romanzo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 05:01:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Rose is a rose, is a rose, is a rose. https://www.carmillaonline.com/2024/06/21/rose-is-a-rose-is-a-rose-is-a-rose/ Thu, 20 Jun 2024 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82957 di Anna Di Gianantonio

Il libro di Michele Guerra, Il mio nome è Rosa Parks, MdS editore, euro 16 è ambientato a Monfalcone, la città del grande Cantiere navale, dove lavorano fianco a fianco operai italiani, provenienti dal meridione e lavoratori dei paesi dell’est e soprattutto del Bangladesh. Nel tempo gli operai italiani si sono ridotti ed è cresciuta la forza lavoro straniera, assunta in ditte d’appalto e di subappalto, dove i caporali impongono la “paga globale” e i lavori più pesanti e nocivi con il ricatto del licenziamento e la conseguente perdita del permesso di soggiorno. La [...]]]> di Anna Di Gianantonio

Il libro di Michele Guerra, Il mio nome è Rosa Parks, MdS editore, euro 16 è ambientato a Monfalcone, la città del grande Cantiere navale, dove lavorano fianco a fianco operai italiani, provenienti dal meridione e lavoratori dei paesi dell’est e soprattutto del Bangladesh. Nel tempo gli operai italiani si sono ridotti ed è cresciuta la forza lavoro straniera, assunta in ditte d’appalto e di subappalto, dove i caporali impongono la “paga globale” e i lavori più pesanti e nocivi con il ricatto del licenziamento e la conseguente perdita del permesso di soggiorno. La paga globale è un meccanismo di retribuzione forfettario in cui non sono contemplate ferie, tredicesima e straordinari. Se un lavoratore Fincantieri costa 55 mila euro all’anno, un operaio degli appalti solo 30-35 mila. Il risparmio per l’azienda calcolato su migliaia di lavoratori negli stabilimenti navali di tutta Italia è enorme; va considerato che Fincantieri non è una ditta privata ma è controllata al 71% dal Ministero dell’Economia e Finanze attraverso Cassa depositi e prestiti.

Il “sistema Fincantieri” è stato denunciato dai lavoratori della FIOM di Marghera. E’ in corso in questi mesi un processo che vede imputati 12 dirigenti insieme ai titolari delle ditte d’appalto per sfruttamento dei lavoratori, caporalato e corruzione. Mentre Marghera denuncia, Monfalcone, non si sa perché, tace. In questo contesto economico si muovono i protagonisti del racconto, Rosa e i suoi amici, il marocchino Ahmed e il bengalese Mijib. A Monfalcone c’è una amministrazione retta da una sindaca che si batte contro l’immigrazione, limita la presenza dei bambini stranieri nelle scuole, odia l’islam e impedisce la costruzione di una moschea, spaccia l’ostilità contro lo straniero con la difesa delle donne, che avendo il velo sono sicuramente oppresse, oggetto di violenza e di emarginazione. Il conflitto è continuo e costante e ha sullo sfondo la difesa della cultura occidentale, la paura della sostituzione etnica, la volontà di tenere comunque subordinata la comunità bengalese.

La tradizione di roccaforte della sinistra a Monfalcone sembra scomparsa, dimenticate le lotte operaie che, dal secondo dopoguerra, hanno visto l’egemonia sulla cittadina della classe operaia e archiviati i 503 lavoratori del Cantiere morti durante la Resistenza.

La professoressa dei tre ragazzi, per reazione alla nuova politica leghista, adotta una sua forma di resistenza: parla del colonialismo e della liberazione degli schiavi d’America, delle lotte dei neri, di personaggi come Angela Davis e George Jackson, infiammando l’immaginario degli amici. Rosa decide di farsi chiamare Parks, come l’attivista nera del 1953. Con i suoi eroi di colore raffigurati nei poster della sua cameretta inizia un dialogo immaginario. Ciascuno di noi – secondo Michele Guerra – ha bisogno di sentirsi parte di qualcosa che abbia prodotto un cambiamento effettivo sulla pelle dell’umanità cui apparteniamo (pag. 224).

I tre amici si pongono l’obiettivo di mettere fuori gioco gli spacciatori della yaba, la droga che tiene in piedi il ciclo produttivo delle navi, perché permette di lavorare senza sosta per 10 o 12 ore, anche se il suo uso causa incidenti sul lavoro e danni irreversibili. Ma intanto è funzionale a costruire le grandi navi e ad aumentare i profitti di Fincantieri, dunque viene spacciata senza troppi problemi.

Chi sono i pusher e da chi dipendono è parte di una trama piena di colpi di scena che il lettore assaporerà nel corso della lettura.
Guerra non si limita a rintracciare la coscienza di classe dei giovani nel mondo d’oltreoceano, ma ha il grandissimo pregio di legare le lotte del passato del territorio a quelle del presente, dimostrando che oggi, nel qui e ora, convivono vecchi e vecchie che hanno combattuto in modo diverso per gli stessi obiettivi. Dunque la storia inizia raccontando la vicenda delle giovanissime donne antifasciste della Venezia Giulia nella lotta che non ha l’eguale nel resto d’Italia, perché combattuta fianco a fianco da italiani e sloveni a partire dal 1941, data dell’invasione italiana del regno jugoslavo. Leggiamo così la storia di Alma Vivoda, militante antifascista uccisa nel giugno 1943, delle amiche Pierina Chinchio, Olga Camolese e Ondina Peteani. Di quest’ultima Guerra ricostruisce la drammatica storia personale e politica. Olga, nome di battaglia “Pupa” e Ondina, nome di battaglia “Natalia”, sono assieme nella prima battaglia partigiana d’Italia, la battaglia di Gorizia, in cui un migliaio di operai monfalconesi si batterono per impedire l’occupazione tedesca, immediatamente dopo l’8 settembre. Una lotta straordinaria, che pochi fuori dalla Venezia Giulia conoscono.

La battaglia di Gorizia e la storia di Ondina/Natalia viene narrata nel romanzo da un giovane partigiano, nonno di Manuela avvocata, che con la collega Sarasta indagando sulle molteplici forme di sfruttamento e ricatto che gli operai subiscono in fabbrica. Un giorno Rosa va in ospedale dove il vecchio partigiano è ricoverato e lui crede di riconoscere in lei Ondina/Natalia che è finalmente tornata a trovarlo. Rosa è Ondina, Ondina è Rosa: in effetti hanno molto in comune e il vecchio è sicuro che si tratti della stessa persona. Anche qui Michele Guerra ci colpisce, perché ci fa comprendere il tema del riconoscimento. Nel rapporto tra le vecchie generazioni e i soggetti non si tratta – come spesso diciamo – di passare un testimone, azione che si fa correndo avanti e passandosi di mano, senza neppure guardarsi, un tubo vuoto, ma è invece “essere se stessi in un estraneo”, riconoscere la propria identità dall’altra persona senza perdere la propria e sapendo che è dalla relazione che tutto inizia, la vita dell’individuo e la storia.

Non pensiamo che il racconto abbia un lieto fine. Michele ci spiazza e rimescola le carte, perché tutto si può capovolgere: la tessitura della storia non è lineare e ogni vittima può diventare il più odioso e sanguinario carnefice di oggi.

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Su “Grave disordine con delitto e fuga” di Ezio Sinigaglia https://www.carmillaonline.com/2024/06/17/su-grave-disordine-con-delitto-e-fuga-di-ezio-sinigaglia/ Mon, 17 Jun 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83063 di Serena Penni

Ezio Sinigaglia, Grave disordine con delitto e fuga, Terrarossa, Bari, 2024, pp. 105, euro 14,00.

Grave disordine con delitto e fuga, l’ultimo romanzo di Ezio Sinigaglia, racconta la storia di un incontro tra due mondi, tra due realtà sociali e culturali diametralmente opposte. L’ingegner De Rossi, degno rappresentante dell’alta borghesia, incrocia infatti il suo destino con quello di Michelangelo detto Jimmy, fattorino della ditta di cui l’ingegner De Rossi è a capo. Quest’ultimo sembra riassumere in sé tutte le virtù possibili: la bellezza, la grazia, la gentilezza, l’empatia nei confronti del prossimo. L’altro appare invece, sulle prime, come il classico [...]]]> di Serena Penni

Ezio Sinigaglia, Grave disordine con delitto e fuga, Terrarossa, Bari, 2024, pp. 105, euro 14,00.

Grave disordine con delitto e fuga, l’ultimo romanzo di Ezio Sinigaglia, racconta la storia di un incontro tra due mondi, tra due realtà sociali e culturali diametralmente opposte. L’ingegner De Rossi, degno rappresentante dell’alta borghesia, incrocia infatti il suo destino con quello di Michelangelo detto Jimmy, fattorino della ditta di cui l’ingegner De Rossi è a capo. Quest’ultimo sembra riassumere in sé tutte le virtù possibili: la bellezza, la grazia, la gentilezza, l’empatia nei confronti del prossimo. L’altro appare invece, sulle prime, come il classico uomo tutto d’un pezzo: un tempo cocco di mamma, oggi è marito e padre accorto e premuroso, dirigente dotato di senso degli affari e abilità manageriali. Ma, come sempre accade in Sinigaglia, le cose non sono come sembrano, e i ruoli dei personaggi vedono sfumare progressivamente i loro confini, fino a perdersi in una nebulosa di desideri più o meno consapevoli, di istinti più o meno repressi, di verità più o meno rivelate. Grave disordine con delitto e fuga mette in scena i giochi di potere che hanno luogo tra due personalità complesse e contorte. Il mondo di carta che l’ingegner De Rossi ha costruito attorno a sé crolla solo apparentemente all’improvviso, dal momento che il personaggio, in qualche modo, ha come inconsciamente preparato la propria caduta da tempo immemorabile. Ma anche la maschera di Michelangelo-Jimmy è destinata a sgretolarsi, e pure in questo caso si ha l’impressione che tale disfacimento covasse i propri germi da mesi, forse da anni. Nel racconto di Sinigaglia si sente senz’altro l’eco dei personaggi inventati da Pasolini; Jimmy appare come una sorta di ragazzo di vita, ma più disincantato, disilluso; a suo modo più colpevole. Si intuisce anche il riverbero dei romanzi e dei racconti di Moravia: l’ingegner De Rossi richiama in parte il Michele degli Indifferenti, ma rispetto a lui è meno cosciente dei propri limiti, e ripone troppa fiducia nella classe sociale di appartenenza, che tuttavia non lo salva di fronte a sé stesso. Come non citare poi Gadda? Il disordine del titolo richiama alla mente il “pasticciaccio”: in entrambi i casi, ci troviamo di fronte a matasse che non si sbrogliano ma, per quanto riguarda il lavoro di Sinigaglia, la responsabilità della matassa è da ricercarsi proprio nelle psicologie dei personaggi, divorati progressivamente dalla loro ombra, che a tempo debito non sono stati in grado di accogliere.

