funziona da “abbozzo”, da riprendere e da rilavorare, con nuovi accenti e nuove prospettive. È una maniera che si presta a improvvise rifondazioni e a successive ricodificazioni, una maniera “liquida”» (Vol. III, p. 481).

Di seguito la successione con cui in milleseicento pagine Lessico del cinema italiano procede nell’indagare Forme di rappresentazione e forme di vita. Volume I (2014): Introduzione del curatore. Amore (Roberto De Gaetano), Bambino (Emiliano Morreale), Colore (Luca Venzi), Denaro (Marcello Walter Bruno), Emigrazione (Massimiliano Coviello), Fatica (Federica Villa), Geografia (Francesco Zucconi). Volume II (2015): Habitus (Giacomo Manzoli), Identità (Roberto De Gaetano), Lingua (Fabio Rossi), Maschera (Bruno Roberti), Nemico (Daniele Dottorini), Opera (Francesco Ceraolo), Potere (Gianni Canova). Volume III (2016): Quotidiano (Carmelo Marabello), Religione (Alessio Scarlato), Storia (Christian Uva), Tradizione (Luca Malavasi), Ultimi (Alessia Cervini), Vacanza (Ruggero Eugeni), Zapping (Alessandro Canadè). Postfazione di Francesco Casetti.

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