Roland Barthes – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il reale delle/nelle immagini. Leggere Kracauer nell’era digitale https://www.carmillaonline.com/2024/11/05/il-reale-delle-nelle-immagini-leggere-kracauer-nellera-digitale/ Tue, 05 Nov 2024 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85147 di Gioacchino Toni

Leonardo Quaresima, La realtà, esiste? Leggere Kracauer nell’era digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 114, € 12,00

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, tra gli studiosi di cinema si è palesato un rinnovato interesse per l’opera, soprattutto “pre-americana”, di Siegfried Kracauer (1889-1966), sociologo, teorico del cinema e scrittore tedesco, naturalizzato statunitense, che ha indagato i fenomeni culturali propri della società moderna focalizzandosi sul cinema. A confermare la ripresa di interesse nei confronti di Kracauer, è la ripubblicazione in Italia, nel 2022, dopo due decenni di oblio, del suo Teoria del Cinema. La redenzione della realtà fisica (Cue [...]]]> di Gioacchino Toni

Leonardo Quaresima, La realtà, esiste? Leggere Kracauer nell’era digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 114, € 12,00

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, tra gli studiosi di cinema si è palesato un rinnovato interesse per l’opera, soprattutto “pre-americana”, di Siegfried Kracauer (1889-1966), sociologo, teorico del cinema e scrittore tedesco, naturalizzato statunitense, che ha indagato i fenomeni culturali propri della società moderna focalizzandosi sul cinema. A confermare la ripresa di interesse nei confronti di Kracauer, è la ripubblicazione in Italia, nel 2022, dopo due decenni di oblio, del suo Teoria del Cinema. La redenzione della realtà fisica (Cue Press, 2022), tradotto da Paolo Gobetti e curato da Leonardo Quaresima, testo uscito originariamente in lingua inglese nel 1960 e pubblicato per la prima volta in italiano da Il Saggiatore nel 1962.

È in tale contesto di rinnovato interesse per lo studioso tedesco che Leonardo Quaresima, con il suo La realtà, esiste? Leggere Kracauer nell’era digitale (Mimesis, 2024), si propone di esaminarne il “saggio dimenticato” – o, forse, sarebbe meglio dire frettolosamente “rimosso” – rapportandolo con la produzione degli anni Venti ed in particolare con un suo scritto sulla fotografia del 1927 contenuto nella raccolta Das Ornament der Masse (1962), anche questa recentemente ripubblicata in lingua italiana (La massa come ornamento, Cue Press, 2023) con traduzione di Maria Giovanna Amirante Pappalardo e Prefazione di Emiliano Morreale.

La prima pubblicazione in Italia di Theory of film. The redemption of physical reality, agli inizi degli anni Sessanta, era corredata da un’ampia introduzione di Guido Aristarco che ne metteva dapprima in risalto analogie con la concezione zavattiniana del cinema per poi estendere l’idea di realismo che ravvisava nel testo del tedesco alla produzione cinematografica allora contemporanea e alla nozione di “cinema d’autore” in auge all’epoca.

A differenza di quanto era accaduto per il volume From Caligari to Hitler. A psychological history of the German film (1947), a livello internazionale, soprattutto nei paesi anglosassoni, Theory of film è stato considerato un testo incapace di relazionarsi con con il dibattito culturale e teorico e con le nouvelles vagues del periodo. Anche in Germania, a partire dalla rivista “Filmkritik”, l’accoglienza è stata negativa sia sul versante della critica che dei cineasti.

Un’importante tappa del lavoro di storicizzazione dell’opera di Kracauer, ricorda Quaresima, si deve alla grande mostra del Deutsches Literaturarchiv di Marbach am Neckar organizzata nel corso del centenario della nascita dello studioso tedesco, iniziativa che ha contribuito allo studio dell’opera di Kracauer da parte di nuove generazioni di studiosi. A Miriam Hansen, ad esempio, si devono importanti approfondimenti circa il rapporto tra Teoria del cinema e l’attività critica e saggistica di Kracauer nel periodo weimariano.

Kracauer sembra ammettere il cinema narrativo soltanto fino a quando questo asseconda le proprietà ontologiche del mezzo, finché è capace di restituire un’illusione della realtà, mentre a proposito del cinema documentario palesa una posizione decisamente articolata e complessa, tanto che a proposito dei “film di fatti” ragiona sul loro non esplorare l’intera realtà fisica. Kracauer, come André Bazin (Qu’est-ce que le cinéma, 1958), propone una lettura ontologica del cinema, convinto che in ciò risieda la sua “natura specifica” derivata “dalle qualità fotografiche” presenti in esso. Il rapporto con la realtà resta per il tedesco il fondamento della specificità della fotografia e del cinema.

Riprendendo gli studi di Claudia Krebs (Sur le roman «Ginster», ou de Siegfried Kracauer, 2001), Quaresima sottolinea l’importanza dei romanzi di Kracauer Ginster (1928) e Georg (1934) per la genesi del suo saggio sul cinema. In ambito letterario Kracauer opta per l’anonimato, cosa per lui consueta negli anni weimariani, inoltre non manca di riprendere l’esperienza espressionista pur criticandola per l’eccesso di soggettività. Ad essa riconosce però il merito di aver fatto della città un oggetto poetico, non a caso in Theory of film l’esperienza della città assume notevole importanza.

«Nel 1960, nel pieno del trionfo della nozione d’autore e della nozione di stile, inteso, quest’ultimo, come espressione della presenza e operatività del primo, Teoria del cinema propone un impianto che non è fondato sulla nozione d’autore, e non è fondato sulla nozione di stile. Di qui le valutazioni di anacronismo» (p. 46). Contestualizzato il rifiuto di allora, Quaresima riflette su come si possa guardare al testo di Kracauer oggi, quando ormai ad essere andata in crisi è quella stessa radicale nozione di autore (proposta, tra gli altri, da Roland Barthes) che, allora, condannava all’oblio lo scritto del tedesco.

Teoria del cinema non è un saggio sulla nozione di realismo in generale […], ma una teoria materialista del cinema. La formulazione non avviene a partire da una disputa ideologica, e un ruolo decisivo non è neppure giocato dalla concezione ontologica del nuovo mezzo: parte dalla individuazione di un residuo duro, grezzo, non addomesticabile dai sistemi di produzione e rappresentazione, un nocciolo che resiste, sopravvive loro e possiede una “vitalità”, una capacità di significazione ed espressione, inesauribile. (Che neppure il moderno universo digitale e virtuale, aggiungo, sembra in grado di ammansire e vanificare). Tanto meno risulta addomesticabile da ogni pretesa di rifunzionalizzazione e riordino in chiave estetica. […] “Un ‘buon film’ non dovrebbe aspirare all’autonomia di un’opera d’arte, ma ‘contenere errori, come la vita, come la gente’” [scrive, riprendendo Federico Fellini, Kracauer in Teoria del cinema]. (Un’esperienza di realtà aumentata senza errori, mi permetto ancora di aggiungere, si limiterebbe a farci entrare in un universo, il più affascinante, il più coinvolgente, ma non in quello della vita) (p. 78).