Sullo sfondo ci sono i deboli, le creature fragili, le vittime innocenti. La moglie dell’ingegner De Rossi, il suo bambino, il suo gattino. Ma esistono davvero esseri privi di colpa? Sinigaglia, con toni ironici e irriverenti, pare gettare su tutti il dubbio del peccato originale. Gli innocenti forse non sono davvero tali perché non hanno saputo o voluto osservare, capire, impedire, così come i colpevoli non sono del tutto colpevoli perché la loro aggressività è frutto della loro stessa disperazione. L’amore ha tante facce quante ne ha la crudeltà; il bisogno di affetto ha tanti simboli quanti ne hanno la rabbia, il cupio dissolvi, la volontà di distruggere e di distruggersi. Il sesso ha tante possibilità quante sono le sfaccettature dell’animo umano.

Il cliché della “moglie in vacanza” è qui richiamato per essere stravolto: la signora De Rossi se n’è andata per assistere il fratello, che ha fatto l’ennesimo incidente, l’ennesima sciocchezza, l’ennesima spacconata da enfant gâté ormai troppo cresciuto. La donna ha portato con sé il bambino e, com’era prevedibile, ha lasciato il gatto – creatura, quest’ultima, tanto graziosa quanto selvatica. E sarà proprio la tenera bestiola ad assumere il ruolo di vittima sacrificale. Il vuoto temporaneo che la signora lascia non apre infatti il varco a scappatelle inconsistenti e ludiche, da “commedia all’italiana” o B-movies, ma, al contrario, funge da viatico al disvelarsi di sentimenti e conflittualità che attingono alle parti più recondite degli animi dell’ingegner De Rossi e del suo fattorino Michelangelo-Jimmy. Tornare indietro poi non sarà più possibile. La vita di tutti loro, lo si intuisce, non sarà mai più la stessa, anche se i gesti, i luoghi, i modi e i riti probabilmente non cambieranno.

Anche in questo romanzo di Sinigaglia, come già nei precedenti, colpiscono il ricorso frequente all’ironia, l’approccio dissacrante con cui il narratore osserva i suoi personaggi, raccontandoci il loro progressivo, doloroso avvicinamento a sé stessi con un linguaggio polimorfo e sapientemente cangiante.

Michelangelo-Jimmy, il cui nome di battesimo viene descritto dall’autore come “un po’ pretenzioso, come spesso accade nelle famiglie modeste e nascostamente ambiziose” e che, storpiato in Jimmy, sembra già alludere alla sua natura doppia e bifronte, fa venire in mente i protagonisti de L’amore al fiume (e altri amori corti), dello stesso autore, uscito per Wojtek nel 2023: anche in quest’opera si incontravano giovani alle prese con la conoscenza, faticosa e intrigante insieme, della propria sessualità, del loro stesso modo di essere.

In questo suo ultimo romanzo Sinigaglia dà prova, una volta di più, di essere un profondo conoscitore dell’animo umano, che racconta con distacco e ironia ma anche con un senso forte di vicinanza ai suoi simili, siano essi angeli o bestie. Si tratta di una prova molto felice che si somma alla ricca e cospicua produzione dell’autore, e che merita senza dubbio l’attenzione dei lettori.

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Cronache dal dopo vita https://www.carmillaonline.com/2024/06/03/cronache-dal-dopo-vita/ Mon, 03 Jun 2024 20:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82790 di Giovanni Iozzoli

[In occasione dell’uscita del nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli, Cronache dal dopo vita (Jack Edizioni, 2024), si riporta un breve stralcio, ringraziando l’editore per la gentile concessione. g.i.]

“Beniamino l’aveva spiegata bene. La gente era cambiata e l’essenza di quel luogo era indecifrabile, per uno come me, diventato sostanzialmente forestiero. Nonostante però una inevitabile atmosfera di decadenza – dovuta anche alla grande crisi dell’agricoltura dell’agro e a un certo sfaldamento della comunità che si respirava nell’aria – Frusciano non era in preda al degrado, come altri paesoni vicini.  Non era seppellita dai rifiuti, i cornicioni svirgolati non crollavano [...]]]> di Giovanni Iozzoli

[In occasione dell’uscita del nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli, Cronache dal dopo vita (Jack Edizioni, 2024), si riporta un breve stralcio, ringraziando l’editore per la gentile concessione. g.i.]

“Beniamino l’aveva spiegata bene. La gente era cambiata e l’essenza di quel luogo era indecifrabile, per uno come me, diventato sostanzialmente forestiero. Nonostante però una inevitabile atmosfera di decadenza – dovuta anche alla grande crisi dell’agricoltura dell’agro e a un certo sfaldamento della comunità che si respirava nell’aria – Frusciano non era in preda al degrado, come altri paesoni vicini.  Non era seppellita dai rifiuti, i cornicioni svirgolati non crollavano sulla testa dei passanti, non si registravano percentuali vertiginose di abbandono scolastico. Forse per le sue dimensioni – troppo piccola e tutto sommato poco appetibile -, Frusciano aveva resistito alla malefica forza di attrazione della megalopoli, non era ancora stata assorbita nella vasta fascia gravitazionale dell’hinterland napoletano.

– Ste’, te lo ricordi Michele?

– Chi?

– Michele o’ Poeta.

– Perché me lo chiedi?

– Così, mi è tornato in mente. Che nostalgia. Qualche volta arrivava fino a qua, si infilava pure in chiesa. Ogni tanto recitava per un pubblico immaginario, sulle scale della Madonna Ausiliatrice. Povero Michele.

Certo che me lo ricordo. La persona più savia del paese. Si aggirava per la campagne, povero poeta ignorato e vilipeso, nel ’74 o nel ’75, con i capelli sporchi e i vestiti laceri, e le braccia aperte, come a catturare l’aria, e si crogiolava in mezzo all’odore di verderame: questo, questo è il ventre del mediterraneo, questo è il ventre caldo d’Europa, questo è l’ultimo pezzo di cervice della Magna Grecia, questa è la terra del fecondo segreto, urlava ridendo; e roteava su se stesso come un derviscio, mentre gli zappatori lo irridevano bonari – Michè, va ‘a faticà – e lui si beava nel vedere le loro pose languide e naturali, appoggiati a una zappa o a un bastone, come tanti modelli naturali di arte figurativa sfuggiti a un museo. E loro non capivano l’importanza di Michele, il pazzo poeta che ogni paese deve avere, e la loro stessa importanza, la loro postura gloriosa in quella specie di presepe di Capodimonte che stava sgretolandosi sotto il sole dei giorni impietosi. La Campania infelix stava divorando i residui brandelli di Magna Grecia, e Michele piangeva e rideva, per essere l’ultimo, anzi l’unico testimone consapevole di quel ritiro, di quella mollezza.

Beniamino mi racconta gli ultimi frammenti della sua storia, che io non potevo conoscere.

Michele fu oltraggiato da un TSO verso la metà degli anni 80. Aveva rubato un coniglio da una gabbia e pretendeva di liberare anche un grosso maiale di un agricoltore suo vicino, che lo conosceva da quando era piccolo. Tutti erano disposti a sorvolare sulle sue mattane, sui suoi schiamazzi, ma la roba no: non la doveva toccare.

Rimase recluso per un periodo di alcuni mesi e quando uscì non era più lucido, nè autosufficiente – ma qualcuno sostiene, ancora più ferocemente poeta. Non sembrava più in grado di raccogliere i suoi versi, almeno un minimo, in modo precario e provvisorio, com’era abituato a fare prima della sua “malattia”. Non scriveva. Anzi non declamava neanche. Adesso la poesia era diventata la sua natura, il suo gesto, i suoi vestiti lisi, i suoi capelli sporchi. Non si poteva separare la poesia da o’ Poeta. Non la si poteva distillare.  Forse un grande pittore – anch’esso rigorosamente pazzo – avrebbe potuto catturare qualche lampo di luce, negli occhi verdi di Michele – e quello era il massimo che avrebbe potuto concedere. Ma dove lo si poteva trovare un pittore pazzo che ritrae un poeta pazzo, nei tempi amari di fine anni 80, in mezzo alle campagne fruscianesi in dismissione?

– Michele, una volta al mese, andava a trovare tua zia. Una volta al mese.

– Che ne sai tu?

– Io so tutto. Anche troppo, so. Per quello ogni tanto sto male. Sapessi meno, vivrei meglio.

– Che andava a fare da mia zia? Lui era un beat di campagna. Che c’entrava cu zi’ Pasqualina?

– Lui era un illuminato. Vedeva le cose che noi non vediamo. Perciò scriveva poesie. Forse andava da tua zia perché sentiva che era come lui.

Me lo immagino, Michele. Tutto stracciato e puzzolente, con una scarpa sola, che va a bussare al basso di Pasqualina Iovene. E lei gli apre, sorride e non dice niente. Michele si siede sul gradino basso della soglia, a grattarsi e guardare il cielo ancora azzurro; lei esce cu na’ tazzulella e ‘cafè in mano e si siede anche lei, sulla vecchia sedia impagliata; e non si parlano, non si guardano neanche – Michele scrive le sue poesie nell’aria, con il dito. Poi fa un segno a Pasqualina, che sorride e capisce al volo: e stavolta esce con un bel bicchiere di vino.

– Chi li ha visti ha detto che non parlavano mai. Tua madre non lo voleva, là intorno. Una volta l’ha anche cacciato con la scopa, perchè puzzava troppo. Ma lui, prima o dopo tornava. Anche diversi cani randagi facevano così. Lei dava sempre qualcosa a tutti.


In pieno XXI secolo, dal cimitero di un paesino rurale della Campania, all’improvviso scompare il cadavere di una vecchia signora morta in odore di santità negli anni ’80 del secolo precedente.

