Rudyard Kipling – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 “Io capitano”: morfologia di una fiaba vera https://www.carmillaonline.com/2023/09/25/io-capitano-morfologia-di-una-fiaba-vera/ Mon, 25 Sep 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79179 di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare [...]]]> di Paolo Lago

Non ci si può approcciare a un’opera come Io capitano (2023) di Matteo Garrone criticandone la presunta verosimiglianza o l’incapacità di raccontare il fenomeno migrazione in generale. Infatti, non ci troviamo di fronte a un documentario il cui intento è la ricostruzione puntuale dei meccanismi migratori o la rappresentazione, mediante il suo racconto, della globalità di tali meccanismi. È molto probabile che chi è andato al cinema con queste aspettative sia rimasto estremamente deluso. Si tratta di un film di finzione creato da un autore che possiede un suo peculiare mondo poetico e creativo. Per cui, non posso certo essere d’accordo con alcune recensioni uscite nei giorni scorsi che lo criticano per mancanza di verosimiglianza, definendolo addirittura un “falso storico”, definizione che nasce da un delirio allo stato puro nonché da una ignoranza pressoché totale dell’intera opera dell’autore. Chi pretende verosimiglianza ad ogni costo crede anche che su temi scottanti come migrazioni, guerre, disastri, distruzioni, omicidi efferati non si possa che lavorare in maniera ‘neorealista’ o documentaria. L’interpretazione fiabesca o fantastica di tali fenomeni, in molti casi (compreso quello in questione), non induce davvero a una inutile spettacolarizzazione o a gratuiti estetismi ma serve a edulcorare, per mezzo del linguaggio artistico, fenomeni spesso difficili da raccontare. Mi viene in mente la trasposizione fiabesca realizzata da Fabrizio De André con La canzone di Marinella: come dichiarò il cantautore, quella sua fiaba messa in musica derivava da un fatto di cronaca nera relativo all’uccisione di una giovane prostituta scaraventata in un fiume. Compito dell’arte è anche questo: sublimare, creare metafore, visioni, spazi incantati liberi e resistenti. In tema di migrazione possiamo ricordare il delicato Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismäki, un film che racconta con tono fiabesco e visionario l’avventura del piccolo Idrissa, arrivato nel porto francese come migrante clandestino in un container.

Il più importante tema ‘garroniano’ – se così si può dire – presente nel film è quello della crescita e della formazione. Il giovane Seydou (Seydou Sarr), dal Senegal, vuole intraprendere una migrazione verso l’Europa che si trasforma in un viaggio di formazione irto di pericoli. Il film non ha la pretesa di raccontare documentaristicamente i viaggi dei migranti verso la Libia ma di narrare l’avventura personale di Seydou, assimilabile quasi a un nuovo Pinocchio che vuole scappare di casa per compiere il suo viaggio scendendo negli inferi della coscienza. Non si dimentichi che Garrone è l’autore di una versione cinematografica (2019) del celebre romanzo di Collodi, versione in cui importanti sono appunto i temi della crescita e della formazione, del corpo e del suo mutamento (si veda la metamorfosi in asino e i risvolti più fisici e dolorosi che ne derivano, come lo scricchiolio delle ossa che sentiamo durante la trasformazione). Il mutamento del corpo, coi suoi dolorosi e angoscianti risvolti, nel cinema di Garrone è poi presente in Primo amore (2004), in cui il personaggio di Sonia, interpretato da Michela Cescon, martirizza il proprio corpo dimagrendo fino all’anoressia per assecondare le ossessioni di Vittorio (uno strepitoso Vitaliano Trevisan). Seydou scende negli inferi delle prigioni libiche, laddove il corpo viene ferito e martoriato, legato e appeso con lacci di cuoio durante le torture (anche in questo caso avvertiamo il ‘perturbante’ suono dei lacci che stringono). Il film racconta la fiaba vera di Seydou, una fiaba che rimanda in forma allusiva all’atroce e cruda realtà che i migranti africani sono costretti ad affrontare per arrivare in Europa. D’altra parte, è lo stesso Vladimir Propp, autore della Morfologia della fiaba, a ricordarci, in un’altra sua opera – Le radici storiche dei racconti di fate – che le fiabe non nascono certo dal nulla ma possiedono un sostrato storico ben radicato nella realtà sociale delle popolazioni che le creano.

Seydou e suo cugino Moussa, interpretato da Moustapha Fall (insieme al quale il ragazzo vuole intraprendere il viaggio), a Dakar, si recano presso un anziano riparatore di televisori il quale sconsiglia i due giovani dall’intraprendere il viaggio perché andranno sicuramente incontro alla morte, dal momento che lui stesso lo ha intrapreso e ha incontrato solo morte e sofferenze. Non è un caso che l’uomo appaia circondato di vecchi televisori, sui quali sta lavorando, che rappresentano un lembo malato di quell’Europa che i giovani vogliono raggiungere e che, appunto con i suoi strumenti mediatici, attira tanti africani desiderosi di ricostruirsi una vita. Ma quegli strumenti appaiono adesso come vuote scatole inerti, marchingegni fossilizzati in una funebre inutilità, contenitori di falsità abbrutenti, latori della civiltà occidentale e consumistica. Se l’Europa per l’anziano senegalese è un luogo di morte, così sono morti anche quegli oggetti che lo circondano, simbolo dei fasti promessi dalla ricca società del capitalismo. Seydou e Moussa però non captano i messaggi della ricca Europa tramite quei vecchi e inutili involucri, bensì con il loro smartphone; il musicista Seydou, allora, arriva a creare dal nulla una canzone composta da brevi frasi giunte via internet attraverso il telefonino. Si tratta però di frasi tristi (“perché non mi chiami più?”, “Dove sei?”, “perché mi hai lasciato?”), segno che quella stessa Europa, alla fine, non è il paese di Bengodi ma è attraversata anch’essa dalla solitudine e dal dolore.

Intraprendere un viaggio difficile, che può mettere a repentaglio la stessa vita, possiede risvolti attinenti alla sfera del sacro, ed è così che i due ragazzi, prima di partire, si recano presso uno sciamano. Visitano anche un vecchio cimitero nel quale riposano i loro antenati perché per partire è necessario avere, in un certo senso, la loro ‘benedizione’. Vicino al cimitero svettano degli alberi che si muovono al vento e sembrano quasi impersonare antiche e quiete divinità che ondeggiano per proteggere i due giovani: si potrebbe pensare alla rappresentazione delle Furie, destinate a trasformarsi in Eumenidi, cioè in “benevole”, negli Appunti per un’Orestiade africana (1969) di Pier Paolo Pasolini, mostrate dal regista sotto la forma di alberi. Anche nel documentario di Pasolini, perciò, sono presenti diversi elementi di finzione dal carattere ‘fiabesco’ e immaginativo. A fianco di alcuni documenti filmici dell’epoca, anche molto crudi, relativi a uccisioni e massacri, Pasolini effettua in diversi momenti del suo film delle scelte antirealistiche, immagini che mostrano in forma allusiva la difficile situazione dei paesi africani della fine degli anni sessanta.