Dunque, al di là del piano storiografico, di una sistematizzazione delle “teorie classiche” sul cinema, cosa ha ancora da dirci oggi Teoria del cinema, in un contesto di digitalizzazione delle immagini? Per rispondere a questo interrogativo Quaresima parte dalle riflessioni più avanzate circa lo sviluppo e la teorizzazione del cinema moderno, al culmine dell’era analogica nel momento in cui ci si è trovati a fare i conti con la svolta digitale e con la dissoluzione dell’aura di cui godeva nella lunga stagione della cinefilia. Jean-Louis Comolli ha sottolineato come il digitale, con la sua perfezione offra una “falsa trasparenza assoluta”, in cui “la materia si dissolve nei numeri” proponendosi ai soggetti in maniera individuale.

Tra i cineasti che hanno messo in risalto la fine del cinema così come lo si è conosciuto nell’era analogica, Quaresima cita, come esempi, David Lynch (“Il cosiddetto film che si guarda in un telefonino è semplicemente un alieno”), Peter Greenaway (il cinema è morto “quando il telecomando è stato introdotto in salotto”) e Jean-Luc Godard – autori che hanno saputo evitare di rifugiarsi nella nostalgia confrontandosi con le possibilità offerte dal digitale – o lo stesso Chris Marker (“In televisione vediamo l’ombra di un film, il rimpianto di un film, la nostalgia e l’eco di un film, ma mai un film”), mentre tra gli studiosi, oltre a Comolli, fa riferimento a Raymond Bellour (“Il cinema è dappertutto, compresa l’arte contemporanea, ma non è cinema” ed a Jacques Aumont (“Ogni presentazione di film che mi lascia libero di interrompere o di modulare questa esperienza non è cinematografica”).

Tra coloro che hanno interpretato in altro modo la svolta digitale Quaresima ricorda Philippe Dubois: oggi “il cinema è più vivo che mai, più sfaccettato, più intenso, più onnipresente di quanto non lo sia mai stato”; “Qualunque immagine in movimento, qualunque sia la sua forma è parte integrante del medium cinema”; “La pellicola non è più il criterio, né la sala, né l’unico schermo, né la proiezione, e neppure gli spettatori. Oui, c’est du cinéma. Un cinema dai mille luoghi. Cinema al di fuori della ‘Legge’. Selvaggio, deregolato, proliferante ben altro che in via di scomparire”; “la pellicola scompare, ma il cinema persiste, perché la supremazia dell’immagine e dei processi digitali di post-produzione non hanno inciso in modo significativo sulle regole narrative tipiche del film di finzione.”

André Gaudreault e Philippe Marion (La Fin du cinéma. La résilience d’un media à l’ère du numérique, 2023) guardano invece al digitale come ad una sorta di ennesima rinascita del cinema «coincidente con una nuova ricerca di identità, ma che tuttavia, nella intermedialità e integratività che la caratterizza, comporta un “ritorno alla porosità, al pot-pourri, alla ibridazione, alla fertilizzazione incrociata, di cui il medium è intriso nella sua prima nascita”» (p. 88). David Norman Rodowick (The Virtual Life of Film, 2007) vede in Theory of film di Kracauer uno egli ultimi grandi lavori della “teoria classica” del cinema che si può proiettare al futuro più che al passato.

Quaresima riprende la questione dell’indexicalità, su cui si fondano tanto la fotografia quanto il cinema, che con la svolta digitale sembra venir meno. Dalla registrazione della realtà si passerebbe alla sua ricostruzione, il legame con il referente tenderebbe a dissolversi in favore di quello che (nell’introduzione di Theory of film di Kracauer) Miriam Hansen definisce il “regno della simulazione”. «Fiumi di inchiostro sono stati versati su questa nuova, artificiale, sintetica, qualità dell’immagine elettronica» (p. 89), ma Quaresima si dice convinto che tale certezza circa la perdita del legame con il referente possa essere messa in discussione, come del resto hanno fatto, tra gli altri, Mary Ann Doane (The Emergence of Cinematic Time: Modernity, Contingency, the Archive, 2002), Temenuga Trifonova (Archiving Time in the Post-Modern Condition, 2011), Marc Furstenau e Martin Lefebvre (Digital Editing and Montage. The Vanishing Celluloid and beyond, 2002).

Indipendentemente dai processi di generazione, resta il fatto che il visibile dell’immagine digitale è quanto di più realistico sia oggi possibile. «Presenta universi implicitamente (perché ricostruiti numericamente), e anche esplicitamente, fantastici, ma ce li sottopone alla percezione come universi coerenti, dettagliati, dalla evidenza fisica, costruiti per produrre gli stessi effetti percettivi di un’immagine reale (nella sua riproduzione fotografica, diciamo)» (p. 90). Dunque, scrive Quaresima, «Il digitale trasforma il fantastico in realtà “materiale”. Anche in una prospettiva essenzialista, se facciamo riferimento al modo di esistenza percettivo delle immagini in questione, restano in vigore tutte le qualità del film analogico» (p. 90).

Lutz Koepenick (In Kracauer’s Shadow: Physical Reality and the Digital Afterlife of the Photographic Image, 2012) sottolinea come la svolta digitale non comprometta affatto l’attualità della teoria fotografica proposta da Kracauer e, scrive Quaresima, contesta «l’idea di una “rottura con l’indexicalità” dell’immagine digitale, facendo riferimento al ruolo della luce che colpisce la superficie sensibile, all’inclusione del corpo del fotografo, e a una valutazione delle manipolazioni, rese possibile dal software, non diverse da quelle realizzabili nella camera oscura» (p. 90).

Certo, le immagini digitali possono falsificare il reale, come del resto poteva fare, ed ha fatto, la fotografia convenzionale, “ma nel momento in cui falsificano il reale, inventando nature alternative e allontanando gli osservatori da vedute preconcette, anche le immagini digitali fanno riferimento a nient’altro che la nostra fondamentale aspirazione a forme indeterminate di esperienza percettiva e corporea, aspirazione a ciò che è materiale e sensibile – e lo fanno in maniera forse più forte di quanto mai avesse fatto l’immagine analogica” (Lutz Koepenick, In Kracauer’s Shadow, cit.). Se è pur vero che la fotografia digitale “disintegra il corpo della realtà in reti di pixel”, continua Koepenick, “tuttavia i pixel non sono solo codici astratti o rappresentazioni immateriali di set di numeri. Essi, a loro volta, hanno un corpo, e in questo modo sono legati proprio alla realtà che evocano. Occorre partire dalla presa d’atto che le immagini fotografiche, digitali o no, portano con sé una certa promessa di tocco e contatto fisico, e segretamente contestano la totale dematerializzazione della natura e l’inquadramento scientifico della realtà fisica”

Nell’ultima parte del volume, Quaresima si sofferma sul significato che si può attribuire al termine “redenzione” presente nel sottotitolo (The redemption of physical reality) di Theory of film di Kracauer. In prima battuta si potrebbe affermare che «il cinema redime la realtà fisica, cioè permette alla realtà di manifestarsi attraverso la macchina da presa, realtà altrimenti come annebbiata, offuscata» (p. 94). Insomma, analogamente a quando riteneva Walter Benjamin (L’opera d‘arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), anche Kracauer sembrerebbe pensare alla capacità del film di svelare aspetti della realtà altrimenti preclusi agli occhi; su ciò Quaresima riporta, come esempi, gli studi di Graeme Gilloch (Siegfried Kracauer. Our Companion in Misfortune, 2015) e Gertrud Koch (Siegfried Kracauer. Zur Einführung, 1996).