Inspiegabilmente, intorno a quella fossa vuota cominciano ad aggirarsi personaggi improbabili e inquietanti: vecchi capicamorra, ulema iraniani, malati disperati e devoti squinternati. E anche un lontano nipote, affascinato dalla scomparsa e dalla vita imperscrutabile di quella stramba parente.
Sembrano tutti a convegno intorno alla fossa vuota; tutti alla ricerca di qualcosa che ha a che fare, in un modo o nell’altro, con il corpo occultato di Pasqualina Iovene, mistica e veggente di un mondo che forse non c’è più, ma che fatica a scomparire del tutto.

Tra campagne esauste e periferie tristi, questo è il racconto del viaggio di un uomo solo in un’Italia insondabile, che custodisce tante disillusioni e qualche vecchio mistero.  

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“In un tedio / malcerto il certo tuo fuoco”: su “Maria Malva” di Emiliano Dominici https://www.carmillaonline.com/2024/04/28/in-un-tedio-malcerto-il-certo-tuo-fuoco-su-maria-malva-di-emiliano-dominici/ Sun, 28 Apr 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82323 di Paolo Lago

Emiliano Dominici, Maria Malva. Brucia il giorno per me, effequ, Firenze, 2024, pp. 304, euro 18,00.

Per parlare di Maria Malva, romanzo di Emiliano Dominici recentemente uscito per effequ, vorrei partire da questi versi di Eugenio Montale tratti da Le occasioni: “Pareva facile giuoco / mutare in nulla lo spazio / che m’era aperto, in un tedio / malcerto il certo tuo fuoco”1, ricordando anche la quartina finale dello stesso componimento: “La vita che dà barlumi / è quella che sola [...]]]> di Paolo Lago

Emiliano Dominici, Maria Malva. Brucia il giorno per me, effequ, Firenze, 2024, pp. 304, euro 18,00.

Per parlare di Maria Malva, romanzo di Emiliano Dominici recentemente uscito per effequ, vorrei partire da questi versi di Eugenio Montale tratti da Le occasioni: “Pareva facile giuoco / mutare in nulla lo spazio / che m’era aperto, in un tedio / malcerto il certo tuo fuoco”1, ricordando anche la quartina finale dello stesso componimento: “La vita che dà barlumi / è quella che sola tu scorgi. / A lei ti sporgi da questa / finestra che non s’illumina”2. Il tedio, nella poesia di Montale, distende le sue nere ali sul ripetersi quotidiano dell’esistenza quasi come l’“Ennui” di Baudelaire, la “Noia” che aggredisce qualsiasi angolo della vita umana. I luoghi e gli ambienti di Maria Malva sono pervasi dappertutto da un tedio molto simile a quello descritto dal poeta ligure. Dominici, infatti, è davvero un grande dipintore di ambienti e di atmosfere, e sa muovere alla perfezione i suoi personaggi all’interno degli spazi che crea, come pedine sulla scacchiera tediosa e inconsistente della vita. Tutto scorre, tutto passa segnato nel profondo da un inarrestabile taedium vitae: il personaggio di Maria Malva appare come il fulcro perfetto di questo avvolgente spleen, una figura che si lascia trascinare dalla vita come da una corrente che non permette via d’uscita, che non permette di nuotargli contro. Lo spazio è nulla e “il certo tuo fuoco”, nella narrazione, diventa anch’esso un “tedio” perché è generato da quel “gesto sconvolgente” (come leggiamo nella sinossi del libro e sul quale non voglio rivelare di più) compiuto dal personaggio.

Maria Malva e gli altri personaggi si muovono su uno sfondo quasi inconsistente, quasi metafisico si potrebbe azzardare, laddove l’indeterminatezza dei luoghi conferisce loro una maggiore autenticità, spazi perduti nel lancinante percorso di un quotidiano meravigliosamente descritto dall’autore. Ma il luogo dove viene compiuto il gesto, un’anonima piazzetta con gli alberi e con una fontana di un’altrettanto anonima città, inchioderà a sé tutti i personaggi presenti. Perché, in fin dei conti, lo stesso personaggio protagonista – in una crudele metamorfosi – si muterà in luogo, in spazio, ed è proprio lì che gli altri convergeranno per cercare di risolvere l’angoscia straziante che si è insinuata in loro. I luoghi e gli ambienti sono incapsulati dalla penna dello scrittore all’interno di un “film dell’impossibile”, per utilizzare un’espressione coniata da Carlo Cassola per mezzo della quale lo scrittore grossetano si riferisce alla volontà di plasmare le sue storie come se animasse una stampa, un dipinto, e facesse muovere tutti i suoi personaggi3.

Strade e piazze anonime, senza volto, si srotolano come un tappeto di fronte all’incedere nomadico della protagonista che sembra quasi cercare di fondersi con gli ambienti in un totale anonimato e che cammina di lato alla vita con una grazia leggera come la neve. Assieme alle strade e alle piazze incontriamo negozi, bar, cinema altrettanto anonimi e altrettanto indimenticabili e, soprattutto, interni di appartamenti, sia quelli affittati dalla protagonista nei suoi spostamenti che quelli sfitti dove Maria si incontra con un ambiguo agente immobiliare. Le case e gli spazi domestici sembrano raccontare le proprie vite, inserite anch’esse in una spropositata macina, e lo fanno dopo aver perso qualsiasi parvenza di calore domestico. Non troveremo mai interni accoglienti nel romanzo, non troveremo mai spazi veramente confortevoli: essi appaiono come lo sfondo metafisico e nebbioso nei quali si rincorre l’angoscia dei personaggi. Sfondo metafisico sì, ma anche capace di lasciare una traccia indelebile nel lettore: più sono anonimi e incerti, funereamente indefiniti, più essi sono indimenticabili, più la loro descrizione ci avviluppa e ce li rende estremamente interessanti.

Su uno sfondo di questo tipo, la narrazione di Maria Malva si muove come una detective story, come una sottile indagine dai tratti noir e polizieschi che, per certi aspetti, potrebbe ricordare il “pasticciaccio” gaddiano. Una narrazione che trova il proprio baricentro nei vari personaggi che affiancano la protagonista e che saranno segnati indelebilmente dal gesto compiuto da Maria Malva: l’agente immobiliare Giorgio e la cartolaia Gemma, il solitario Martelli, il giovane youtuber Paolo, la colf Milagros e la bambina Anna, affetta da disturbi comportamentali, nonché i genitori di quest’ultima. Fra questi personaggi sembra svettare appunto il giovane studente youtuber che, trovandosi di fronte alla protagonista nel momento in cui compie il suo gesto disperato, invece di soccorrerla non trova di meglio che riprenderla con un cellulare. Il personaggio appare infatti completamente fagocitato dalla contemporanea digitalizzazione dell’esistenza nonché dall’iconizzazione iperbolica della realtà: qualsiasi situazione (sia essa costituita da un paesaggio o da una o più persone che interagiscono), invece che essere vissuta e conosciuta veramente, sembra essere fatta soltanto per essere fotografata o ripresa ed essere esposta online, in una sorta di esibizionistica ‘turisticizzazione’ esasperata della quotidianità. Come se riprendesse un concerto, uno spettacolo, una partita o un piatto servito al ristorante, Paolo sembra talmente inserito nel proprio universo digitale da riprendere fino in fondo la protagonista fino all’esito fatale. Sembrerebbe quasi una rilettura digitale del personaggio ‘moderno’ e primo-novecentesco di “Serafino Gubbio operatore”, appartenente all’omonimo romanzo di Luigi Pirandello (1925); mentre, durante le riprese di un film, si gira una scena con una tigre, un attore uccide un’attrice con un colpo di pistola e viene sbranato dalla tigre: Serafino Gubbio rimane impassibile e continua a effettuare le sue riprese come se niente fosse. Se il romanzo pirandelliano, nel 1925, vuole denunciare la condizione di ‘uomo-macchina’ del personaggio, un essere umano meccanizzato e disumanizzato, si potrebbe pensare che nel 2024 il personaggio di Paolo, che continua impassibile le sue riprese, rappresenti invece una sorta di uomo digitale e digitalizzato.

Sarà un percorso affascinante e sorprendente seguire ognuno di questi personaggi e seguire anche il flashback che occupa il capitolo centrale, dedicato al dipanarsi della vita della protagonista attraverso le sue vicissitudini. Un’immersione in una realtà languida e realistica, metafisica e come persa in una placida nebbia; sarà un piacere allora attraversare le strade e le piazze di indefinite città insieme ai personaggi e trovarsi ad un angolo imprecisato, magari vicino al cinema Diabolique, un luogo evocativo e dal bellissimo nome, che sa di noir e di fumetto, di anni Sessanta e di cultura pop, e lasciarsi completamente fagocitare.


  1. E. Montale, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano, 1990, p. 111. 

  2. Ibid

  3. Cfr. C. Cassola, Il film dell’impossibile, in Id., La visita, Einaudi, Torino, 1982, p. 7 e seguenti. 

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Storie di resistenza afroamericana https://www.carmillaonline.com/2023/05/29/storie-di-resistenza-afroamericana/ Mon, 29 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76965 di Gioacchino Toni

Jocelyn Nicole Johnson, La mia Monticello e altre storie, tr. It di Leonardo Taiuti, Bompiani, 2023, pp. 240, € 17.00

«Sono arrivati al tramonto annunciandosi con un operistico O say can you see. Teste bianche spuntavano da Jeep impolverate e capelli scuri svolazzavano come bandiere lacere in un impetuoso vento nuovo. TUTTO NOSTRO! Urlavano. I loro fucili luccicavano come appena comprati: una milizia da megastore. Spiando in fretta dalle persiane di MaViolet ho visto anche un bambino tra loro, biondo e ghignante dietro il finestrino di un furgone. Gli uomini [...]]]> di Gioacchino Toni

Jocelyn Nicole Johnson, La mia Monticello e altre storie, tr. It di Leonardo Taiuti, Bompiani, 2023, pp. 240, € 17.00

«Sono arrivati al tramonto annunciandosi con un operistico O say can you see. Teste bianche spuntavano da Jeep impolverate e capelli scuri svolazzavano come bandiere lacere in un impetuoso vento nuovo. TUTTO NOSTRO! Urlavano. I loro fucili luccicavano come appena comprati: una milizia da megastore. Spiando in fretta dalle persiane di MaViolet ho visto anche un bambino tra loro, biondo e ghignante dietro il finestrino di un furgone. Gli uomini saltavano giù dai sedili di dietro, balzavano dai cassoni dei pick-up e si precipitavano verso le nostre case. Mani bianche stringevano latte metalliche, brandivano torce che rigurgitavano fiamme. Grida forti, la cortina di fumo che si alzava – tutto questo e molto altro ci ha spinto fuori. Dai nostri cortili sbucciati vedevamo i corpi sfuocare quando qualcuno dei vicini si lanciava in avanti per provare a fermarli. Abbiamo visto un ragazzino colpito col calcio di un fucile sprizzare di rosso dalla tempia. Un bimbo col pannolone si agitava aggrappato al fianco della madre crollata in ginocchio sul marciapiede. Ciò che abbiamo visto in quegli attimi prima ci ha paralizzati, e poi ci ha resi liberi.»