Il racconto fiabesco di Garrone apre a dei momenti di resistenza che sembrano confermare il verso di Hölderlin che recita, più o meno, “là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”. Il viaggio nel deserto mostra spazialità sconfinate care al cinema di Garrone: spazialità che sembrano quasi inghiottire i personaggi; si può pensare, allora, al già citato Pinocchio ma anche agli sfondi di Il racconto dei racconti (Tale of Tales, 2015) che, in alcuni casi, inglobano e annichiliscono le figure umane oppure, ancora, alle periferie di Roma solcate dal ‘canaro’ Marcello (Marcello Fonte) in Dogman (2018), spazi che sembrano inchiodare il personaggio al suo triste destino. Ma appunto, in questo spazio annichilente e assassino, Seydou incontra dei momenti incantati che sembrano allontanarlo dalla disperazione. Non potendo fare niente per salvare un’altra migrante che morirà di stenti nel deserto, il ragazzo immagina di farla volteggiare in una levitazione semplicemente tenendola per mano: il dolore, la morte e la disperazione vengono sublimati ma certo non spariscono. Si potrebbe pensare a certi momenti incantati di Il tempo dei gitani (1988) di Emir Kusturica, momenti che salvano i personaggi dalla dura realtà che li circonda, la povertà, le faide, la microcriminalità e la violenza diffusa. La scena della levitazione è una via di fuga dal dolore, un momento di resistenza in cui si può essere liberi e, appunto, resistere alle afflizioni e ai dolori inflitti ai più poveri dalla società basata sull’accumulo di capitale. In modo non troppo diverso, i migranti siciliani di Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese, durante il terribile viaggio di terza classe sul piroscafo (costruito come una grande scenografia teatrale) che li conduce a New York, si immaginano squarci incantati che restituiscono loro la dignità e la libertà sottratte da un sistema malato e meschino che offre agi e possibilità soltanto ai ricchi.

Un’altra spazialità che ingloba i personaggi è quella del mare: uno spazio “liscio”, secondo l’analisi di Deleuze e Guattari, che l’egemonia dell’Occidente ha sempre cercato di ‘striare’, di sottoporre, cioè, alle griglie del controllo. La ‘striatura’ del mare emerge nelle inquadrature che mostrano il passaggio del peschereccio guidato da Seydou vicino a delle gigantesche piattaforme petrolifere: se dapprima i migranti, vedendo delle luci, credono di aver finalmente raggiunto la terra, si rendono successivamente conto di trovarsi di fronte a delle costruzioni mostruose a cui non sanno bene dare un nome. È l’egemonia dell’Occidente, lo sfruttamento capitalistico del petrolio che erige quei mostri, un interesse economico che produce sempre nuove ricchezze a scapito dei “dannati della terra”, per utilizzare un termine di Frantz Fanon. Qui, la fiaba diviene dura realtà: pur apparendo, in immagini dalla forte impronta visionaria, come delle costruzioni mostruose, quelle piattaforme sono reali. In una fiaba, forse, i migranti avrebbero incontrato delle navi da crociera predisposte dagli stessi stati occidentali per accoglierli invece di lasciarli morire in mare. Dagli spazi ‘striati’ reali, invece, è impossibile aspettarsi qualcosa che non sia puramente dettato dagli interessi economici.

Il film si chiude con un grido: Seydou, giunto in prossimità delle coste della Sicilia, urla le parole che danno il titolo al film, “Io capitano”. Parole urlate che entrano in conflitto con il suono ossessivo e meccanico delle pale di un elicottero della Guardia di Finanza che si staglia sul peschereccio dei migranti. Sì, è vero, l’elicottero li trarrà in salvo ma poi verranno rinchiusi in un CPT e magari espatriati; nella fiaba vera raccontata da Garrone, il peschereccio sarebbe probabilmente arrivato sano e salvo fino alla costa (quando, invece, nella dura realtà, molte imbarcazioni fanno naufragio). Il rumore dell’elicottero è il rumore dello spazio “striato” che si contrappone alle spazialità “lisce” e “nomadi” da cui i migranti provengono: è il suono del potere, del controllo, del respingimento. È il suono dell’egemonia occidentale che costruisce le piattaforme petrolifere e costringe molti giovani africani ad affrontare la morte nei loro terribili viaggi. Il grido di Seydou (“sono io il capitano”) è lanciato anche contro la finta costruzione mediatica occidentale del mito dello scafista, figura che in realtà non esiste. Non sono certo i trafficanti di esseri umani a mettersi alla guida delle barche ma i migranti stessi, arruolati dalla manovalanza inviata dai trafficanti di alto bordo, i quali magari se ne stanno tranquilli nei loro palazzi del potere. Il cosiddetto “scafista” è un mito mediatico che serve a spostare l’attenzione dal mancato salvataggio di esseri umani ad opera delle istituzioni verso la criminalizzazione di una figura da utilizzare come capro espiatorio. Seydou non fugge, accetta fino in fondo la sua responsabilità di essere il “capitano”, parola che, se ci pensiamo bene, rimanda ancora una volta ad un universo favolistico e avventuroso ed entra in contrasto con la costruzione mediatica dello “scafista”: il giovane, infatti, grida forte il suo rifiuto di essere inquadrato in un ruolo preconfezionato dal perbenismo occidentale, da un potere che non si assume le proprie responsabilità di fronte al fenomeno contemporaneo delle migrazioni. “No, non sono uno scafista” – dice Seydou, “sono un capitano”, parola che sembra uscire da un mondo letterario e incantato, fatto di storie di mare, dei romanzi di Conrad e di Stevenson, dei capitani delle navi pirata e di quelli “coraggiosi” di Kipling.

Seydou, urlando di essere il capitano, innalza il suo immaginario coraggioso, libero e resistente contro il suono granitico del controllo, del potere che lo vorrebbe imprigionare nel ruolo anonimo e indefinito del ‘diverso’, dell’“immigrato” o dello “scafista”. Nella fiaba vera raccontata da Garrone, Seydou è diventato – parafrasando i versi di William Ernest Henley ripetuti come un mantra da Nelson Mandela durante la sua prigionia – il “padrone del suo destino”, “il capitano della sua anima”. E nessun potere e nessun controllo, mai, lo potrà fermare.

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Sulla linea d’ombra dove Storia e storie si fondono e confondono https://www.carmillaonline.com/2023/07/09/sulla-linea-dombra-dove-storia-e-storie-si-fondono-e-confondono/ Sun, 09 Jul 2023 20:00:12 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77993 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Segretissimo. Una storia del Novecento da Kim a Le Carré, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 316, euro 22,00

In un recente articolo sul “fallito golpe” russo del giugno di quest’anno, il giornalista Domenico Quirico ha scritto: «Non si sa mai quando la Storia cessa di essere un romanzo». Ed è proprio da una considerazione del genere che occorre partire nell’affrontare l’ultima fatica editoriale di Diego Gabutti, ispirata almeno nel titolo, ma non solo, alla più famosa collana italiana di “spy stories” da edicola.

Edita da Arnoldo [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Segretissimo. Una storia del Novecento da Kim a Le Carré, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 316, euro 22,00

In un recente articolo sul “fallito golpe” russo del giugno di quest’anno, il giornalista Domenico Quirico ha scritto: «Non si sa mai quando la Storia cessa di essere un romanzo».
Ed è proprio da una considerazione del genere che occorre partire nell’affrontare l’ultima fatica editoriale di Diego Gabutti, ispirata almeno nel titolo, ma non solo, alla più famosa collana italiana di “spy stories” da edicola.

Edita da Arnoldo Mondadori editore, «Segretissimo» vide il suo primo numero uscire nell’ottobre del 1960. Il numero 12, nel settembre del 1961, chiuse la prima serie della collana. Dal numero 13, il mese successivo, la collana cambiò veste grafica e scelta di autori. Mentre infatti i primi 12 romanzi erano tutti di Jean Bruce, la seconda serie vide l’arrivo di vari autori del genere. Anche se il primo, non a caso esaminato con attenzione nel quindicesimo capitolo dell’opera di Gabutti, è stato forse uno dei più conosciuti e prolifici autori del genere spionistico.