Theory of film è stato anche inteso come precursore della “filosofia del cinema” e nello specifico del tema della “redenzione”, riferimenti diretti, secondo Drehli Robnik (Among Other Things – a Miraculous Realist, 2012), si possono individuare in Gilles Deleuze (L’Image-temps, 1985) e Jacques Rancière (La Fable cinématographique, 2006). Quaresima evidenzia come in Kracauer il processo di redenzione della realtà fisica sembri derivare da presupposti teologico-messianici, dal desiderio di riscattare l’esistenza materiale dall’astrazione provocata dal processo di razionalizzazione del mondo.

Che Teoria del cinema non sia un testo semplicistico, come a lungo e diffusamente è stato ritenuto, risulta evidente soprattutto nella lettura dell’Epilogo e, scrive Quaresima, non lo è a maggior ragione in un periodo come quello contemporaneo

in cui l’immagine in movimento regna sovrana, e ben al di là dell’ambito della comunicazione e dell’“intrattenimento”, sorta di iconosfera che avvolge e permea la nostra esistenza. Il cinema, ciò che dell’immagine in movimento conserva la vitalità e la operatività del cinema, quello che “sì, è cinema”, esercita pienamente e trionfalmente la stessa funzione di redenzione della realtà. Nel continuum visivo, un’installazione ci tocca nel profondo, una serie ci turba e mette in discussione, un videoclip fa scattare una scintilla, un film (ne esistono ancora, certo, anche se per lo più fuori dal dispositivo classico – sullo schienale del sedile di un treno o di un aereo, quotidianamente dai nostri dispositivi “intelligenti”); un film investe il nostro inconscio ottico, un’esperienza di realtà virtuale ci fa entrare in vibrazione, fa scattare le nostre risposte psicofisiche, ci riporta a contatto con ciò che l’immagine digitale ha tutt’altro che archiviato in un’epoca ormai passata. Quella “cosa”, quelle “cose” possiamo chiamarle “realtà fisica”. Le immagini salvano ciò che ci circonda e la nostra esistenza. La redenzione è una riattribuzione di parola. Redimere la realtà significa riportarla a una esistenza non funzionale, non simbolica, ma “letterale”, “materiale” (p. 101).

Ci si è chiesti se, dopo una tragedia come quella dei campi di sterminio nazisti, esista ancora il cinema, se cioè il cinema possa far “aprire gli occhi” consentendo di guardare l’orrore e di redimerlo dall’invisibilità. Kracauer non segue il convincimento di Bazin che riteneva la morte irrappresentabile sullo schermo ma, conclude Quaresima, «Che si propenda per la linea Bazin o per quella dello studioso tedesco, è qui, anche, che si misura la possibile attualità di Kracauer, la capacità o meno del suo pensiero di interagire, in profondità e fruttuosamente, con l’universo attuale delle immagini in movimento» (p. 107).


Il reale delle/nelle immagini – serie completa

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Contro la smart city https://www.carmillaonline.com/2024/02/06/contro-la-smart-city/ Tue, 06 Feb 2024 21:00:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81052 di Paolo Lago

Perfect days (2023) di Wim Wenders mostra una vera e propria ‘mappatura’ dello spazio urbano ad opera del protagonista, Hirayama, che esegue le pulizie delle toilette dei parchi pubblici del quartiere Shibuya di Tokyo. Il personaggio vive in un modesto appartamento vicino a una strada alberata e al mattino si alza per andare al lavoro. Il film ci mostra praticamente in tempo reale le azioni quotidiane svolte da Hirayama: lavarsi, vestirsi, curare le piante, uscire di casa, prendere una lattina di caffè da un distributore automatico e salire sulla sua auto nella quale custodisce tutto il necessario per [...]]]> di Paolo Lago

Perfect days (2023) di Wim Wenders mostra una vera e propria ‘mappatura’ dello spazio urbano ad opera del protagonista, Hirayama, che esegue le pulizie delle toilette dei parchi pubblici del quartiere Shibuya di Tokyo. Il personaggio vive in un modesto appartamento vicino a una strada alberata e al mattino si alza per andare al lavoro. Il film ci mostra praticamente in tempo reale le azioni quotidiane svolte da Hirayama: lavarsi, vestirsi, curare le piante, uscire di casa, prendere una lattina di caffè da un distributore automatico e salire sulla sua auto nella quale custodisce tutto il necessario per il lavoro. Sembra quasi che la ‘mappatura’ della città attuata da Hirayama cerchi di plasmare, lentamente, un nuovo spazio urbano sottratto alle sempre più pervasive “smartificazione” e digitalizzazione. Spostandosi in auto, non mette in funzione apparecchi digitali o connessi ma ascolta esclusivamente canzoni rock americane degli anni Settanta riprodotte da musicassette. Il personaggio guarda quindi lo spazio urbano attraverso il filtro della musica ‘sporca’ proveniente da un apparecchio analogico: il suono, cadenzato dal fruscio del nastro, è infatti lontanissimo dalle algide riproduzioni digitali. Osservando le strade, i palazzi e gli scorci urbani tramite il filtro di una musica proveniente da un ‘altrove’ lontano nel tempo (sia quello a cui appartengono i cantanti e i gruppi rock che quello a cui appartengono le musicassette come oggetti) Hirayama compie una vera e propria decostruzione della Tokyo smart city contemporanea. Il protagonista di questo nuovo film del regista tedesco rimanda inoltre a molti altri personaggi del cinema di Wenders che ‘filtrano’ lo spazio urbano attraverso la musica che ascoltano nella loro auto: basti ricordare il Philip Winter di Alice nelle città (Alice in den Städten, 1974), il quale ‘rilegge’ le città attraversate anche per mezzo di uno sguardo musicale.