Con questo incipit prende il via My Monticello, romanzo d’esordio pubblicato negli Stati Uniti nel 2021 dell’afroamericana Jocelyn Nicole Johnson, insegnante di arte nelle scuole pubbliche di Charlottesville in Virginia, dato alle stampe in italiano da Bompiani nel 2023 tradotto da Leonardo Taiuti. Accolto positivamente dalla critica statunitense, dal romanzo sono stati tratti un audiobook e la sceneggiatura, ad opera di Peter Chernin, per un film prodotto da Chernin Entertainment per Netflix.

La storia narrata da Johnson rappresenta un possibile sviluppo di quanto accaduto nella realtà a Charlottesville nel 2017 quando, sull’onda delle polemiche sorte attorno alla rimozione di monumenti confederati disseminati negli Stati Uniti, si sono radunati in città formazioni di estrema destra – alt-right, neo-Confederati, nazionalisti bianchi del Ku Klux Klan, neonazisti e altre milizie – contrari alla rimozione dall’Emancipation Park della statua di Robert E. Lee a cui si sono contrapposti gruppi di opposta tendenza, come Antifa, Redneck Revolt e altri.

In seguito ai violenti scontri tra gli opposti schieramenti, dopo le dichiarazioni dello stato d’emergenza da parte del governatore della Virginia e di illegalità del raduno razzista da parte delle autorità locali, un’auto guidata da un suprematista bianco si è lanciata contro i contestatori del raduno uccidendo Heather Heyer e ferendo una ventina di persone. A gettare ulteriore benzina sul fuoco sono state le prese di posizione dell’allora presidente Trump che, in un primo tempo, evitando di condannare esplicitamente i gruppi suprematisti, si è limitato a condannare genericamente la violenza espressa da entrambe le parti.

La storia immaginata da Johnson come possibile sviluppo di questi fatti è raccontata in prima persona da una giovane di nome Da’Naisha, discendente dell’unione del terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson e Sally Hemings, sua schiava. Di tale sua discendenza, tramandata in famiglia da generazioni, la giovane evita di parlare pubblicamente sia perché, come già accadeva alla madre, di solito non viene creduta, sia perché le suscita disgusto pensare allo stato di schiavitù della lontana parente, dunque nei fatti impossibilitata a decidere liberamente del rapporto con l’uomo di potere. Insieme alle vicende di famiglia, a riemergere è dunque il confronto con l’idea della schiavitù e il suo rapporto con i fondatori venerati nella storia e nell’immaginario nordamericani.

Negli Stati Uniti alle prese con blackout e tempeste, il quartiere di First Street a Charlottesville in Virignia viene preso d’assedio da orde di suprematisti bianchi che fanno irruzione nei quartieri costringendo molti abitanti ad abbandonare in fretta e furia le loro abitazioni. Un gruppetto di vicini e conoscenti fugge dalla città su un bus abbandonato rifugiandosi a Monticello, nella residenza che fu di Thomas Jefferson, uno dei padri nobili della nazione, autore della Dichiarazione d’indipendenza, che, nonostante le idee illuministe e progressiste, non solo non ha mai preso posizione esplicitamente contro lo schiavismo, ma ha avuto numerosi schiavi nella sua tenuta.

Jocelyn Nicole Johnson

I fuggitivi guidati dalla giovane trovano rifugio nella dimora che fu di Jefferson poi divenuta museo. Qua il gruppo multietnico di profughi, alle prese con l’organizzazione della vita quotidiana e con la necessità di prepararsi al probabile scontro con i suprematisti bianchi, si confronta direttamente con quel luogo e con la sua storia sperimentando una nuova modalità di rapportarsi ad esso; da asettico e distaccato museo di storia della patria a luogo realmente vissuto e fatto proprio.

Si tratta, insomma, di una riappropriazione di uno spazio e di una storia che, fatta scendere dal piedistallo, viene finalmente vissuta in prima persona sottraendola, per certi versi, all’immaginario edulcorato che ha plasmato la narrazione ufficiale. In fin dei conti quella Monticello, nel bene e nel male, è storia di tutti e tutte, compresi/e coloro che la hanno abitata in schiavitù; rapportarsi dunque a quel luogo in modo nuovo rappresenta una possibilità di simbolico riscatto.

Johnson racconta dunque attraverso Da’Naisha la resa dei conti dei discendenti degli schiavi con la storia, con la sua narrazione e l’immaginario che si è sedimentato nel tempo nel paese che si vuole immacolato esportatore di democrazia. Per certi versi la ferocia dei suprematisti bianchi che si è manifestata senza infingimenti nell’era Trump non rappresenta che il concentrato di un immaginario diffuso che attraversa sin dalle sue origini il paese a stelle e strisce e che nemmeno un inquilino di colore alla Casa Bianca ha saputo/potuto dissipare.

«Per favore sappiate che abbiamo combattuto con tutto ciò che avevamo, e abbiamo combattuto per vincere. Abbiamo lottato con i proiettili e a mani nude, con i megafoni e lo spray urticante, con lo scetticismo e con la fede. […] Infilo queste pagine dentro il libro di Thomas Jefferson Note sullo stato della Virginia, annidate tra i suoi carteggi sulla larghezza dei nostri fiumi, l’altezza delle nostre montagne, i suoi limiti e le sue speranze. Infilerò di nuovo quel libro sullo scaffale nella biblioteca riservata alle guide museali, la stanza dove è appesa la fotografia della mia nonna […] Forse un giorno qualcuno ritroverà i nostri nomi, tra i libri o la cenere, e saprà che siamo stati qui, che anche noi contiamo. Non so cosa succederà. Non so cosa sta succedendo altrove, fuori dalla nostra città, del nostro stato. So solo che non permetterò loro di prendersi questo mio corpo. So solo che questa battaglia costerà qualcosa anche a loro. Il signor Byrd mi ha aiutato a preparare le bottiglie, a riempirle fino a metà di benzina e infilarci degli stracci. Possono anche sconfiggerci, ma non conquisteranno mai questa casa – non intatta.»

La casa di cui parla la protagonista non è semplicemente la dimora di un padre della patria in cui un gruppo di fuggiaschi dalla ferocia suprematista bianca ha trovato temporaneo rifugio, ma è una, per quanto piccola, comunità che ha fatto i conti con la storia, che se ne è appropriata evidenziando la parte che ha avuto in essa e che intende avere nella storia ancora da scrivere.

Oltre a La mia Monticello, nel libro sono presenti alcuni racconti brevi imperniati sull’essere neri negli Stati Uniti di oggi. Storie di migranti, intellettuali, donne sole, tutti protesi a cercare quanto è sempre stato loro negato sia in termini materiali che di dignità. Ad emergere da questi racconti è spesso la necessità per le donne e gli uomini  afroamericani di dover dimostrare il proprio valore agli altri e a sé stessi, quasi a dover colmare un gap loro imposto.

In Negro di controllo, ad esempio, il protagonista è un professore universitario afroamericano che si rapporta ai pregiudizi razziali statunitensi osservando e “telecomandando” a distanza la vita del giovane figlio che ignora della sua esistenza. Un padre che, offrendo al figlio possibilità spesso negate ai ragazzi di colore, si prodiga in maniera decisamente maniacale nella “costruzione” di un prototipo di giovane afroamericano “perfetto”, in modo tale che l’America non possa avere da ridire su di lui. Una storia certo paradossale che, come altre narrate dalla scrittrice, evidenzia come chi nasce con la pelle scura negli Stati Uniti si trovi a dover costantemente dimostrare agli altri e a sé stesso il proprio valore e per farlo si trova, come detto, a dover colmare un gap rispetto a chi nasce con i privilegi spettanti a chi ha la pelle chiara.

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Storie di provincia senza innocenti https://www.carmillaonline.com/2023/02/13/storie-di-provincia-senza-innocenti/ Mon, 13 Feb 2023 21:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74638 di Gioacchino Toni

Sam Millar, Sul fondo del Black’s Creek, traduzione di Seba Pezzani, Milieu edizioni, Milano, 2022, pp. 268, € 17,90

“La scienza, caro ragazzo, è fatta di errori, errori che però è utile fare perché, poco alla volta, portano alla verità”. Con questa citazione tratta da Viaggio al centro della Terra di Jules Verne si apre il romanzo di Sam Millar, Sul fondo del Black’s Creek (Milieu, 2022). Oltre alle vicende narrate dal romanzo, con tali parole l’autore sembra alludere alla sua vita turbolenta in cui di errori ne avrà sicuramente [...]]]> di Gioacchino Toni

Sam Millar, Sul fondo del Black’s Creek, traduzione di Seba Pezzani, Milieu edizioni, Milano, 2022, pp. 268, € 17,90

“La scienza, caro ragazzo, è fatta di errori, errori che però è utile fare perché, poco alla volta, portano alla verità”. Con questa citazione tratta da Viaggio al centro della Terra di Jules Verne si apre il romanzo di Sam Millar, Sul fondo del Black’s Creek (Milieu, 2022). Oltre alle vicende narrate dal romanzo, con tali parole l’autore sembra alludere alla sua vita turbolenta in cui di errori ne avrà sicuramente commessi parecchi, come del resto capita a tutti coloro che non si accontentano di sopravvivere, magari voltandosi dall’altra parte mandando giù qualsiasi cosa.

Sam Millar è uno scrittore e sceneggiatore di Belfast proveniente da una famiglia working class, con un passato nell’Ira e otto interminabili anni di carcere duro alle spalle. Le sue prime opere letterarie sono ambientate in una Belfast impregnata di ingiustizie sedimentatesi nel tempo come il lerciume tra i mattoni con cui è costruita la città e il lezzo di sudore e birra che impregna i malandati arredi e la moquette dei pub, un lezzo che non riesce a coprire quell’odore di sangue, sofferenza, paura e solitudine che Millar fiuta e descrive come pochi altri.