Al secolo Jean Brochet, classe 1921, membro attivo del «maquis» durante l’occupazione tedesca, per un po’ fu conosciuto (fonte lui stesso) come l’«agente 11173» dell’Oss (per esteso Office of Strategic Service, l’agenzia segreta che sarebbe poi diventata la Cia). Nel dopoguerra, come si legge su Wikipedia, fu «dipendente del municipio, agente d’una rete d’intelligence, ispettore della sicurezza, impresario, attore in una troupe itinerante, gioielliere e segretario d’un maharajah». Nel 1949, la metamorfosi: Jean Brochet si trasforma in Jean Bruce. È infatti con questo nom de plume che l’ex agente OSS 11173 firma il suo primo romanzo, un polar spionistico intitolato Tu parles d’une ingénue, la prima avventura di Hubert Bonisseur de la Bath, agente segreto americano con antenati francesi e domicilio aristocratico a Baton Rouge, Louisiana. In codice OSS 117, Hubert Bonisseur de la Bath non mena le mani né punta la pistola contro gli agenti nemici o seduce fanciulle a raffica per conto della Cia ma è al servizio d’un secondo Oss: l’Organizzazione Speciale per la Sicurezza – «un’associazione pacifista», scrive Giuseppe Lippi nella prefazione a un’antologia di storie di OSS 117, «formata dalle più potenti madri di famiglia del mondo che si preoccupano per l’escalation dei conflitti nei cinque continenti». Ciò all’inizio, per lo meno. Poi passa alla Cia vera e propria (è diretta da «Mister Smith», una specie di Grande Incognito). O forse è la Cia che, per venirgli incontro, passa al pacifismo. Fermare le guerre, impedire che siano anche solo minacciate, è un lavoro da professionisti e da supereroi1.

Al primo romanzo ne seguiranno altri ottantotto, tutti quanti contenenti nel titolo il nome di qualche località geografica che, in tempi in cui i voli low cost per qualsiasi angolo del mondo ancora non esistevano, era in grado di far sognare i lettori. Novello Salgari delle storie di spionaggio a buon mercato, Jean Bruce, indefessamente fa compiere ai suoi lettori voli di fantasia tra complotti, armi spianate e spesso usate, belle ragazze (spesso poco vestite) e località celebrate nei depliant turistici.

OSS 117 a Tokio, a Manila, a Karachi, in Birmania, in Libano, in Iran, a Mosca, al Pireo e sull’Acropoli, nel Kashmir, a Singapore, a Las Vegas, in Patagonia, a Caracas, a Calcutta, a Formosa, a New York e al Bosforo, a Bangkok, a Vienna e in Messico, alle Bahamas, Finlandia, le Bermudas. Quando, per trascuratezza o altro, il nome della località esotica non compare in copertina, allora lo trovate immancabilmente nel risvolto: Roma, il Cairo, Odessa, l’Avana, Londra, Damasco, Buenos Aires, Washington, Calcutta, Nicosia, New Orleans, l’Angola, Cape Canaveral, Dakar, Rio, Montreal, Ibiza, il Perù, la vecchia Jugoslavia, Rangoon.
[…] Non sembra vero, ma c’è anche un’avventura extraplanetaria di Hubert Bonisseur de la Bath (da noi OSS 117 Missione dischi volanti, in originale Arizone zone A, 1959). Brutta gente, gli alieni. Niente smancerie tipo E.T. o Incontri ravvicinati. Gli alieni di Jean Bruce sono pacifisti, che orrore le armi, ma di scuola machiavellica.

Intendiamo installarci su questo pianeta. La natura stessa degli uomini che abitano questo pianeta e la loro intolleranza ci autorizzano a pensare che non accetteranno di buon grado la nostra sistemazione e che, come minoranza, subiremo tutte le angherie e vessazioni riservate sulla Terra alle minoranze… Poiché i nostri principi ci proibiscono l’uso della forza, dobbiamo usare l’astuzia, ossia servirci della nostra intelligenza per spingere gli abitanti di questo pianeta a distruggersi da soli. Il nostro piano, come sapete, è convincere il governo degli Stati Uniti che i russi hanno deciso di attaccare. Se ci riusciamo, gli americani lanceranno i loro missili un quarto d’ora prima dell’ora H e devasteranno la Russia. Attaccati, i russi reagiranno, e gli americani, convinti da noi di non aver nulla da temere, non ricorreranno alle necessarie misure di protezione. Noi non avremo che da contare i colpi e aspettare che sia tutto finito.

OSS 117 riesce a raggiungere la loro base segreta (altro viaggio guidato, stavolta in una riserva navajo dell’Arizona) dove il nostro finisce subito a letto con una bella aliena («drappeggiata in una stupenda vestaglia trasparente che sembrava uscita fresca fresca da Rue de la Paix, la bellissima Allalila» si dice «molto curiosa», sfilandosi la vestaglia, di conoscere meglio «le usanze terrestri»). Nonostante questa manifestazione di simpatia reciproca tra aliens e umani, tutti gli extraterrestri del romanzo – che sono detti gl’Intrusi, e che al pari di OSS 117 apprezzano l’inguacchio extraspecie e pertanto rapiscono allo scopo donne umane – vengono eliminati dal primo all’ultimo senza esitare. «È stato un atto abominevole, lo so benissimo…» dice il capo della Cia (pacifista machiavellico anche lui) senza dare alcun segno del «profondo disgusto» che dovrebbe provare secondo le regole della casa. «Ma è stata legittima difesa, vecchio pirata, ed è stato comunque meglio di Hiroshima e Nagasaki»2.

Frutto di tempi in cui la guerra fredda lasciava lentamente il campo alla coesistenza pacifica, ma in cui i cattivi (di vario colore, anche politico) continuavano a minacciare il genere umano anche dall’outer space, le opere di Jean Bruce-Brochet oggi farebbero sorridere i lettori più smaliziati, ma ciò non toglie che anche se l’autore morì in un incidente stradale dopo l’ottantottesimo romanzo, il 26 marzo 1963, la sua opera (stesso personaggio, stesso taglio turistico-spionistico) fosse continuata, prima dalla

vedova, Josépha Pyrzbil, polacca, che per una ventina d’anni, dal 1966 alla metà degli anni ottanta firma come «Josette Bruce» oltre un centinaio di nuove avventure dell’agente segreto. Che torna così, dopo un breve intervallo, a rimbalzare come una pallina nel flipper da un capo all’altro del mondo, pistola sotto l’ascella, tutte le donne (d’ora in poi soltanto terrestri) ai suoi piedi: Los Angeles, il Congo, Bucarest, Tangeri, Madrid, Amburgo e Francoforte, Malta, Costa d’Avorio, Tirana, Libia, Brasile, Santo Domingo, Portorico, Pechino, Portogallo e Malesia, Mykonos, il Gabon, Bombay, Pretoria, Bahrein, Nepal e Thailandia, Hanoi, Mauritius, l’Isola di Pasqua e l’isola di Wight, il Camerun, l’Alaska, Venezia, Osaka, la Danimarca, il Sahara, San Diego, Varsavia, Dublino, il Siam (c’era ancora il Siam) e Ceylon, Miami, il Senegal, Teheran, Reunion, Giava, il Marocco, l’Armenia, il Venezuela e via così, un’etichetta d’hotel dopo l’altra. Josette Bruce muore nel 1996. OSS 117 sopravvive anche a lei: il testimone delle sue storie passa alla figlia e al nipote, Martine e François Broche, nom de plume «François e Martine Bruce», che a partire dal 1985, e fino al 1992, firmano un’ulteriore trentina di nuove avventure dell’agente Cia di Baton Rouge, Louisiana3.

E’ valsa la pena di dedicare spazio ad un autore “minore” come Jean Bruce proprio perché con il suo primo romanzo aveva battuto tutti sul tempo: Ian Fleming, John Le Carré e tutti gli autori che si sono occupati di spy stories (a diversi livelli di complessità e di credibilità) nella seconda metà del ‘900, secolo delle spie e dei complotti (veri, ma quasi sempre presunti) per antonomasia. Padre di tutti gli agenti seriali da 007 a George Smiley, Jean Bruce con OSS 117 anticipa l’avventura moderna e, nonostante tutto, costituisce ancora una lettura divertente.