La lentezza e la metodicità che il personaggio dedica al proprio lavoro – considerato da chiunque come sordido o dequalificante – introduce la solennità del rito. La lentezza intende caricare di senso il tempo e lo spazio della contemporaneità, perduto nella macina di una comunicazione iperveloce. Come scrive Byung-Chul Han, “l’iper-comunicazione anestetica riduce la complessità, per raggiungere una maggiore velocità. Essa è sostanzialmente più veloce della comunicazione sensata. Il senso è lento, è di ostacolo ai circuiti accelerati dell’informazione e della comunicazione”1. La pulizia dei bagni pubblici rientra nella ritualità che investe la vita quotidiana di Hirayama: i suoi gesti, anche nel momento del lavoro, appaiono quasi venati di una sacralità perduta che si pone in netta contrapposizione con la velocità e l’inconsistenza che dominano l’esistenza degli individui contemporanei. Il protagonista di Perfect days è il costruttore di uno spazio alternativo a quello digitale e iperveloce contemporaneo. Anche nel momento della pausa pranzo dal lavoro, cerca di costruire una nuova spazialità urbana, cerca di sottrarre luoghi e spazi al magma fagocitante della contemporaneità. Si siede infatti sempre sulla stessa panchina, nello stesso parco pubblico, e scatta delle foto agli alberi con un apparecchio analogico, senza porre l’occhio dietro l’apparecchio rifiutando in tal modo di influenzare con il suo sguardo lo scorrere sempre uguale dei ritmi naturali e del movimento del vento tra le foglie degli alberi. La stessa ripetitività con la quale avvengono le azioni del personaggio lungo i giorni della settimana servono per instaurare una nuova temporalità, basata sul rito e su una concezione ‘sacrale’ dell’esistenza, che si oppone alla temporalità compressa e sempre preda di nuovi stimoli sensoriali degli spazi contemporanei. Gli spettatori che non hanno compreso o, peggio, si sono dimostrati infastiditi e annoiati da questa ripetitività di azioni, probabilmente appartengono in tutto e per tutto alla dimensione digitale e iperveloce contemporanea, e non si meritano di meglio. Wenders, con il suo film, ci mostra degli esempi di “immagini-tempo”, per utilizzare un’espressione di Gilles Deleuze: alla temporalità frantumata e veloce delle “immagini-movimento” si sostituisce quella lenta e ‘cristallizzata’ del rito2.

La ripetizione dei gesti e delle azioni domina anche i momenti in cui Hirayama, finito il lavoro, percorre in bicicletta gli spazi cittadini. Egli si muove quasi come un antico eroe epico che, spostandosi, attua una nuova lettura dello spazio3: sovverte, disarticola, smembra e ricostruisce in una dimensione sociale e culturale che si pone contro la concezione ipercontemporanea di smart city. Il personaggio si reca ai bagni pubblici per lavarsi, mettendo in atto un’altra azione rituale e conclude la sua giornata cenando in una tavola calda in una stazione, in mezzo a un frenetico passaggio di persone. Ecco che egli rilegge in modo diverso anche un luogo inserito nella velocità, nella spersonalizzazione e nella massificazione contemporanea. Dentro l’“inferno dell’Uguale”4, Hirayama si ritaglia un piccolo spazio in cui possono ancora valere gesti semplici e antichi, come bere e mangiare dopo aver scambiato sguardi e parole d’intesa con il padrone del piccolo locale. Anche il luogo dove si reca a mangiare nei giorni liberi dal lavoro si presenta come uno spazio dominato dai rapporti umani autentici, una piccola isola nel cuore spersonalizzato della metropoli: una padrona che sembra provenire dal Giappone più arcaico, degli avventori che condividono gioie e dolori e che concludono la serata cantando e suonando la chitarra. Nell’Uguale, egli cerca il Diverso sottraendosi agli obblighi sociali che rendono tutti gli individui uguali fra di loro: la ricerca del divertimento sfrenato, l’utilizzo di apparecchi ultramoderni e iperconnessi, la frequentazione di un certo tipo di ambienti, l’attenzione per le immagini digitalizzate e perfette. Il personaggio parla la propria città in modo diverso rispetto alla massificazione che la società tecnocapitalistica vorrebbe imporre. Come scrive Roland Barthes, infatti, “la città è un discorso, e questo discorso è un vero e proprio linguaggio; la città parla ai suoi abitanti e noi parliamo la nostra città, la città in cui ci troviamo, semplicemente abitandola, percorrendola, guardandola”5.

La città che Hirayama plasma col suo movimento si contrappone nettamente, ad esempio, agli spazi in cui si muovono i personaggi di Parasite (2019) di Bong-Joon-Ho. Non solo gli ambienti ipertecnologici ma anche quelli più poveri, nel film del regista sudcoreano, sono caratterizzati dalla presenza degli smartphone, utilizzati indifferentemente da tutti. Gli sfondi e gli ambienti di Perfect days, nei quali vive e si muove il protagonista, sono caratterizzati dalla materialità di oggetti profondamente reali: le musicassette, i vecchi libri, acquistati in una rivendita di libri usati fuori dai normali circuiti investiti dalla velocità del consumo, la stanza nella quale Hirayama attua il rituale della lenta lettura prima di addormentarsi, le scatole nelle quali vengono riposte le fotografie in bianco e nero scattate agli alberi, le piante e i bonsai di cui si prende quotidianamente cura. La Tokyo ‘costruita’ dal personaggio del film di Wenders assume un carattere profondamente umano: la decostruzione in senso anti-digitale non è rivestita di connotazioni distopiche come, ad esempio, nella serie tv Alice in Borderland, in cui la metropoli giapponese appare devastata e imbarbarita.

La lentezza e la ripetizione su cui insistono le immagini del film intendono quindi costruire una dimensione più umana, ‘detecnicizzata’ e ‘desmartificata’, in cui anche il tempo assume un carattere più lento e legato ad un’esistenza da riempire di significato minuto per minuto. Alla giovane nipote Niko, che si reca a fargli visita, Hirayama dirà infatti che “adesso è adesso e un’altra volta è un’altra volta”, a ribadire la necessità di trasformare ogni attimo in un irripetibile frammento di esistenza. Il personaggio si muove nello spazio urbano per creare – sembra – una dimensione di vita più autentica per sé stesso e per chi gli sta intorno, ricercando un contatto più autentico anche con la vegetazione che ancora riesce a sopravvivere nel magma di cemento della metropoli, non decostruita in inconsistenti immagini digitali, ma consegnata alla memoria in un tenue e cartaceo bianco e nero. Il movimento del personaggio appare perciò – ma questa proposta è solo una delle possibili chiavi di lettura del film – come una strenua lotta di sopravvivenza contro la smart city contemporanea.


  1. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Nottetempo, Roma, 2014, p. 28. 

  2. Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, trad. it. Ubulibri, Milano, 1989 e Id., L’immagine-movimento, trad. it. Ubulibri, Milano, 1984. 

  3. Cfr. B. Westphal, Geocritica. Reale Finzione Spazio, trad. it. Armando Editore, Roma, 2009, p. 114. 

  4. Cfr. B.-C. Han, La società della trasparenza, cit., p. 10. 

  5. R. Barthes, Semiologia e urbanistica, in L’avventura semiologica, a cura di C. M. Cederna, trad. it. Einaudi, Torino, 1991, p. 265. 

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L’Italia ha ancora qualcosa da dire? https://www.carmillaonline.com/2023/01/26/litalia-ha-ancora-qualcosa-da-dire/ Thu, 26 Jan 2023 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75780 di Luca Baiada

A settembre 1944, per la riapertura dell’Università di Firenze, Piero Calamandrei fa un discorso che verrà stampato col titolo L’Italia ha ancora qualcosa da dire. L’anno che si apre sotto il governo Meloni, invece, consegna al futuro un paese impoverito, confuso, profondamente ingiusto e innamorato di tristi balocchi: sport corrotto, barbarie da schermo, ossessioni mangerecce, devozionismi piazzaioli, sottocultura fisica fatta di tatuaggi, di tinture per capelli, di sesso ginnico, seriale o immaginato.