A far conoscere lo scrittore in Italia è stato On the Brinks. Memorie di un irriducibile irlandese (Milieu, 2016) [su Carmilla], memoir in cui ricostruisce una parte importante della sua vita trascorsa prima tra le strade di Belfast e il carcere di Long Kesh, poi negli Stati Uniti, ove la militanza per la causa nord irlandese lascia il posto a una mirabolante rapina restata nella storia nonostante le cose non siano andate come aveva auspicato.

Pochi anni dopo arriva in Italia I cani di Belfast (Milieu, 2019) [su Il Pickwick], opera che sin dalle primissime pagine sbatte violentemente chi legge in una cava di Belfast, sul finire degli anni Settanta, di fronte a una donna brutalmente seviziata che sta per essere assalita da un branco di cani randagi. La Belfast di Millar è descritta in maniera cruda e disturbante, un po’ come la Londra di Derek Raymond nel grandioso ciclo della Factory e la Berlino di Miron Zownir [su Carmilla]. Con I cani di Belfast – che Millar dice di aver scritto traendo ispirazione dall’irlandese Walter Macken e dallo statunitense Cormac McCarthy – i lettori italiani fanno conoscenza dell’investigatore Karl Kane, protagonista di storie destinate ad essere presto tradotte.

Venendo a Sul fondo del Black’s Creek, il racconto si apre con i titoli di un quotidiano che, nell’annunciare la riapertura di una vecchia storia che ha sconvolto la comunità di una piccola cittadina dello stato di New York, fanno sobbalzare, durante la colazione, un uomo che nel leggere di ciò si sente travolto dalle tenebre di un passato che lo vede in qualche modo coinvolto in un omicidio che sembra improvvisamente rifare capolino nella sua vita e in quella dell’intera comunità, anche se, in realtà, questo passato non se ne era mai del tutto andato.

L’improvviso riemergere del passato, dopo due decenni di ricorso all’oblio, non solo svela a chi ebbe un ruolo di primo piano in quei tragici eventi – e ai lettori – il peggio di un’epoca lontana, coincidente con l’adolescenza dei protagonisti, ma palesa anche quanto il periodo intercorso tra quelle vecchie storie e l’attualità sia stato disgustoso e ipocrita.

La vicenda che torna a galla ruota attorno a un gruppetto di ragazzini desiderosi di trovare un colpevole a tutti i costi per la morte di un amico derubricata, nonostante i dubbi, come “semplice” suicidio: il dodicenne si sarebbe insomma inspiegabilmente lasciato annegare nelle acque del lago locale senza un apparente motivo.

Nonostante il generoso tentativo di salvarlo di uno degli amici, il piccolo Joey si è congedato dalla sua breve vita nell’incapacità degli adulti di individuare  qualcuno a cui imputare la colpa di averlo direttamente o indirettamente indotto al gesto estremo. Questi ragazzini, che hanno imparato presto a non fidarsi degli adulti, decidono di vendicare la morte dell’amico castigando chi si dicono convinti – come del resto molti in città – abbia spinto l’amico dodicenne al darsi la morte.

Sono tanti i narratori – si pensi anche solo ad autori del calibro di Joe Lansdale e Stephen King – che hanno raccontato come sotto le placide apparenze delle cittadine statunitensi di provincia spesso si nasconda un inferno di soprusi e violenze. Anche l’apparentemente tranquilla cittadina dello stato di New York di cui narra Millar evidentemente tanto tranquilla pare non essere mai stata.

Miscelando abilmente noir e romanzo di formazione, anche lo scrittore irlandese restituisce ciò che si cela sotto la placida apparenza di una piccola comunità tra le cui pieghe si sono accumulati abusi sessuali e omicidi. Se gli occhi ingenui dei ragazzini spesso sanno cogliere meglio degli adulti il marcio del mondo, a volte, al pari di questi, sanno però farsi feroci fino all’estremo. Tutto al loro sguardo si fa iperbolico, nel bene e nel male, nel cogliere quello che gli adulti non sanno o non vogliono vedere, o nel muoversi spietatamente, proprio come i grandi.

È forse proprio a partire da questi occhi vivaci votati agli eccessi, che non hanno paura di guardare e giudicare, occhi liberi da ipocrisie e convenienze che forse si possono guardare le cose e le persone per quello che sono.

La riapertura del caso, a un paio di decenni di distanza dai fatti, fornirà nuovi indizi utili a indagare anche su altri delitti restati irrisolti. Conviene non aggiungere ulteriori dettagli per non rovinare la lettura che pagina dopo pagina ricompone un mosaico capace di mostrere immagini inattese. Quando si smuovono le acque più torbide il marcio torna a farsi vedere e persino gli errori, di cui si diceva in apertura, possono servire per avvicinarsi un po’ di più alla verità per quanto dolorosa essa sia.

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Un incontro con l’Altro nella Camargue misteriosa e selvaggia https://www.carmillaonline.com/2023/01/10/un-incontro-con-laltro-nella-camargue-misteriosa-e-selvaggia/ Tue, 10 Jan 2023 21:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75513 di Paolo Lago

Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, prefazione di M. Longobardi, trad. it. di R. Pellerino, La Noce d’oro, Rocca di Papa, 2022, pp. 139, euro 16,00.

Alcuni brani di La Bestia del Vacarés, uno straordinario romanzo dello scrittore in lingua occitana Joseph D’Arbaud (1847-1950), uscito nel 1926, erano stati tradotti in italiano da Monica Longobardi nel suo “Viaggio in Occitania” del 2019. Adesso possiamo leggerlo per la prima volta in versione integrale grazie alla bella traduzione di Rosella Pellerino, uscita recentemente per La Noce d’oro con una prefazione della stessa [...]]]> di Paolo Lago

Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, prefazione di M. Longobardi, trad. it. di R. Pellerino, La Noce d’oro, Rocca di Papa, 2022, pp. 139, euro 16,00.

Alcuni brani di La Bestia del Vacarés, uno straordinario romanzo dello scrittore in lingua occitana Joseph D’Arbaud (1847-1950), uscito nel 1926, erano stati tradotti in italiano da Monica Longobardi nel suo “Viaggio in Occitania” del 2019. Adesso possiamo leggerlo per la prima volta in versione integrale grazie alla bella traduzione di Rosella Pellerino, uscita recentemente per La Noce d’oro con una prefazione della stessa Longobardi. Come Pellerino osserva in una “nota alla traduzione”, è necessario restituire una dignità perduta all’occitano, ormai trasformatasi in “patois”, in una “lingua minoritaria di Francia”. Se la letteratura occitana medievale è divenuta da molto tempo un importante oggetto di studio anche in Italia, nell’ambito della Filologia romanza, quella moderna e contemporanea è rimasta pressoché sconosciuta. Ecco perché – continua la traduttrice – “quando una lingua è in pericolo, anche il compito del traduttore assume un ruolo cruciale di testimonianza e di responsabilità”.

Il romanzo di Joseph d’Arbaud è la storia di un incontro che – come sottolinea Longobardi nella prefazione – “fa tremar le vene e i polsi”. Si tratta di un incontro con l’Altro, con un’alterità selvaggia e sconosciuta, emersa da un mai sopito sostrato pagano. Siamo nella Camargue del Quattrocento e la narrazione in prima persona, per mezzo dell’espediente letterario del manoscritto ritrovato, è affidata al “gardian” (il guardiano di una mandria di tori e di cavalli) Jaume Roubaud, un solitario mandriano che percorre notte e giorno quei misteriosi territori alle foci del Rodano sospesi fra acqua e terra. Mentre vaga nelle campagne cavalcando il suo cavallo Clar-de-Luno, Jaume incontra un misterioso essere selvatico, una incarnazione del dio Pan, dagli “occhi feroci in cui ardeva una fiamma velata di tristezza che il mio sguardo a malapena riusciva a sostenere”. Se dapprima il mandriano, di cultura cristiana, lo scambia per un’apparizione diabolica, la creatura comincia a parlare dicendo di non essere un demonio e di appartenere ad un’altra cultura, quella pagana, estremamente più arcaica e sconosciuta nella Camargue medievale dominata dall’Inquisizione. Ormai vecchio e stanco, il “semidio” ha trovato un po’ di pace in quel territorio e in esso ha potuto riconoscere “quella vastità sacra nella quale un tempo mi compiacevo a esercitare la mia giovane forza, quando signoreggiavo, padrone del silenzio e delle ore, maestro di quel canto sterminato che dagli insetti della piana sale verso le stelle, riecheggia e risuona nei gorghi dell’immensità”.

La “Bestia” incontrata da Jaume Roubaud non è un’apparizione terribile e misteriosa come quella che Arthur Machen rappresenta nel suo racconto Il grande dio Pan (The Great God Pan, 1894), una terribile divinità pagana rivestita di orrore che conduce alla pazzia. Si tratta, invece, di un essere stanco e decrepito che implora aiuto e pietà, ergendosi a difensore di una natura selvaggia che sta per essere violata dall’uomo. Come un’antica divinità che si credeva spazzata via dall’avvento del cristianesimo, la “Bestia” ricompare sulla terra per riprendersi, forse per l’ultima volta, l’antico dominio sul regno animale. In un rituale notturno ed oscuro cui Jaume assiste con orrore, il misterioso essere, suonando un flauto, riesce a domare e controllare tutti i tori selvaggi della Camargue. E Jaume si porta dentro di sé l’orribile segreto: sia questa scena notturna che la presenza stessa della “Bestia”. Dopo aver visto il misterioso essere, il personaggio appare preda di un contagio di natura quasi dionisiaca: è spesso attanagliato dalla febbre e i suoi giorni sono dominati dall’angoscia. Ma, come già accennato, la “Bestia” non è un personaggio dalle connotazioni negative: vecchio, stanco e affamato, chiede aiuto al mandriano. Jaume, allora, mosso da pietà, lascerà spesso appeso al ramo di un albero un sacco con delle provviste. È così che si instaura una sorta di “amicizia” tra il decrepito semidio e l’umano: non a caso, ad aiutare l’essere pagano e primordiale è chiamato un mandriano, un uomo che vive a stretto contatto con la natura e con l’universo animale e selvatico. Nonostante la vicinanza e l’amicizia, essendo venuto a contatto con un’alterità assoluta, Jaume viene contagiato da una misteriosa malattia, un po’ come il protagonista del racconto di Daphne Du Maurier intitolato Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), il quale appare preda di un misterioso male contratto dopo essersi avvicinato ad un universo arcaico e pagano nell’isola di Creta. Infatti, “dal giorno in cui non ho potuto resistere alla sua miseria, in cui l’ho aiutato, in cui ho visto davanti ai miei occhi scorrere sul volto lacrime d’uomo, malgrado una repulsione, un orrore di cui, a tratti, non ho il controllo, porto la sua amicizia come un male nel mio sangue”.