Certo il testo di Gabutti parte da ben più lontano con un romanzo come Kim di Rudyard Kipling, che è il primo a trasportare sulle pagine gli avvenimenti, gli intrighi, le guerre legate al Grande Gioco ovvero alla competizione tra Russia e Regno Unito per il controllo dell’Asia Centrale e del sub-continente indiano. Poi verranno altri autori e altri protagonisti, ma nelle vicende narrate poi da Conrad e infiniti altri non verrà mai a mancare l’ombra minacciosa della Russia, prima zarista, poi bolscevica, leniniana o staliniana sul destino del mondo occidentale.

Anche se il 1989, che ha lasciato apparentemente orfani del villain principale gli scrittori di storie e avventure di spionaggio occidentali, non ha fatto altro che aprire le porte di quelle vicende ad altri “avversari” più subdoli e folli (principalmente per il motivo di essere difficili da inquadrare in un canone riconosciuto, come ad esempio poteva essere quello del comunismo russo d’antan), di cui, forse, soltanto Alan D. Altieri, compianto autore e curatore della collana “Segretissimo”, ha saputo talvolta anticipare o immaginare le mosse, insieme a quelle delle corporation, ormai senza volto e senza nazionalità, e delle zaibatsu dell’immaginario cyberpunk che hanno iniziato a giocare la loro partita a Risiko sia nel mondo reale che in quello virtuale della rete.

Gli autori di spy stories, che avevano così bene illustrato e interpretato il mondo nei giorni del Grande Gioco, dell’equilibrio nucleare, delle guerre tra superpotenze combattute per procura nel terzo e quarto mondo, non sanno affatto che cosa sta succedendo adesso e qui. Fingono di saperlo, si danno un tono navigato da competenti saccheggiando Wikipedia, ma i risultati sono per lo più imbarazzanti. Sono passati trent’anni dal fallimento in diretta tv del golpe moscovita, quando le truppe corazzate del Kgb tentarono di sbalzare Él’cin dal trono. A New York sono crollate le Torri Gemelle; la jihad islamista ha soffiato il posto alle satrapie nazionalsocialiste arabe e mediorientali; da un pezzo non si parla più d’«imperialismo americano» ma di «Grande Satana»; già colonia inglese, Hong Kong è passata ai «musi gialli» (come direbbe Nayland Smith, l’arcinemico di Fu Manchu) e Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina. Ma loro, gli autori di spy stories, niente, il vuoto. Sono passati trent’anni e ancora non si è letta una sola spy story memorabile.
Spaesate, perplesse, le firme per lo più ignote che appaiono sulla copertina delle ultime spy stories, si guardano intorno cercando paesaggi e figure noti. Invano. Non c’è più niente di riconoscibile. Tutto è un enigma. Per quanto si sforzino, inventando trame sempre più elaborate e smargiasse, non c’è una delle loro storie che dica qualcosa di utile, di sensato o di verificabile sullo stato di cose presente. Vale per i romanzi come per il cinema d’azione, dove i buoni sono improbabili quanto i cattivi, le circostanze ridicole e le sceneggiature, peggio che zoppicare, inciampano su se stesse, come gli ubriachi nelle comiche finali. Chi c’è dietro? Cui prodest? Mafia russa? Al Qaeda? QAnon? Fratellanze ariane? Muslim? Multinazionali? Tycoon della Silicon Valley? Vai a capire che roba è, che storie sono, cosa c’è in ballo. Gli autori di spy stories e i registi di serie tivù non ne sanno niente, zero […]
Ian Fleming aveva raccontato le fantasie voodoo di Mr. Big, la bramosia per l’oro di Auric Goldfinger, il debole per i calamari giganti del Dottor No, la smania di distruggere Londra con un missile (per di più finanziato dalla Corona) di Hugo Drax in Moonraker. Già questi erano bei fenomeni da baraccone. Renderli credibili e allegorici era roba da grandi narratori. Ma come raccontare Donald Trump, per metà palazzinaro, per metà ringhioso intrattenitore televisivo, che prima conquista la Casa Bianca, poi tenta d’espugnare il Campidoglio con i forconi e che infine, mai pago, imbosca scartoffie top secret in cassaforte? Ian Fleming non si sarebbe mai spinto così lontano con la caratterizzazione. Impossibile, avrebbe pensato, rendere credibile e allegorico un villain così iperbolico. […] Da «Donnie» Trump – dal suo parrucchino, dai suoi pretoriani e sciamani e survivalisti che tirano su una forca all’ingresso del Congresso per impiccarci i deputati democratici, dal loro amour fou per le armi d’assalto, dalle loro fantasie ufologiche sull’Area 51 e sulla presenza di microchip per il controllo mentale nei vaccini – non c’è da spremere nulla. Peggio: c’è da spremerci troppo. Difficile, anche per un romanziere à sensation, ricavarne qualcosa di buono, o anche solo di ragionevole.
Qui – tocca ammetterlo – la fine della storia evocata da Francis Fukuyama un po’ vacilla: l’aristocrazia delle metafore spionistiche è definitivamente uscita di scena insieme alla lotta di classe, diventata un fenomeno sociologicamente vintage. Al suo posto, «piccola e brutta» come la teologia secondo Walter Benjamin, una parata di seguaci di qualche piccolo Hitler slavo e di tifosi della cancel culture, di fanatici del gender, d’antiabortisti, di leader carismatici senza un filo di carisma. Tutti costoro occupano lo stesso spazio. Sono abitanti d’una Terra ucronica capitati qui attraverso qualche falla dimensionale da videogame. Di questi Visitors gli autori moderni di spy stories non hanno ancora carpito i segreti. Forse perché non ci sono segreti da carpire, e senz’altro perché, a differenza delle vecchie obbedienze, queste nuove sette apocalittiche non hanno nemmeno l’ombra d’una plausibile dimensione metafisica da cui ricavare un normale repertorio romanzesco di tradimenti, vocazioni e fedeltà. Sta di fatto che gli autori di spy stories stentano a cucire una qualunque trama intorno alle guerre palesi e segrete del nuovo millennio. Stanno lì, come pugili suonati, trasformati da romanzieri e registi – eredi di Kipling, di Eric Ambler, di Alfred Hitchcock, di Le Carré e di Len Deighton, di Fritz Lang e di Don Siegel, di Peter O’Donnell e di Jean Bruce – in gazzettieri e moralisti abbacchiati e perplessi. Oggi il Gioco, riflesso d’un mondo pericoloso e comatoso insieme, non è più una Grande Avventura, come all’origine, ma un Lungo Impasse: il Novecento dietro le spalle, il Deserto dei Tartari davanti a sé4.

Il sipario cala dunque sullo scenario del ‘900, sul liberalismo come sul comunismo. Il grande romanzo della Storia e delle sue storie vacilla, con tutte le categorie che ne giustificavano le scientifiche ancorché rigide certezze narrative. Rileggere nelle pagine di Gabutti le vicende vere o immaginarie che hanno nutrito fantasie, complotti e scrittori di serie A, B e Z, potrebbe però stimolare l’immaginazione a ritrovare un filo che, per quanto mai realmente esistito, potrebbe tornare a srotolarsi nelle fantasie dei lettori e degli scrittori (o presunti tali) di oggi e domani. Buona lettura.

N. B.
Il libro, pubblicato nella collana Dissipatio, non è reperibile presso le librerie, ma può essere acquistato online o presso il sito dello stesso editore.


  1. D. Gabutti, Segretissimo, Gruppo Editoriale Magog, Roma 2023, pp. 224-225  

  2. D. Gabutti, op. cit., pp. 226-227  

  3. ivi, p. 228  

  4. ivi, pp. 310-313  

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Il nuovo disordine mondiale/ ieri e oggi: la jihad imperialista https://www.carmillaonline.com/2022/07/06/il-nuovo-disordine-mondiale-ieri-una-jihad-imperialista/ Wed, 06 Jul 2022 20:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=72546 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 566, 32 euro

Arriva in libreria l’unica opera fino ad ora non ancora tradotta in italiano dello storico e giornalista inglese Peter Hopkirk (1930-2014) e dedicata, come tutte le sue precedentemente pubblicate da Adelphi, Mimesis e la stessa Settecolori, al Grande gioco, ovvero al confronto tra grandi potenze e imperi per il controllo dei territori ad oriente della Turchia fino all’Asia Centrale e all’India, vero cuore pulsante dell’impero inglese fino alla seconda guerra mondiale.