Le rovine non sono quelle della battaglia di Firenze, non c’è un comandante «Potente» da piangere [...]]]> di Luca Baiada

A settembre 1944, per la riapertura dell’Università di Firenze, Piero Calamandrei fa un discorso che verrà stampato col titolo L’Italia ha ancora qualcosa da dire. L’anno che si apre sotto il governo Meloni, invece, consegna al futuro un paese impoverito, confuso, profondamente ingiusto e innamorato di tristi balocchi: sport corrotto, barbarie da schermo, ossessioni mangerecce, devozionismi piazzaioli, sottocultura fisica fatta di tatuaggi, di tinture per capelli, di sesso ginnico, seriale o immaginato.

Le rovine non sono quelle della battaglia di Firenze, non c’è un comandante «Potente» da piangere insieme, stretti alla Brigata Sinigaglia, ma non c’è neanche da festeggiare la sconfitta dei cecchini, i terroristi del gerarca Pavolini tirati giù dai tetti a fucilate. Anzi, solo a parlare di combattimento a mano armata si rischiano accuse di odio, perché adesso, fra gli ammennicoli di una società rigidamente classista, c’è un accessorio da psicopolizia: l’accusa di malanimo. Un po’ è nipote dei sospetti di stregoneria e malocchio, un po’ è figliastra di certi reati d’opinione evanescenti, quelli nel codice penale che porta la firma di Mussolini, e che la mano del nuovo quadro politico potrebbe persino peggiorare.

Il buon uso delle rovine, alla Franco Fortini, ha fatto poca scuola, e se si dovesse guardare a Firenze si avrebbe un bel campionario: la città vetrina, coi negozi tirati a spolvero, con le luci giuste e il diffusore di profumo, non è quella in Mara di Blasetti (ma da Vasco Pratolini), con Yves Montand, nel 1954. Nel senso che la devastazione, a Firenze come nelle altre città italiane, passa dagli occhi, dalle mani, dai cellulari, c’è chi la trova divertente e c’è chi l’ha trasformata in spettacolo senza intervallo, monolocale nei contenuti e tascabile nei terminali. È il trionfo di un affarismo estrattivo, a spese dell’ambiente naturale, umano, culturale. Persino a spese di qualcosa che si potrebbe chiamare anima, se il concetto non fosse stato prima abusato nelle sacrestie, ma adesso, con più furbizia, accaparrato dalla pubblicità dei prodotti per animali da compagnia.

Bolton King, nel suo Fascism in Italy del 1931, bollava Mussolini come «cattivo europeo» e denunciava: «Odia il “malsano internazionalismo” ed è stato amaro contro le “parole di pace, di umanità, di fratellanza tra i popoli”; accetta la Società delle Nazioni solo in quanto vi è obbligato». Le parentele di questo col sovranismo del XXI secolo sono carsiche e alterate da convitati di pietra: una massa di denaro europeo da spartire, uno sciame di investitori che si sposta secondo le convenienze, un ceto di mediatori che ci fa la cresta con le provvigioni. Di Fascism in Italy, libro asciutto e molto british, stampato clandestinamente da Giustizia e libertà, Lauro De Bosis gettò un po’ di copie, in volo su Roma, prima di inabissarsi nel Mar Tirreno col suo piccolo aeroplano. Oggi De Bosis sembrerebbe un Icaro in vestaglia, un esteta balordo con le paturnie, perché fra le cose che ci hanno rubato c’è il senso profondo di santità civile. È stato sostituito da una italica levitas immutabile, tornata su dai tempi dei cicisbei, degli abatini e delle accademie, come le blatte, inesorabilmente, tornano su dall’acquaio, a dispetto di tutti i disinfettanti.

Anche Cesare Zavattini aveva fiutato la trappola, aveva capito che ci sono molti modi per dire, e molti di più per mettere a tacere: «Per la verità la censura è come Proteo, si trasforma continuamente»; l’autore di Totò il buono vedeva lontano: «Insomma è un modo di vita, un modo di governo». Lo scriveva a proposito di cinema: censura attraverso i finanziamenti, i suggerimenti politici, i premi; ma vale per tutto. Le sue parole riemergono in la Pace. Scritti di lotta contro la guerra (La nave di Teseo, 2021), e il titolo è proprio così, comincia con la minuscola e poi s’ingrossa. Somiglia a lui. Me lo ricordo nel suo studio, coi fiaschi di vino sugli scaffali, insieme ai libri. Adesso il Proteo piglia la forma di una memoria ingessata, innocua, imprigionata in una pappa di chiacchiere, come certi insetti di milioni di anni fa, che non pungono più perché sono avvolti in una goccia d’ambra, mutati in gioielli. La memoria diventata soprammobile: un fermacarte chiamato memoria. Un accompagnamento indispensabile nelle case perbene, come quei fiori da niente in cui Raffaello Giolli vedeva il sunto atroce della sconfitta del Risorgimento, fin nel privato, nella prostituzione degli intellettuali: la conservazione era già riuscita a impadronirsi di ogni cosa; «ma non della storia, che è un’altra cosa. Tutt’al più, s’è detto, dei libri degli storici: ma anche questi non erano che oggetti deperibili, un illuso ornamento dell’ora, altri fiori di carta». Così scriveva, quel grande, prima di essere deportato a Mauthausen Gusen, da cui non avrebbe fatto ritorno.

In questo momento l’Italia non ha nulla da dire perché si parla nell’ombelico, perché non ha niente da dire agli altri, perché è un paese rattrappito.
Gli avvertimenti non erano mancati, e presto. Nell’Antologia della Resistenza, ideata nel 1950 a Torino, al congresso nazionale dei centri del libro popolare, c’è un’introduzione di Augusto Monti, che ci tiene a far sapere di averla scritta a Cavour:

Oggi, a cinque anni soli dalla Liberazione, in Italia c’è di nuovo il fascismo, nella Europa occidentale e centrale c’è di nuovo il nazifascismo, in America è spuntato e s’espande il fascismo. E si voleva, di nuovo, dare l’allarme: ricordare che il fascismo è come la gramigna, che finché non s’è fatto tutto per estirparla non s’è fatto niente; e un campo dove alligni anche una piccola radice di tale zizzania non può portar nulla di buono. Il fascismo è il fior del male. È il grido della civetta, segna la morte. È come la stella cometa che viene ad annunciare la guerra: oggi il fascismo, domani il peggio.