Jaume entra in contatto con un essere che appare come un incrocio tra umano, animale e divino, espressione di un’animalità dalle connotazioni demoniche e sovversive. Se guardiamo all’incontro tra il mandriano e la “Bestia” con uno sguardo ecocritico, ecco che possiamo intravedere nel misterioso essere quasi una sorta di arcaico guardiano di un “grande paese selvaggio” – come scrive Longobardi nella prefazione – “insidiato dal disincanto della modernità”. Anche se la storia si ambienta nel 1400, nella figura della “Bestia” decrepita e invecchiata, scacciata dalla presenza umana, possiamo quasi scorgere una rappresentazione metaforica della Camargue contemporanea dell’autore, inserita in un processo di sempre maggiore antropizzazione che giunge fino ai giorni nostri. Quando Jaume entra in contatto con la “Bestia” stabilendo una sinergia con essa, abbandona, per certi aspetti, il suo sistema di riferimento antropocentrico basato su divieti e tabù anche di ordine religioso. Infatti, come nota Serenella Iovino nel suo saggio dal titolo Ecologia letteraria, quando viene abbandonato un sistema di riferimento antropocentrico, la rappresentazione letteraria dell’animale può rimandare a un senso del sacro di fronte al quale l’essere umano è messo radicalmente alla prova. Esito di tale prova è una trascendenza “sovversiva” che spinge a ripensare la stessa immagine dell’umano.

L’Altro, la creatura semidivina con cui Jaume entra in contatto, appare come una vittima del progresso e dell’antropizzazione: Jaume sceglie alla fine di non rivelare a nessuno la presenza del misterioso essere per preservarne intatta l’incolumità. Questa figura arcaica e misteriosa, se guardiamo al cinema, non può non farci pensare al fauno del Labirinto del fauno (El laberinto del fauno, 2006) di Guillermo del Toro oppure all’essere acquatico proveniente dall’Amazzonia di La forma dell’acqua (The Shape of Water, 2017) dello stesso del Toro che, raffigurazione di un’alterità assoluta e inquietante (ma naturalmente ‘buona’ e ben disposta nei confronti degli umani), nella Baltimora dei primi anni Sessanta viene imprigionato e sottoposto a crudeli esperimenti da parte di militari e scienziati. La “Bestia” del romanzo di d’Arbaud sarà destinata a sparire nel “Grand Abime”, il grande abisso, una terribile palude, “uno di quegli orrendi pozzi di fango nero dall’imboccatura non troppo ampia, ma talmente traditore che nessuna sonda potrebbe toccarne il fondo”. Nello stesso modo in cui, forse, era emersa, questa presenza ctonia e sovversiva sarà destinata a tornare alla terra tramite interstizi putridi e paludosi. D’altra parte, se ancora guardiamo al cinema, il mostruoso è stato spesso associato all’ambiente della palude, dove la terra inghiotte fin nelle sue insondabili profondità. Basti pensare al classico Il mostro della laguna nera (Creature From the Black Lagoon, 1954) di Jack Arnold, al quale si ispira lo stesso film di Guillermo del Toro, ma anche a una produzione Hammer del 1959 come La mummia (The Mummy, 1959) di Terence Fisher, in cui la mummia, dopo essere emersa da una palude alle porte di Londra (dove il suo sarcofago era stato perduto dal carro che lo trasportava), alla fine si inabisserà proprio in quella stessa palude, sparendo per sempre.

L’incontro con l’Altro cui assistiamo in La Bestia del Vacarés avviene entro un contesto dalle tonalità languide e sfumate, un paesaggio tratteggiato con tinte intrise di vera poesia. Il mandriano Jaume vive in solitudine, affidandosi ai ritmi della natura e al succedersi delle stagioni, scrutando l’arrivo del mistral, tenendo conto dell’accorciarsi o dell’allungarsi delle giornate, ascoltando il rumore del mare agitato e i fruscii delle bestie nella natura. A sera si ritira nella sua povera abitazione e si sfama con misere e semplici cibarie riscaldandosi al focolare. E, soprattutto, scrive: è tramite la scrittura vergata sul suo diario che Jaume si trasforma in personaggio letterario; è dalla sua penna che, affidandosi all’espediente del manoscritto ritrovato, d’Arbaud fa scaturire la sua storia intrisa di un sottile e lancinante mistero. Una scrittura che testimonia il perpetuarsi della vocazione ‘sovversiva’ del personaggio: la sua volontà, cioè, nonostante la probabile sparizione definitiva dell’essere (Jaume vede inghiottito dalla palude una specie di tronco dalle fattezze umane), di “cercare e cercare ancora, senza scoramento né fatica”. Cercare la “Bestia”, certo, ma cercare anche un’immagine ed un’essenza ‘altra’ che lo ha fatto uscire da sé stesso, che ha scardinato in lui la sua visione antropocentrica e che, tramite un contagio dionisiaco, lo ha fatto guardare al di là, verso un senso di empatia nei confronti dell’alterità più assoluta.

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Vite appese al chiodo nell’anticamera dell’inferno https://www.carmillaonline.com/2022/09/04/vite-appese-al-chiodo-nellanticamera-dellinferno/ Sun, 04 Sep 2022 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73529 di Gioacchino Toni

Miron Zownir, Tenebre su Kreuzberg, traduzione di Eleonora Zanin, Milieu edizioni, Milano, 2021, pp. 269, € 16,90

«Zownir si prende la libertà di gridare contro i sogni illusori. Si mescola tra i prossimi, morti viventi. Si schiera dalla parte disastrata della società per darne testimonianza. Va oltre il semplice lavoro sporco per catturare momenti di odio e amore fatti di follia e alcool. Dà forma agli stupidi aneliti nell’anticamera dell’inferno. Il tanatoprattore, il guardiano delle latrine, la commessa al banco della carne fresca per il cane e il metronotte ricevono dei volti. Tutti i deformi, gli informi e [...]]]> di Gioacchino Toni

Miron Zownir, Tenebre su Kreuzberg, traduzione di Eleonora Zanin, Milieu edizioni, Milano, 2021, pp. 269, € 16,90

«Zownir si prende la libertà di gridare contro i sogni illusori. Si mescola tra i prossimi, morti viventi. Si schiera dalla parte disastrata della società per darne testimonianza. Va oltre il semplice lavoro sporco per catturare momenti di odio e amore fatti di follia e alcool. Dà forma agli stupidi aneliti nell’anticamera dell’inferno. Il tanatoprattore, il guardiano delle latrine, la commessa al banco della carne fresca per il cane e il metronotte ricevono dei volti. Tutti i deformi, gli informi e le anime perdute che hanno da tempo appeso la loro vita al chiodo» Peter Wawerzinek

«La fotografia in bianco e nero è più misteriosa, discreta, meno esplicita della fotografia a colori. Attiva l’immaginazione, piuttosto che concentrarsi su dettagli inquietanti. Aggiunge più peso all’invisibile, che rimane coperto da strati di grigio e ombra. A volte ci permette di avventurarci in uno spazio al di là di ciò che l’occhio può vedere. In breve, è più poetica e onirica, ma comunque abbastanza reale da disturbare, farci interrogare e riflettere». Così, in un’intervista rilasciata a «LensCulture», Miron Zownir motiva la scelta del bianco e nero per ritrarre l’universo punk berlinese e londinese degli anni ’70, la scena underground gay-drag newyorkese degli anni ’80 e i miseri e dolenti spaccati moscoviti degli anni ’90.

Una scelta, quella del bianco e nero, a cui, per certi versi, Zownir ricorre anche nel suo romanzo Umnachtung, uscito in Italia per Milieu edizioni con il titolo Tenebre su Kreuzberg, tradotto da Eleonora Zanin che ne parla come di «un romanzo sulla repressione e l’assurdità della società in cui viviamo e sulle forme di resistenza nichiliste che questa genera. Una società profondamente disfunzionale che ci schiaccia tra lavori totalizzanti e ansia di riconoscimento sociale, in cui anche le stesse forme di resistenza sono spesso disfunzionali fino a diventare mostruose: dall’escapismo alla dipendenza da sostanze fino, appunto, all’omicidio»1.

Rispetto alla fotografia, spiega Zownir, la letteratura è una modalità di espressione «più introversa e vincolata all’immaginazione. Tutto dipende da te. Tu non dipendi dalla fortuna o dal caso, ma solo dal tuo umore, dal tuo stato d’animo e dalla tua ispirazione. L’atto di scrivere è solitario ma restituisce una libertà totale»2.

Costruito attorno ad una serie di omicidi che si succedono al calare delle tenebre in un contesto berlinese del nuovo millennio, solo apparentemente altro rispetto alla scintillante trasformazione urbanistica, sociale e culturale con cui si sono voluti seppellire velocemente i detriti del muro andato in frantumi con il mondo che lo ha edificato, il romanzo Tenebre su Kreuzberg procede attraverso lo sguardo di personaggi deliranti, nauseati dal mondo che li circonda come di se stessi, che vivono una realtà in cui si mescolano accaduto ed allucinazione, nostalgie e desideri frustrati. «Si rifugiò nello schermo fino a quando la sua mente iniziò a fondersi in pattern diversi, a vibrare, a distruggere ogni ricordo o connessione con il mondo esterno. Poi fu solo un sfarfallio e un luccichio di tensioni elettroniche che trasmettevano immagini come quella della tv, che il suo psichiatra dovette analizzare». A fare da sfondo sono scalcinati e maleodoranti locali notturni pervasi dal lezzo di stantio e latrina,  popolati da reietti che hanno tagliato i ponti col passato e che non fanno alcun affidamento sul futuro, abbandonati a una sopravvivenza a cui sembrano non ambire nemmeno più.