Hopkirk, che [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, pp. 566, 32 euro

Arriva in libreria l’unica opera fino ad ora non ancora tradotta in italiano dello storico e giornalista inglese Peter Hopkirk (1930-2014) e dedicata, come tutte le sue precedentemente pubblicate da Adelphi, Mimesis e la stessa Settecolori, al Grande gioco, ovvero al confronto tra grandi potenze e imperi per il controllo dei territori ad oriente della Turchia fino all’Asia Centrale e all’India, vero cuore pulsante dell’impero inglese fino alla seconda guerra mondiale.

Hopkirk, che ha sempre affermato di aver iniziato a scrivere sul Grande gioco a partire dalla lettura di Kim, il capolavoro letterario-avventuroso di Rudyard Kipling, ancora una volta non smentisce la sua abilità nel trattare la materia in esame sia dal punto di vista documentario che da quello letterario, dando vita ad una narrazione in cui storia politico-militare e avventura si fondono in pagine che sicuramente non permettono al lettore di separarsi facilmente dalle stesse.

In questo caso si tratta di analizzare e raccontare lo sforzo che la Germania guglielmina, sul fare e nel corso della Prima Guerra Mondiale, mise in atto per poter scalzare, con l’aiuto dell’allora ancor parzialmente vivo impero ottomano e il richiamo all’islamismo più intransigente, la presenza britannica dai territori del Vicino Oriente, andando però ben oltre i confini e i territori compresi nello stesso.

Organizzata da Berlino, ma scatenata da Costantinopoli, la Guerra Santa era una nuova e più sinistra versione del vecchio Grande Gioco. Combattuta tra i servizi segreti di Re, Kaiser, Sultano e Zar, doveva avere un camppo di battaglia che si estendeva da Costantinopoli a est fino a Kabul e Kashgar, fino alla Persia, al Caucaso e all’Asia centrale russa. Doveva poi allargarsi a tutta l’India britannica e alla Birmania, dove Berlino sperava, con l’aiuto di armi e fondi di contrabbando, di fomentare violente rivolte rivoluzionarie tra le popolazioni locali ribelli, fossero esse musulmane, sikh o indù. Ma i sinuosi tentacoli della cospirazione si protendevano ben oltre le frontiere dell’Asia. Il grande progetto di Berlino comprendeva trafficanti d’armi negli Stati Uniti, un’isola remota al largo della costa sull’Oceano Pacifico del Messico e un poligono di tiro nell’affollata Tottenham Court di Londra, da dove venivano pianificati (e provati) assassini politici. Avrebbe coinvolto golette cariche di una quantità di armi sufficiente a far scoppiare di nuovo la Rivolta Indiana1 e casse di letteratura rivoluzionaria contrabbandate in India con innocue false copertine di classici inglesi2.

Naturalmente gli agenti tedeschi destinati portare a termine un’operazione così ampia, ambiziosa e “rivoluzionaria” dovettero scontrarsi sul campo sia con la determinazione inglese a mantenere il proprio vantaggio, se non di ampliarlo ai danni dell’impero ottomano attraverso l’azione di agenti altrettanto determinati e ambiziosi, quali ad esempio il notissimo colonnello Lawrence meglio noto come Lawrence d’Arabia3, sia con un evento inaspettato come quello rappresentato dalla Rivoluzione russa e dalle sue conseguenze anche su quella parte del continente asiatico4 oltre che con la diffidenza del mondo musulmano per questa ennesima intrusione del mondo cristiano nelle aree in cui il primo era prevalente.

Quel desiderio imperiale dovette poi ancora fare i conti con l’opposizione armena ai desideri di espansione che i tedeschi alimentavano nell’impero ottomano e nei suoi rappresentanti come Enver Pascià, già a capo dei Giovani Turchi e in gran parte responsabile del genocidio armeno (perpetrato tra il 1915 e il 1916) oltre che di quello dei Greci del Ponto (tra il 1914 e il 1923), che suscitò tra la popolazione armena superstite e ancora ben presente in città come Baku la tendenza ad allearsi con i bolscevichi in funzione di difesa nazionale ancor prima che di sollevazione rivoluzionaria. Oppure facendo sì che desiderio di rivalsa e simpatia per il bolscevismo si fondessero in un’unica causa (come nel caso del bagno di sangue a Baku nel 1918, in cui fu distrutta la Divisione Selvaggia turca insieme agli alleati Tartari, ben descritto nel libro di Hopkirk). Motivo per cui lo stesso Ismail Enver, conosciuto anche come Enver Bey, finì i suoi giorni cadendo in combattimento contro il battaglione armeno dell’Armata Rossa bolscevica comandato da Hagop Melkumian il 4 agosto 1922 presso Baldžuan, nella Repubblica Sovietica Popolare di Bukhara (odierno Uzbekistan), durante la rivolta dei Basmachi.

E’ una storia dalle tinte forti, a tratti fosche, quella che ci narra ancora una volta Hopkirk attraverso le pagine di questo libro e, allo stesso tempo, di avventure e di uomini che sembrano usciti dalle pagine di movimentatissimi romanzi di spionaggio. Come lo stesso autore ci suggerisce citando un autore di genere come John Buchan che nel 1916, proprio intorno a quegli eventi, aveva intrecciato quello che è da considerarsi come un thriller immortale: Greenmantle, il secondo di cinque romanzi di John Buchan con protagonista Richard Hannay.

Richard Hannay è uno dei primi eroi seriali dello spionaggio, ben prima dell’esuberante 007 di Ian Fleming o del grigio George Smiley di John le Carré, e di solito si accompagna ad un collega di nome Ludovic “Sandy” Gustavus Arbuthnot che, ci rivela Hopkirk, sembra ritagliato sulla figura del Capitano Edward Noel, uno dei veri protagonisti dell’azione dei servizi segreti inglesi nella regione caucasica e transcaucasica. Che nel libro di Hopkirk è proprio al centro delle vicende che si svolgono a Baku, prima, durante e dopo il cosiddetto “bagno di sangue” cui si è accennato prima.

Così, nel libro di Buchan, Hannay è chiamato a indagare sulle voci di una rivolta nel mondo musulmano e intraprende un pericoloso viaggio attraverso il territorio nemico per incontrare il suo amico Sandy a Costantinopoli. Una volta lì, lui e i suoi amici devono contrastare i piani dei tedeschi di usare la religione per vincere la guerra. Sforzi che raggiungeranno il culmine nel corso dell’offensiva di Erzurum. Durante tale offensiva, portata avanti tra il 10 gennaio 1916 e il 16 febbraio dello stesso anno dall’esercito imperiale russo, le forze dell’Impero ottomano, sorprese nei quartieri invernali, subirono una serie di sconfitte che portarono ad una decisiva vittoria russa.

Il libro di Hopkirk è, ancora una volta, densissimo di fatti, riferimenti, personaggi e documenti; tali da impedire al recensore una narrazione completa degli eventi narrati senza togliere al lettore il piacere della lettura e della progressiva scoperta delle conseguenze di azioni portate avanti da individui che, da soli o in gruppo, attraversano deserti e lande desolate e selvagge a piedi, a cavallo, su sgangherati mezzi di trasporto a motore o a trazione animale o in treno. Oppure che agiscono tra palazzi, ambasciate, uffici dei servizi segreti o vie di città europee o orientali in cui il tradimento e il doppio gioco sono sempre all’ordine del giorno. Ma ciò che appare al recensore attuale particolarmente importante sono alcune riflessioni, direttamente o indirettamente, stimolate dalla lettura dello stesso.