Ma nel 1950 l’unità del fronte antifascista era già quasi un ricordo. Tutti si sentivano più furbi di quell’arnese superato, troppo corto per una rivoluzione e troppo lungo per il quieto vivere, come l’abito smesso di un fratello a cui si rimproverano oscure colpe, per nascondere la propria inadeguatezza. Tutti avevano priorità urgenti, escatologie formidabili, promesse dell’avvenire, di qua o di là dalla morte. Qualcuno voleva imparare da Machiavelli i trucchi per giocare d’astuzia il papato, mentre il Vaticano si leccava ancora le labbra per il buon boccone concordatario, incassato nel 1929 ed entrato nella nuova Costituzione, nel 1947, a dispetto della Repubblica.

Le promesse al di qua della morte, prima della fine del secolo si sarebbero rivelate più facili da mettere alla berlina: sarebbe bastato prendere a picconate un muro. Le altre, si sa, si prestano meglio a differimenti controllati, a indulgenze, a compravendite di anime del Purgatorio, al «vi faremo sapere». Questo spiega perché la morte di un tedesco coi modi zuccherini dell’Omino di burro di Collodi, un bavarese che nel 1950 era un giovane chierico, ma che pochi anni prima aveva fatto parte della Hitlerjugend, della Wehrmacht e della Flak, combattendo per Hitler, nel 2023 attira folle a Roma, e si sente gridare «santo subito» come per il suo predecessore polacco, che lui stesso canonizzò a furor di popolino.

Il secolo breve che comincia a Sarajevo, finisce a Sarajevo, nota Eric Hobsbawm in The Present as History, uno scritto vertiginoso pubblicato come «Creighton Lecture», perciò rispettabile come una bombetta londinese. Le questioni nazionali si ripresentano, ombre col corpo, false perché hanno qualche verità fra parentesi. Le insiemistiche umane che le solidarietà di classe perdono di vista, tornano a braccetto delle sorellastre identitarie e viscerali, e finisce l’incantesimo: Cenerentola si ritrova nei cenci di serva, la carrozza d’oro torna a essere una misera zucca.
L’Italia, un po’, aveva provato a fare chiarezza, soprattutto quando era stata chiarezza di parte. Raffaello Ramat, nel melmoso clima badogliano dell’agosto 1943:

Di questo avvilimento generale una classe sopra tutte è responsabile: quella degli scrittori. Gli scrittori hanno il compito di educare. Non si venga fuori con l’autonomia dell’arte: quello è un altro discorso, e chi lo incominciasse ora, vorrebbe imbrogliare le carte. […] In ispecie agli scrittori dei giornali, si deve la situazione che si era stabilita in Italia, per cui ciascuno mentiva e chi l’ascoltava fingeva di crederlo in buona fede perché gli altri fingessero di crederlo in buona fede quando fosse arrivato il suo turno di mentire.

Si vede che non era stato ascoltato, molto tempo prima, Giuseppe Mazzini: «Pensate a rinnovare l’edificio intellettuale con gli scritti poiché il politico non potete; scotete le menti, mutando il punto di mossa e la linea di direzione, scrivete storie, romanzi, libri di filosofia, giornali letterari; ma sempre colla mente all’intento unico che dobbiamo prefiggerci, col cuore alla patria». Patria. Si ascolta male, questa parola, se a ripeterla adesso è un governo che vuole togliere ai poveri un misero sussidio, persino diversificare i diritti sociali secondo le regioni, chiamando l’inganno «autonomia differenziata». Si ascolta male, mentre ragazzini imberbi cadono sul lavoro, in omicidi chiamati «incidenti». Ma il senso del discorso era forte, in Mazzini: l’Italia e l’unificazione nazionale, o sono per l’umanità, o non sono. Pericoloso o inconfessabile?

Renzo Renzi, che era stato fascista, che si era chiarito le idee in guerra, e che nel 1953 finì in galera per il progetto di un film imbarazzante, L’armata s’agapò, mise in guardia: «Il fascismo era la patria. Com’era possibile rovesciare il fascismo senza rovesciare anche la patria, religiosa comunità degli italiani? (Simili giochetti sono di moda anche oggi da parte di chi si identifica con la patria, quindi esige il massimo rispetto)». Ma neanche negli anni Cinquanta, un partito si sarebbe cucito un nome sforbiciando le prime parole dell’inno nazionale.

Quando il progetto fu continentale, invece, patria si poté dire con altri sensi. Una fotografia, a Montefiorino. Due partigiane armate ne affiancano una terza, raggiante, che srotola da un pennone una bella bandiera. Guardi meglio, cerchi il punto alla Roland Barthes, e vedi che il pennone è un mattarello, la bandiera è una sfoglia di farina: forse serve per una grossa piadina, forse è la base per ritagliarci i tortellini. Una frugale abbondanza armata, una padronanza del proprio destino che sprizzano gioia. Allora, l’Italia ebbe qualcosa da dire, affidando l’orazione a una pagina appetitosa e a grosse biro d’acciaio, di quelle col manico e la cinghia a tracolla. Ma il volume era un’opera aperta, che sotto raspava la terra e intorno la sognava tutta quanta, come il trattore della famiglia Cervi, col mappamondo montato sopra il motore.

Antonio Gramsci, ricordando il primato italiano riconosciuto proprio da Mazzini, come da Gioberti, lo considera retorico ma salva la sostanza: c’è un cosmopolitismo italiano, non perché romano né perché cattolico, ma come produttore di civiltà: «La tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale o nell’intellettuale tradizionale». È il «popolo lavoratore», cosmopolita per vocazione storica, che non sfrutta ma coopera alla costruzione del mondo, perché «si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione». Di questo non c’è una migliore spiegazione, ma quel che conta è che Gramsci finisca per salvare un primato. Eppure, persino lo storico Cesare Balbo aveva messo in guardia dalla pretesa di imitare l’impero romano: «Per non essere degeneri bisogna saper essere decaduti», aveva scritto nel Sommario della storia d’Italia, lettura d’uso dell’Ottocento. E Benedetto Croce, in La storia come pensiero e come azione, ha buon gioco a chiarire che gli italiani non sono gli antichi romani, insomma a spiegare:

Un popolo nuovo col nostro male e col nostro bene, strettamente legato al mondo tutto del nostro momento storico, un popolo che si ricongiunge, ma solo idealmente, agli altri che vissero sulla medesima terra (medesima a un dipresso), quando compie nella vita civile cose grandi come le compierono quelli.

Una continuità in funzione del merito, ma non quello che nel 2023 dà il nome a un ministero. E poi: cose grandi, ma non si sa come. Tutto questo non ricorda il barone di Münchhausen e il suo gesto salvifico, quando si solleva da un fosso, lui e il cavallo, tirandosi per il codino? In ambito marxista, c’è un ruolo messianico della classe operaia, specialmente quella tedesca. Secondo Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, negli «Annali franco-tedeschi», il proletariato che è vittima dell’ingiustizia assoluta può riscattare l’uomo e tutta la società, e questa è l’emancipazione tedesca; l’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo, filosofia e proletariato possono realizzarsi ed emanciparsi solo insieme, «il giorno della resurrezione tedesca sarà annunziato dal canto del gallo francese». Negli stessi «Annali», però, ci sono i versi di Georg Herwegh, un poeta oggi trascurato:

Su un altare arroventato,
com’è l’uso dei tedeschi,
ci indoraste le catene
per non farle arrugginire.
Tirapiedi dei Borboni –
puah! che storia fastidiosa!
Quale mai, fra le nazioni
la Germania non tradi? […]
Testimone, quella morta
Repubblica italiana.