Al di là dell’individuazione o meno dei colpevoli dei reati di turno, nessun ordine può essere ristabilito da chi, «stanco di separare il bene dal male», si trova ad indagare all’interno di un contesto che sembra davvero ormai l’anticamera dell’inferno abitato da reietti, di cui percepisce di far parte, che mostrano senza infingimenti a cosa è ormai ridotta l’umanità. «Aveva rinunciato da tempo a credere nella bontà umana, alla soluzione terapeutica dei problemi, alla carità cristiana o al perdono. Tutti avevano lo stesso motivo per restare in vita. Ciò che faceva la differenza erano l’ego, la volontà e la tenacia. Adesso, da sobrio, doveva ammettere di non aver mantenuto nessuna di quelle qualità. In generale, la sua vita consisteva solo nel lavoro da cui si era lasciato sopraffare, in criminali che non si lasciavano acciuffare e colleghi che non sopportava. Nell’attesa di informazioni che non arrivavano e di indizi che non portavano da nessuna parte. Notti in cui non accadeva nulla e giorni in cui accadeva di tutto». Un’esistenza ridotta ad un alternarsi di attese alla scrivania durante il lavoro o sul divano di casa a bere whiskey fino ad addormentarsi davanti alla tv. A suo modo anche la sua è una vita appesa al chiodo.

Marcello Faletra, nel commentare la prima grande retrospettiva fotografica italiana dedicata a Zownir, tenutasi a Palermo nel 20213, ravvisava nei suoi scatti tracce di empietà, di indistinta coesistenza di Inferno Purgatorio e Paradiso. «Guardandole attentamente queste foto suggeriscono che l’empietà è la migliore esplorazione dei corpi per coloro che abitano il peggiore dei mondi». Empietà da intendersi come «uscita dalla morale. Alla misuratezza del gesto e alla compostezza dei corpi succede l’esagerazione, l’iperbolicità, la profanazione… L’empietà potrebbe essere vista come il rovescio (non la negazione) di ogni bella azione. È l’arma dell’impossibile nelle mani dell’immaginazione, dove l’indistinzione tra corpo e feticcio impera». Una fotografia «può trasformarsi in uno squarcio, in una ferita del tempo in cui sprofonda o cade il nostro sguardo. Questo doppio fondo dell’immagine fotografica rivela l’inquietudine che fa breccia nel familiare. È l’informe che occupa lo spazio dell’immagine nel momento in cui fa collassare l’apparenza. Questo margine dell’esistenza è l’unico stato dell’essere che questi corpi praticano»4.

Scrive Gaetano La Rosa sul catalogo di tale mostra che Zownir, con le sue foto, ha saputo cogliere i reietti che non interessano allo sguardo patinato «in quel momento in cui essi, come in un atto sacrale di dono, erano disposti a offrire il loro essere corpo, in un gesto di estrema efficacia e di verità̀, che potremmo ragionevolmente definire atto performativo». Rispetto a quel mondo di personaggi “disperati ma vivi” colto dalle celebri fotografie di Zownir degli anni Settanta e Ottanta, il dark side del nuovo millennio tratteggiato da Tenebre su Kreuzberg, sembra invece sbattere in faccia al lettore un mondo di emarginati che con le loro condotte autodistruttive tentano di anestetizzare le sofferenze della vita, un mondo popolato da individualità sempre più ciniche ed autoreferenziali, ormai prive di empatia tanto nei confronti di chi le circonda quanto di se stessi. Insomma, anche l’altra faccia della società diurna, presentabile, sembra sempre più fare propri il cinismo, l’individualismo e la vocazione all’autodistruzione di quest’ultima, solo che lo fa senza ipocriti infingimenti.

È spietato e disturbante il mondo messo in scena da Zownir e lo è soprattutto perché in quell’universo di reietti diventa sempre più difficile cogliere tracce di reale alterità. I personaggi che popolano il romanzo mettono di fronte a ciò che si è diventati, vite appese al chiodo. «Noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio mi stupisco di non essere lì io al posto dell’animale»5, affermava Francis Bacon.

Tenebre su Kreuzberg non è un romanzo adatto a quanti preferiscono continuare a volgere lo sguardo altrove evitando così di fare i conti con se stessi.


  1. Eleonora Zanin, Tradurre Miron Zownir: un viaggio attraverso le visioni dell’autore, in «minima&moralia», 1 luglio 2021. 

  2. Giuseppe Fantasia, Miron Zownir: “Tolleriamo o istighiamo le guerre e non ci sentiamo responsabili di nulla”, in«HuffPost Italia» 1 agosto 2021. 

  3. Zeitwirdknapp – Non c’è più tempo – Retrospektive 1977-2019, a cura di Gaetano La Rosa, Palermo 2021. Catalogo: Apotheosis and derision. The living theater of Miron Zownir, PogoBooks, Berlino 2021, pp. 104, € 38.00. 

  4. Marcello Faletra, Le parti del male. Saggio sul fotografo Miron Zownir, in «Arttribune», 8 giugno 2021. 

  5. David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, Milano, 2003, p. 42. 

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La zolfara nel sangue https://www.carmillaonline.com/2022/08/16/la-zolfara-nel-sangue/ Tue, 16 Aug 2022 20:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73103 di Gioacchino Toni

Michele Rondelli, Testimoni sepolti, Ianieri edizioni, Silvi Marina (TE), 2022, pp. 308, € 19.00

La mattina del 4 luglio del 1916, quando si udì la prima esplosione, all’interno delle miniere di Cozzo Disi e Serralonga di Casteltermini, in provincia di Agrigento, si trovavano più di cinquecento operai. A quel primo boato ne seguirono diversi altri, quasi a cadenzare la trasformazione delle solfare in un vero e proprio inferno velenoso destinato a prendersi la vita di 89 esseri umani e distruggere l’esistenza di un’intera comunità.

Dopo l’inchiesta e il dibattimento in [...]]]> di Gioacchino Toni

Michele Rondelli, Testimoni sepolti, Ianieri edizioni, Silvi Marina (TE), 2022, pp. 308, € 19.00

La mattina del 4 luglio del 1916, quando si udì la prima esplosione, all’interno delle miniere di Cozzo Disi e Serralonga di Casteltermini, in provincia di Agrigento, si trovavano più di cinquecento operai. A quel primo boato ne seguirono diversi altri, quasi a cadenzare la trasformazione delle solfare in un vero e proprio inferno velenoso destinato a prendersi la vita di 89 esseri umani e distruggere l’esistenza di un’intera comunità.

Dopo l’inchiesta e il dibattimento in cui vennero sentiti imputati, testi, ispettori ed esperti nominati dal tribunale, così si dava conto dell’accaduto nella sentenza:

verso le ore 13 e trenta, mentre gli operai – in numero di oltre cinquecento – delle due miniere di Cozzo Disi e Serralonga di Casteltermini lavoravano si udì un primo formidabile boato con un violento colpo d’aria, contemporaneo sviluppo di idrogeno solforato (agro) e di grisou (antinomio) il quale a contatto delle lampade a fiamma libera degli operai diede luogo a ripetute esplosioni. Gli operai che lavoravano al primo e al terzo livello della Cozzo Disi, spaventati fuggirono; molti di essi riuscirono a mettersi in salvo per la via di sicurezza e gli altri che presero vie diverse vennero fuori per lo più ustionati dal grisou. Gli operai che lavoravano nella sezione Giambrone, in numero di 66 perirono, com’è da ritenere, per ustioni, per asfissia, per avvelenamento prodotto dall’idrogeno solforato e per traumi. Gli operai che, in numero di ventitré, lavoravano nella vicinante e comunicante miniera di Serralunga, al primo fragore della Cozzo Disi, fuggirono pel piano inclinato e percorsi appena 90 metri incontrarono il grisou dal quale furono investiti e perirono”1.

Nessun responsabile sarà invidiato dal tribunale per gli 89 morti e per le decine di feriti. Tutto si risolse con un nulla di fatto. Il direttore della solfara, gli esercenti della miniera ed i capimastro, accusati a vario titolo, furono assolti per insufficienza di prove in quanto, si disse, risultava impossibile ricostruire le condizioni della miniera prima del disastro: «gli elementi del processo non sono sufficienti a far ritenere che il disastro della Cozzo Disi sia da attribuire ad imperizia, negligenza ed inosservanza di regolamenti da parte di alcuni degli imputati nella sfera delle rispettive mansioni direttive e di vigilanza»2.

È attorno a questi tragici accadimenti che Michele Rondelli costruisce il suo romanzo Testimoni sepolti ove, miscelando realtà e fantasia, nel paese che nel racconto diviene Calarmena, lo scrittore siciliano ambientata la sua storia.

Il romanzo prende il via con l’invio nel paesino agrigentino di Calarmena del cronista Ruggero De Robertis per raccontare di alcuni “ammazzamenti” avvenuti in quella località di minatori, lontana dalla Palermo in cui viveva e lavorava, anche se, a dire il vero, più che per dare copertura dell’accaduto, vi era stato spedito soprattutto affinché distogliesse la sua attenzione da “certe persone” – e queste si scordassero di lui – a cui, incautamente, aveva fatto riferimento in alcuni suoi articoli a proposito dell’uccisione del sindaco socialista di Corleone.

A Calarmena, ove si trovava a vivere anche un suo vecchio compagno di ginnasio, il cronista si troverà a fare i conti con il difficile e violento mondo delle miniere, un mondo non facilmente comprensibile agli occhi di chi non vi era cresciuto ed era abituato alla vita di città.

Ad un anno da quella sua prima trasferta che aveva introdotto De Robertis, e noi con lui, all’universo di Calarmena, il cronista si troverà a farvi ritorno. Stavolta, però, vi sarà inviato non per tenersi lontano da qualche affare di cui si era impicciato ma per dar conto di un’immane tragedia avvenuta in miniera. Erano infatti crollate alcune gallerie entro le quali erano restati intrappolati numerosi lavoratori. Al suo arrivo all’indomani dell’accaduto, il numero dei morti aumentava di ora in ora; dalle prime stime, che parlavano di una cinquantina di vittime, si arrivò presto a contare 89 morti.

Mettendo il naso nei fatti accaduti il cronista si renderà presto conto che non di una semplice “disgrazia” si era trattato. Quel crollo aveva a che fare con un sistema di lavoro disumano costruito attorno ai “carusi”, sfruttati nelle miniere di zolfo, giovanissimi impiegati secondo la logica del “soccorso morto”. Comprati alle famiglie attraverso il versamento di un misero anticipo in denaro corrisposto dai “picconieri”, questi giovanissimi erano costretti a lavorare alle loro dipendenze fino all’estinzione del debito. La frequente cessione dei ragazzini e la loro deportazione di miniera in miniera prolungava spesso tale tipo di rapporto di lavoro ben oltre il periodo previsto per l’estinzione del debito.