La prima è data dal rapporto tra avventura e imperialismo e colonialismo. Giunti infatti al termine della serie di libri di Hopkirk dedicati al Grande Gioco in tutte le sue sfaccettature, che l’autore stesso dichiara di aver sviluppato a partire dalla lettura di Kim, diventa impossibile non rilevare come proprio il genere avventuroso, in letteratura prima e nel cinema o nelle serie televisive poi, oltre che nei fumetti, affondi le sue radici nell’avventura delle imprese coloniali e imperiali che l’uomo bianco, con la sua cultura, i suoi “nobili ideali” e gli enormi e insaziabili appetiti economici, portò a termine tra il XVIII e il XX secolo ai danni di altri uomini, diversamente colorati, di diversa religione, cultura e interessi economici o organizzazione sociale opposta. I quali, insieme alle loro etnie e società, quando queste non furono del tutto distrutte, ai loro governi, alle loro famiglie, tribù o clan vissero, e ricordano ancora oggi, gli stessi eventi senza l’aura dell’impresa eroica ma soltanto attraverso l’esperienza e il ricordo del sangue e della tragedia. Cosa di cui, oggi, l’occidente sta iniziando a pagare il conto sotto forma di guerre incontrollabili, rivolte sempre più ampie, migrazioni epocali e crisi del proprio sistema economico e politico su scala globale.

Rimanendo ancora per un attimo sul piano della letteratura è allora impossibile non ritornare con la mente a quanto già scrisse profeticamente Ugo Foscolo nel suo romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, ancora all’alba del XIX secolo:

Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America, oh quanto sangue di innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’Oceano portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! Ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno la loro età. Oggi son tiranne, per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco5.

Eppure, eppure…
A distanza di un secolo, oppure anche di secoli, nulla è cambiato.
Come cieche ruote dell’oriuolo gli ingranaggi dei servizi di intelligence (come si usa denominare oggi lo sporco lavoro degli agenti segreti) continuano a macinare intrighi, a programmare assassinii, a giocare sulle divisioni etniche, culturali e religiose per far guadagnare alle diverse potenze in campo qualche fonte di materie prime in più, qualche spostamento di baricentro del potere in Europa o negli altri continenti, a preparare rivolgimenti che, esattamente come un tempo, potrebbero avvenire con risultati ben diversi da quelli sperati.

Mentre i teorici del complotto e del super-imperialismo continuano a discettare della capacità statunitense di dirigere a proprio vantaggio gli affari economici e militari del pianeta, la Storia continua a dimostrare che dirigerla è impossibile, magari prevederla sì, utilizzando i giusti strumenti di analisi e riferimenti di classe, ma non determinarne il corso. E a far le spese di questo gioco incontrollabile sono proprio i presunti artefici dello stesso, in particolare i vari governi susseguitisi negli Stati Uniti dalla caduta del Muro in poi, ma anche prima.

In fragile equilibrio tra potenze emergenti sempre più aggressive e determinate, alcune delle quali ancora esattamente dislocate sui territori già in palio nel Grande Gioco, talvolta imprevedibili nelle scelte e scaltre nel destreggiarsi tra i differenti ruoli che sembrano essere stati assegnati loro da un croupier piuttosto distratto e disordinato (si pensi solo alla Turchia di Erdogan e ai paesi arabi, sempre apparentemente in bilico tra Occidente e Oriente ma sempre più determinati a seguire una propria politica di potenza), gli Stati Uniti sembrano condannati a ripetere non solo gli errori di un passato che ancora li preoccupa (ad esempio la guerra in Vietnam), ma anche quelli altrui.

Come, ad esempio, proprio con la scelta di scatenare una jihad islamica contro i russi, in Afghanistan, che poi si rivolse contro di loro (a partire dalle Torri Gemelle) e contro l’intero Occidente, fino alla catastrofica uscita e disordinata dalla ventennale guerra nello stesso paese, in cui, nel periodo “migliore” riuscirono a mettere al governo un individuo come Hamid Karzai, meglio noto, al di là delle ruberie e della corruzione che lo hanno contraddistinto, come “sindaco di Kabul” più che come presidente di uno stato riformato in chiave moderna. In una storia in cui a farla da padrone è stato l’avventurismo, più che l’avventura.

Ciechi ingranaggi che girano e girano, spesso a vuoto, ma altre volte macinando vite, sangue e risorse, determinati da elementi che vanno ben al di là della volontà dei singoli governi o dei singolo, per quanto spregiudicati, individui. Come anche Lawrence d’Arabia, insieme a molti personaggi di differente nazionalità riproposti da Hopkirk nelle sue ricerche, ebbe modo di scoprire.

Il suicidio dell’Occidente (imperiale e coloniale) passa da lì e la lettura di Hopkirk, anche se indirettamente, ci aiuta a comprenderlo meglio. A patto di saper leggere e studiare invece di vaneggiare di volontà individuale, libertà di scelta, complotti, difesa della patria e svariate altre amenità diversamente proposte dai media mainstream e dalla propaganda politico-ideologica di ogni, nefasto, colore. Soprattutto oggi, in occasione della guerra in Ucraina.


  1. Rivolta antibritannica scoppiata in India nel 1857 che vide protagonisti i cosiddetti sepoy della Bengal Army, ovvero i soldati di origine indiana arruolati nell’esercito inglese – Nota nel Testo. Si veda anche: William Dalrymple, L’assedio di Delhi, Rizzoli, Milano 2007  

  2. Peter Hopkirk, Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, Edizioni Settecolori, Milano 2022, p. 17  

  3. Cui le edizioni Settecolori hanno già dedicato un libro (recensito qui)  

  4. Si veda ancora qui  

  5. Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (edizione definitiva del 1817), (a cura di Mario Puppo), Mursia 1965, decima ristampa 1994, pp. 110-111  

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Kim, prima che l’ipocrisia soffochi il mondo https://www.carmillaonline.com/2021/09/29/kim-prima-che-lipocrisia-sommerga-il-mondo/ Wed, 29 Sep 2021 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68366 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 282, 26,00 euro

Ho letto Kim diverse volte – non so quante – e l’ho portato con me nei miei viaggi. È l’unico libro di prosa che si può aprire a caso, a qualsiasi pagina, e ricominciare a leggere con lo stesso piacere che se fosse poesia. (Wilfred Thesiger)

Un amico torinese, scrittore, saggista e recensore inveterato, ha definito Kim come il più bel romanzo di avventura che sia mai stato scritto. [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Sulle tracce di Kim. Il Grande Gioco nell’India di Kipling, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 282, 26,00 euro

Ho letto Kim diverse volte – non so quante – e l’ho portato con me nei miei viaggi.
È l’unico libro di prosa che si può aprire a caso, a qualsiasi pagina, e ricominciare a leggere con lo stesso piacere che se fosse poesia.
(Wilfred Thesiger)

Un amico torinese, scrittore, saggista e recensore inveterato, ha definito Kim come il più bel romanzo di avventura che sia mai stato scritto. Certamente l’opera di Rudyard Kipling lo è, ma è anche molto di più: un magnifico romanzo di formazione, un grande affresco storico e antropologico sull’India coloniale e i giochi delle grandi potenze imperialistiche che si svolsero ai suoi confini e al suo interno. Intorno ai personaggi principali, infatti, si sovrappongono, talvolta nell’ombra e talaltra alla luce del sole, i maneggi di spie e avventurieri che incrociano, non sempre solo virtualmente, le loro armi nel tentativo di difendere o indebolire il dominio britannico sul subcontinente indiano e le sue propaggini centro asiatiche.