Un secolo dopo gli «Annali franco-tedeschi» il gallo francese, servo dell’aquila con la svastica, produrrà il mostro di Vichy agli ordini di Berlino. Ma contemporaneamente un altro poeta, stavolta italiano, Pier Paolo Pasolini, si sottrarrà alla divisa della Rsi, e in seguito darà il titolo al primo romanzo prendendolo proprio da Marx, da una lettera del 1843, negli stessi «Annali»:

Riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente.

Come si sia potuto, partendo da questo sogno e da questa liberazione, mettere sugli altari il diamat, materialismo dialettico in confezione staliniana, è un’opera al nero che può sorprendere chi non considera altre imbalsamazioni: partendo dalla presa della Bastiglia, si è arrivati a incoronare Napoleone e consorte, imperatore e imperatrice, direttamente in una cattedrale; partendo dal Discorso della montagna, si è arrivati allo Ior e ai patriarchi ortodossi che benedicono le armi russe e ucraine, magari litigando sul calendario del Natale.

Ha qualcosa da dire, chi fa e dice per gli altri. Per questo, l’Italia incapricciata d’un padrone, o al limite d’una padroncina, può tutt’al più borbottare.
L’ultima lettera dell’austriaco Rudolf Fischer alla figlia ce la consegna la raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, a cura di Malvezzi e Pirelli, con prefazione di Thomas Mann: «Credimi: chi vive solo per sé, chi solo per sé cerca la felicità, non vive bene e nemmeno felice. L’uomo ha bisogno di qualcosa che sia superiore alla cornice del proprio io, dico di più, che sia sopra al suo stesso io». Fischer è decapitato dai nazisti il 28 gennaio 1943.

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La moda fra senso e cambiamento identitario https://www.carmillaonline.com/2021/01/28/la-moda-fra-senso-e-cambiamento-identitario/ Thu, 28 Jan 2021 22:00:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64682 di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e [...]]]> di Gioacchino Toni

Il recente volume di Bianca Terracciano e Isabella Pezzini (a cura di), La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020), si occupa dell’analisi semiotica della moda non accontentandosi di passare in rassegna teorie e padri nobili della disciplina ma procedendo lungo una scaletta che dalle teorie relative alla moda passa poi all’analisi di alcuni suoi oggetti e spazi.

Nella prima sezione del volume, dedicata alle teorie, Patrizia Calefato osserva come dalle riflessioni di Walter Benjamin sulla moda nella modernità, alimentate dal confronto con la metropoli ottocentesca e con la scrittura di Charles Baudelaire, derivino premesse utili a comprendere le trasformazioni subite dalla moda nei tempi recenti. Come intuito dall’intellettuale tedesco, il termine moda manifesta una certa ambiguità denotando tanto una valenza negativa, per così dire “istituzionale”, riferita allo spettacolo consumistico, che una “meno convenzionale” che si manifesta attorno ai più recenti concetti di look, stili, e anti-mode. Muovendo dalla lettura politica operata da Hannah Arendt del rapporto tra gusto e senso comune in Kant e passando dal problema del contrasto tra il carattere di élite e quello di massa della moda posto da Jurij Michajlovič Lotman, Calefato ragiona su come la moda possa essere considerata un sistema capace di garantire una mediazione tra gusto, senso comune e comunità.

Tra i primi studiosi ad affrontare la moda attraverso un approccio semiotico, Algirdas Julien Greimas si interessa al vocabolario di questa per la sua peculiarità di prestarsi sia a una funzione tecnica di strumento di comunicazione interno a un gruppo specifico, che di risultare applicabile a tutti quei fenomeni sociali che hanno un carattere di attualità. Il “privilegio del verbale” di Greimas, sostiene Isabella Pezzini, non sembra discostarsi granché dalla convinzione di Lotman che vede nella lingua il “sistema modellizzante primario” di una cultura e che include la moda e l’abbigliamento nel suo progetto di semiotica della cultura.

A proposito dello studio della moda secondo una prospettiva semiologica, Pezzini si sofferma sul passaggio di testimone fra Algirdas Julien Greimas e Roland Barthes preoccupandosi di mettere in luce lo scarto che separa i lavori dei due. Mentre il primo sviluppa la sua analisi come studio storico-sociale del vocabolario francese orientato su uno strutturalismo storicista, il secondo esplora i parallelismi esistenti tra il linguaggio nel suo complesso e l’abbigliamento. La moda è vista dal francese come una lingua su cui mettere alla prova l’ipotesi saussuriana di una teoria generale dei segni contemplante al suo interno la linguistica. Se nello studiare il rapporto tra linguaggio e moda tanto Barthes che Greimas si concentrano soprattutto sul metalinguaggio dispensato dalle riviste, ora, suggerisce Terraciano nell’introduzione al volume, è piuttosto all’ambito dei social network che occorre far riferimento.

Per la formulazione di una teoria semiotica della moda, sostiene Ugo Volli nel suo intervento, è necessario partire da un’analisi della semiotica dell’abbigliamento in generale nella consapevolezza di come già quest’ultimo, oltre a una funzione pratica di protezione del corpo, sia organizzato in vista della produzione di senso. Nel ricavare un elenco di unità morfologiche di base della cultura vestimentaria occidentale moderna è possibile notare come, nonostante alcuni momenti di rottura, in genere il cambiamento proceda lentamente e senza grandi mutazioni. Tratteggiate le differenze principali che caratterizzano l’analisi degli indumenti in un approccio di tipo interpretativo e in uno di tipo generativo, si tratta, secondo Volli, di verificare se la semiotica, formatasi a partire dall’ipotesi sincronica della linguistica, sia applicabile alla moda che è caratterizzata da una natura diacronica.

Nel parlare di moda ci si riferisce a qualcosa di ben più complesso rispetto all’analisi dell’ambito vestimentario e della sua localizzazione; parlare di moda, scrive Giulia Ceriani nel suo contributo, significa confrontarsi con un laboratorio privilegiato dell’anticipazione che introduce nel presente le potenzialità della trasformazione e occorre considerare la sua peculiarità testuale in funzione dell’intenzionalità espressa dal fruitore effettivo che spazia dall’adesione emulativa, all’indifferenza sino al rifiuto di quanto di normativo ancora il sistema contiene. Attraverso l’iconizzazione e la condivisione sul web, la creatività della moda riesce in diversi casi a rappresentare fenomeni di cambiamento configurando identità che non riescono ad esprimersi agevolmente in altro modo

La seconda sezione del volume, dedicata agli oggetti, dopo essersi aperta con il contributo di Paolo Fabbri, che struttura attorno a una dettagliata analisi del cappello un sistema semiotico applicabile a ogni altro oggetto del sistema moda, lascia spazio alla disamina di Jorge Lozano del termine “lusso” a partire dalla pluralità di valorizzazioni che vi si possono attribuire e che, in una girandola di contraddizioni e opposizioni, come per certi versi già aveva compreso Benjamin, contempla tanto un’idea di superfluo che di necessario, di ostentato che di raffinato. Lo studioso, derivata la definizione di lusso dalla congiunzione su un quadrato semiotico della categoria semantica di /esclusivo/ con quella del suo opposto /eccezionale/, dopo aver passato in rassegna le modalità con cui si è storicamente guardato al lusso, giunge a individuarne il suo particolare carattere contemporaneo a partire dal legame che manifesta con la pratica dei selfie e la personificazione degli oggetti.