Quello degli zolfatari era un mondo da cui era quasi impossibile emanciparsi e quando la morte prematura non avveniva a causa di qualche incidente sul lavoro, spesso arriva per malattia e stenti derivati dalla vita in miniera. Una delle poche strade percorribili per provare a sottrarsi dalla condanna alle miniere, come si racconta nel romanzo, era quella del seminario, magari in attesa di abbandonarlo per farsi una famiglia lontano dalle gallerie e dallo zolfo.

Particolarmente toccanti sono le pagine del romanzo che raccontano di come si iniziassero i bambini al destino della vita in miniera.

I surfarara, cioè quelli che lavorano in miniera, quando finiscono il turno si rivestono, perché al lavoro stanno quasi nudi dato che sotto terra c’è un caldo asfissiante, poi prendono le loro cose, tra queste un contenitore,la camella, nella quale lasciano di solito un pezzettino di pane e a volte anche un po’ di formaggio, e dopo risalgono in paese. […] Quel pane lasciato nella camella in realtà serve a fare ’ncarnare i bambini, abituarli all’odore del surfaro, dello zolfo. I padri fanno questo perché i figli, spinti dalla fame, che da queste parti non manca mai, lo mangiano con gusto. È così che la zolfara a poco a poco gli entra nel sangue.

Il romanzo procede attraverso la narrazione del cronista che, nel cercare di capire meglio l’accaduto, si imbatte in un fitta ragnatela di segreti e di manipolazioni ordite dai potenti e in una realtà sociale che sembra aver assorbito l’abitudine allo sfruttamento insieme a quella allo zolfo.

L’inchiesta portata avanti dal protagonista svelerà intrecci insospettabili, mentre il giovane, Vincenzo, sopravvissuto una dozzina di giorni sottoterra, sognava di sposarsi, il proprietario della miniera aspirava a trasferirsi in America ed i suoi figli si facevano la guerra l’uno contro l’altro.

Una vicenda intricata, ben raccontata, che, oltre ad appassionare e rimandare ai fatti reali di quella maledetta estate agrigentina del 1916, immerge chi legge all’interno di un universo in cui le tragedie, le morti e gli ammazzamenti fanno da punteggiatura ad una quotidianità dolente su cui ha prosperato, imperterrito, un sistema di sfruttamento che, proprio in quegli anni, mandava al macello tanti suoi giovani nelle trincee, tutto sommato, non così dissimili dalle gallerie in cui i carusi morivano come mosche.


  1. Manoscritto depositato presso l’Archivio di Stato di Agrigento, inventario 9, fascicolo 53, fondo tribunale di Agrigento. Sentenze penali, anno 1919. 

  2. Ibidem. 

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“Pensa il risveglio” di Alessandro Cinquegrani https://www.carmillaonline.com/2022/07/23/pensa-il-risveglio-di-alessandro-cinquegrani/ Sat, 23 Jul 2022 21:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73047 di Davide Tramontin

Alessandro Cinquegrani, Pensa il risveglio, Terrarossa Edizioni, pp. 236, euro 15,90 stampa, euro 9,50 ebook.

Dopo un lungo silenzio Alessandro Cinquegrani torna alla narrativa con un romanzo breve e denso, che segue il brillante esordio avvenuto nel 2012 con Cacciatori di frodo (Finalista al premio Calvino e candidato allo Strega). Nel corso degli ultimi dieci anni l’autore è stato impegnato sul fronte della saggistica, della critica letteraria e cinematografica, trattando argomenti che sono confluiti in Pensa il risveglio. Il romanzo si apre con quella che dopo poche pagine si rivelerà essere la [...]]]> di Davide Tramontin

Alessandro Cinquegrani, Pensa il risveglio, Terrarossa Edizioni, pp. 236, euro 15,90 stampa, euro 9,50 ebook.

Dopo un lungo silenzio Alessandro Cinquegrani torna alla narrativa con un romanzo breve e denso, che segue il brillante esordio avvenuto nel 2012 con Cacciatori di frodo (Finalista al premio Calvino e candidato allo Strega). Nel corso degli ultimi dieci anni l’autore è stato impegnato sul fronte della saggistica, della critica letteraria e cinematografica, trattando argomenti che sono confluiti in Pensa il risveglio. Il romanzo si apre con quella che dopo poche pagine si rivelerà essere la scena di un film ambientato in una realtà distopica a cui il protagonista Alberto sta lavorando insieme all’amico regista Lorenzo. Quest’ultimo sparirà dopo essersi rifiutato di modificare il titolo dell’opera da Albert Speer è morto in La nostalgia dell’acqua. Da subito il protagonista si inserisce passivamente nello spazio lasciato vacante dall’amico occupandone il posto di lavoro, il ruolo di marito, abitandone il mondo.

Tutti i temi portanti del romanzo sono presenti in nuce già dalle prime pagine, quelle in cui il lettore viene per così dire ingannato dalla messa in scena di una storia che non sarà quella narrata, ma che appartiene invece alla finzione cinematografica (a sua volta trasposta in forma letteraria): la dicotomia tra una dimensione ideale ed eterna contrapposta allo scorrere del tempo testimoniato dall’immagine delle rovine costantemente presente nel testo; la paternità e le responsabilità che da essa derivano, suggerite dal sistema di controllo delle nascite descritto nel film e la battaglia tra luce e ombra combattuta all’interno di Alberto e proiettata con modalità espressionista sull’ambientazione in cui la storia è messa in scena.

Alberto si trova a vivere, non la vita dell’amico scomparso, ma nella vita di questo, di cui occuperà lo spazio alla stregua di un parassita. Tuttavia la dimensione di cui diviene abitatore si mostra gradualmente sempre più inquietante e si trova qui uno dei punti di forza della scrittura di Cinquegrani: la resa di uno scenario perturbante attraverso un eccesso di realismo. La compagna che il protagonista “sottrae” all’amico scomparso, pur apparendo esteriormente identica alla donna conosciuta, si comporta in modo meccanico e persino il suo amore e la sua rabbia risulteranno artefatti; piccoli elementi fuori posto in quadri familiari contribuiranno a far sì che Alberto noti quelle che nella storia vengono definite “crepe”, pertugi attraverso cui occhieggiare un’altra dimensione di cui non è dato sapere se sia maggiormente autentica rispetto a quella abitata.

La costruzione della vicenda procede con un complesso gioco di specchi in cui protagonista e lettore vengono disorientati nell’interpretazione di una realtà che appare sempre più contraffatta, in cui ogni luogo ne richiama un altro, ogni soggetto e ogni azione risultano allusivi. Significativo è il rapporto complementare tra il protagonista Alberto e l’amico scomparso Lorenzo, esplicitato a livello tematico nella contrapposizione delle figure di Josef Mengele, il medico famoso per i cruenti esperimenti sui gemelli praticati ad Auschwitz e Albert Speer, massimo interprete dell’architettura nazista e ministro per gli armamenti, l’uomo più vicino a Hitler. I due personaggi storici, costantemente presenti nella narrazione, assumono valenze archetipiche rispetto a due accezioni in cui il Male può essere declinato, ossia quello di una coerenza estrema, di un’aberrazione indicibile, avulso da ogni forma di pentimento (Mengele) oppure il modo subdolo e mutevolmente opportunista, finalizzato a trarre sempre il maggior profitto dalle condizioni presenti (Speer). Il protagonista si troverà dunque a dialogare a distanza con Lorenzo e la sua assenza, quasi si trattasse di un suo doppio al negativo. Il rapporto con l’amico e la ricerca dello stesso si tradurranno in una profonda riflessione in cui componenti della personalità in conflitto tra loro si sostanzieranno nelle immagini e nelle situazioni narrate: luce e ombra, predatore e preda, esistenza e sparizione.

La ricerca di una sintesi psicologica da parte di Alberto viene sviluppata sia dall’interno (riportandone le riflessioni), sia attraverso gli eventi che accadono attorno; ciò rende possibile l’esposizione di temi profondi e controversi per mezzo di una narrazione raffinata che non rifugge l’azione e il colpo di scena, traino di una lettura priva di rallentamenti e in costante accelerazione. Risulta dunque appropriata la collocazione di Pensa il risveglio all’interno di una collana dedicata a testi sperimentali, non solo per un certo gusto postmoderno nel mescolare generi, registri e nel costruire in maniera originale la vicenda (pure presenti), ma soprattutto per la coraggiosa ricerca di una posizione mediana tra un romanzo che potremmo dire “psicologico” e fantastico da una parte e una narrazione coinvolgente caratterizzata dalle meccaniche di un racconto giallo (virato al nero) dall’altra.

Al fine di puntellare le vicende dei personaggi a scenari in continuo mutamento, finalizzati a disorientare il lettore mescolando piani realistici e onirici, vengono utilizzate efficaci trovate quali la costante riproposizione di alcuni elementi (è il caso dei torpedoni Flixbus che Alberto vede continuamente e immagina simili a navi spaziali) a fare da filo rosso. Lo stesso vale per gli obliqui parallelismi che si vanno a creare tra personaggi e situazioni e che generano coincidenze narrative spesso sottolineate dall’autore; tuttavia, se talvolta la strada per interpretare il testo risulta tracciata in modo sensibilmente marcato, va anche evidenziato che i contributi derivanti dal lavoro di critico di Cinquegrani arricchiscono il romanzo, senza per questo risultare l’esposizione di una tesi. In Pensa il risveglio non si riscontra la volontà di insegnare alcunché, evidentemente non ritenendolo lo scopo della letteratura, ma vi si trova il semplice racconto di una storia che fa emergere quesiti e spinge il lettore a riflessioni sul mondo in relazione alla propria interiorità.

Moltissimo si potrebbe ancora dire su questo romanzo: per esempio sulla trattazione del nazismo, rappresentato tanto rispetto alla sua realtà storica, quanto nella sua portata simbolica; o sulla memoria e sul suo rapporto di delicato equilibrio tra giudizio morale e comprensione del proprio oggetto. Ancora: la paternità; l’interrogarsi su rovine, testimoni di un tempo che tutto annienta; gli archetipi junghiani e moltissimo altro è presente nel testo, tanto che sarebbe opportuno intraprendere un suo studio critico. Fluido e profondo, veloce e statico, franco e contraddittorio, Pensa il risveglio si imprime a forza nella fantasia, imponendo la cittadinanza di indimenticabili scene nell’ immaginario del lettore.

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