Ora, prima che sia costituito qualche nuovo ministero da Minculpop perbenista e politically correct destinato a proibire la circolazione e la lettura di un libro scritto da un autore “colonialista”, varrebbe la pena di scoprire quanti di quei personaggi (il curatore del museo di Lahore, il vecchi lama tibetano, i rappresentanti dei servizi segreti inglesi, le spie francesi al soldo dello zar, commercianti e ladri di cavalli, anziane donne indiane autoritarie ma benevole e molti altri ancora) avessero radici e riferimenti in personaggi reali, oltre che in fatti e vicende appartenenti alla dinamica del Grande Gioco ovvero all’infinito sotterraneo conflitto che vide coinvolte, tra l’inizio del XIX secolo e la prima metà del XX secolo Russia e Gran Bretagna per il controllo del grande nulla costituito dall’Asia centrale e dalle aree confinanti con l’India, il Pakistan e il Tibet attuali.

Vicende interessanti soprattutto per chi, ancora oggi e con attori parzialmente cambiati (USA e Cina oltre che la Russia di Putin), si interessi alle vicende centro-asiatiche, e afghane in particolare. Che, al di là del miserrimo e ipocrita discorso liberal sui diritti umani e il politically correct, continuano a sgranare il loro rosario di conflitti, voltafaccia, tradimenti, morti, violenze, contraddizioni, false informazioni, contrasti religiosi e ideologici e, perché no, speranze per le irriducibili popolazioni locali.

Peter Hopkirk, che prima di affermarsi come saggista storico con i volumi che dedicò al Grande Gioco e ai suoi preamboli ed aspetti avventurosi, di cui Sulle tracce di Kim costituì il sesto e ultimo1, fu ufficiale dell’esercito britannico, viaggiatore e reporter per la «Independent Television News», corrispondente da New York per il «Sunday Express» ed in seguito giornalista, per quasi vent’anni, del «Times», cinque come capo reporter e poi come specialista del Medio ed Estremo Oriente (aree che aveva conosciuto personalmente girovagando a lungo tra Russia, Asia Centrale, Caucaso, Cina, India e Pakistan, Iran e Turchia orientale.

Sostenne sempre che ad ispirare questa sua passione fosse stata proprio la lettura del romanzo di Kipling, cui volle dedicare la sua ultima fatica saggistica. Romanzo che, a sua volta, era strettamente ispirato alle vicende famigliari e d’infanzia dello stesso Kipling, visto, ad esempio, come sia facilmente riconoscibile la figura del padre dell’autore nel personaggio del curatore del Museo di Lahore (la Casa delle Meraviglie) che compare nelle prime pagine del romanzo.

Uomo colto, conoscitore delle culture locali, affascinato dall’arte e dal pensiero buddista, in qualche modo sembra rivelare il cuore dell’attenzione di Kipling per il subcontinente e le sue genti, anche se lo stesso autore fu forse l’inventore del termine Grande Gioco per definire lo scontro tra potenze per il suo controllo e possesso e, ancor peggio, il teorizzatore del white man burden (il fardello dell’uomo bianco) con cui l’Occidente, compresa la sua componente socialdemocratica e socialista, spesso guardò a quello e ad altri nell’intento di giustificare come missione (non si parla forse ancora oggi di missioni di pace e di soccorso oppure di polizia quando si tratta di operare in aree poste al di fuori dei confini ufficiai dell’Occidente?) l’opera predatoria messa in atto di popoli e continenti non bianchi.

Eppure, eppure…
Basterebbe scorrere le pagine di Kim, con un minimo di attenzione, per cogliere il realismo e il rispetto con cui vengono descritti non solo i personaggi principali, ma anche quelli secondari e minori che si incontrano lungo l’interminabile viaggio sulla Grand Trunk Road2 che il giovane protagonista intraprende come servitore, astuto e fedele, di un vecchio lama tibetano intento a visitare, prima di morire, i Quattro Luoghi Sacri e a voler scoprire il fiume da cui tutto ha avuto origine.
Pagine e vicende che, come afferma Hopkirk nel Prologo, hanno colpito non soltanto lui ma tantissimi altri lettori di formazione e convinzioni molte lontane tra loro.

L’indirizzo della mia vita lo devo molto alla lettura da giovane del capolavoro di Kipling. Perché è stato proprio Kim, non riesco neppure a ricordare quanti anni fa, a introdurmi per la prima volta nel mondo intrigante del Grande Gioco. Per l’impressionabile e fantasticante ragazzo di tredici anni qual ero – la stessa età di Kim – le attività misteriose, per non dire torbide, di uomini come il colonnello Creighton, Mahbub Ali e Lurgan Sahib erano davvero roba forte. Dopotutto, si era al tempo in cui la Gran Bretagna governava ancora l’India, e molte altre parti del mondo, per cui quasi tutto pareva possibile.
Ero così stregato da questa mia sbirciata dentro i maneggi del servizio segreto indiano che mi portavo sempre dietro, dovunque andassi, una copia di Kim, anche se tante cose non le avevo capite. Perché Kim, nonostante molti non lo sappiano, non è un libro per ragazzi. E in effetti, all’età di tredici anni, ero ben lontano dal capire di cosa veramente si trattasse dicendo Grande Gioco, «che mai cessa di giorno e di notte». Ciò nonostante, quello che appariva era incredibilmente eccitante, e io anelavo di saperne di più. La ricerca sarebbe durata per tutta la vita, e dura ancora.
Scoprii poi che non ero il solo ad essermi appassionato a Kim. Wilfred Thesiger ci dice che raramente si è messo in viaggio senza una copia di questo libro nella bisaccia, mentre T.S. Eliot lo leggeva a voce alta a sua moglie certe sere, giusto per il piacere di sentire il suo linguaggio. Mark Twain disse che lo leggeva da capo ogni anno […] E io una volta ho sentito dire da Tarik Ali,
quell’ex-fustigatore dell’establishment britannico, che Kim era il libro che amava di più quando stava a Lahore, dove anche lui era cresciuto, come Kim3.

Ma chi volesse vedere nell’opera di Kipling, e nella lettura attenta che ne fa Hopkirk, soltanto un segno del paternalismo occidentale nei confronti dei sottoposti o degli ex-tali, dovrebbe fare i conti anche con l’attenzione che l’autore di Kim pone alla presentazione delle culture e delle arti locali. Ad esempio quando l’Amico del Mondo (uno dei tanti soprannomi assegnati al giovane protagonista) entra con il lama nel museo di Lahore: «Nel salone di ingresso erano esposte le figure più grandi della statuaria greco-buddhista; datarle è impresa da eruditi – opera di artefici anonimi dalle mani impegnate a ritrovare, non senza maestria, il tocco greco misteriosamente trasmesso»4.
Tema che sarai poi ripreso, in un’altra delle sue ricerche, dallo stesso Hopkirk.
La vera base di partenza per la diffusione del buddhismo in Cina, ci spiega infatti l’autore inglese

fu in realtà il regno buddhista di Gandhara situato nella valle di Peshawar, che appartiene oggi al Pakistan nordoccidentale. In questi luoghi si era già realizzata un’altra fusione artistica, tra l’arte buddhista indiana importata dai dominatori Kushan (discendenti degli Yueh-chih) nel I secolo d.C. e l’arte greca, introdotta in quella regione quattro secoli prima da Alessandro il Grande.
Il più rivoluzionario prodotto di questa scuola greco-buddhista, o gandharana, fu la raffigurazione del Buddha in forme umane. Era la prima volta che degli artisti si permettevano di rappresentarlo in questo modo […] I primi viaggiatori occidentali che nell’Ottocento raggiunsero la regione di Gandhara dall’India restarono stupefatti alla vista di quest’arte così differente dalle forme dell’arte religiosa indiana alla quale erano abituati. Nella precipitazione con cui si cercò di ottenere campioni di quell’arte per musei e collezioni, furono inflitti a siti e templi irreparabili danni5.

Metafora di tutti i successivi danni causati dal colonialismo occidentale in India e nelle regioni limitrofe (e già abbondantemente segnalati da Marx ed Engels nei loro scritti sull’India e la Cina6), le descrizioni di Hopkirk (e di Kipling) ci parlano dei tempi lunghi della Storia, degli incontri tra culture e civiltà diverse, segnalandoci, se abbiamo orecchie ed occhi per comprenderlo, che tutto quanto sta avvenendo oggi nell’area centro-asiatica ha una lunga storia pregressa con cui occorrerebbe fare i conti e conoscere nel dettaglio. Magari anche prima di lanciarsi in campagne militari destinate alla sconfitta fin dall’inizio. Proprio come quella occidentale in Afghanistan.

Ora, ed è questo il punto principale di questa riflessione, il vento di revisionismo che percorre il pensiero liberal e una certa sinistra immediatista, che in nome di un loro ipotetico superamento “volontario” intende rimuovere ogni ricordo del passato o dell’attuale regime di differenziazione tra le classi, i generi e gruppi etnici e culturali, rischia di non far altro che nascondere e rimuovere le infinite contraddizioni, passate e attuali, su cui si fonda ogni regime di oppressione di classe, razza e genere.

Il rischio è costituito, infatti, dal fatto che, passato il momento della rivolta generalizzata e “illegale” durante la quale, giustamente, statue e immagini di dittatori, schiavisti e generali vengono bruciate o abbattute, si pensi di cancellare le contraddizioni reali e persistenti con un volontaristico e “legalitario” colpo di spugna ed un mea culpa generalizzato e infingardo. Rintracciabili, soltanto per fare due esempi, tanto in dichiarazioni come quella rilasciata in un tweet dall’attrice americana Rosanna Arquette («Sono dispiaciuta di essere nata bianca e privilegiata, Mi disgusta. Mi vergogno molto»), quanto nell’abito indossato dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez in occasione di un (ricco) meeting di gala per la raccolta fondi (Met Gala), considerato l’evento mondano più importante di New York, una serata di “beneficenza” da 30mila dollari a biglietto organizzata dalla direttrice di «Vogue» Anna Wintour. Abito di alta sartoria sul quale era scritto provocatoriamente (?), con grandi lettere rosse, Tax the rich (tassate i ricchi).

La rivolta e la protesta vengono così sostituite dagli atti di contrizione, cui già spesso ci hanno abituato i social7, oppure dalla loro formale spettacolarizzazione mediatica attraverso logo e frasi ad effetto.
Una furbesca operazione di disarmo delle lotte che attraverso l’eliminazione di film, opere letterarie ed altro8 non fa altro che prolungare l’esistenza di violenza, oppressione e ingiustizia semplicemente nascondendo, nel più borghese ed opportunista dei modi, la polvere sotto il tappeto del salotto buono.
La finta intolleranza, che non passa attraverso la lotta aperta e dichiarata, finisce infatti col creare nuova tolleranza nei confronti delle ingiustizie, ben più profonde e radicate che nelle pagine di un romanzo o tra le immagini di un film (dove quasi sempre sono spesso più evidenti proprio perché date per scontate).

Noi, che crediamo che l’attuale modo di produzione abbia bisogno di ben altre iniziative per poter essere negato e rovesciato, continueremo a leggere con attenzione le opere che di tali violenze ed ingiustizie ci parlano, anche e forse soprattutto indirettamente, a distanza di decenni o di secoli da quelle stesse. Per questo vale ancora la pena di leggere la dettagliata ricostruzione storica di Hopkirk e lo stesso romanzo da cui ha tratto ispirazione, prima che nelle biblioteche, solo per fare un’ipotesi banale, siano soltanto più rintracciabili le opere di Elena Ferrante (guarda caso, quest’ultima, autrice prediletta da Hillary Clinton).

Era seduto, in barba alle ordinanze municipali, a cavallo del cannone Zam-Zammah che su un basamento di mattoni fronteggiava il vecchio Ajaib-gher, la Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il museo di Lahore. Chi detiene Zam-Zammah, il «drago sputafuoco», tiene il Punjab, e quel gran pezzo di bronzo verde è sempre stato la preda più ambita del conquistatore.
A parziale giustificazione di Kim – che aveva cacciato il figlio di Lala Dinanath giù dall’affusto – c’era il fatto che gli inglesi tenevano il Punjab, e Kim era inglese. Pur essendo un tizzo nero almeno quanto un indigeno; pur parlando di preferenza il vernacolo, e la lingua madre con un’incerta, zoppicante cantilena; pur facendo comunella su un piano di perfetta parità con i ragazzini del bazar, Kim era bianco…un bianco povero tra i più poveri. La mezzosangue che badava a lui (fumava oppio e faceva mostra di tenere una bottega di mobili usati vicino alla piazza dove stazionavano le vetture da nolo a buon mercato) raccontava a i missionari di essere la sorella della madre di Kim; in realtà la madre del ragazzo aveva fatto la bambinaia presso la famiglia di un colonnello e aveva sposato Kimball O’Hara, giovane sergente portabandiera dei Maverick, un reggimento irlandese. In seguito O’Hara aveva trovato impiego alla Sind, Punjab and Delhi Railway, e il reggimento era tornato in patria senza di lui. La moglie era morta di colera a Ferozepore e O’Hara si era messo a bere e vagabondare su e giù lungo la linea ferroviaria assieme al figlio, un bimbo di tre anni con due occhi vispi. Istituti e cappellani, preoccupati per il piccolo, avevano cercato di sottrarglielo, ma O’Hara aveva preso il largo fino a quando, incontrata la donna che faceva uso di oppio, ci aveva preso gusto anche lui ed era morto come muoiono i bianchi poveri in India 9.

Questo l’incipit del grande romanzo e della contraddizione che il giovane protagonista vivrà sempre nella sua appartenenza a due mondi, entrambi poveri e complessi.


  1. Peter Hopkirk: Diavoli stranieri sulla Via della Seta. La ricerca dei tesori perduti dell’Asia Centrale (Foreign Devils on the Silk Road: The Search for the Lost Cities and Treasures of the Chinese Central Asia, 1980), Adelphi, Milano 2006; Alla conquista di Lhasa (Trespassers on the Roof of the World: The Secret Exploration of Tibet, 1982), Adelphi, Milano 2008; Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia (Setting the East Ablaze: Lenin’s Dream of an Empire in Asia, 1984), Mimesis, Milano-Udine, 2021 (già recensito su Carmilla qui); Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale (The Great Game: On Secret Service in High Asia, 1990), Adelphi, Milano 2004; On Secret Service East of Constantinople: The Plot to Bring Down the British Empire, 1994. [pubblicato negli USA nel 1995 col titolo Like Hidden Fire]; Quest for Kim: in Search of Kipling’s Great Game, 1996.  

  2. Conosciuta anche come Uttarapath, Sarak-e-Azam, Badshahi Sarak, Sarak-e-Sher Shah è una delle strade più antiche e più lunghe dell’Asia. Per almeno 2.500 anni, ha collegato l’Asia centrale con il subcontinente indiano. Si sviluppa per 2.400 km (1.491 miglia) da Teknaf, dal confine con il Myanmar a ovest di Kabul, passando per Chittagong e Dhaka in Bangladesh, Calcutta, Allahabad, Delhi e Amritsar, in India, e Lahore, Rawalpindi,e Peshawar in Pakistan.  

  3. Peter Hopkirk, Prologo. Qui comincia il Grande Gioco in Sulle tracce di Kim, Edizioni Settecolori, Milano 2021, pp. 13-14  

  4. Rudyard Kipling, Kim, Adelphi, Milano 2000, p.17  

  5. Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, Adelphi, Milano 2006, p. 45  

  6. Raccolti a cura di Bruno Maffi in K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia, il Saggiatore, Milano 1960  

  7. Si veda qui su Carmilla  

  8. A quando la cancellazione del XXXIII canto dell’Inferno dantesco, quello del conte Ugolino (mai letto, guarda caso, in tv dal servile e liberalissimo Roberto Benigni), per l’insopportabile violenza sui minori in esso descritta?  

  9. R. Kipling, Kim, op. cit., pp. 11-12  

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