Ora, in piena simulazione generalizzata, sotto il dominio dei big data, in cui il futuro non tramonta e regna il presentismo, l’autentico emerge come tendenza, che, sebbene non possa sostituire l’unico, l’unicità, la caratteristica fondamentale dell’esclusivo, funge da consolazione. Da parte sua, l’eccezionale dell’originale e genuino, di ciò che ha l’aura e appartiene alla patria del lusso, attualmente adotta altre manifestazioni pregne di soggettività, espresse nel cyberspazio, configurate con nuovi materiali. Questa nuova eccezionalità può coesistere perfettamente con il non esclusivo, promuovendo quello che considero il nuovo lusso. (p. 137)

Riprendendo le riflessioni di Barthes, Floch e Greimas a proposito di passioni e prossemica, Gianfranco Marrone, propone un’interessante analisi semiotica degli occhiali a partire da come l’esigenza sociale estetica abbia per certi versi finito per scalzare tanto la funzione dei modelli da vista, con il suo presupporre un movimento del soggetto verso il mondo, quanto quella dei modelli da sole, che presuppone il movimento inverso del mondo verso il soggetto. «Il corpo-meccanismo e il corpo-rifugio cedono il passo al corpo desiderato e desiderante, soggetto di seduzione e oggetto di piacere» (p. 140). Ad esemplificare la trasformazione avvenuta si pensi a come dai modelli di occhiali con lenti da vista capaci al tempo stesso di riparare dalla luce solare si sia passati al caso, per certi versi opposto, dei modelli con lenti trasparenti non correttive: un ribaltamento epocale che ha trasformato gli occhiali da strumento per vedere in oggetto per essere visti.

Maria Pia Pozzato, prendendo in esame la tematica della modest fashion riguardante l’abbigliamento rapportato ai codici della religione islamica, ricostruisce come dal punto di vista semantico, in tale contesto, si sia data negli ultimi tempi una riformulazione del concetto di /modestia/, non più riconducibile alla rinuncia alla seduttività, all’anonimato, alla povertà di ornamento, all’astoricità: la modestia della modest fashion, sostiene Pozzato, sembra mantenere soltanto un sema di /pudicizia/ implicante la non visibilità di alcune zone del corpo lasciate invece maggiormente scoperte dalla moda occidentale. Il risultato che ne deriva si indirizza verso una moda “a doppia versione”, anziché di contrapposizione.

Paolo Sorrentino, chiudendo la sezione del volume dedicata agli oggetti, ricorrendo a una prospettiva lotmaniana, analizza la risemantizzazione operata dalla moda contemporanea di un capospalla appartenente alla tradizione sarda rapportandolo al sistema vestimentario dell’isola che lo ha via via escluso dalle pratiche quotidiane marginalizzandolo all’ambito dei rituali carnevaleschi.

Nella terza e ultima sezione di La moda fra senso e cambiamento, dedicata agli spazi, avvalendosi del lavoro che Denis Bertrand dedica all’importanza della raffigurazione spaziale nel discorso del romanzo, Isabella Pezzini approfondisce la nascita e l’attestarsi del grande magazzino francese nella seconda metà dell’Ottocento così come traspare dal romanzo Au bonheur des dames (1883) di Émile Zola. Venendo invece a spazi commerciali più recenti, Bianca Terraciano si concentra sulle modalità con cui alcuni negozi di moda, nell’era dell’e-commerce e dei social network, vadano alla ricerca di elementi distintivi che ne giustifichino la presenza e da questo punto di vista risulta di un certo interesse il rapporto che si viene a creare tra città, heritage culturale e consumi. Sempre restando a tendenze contemporanee, Claudia Torrini e Tiziana Barone indagano la propensione della moda contemporanea a ricorrere sempre più frequentemente all’arte come medium e su come l’intrecciarsi dei due ambiti comporti la condivisione di un linguaggio che permette al brand di proporre il suo sistema valoriale in quanto marca e al tempo stesso curatore di un’eredità territoriale da preservare e condividere con la collettività.

Al rapporto tra moda e costruzione identitaria sono invece dedicati gli ultimi interventi del volume. Nella semiotica Ana Claudia Mei Alves de Oliveira ricerca gli strumenti utili allo studio delle diverse maniere in cui la moda propone di vestire il corpo influendo sul soggetto e sulla costituzione della sua identità sociale. Preso atto di come, almeno a partire da metà Ottocento, all’interesse per le caratteristiche fisiche della produzione vestimentaria si sia sostituita una lettura del capo di abbigliamento come artefatto culturale sempre più complesso, Luca Marchetti passa in rassegna alcune opere che riguardano appunto la costruzione identitaria.

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Praticare la pigrizia (con impegno) https://www.carmillaonline.com/2020/05/21/praticare-la-pigrizia-con-impegno/ Thu, 21 May 2020 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60120 di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un [...]]]> di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un libro godibile ove: passa in rassegna le modalità con cui si è guardato alla pigrizia nel corso del tempo; opera una ricostruzione semantica del termine pigrizia indagandone derivati, sinonimi e contrari in diverse lingue e culture; prende in esame detti, proverbi, fiabe e romanzi (soprattutto russi) che fanno rigerimento alla pigrizia; si sofferma sul personaggio di Oblòmov di Ivan Aleksandrovič Gončarov e su quello di Bartleby di Herman Melville; esamina la figura del pigro nei fumetti prestando particolare attenzione a Paperino di Disney e a Snoopy dei Peanuts; riflette, infine, su alcune affermazioni di Roland Barthes a proposito della pigrizia.

La pigrizia, sostiene Marrone, non è la manifestazione di un carattere individuale ma un sentimento collettivo, una forma di vita che tendenzialmente si manifesta in reazione – per opposizione o per sottrazione – a quei contesti sociali e culturali in cui il sistema di valori esalta l’operosità, il lavoro, il fare. «Poltrire è rifiutare di agire, considerare l’inazione un obiettivo esistenziale, per resistere a chi vorrebbe farci lavorare, per protestare contro ogni forma di insensato stakanovismo.» (p. 13) Lungi dal “non far nulla”; il pigro si trova a compiere ogni sforzo necessario per riuscire in questo suo intento.

Solitamente a essere contrapposto al lavoro e alle sue retoriche è l’ozio e non la pigrizia. Anche se quest’ultima non se ne allontana granché, resta comunque differente; per certi versi ne consegue e per altri lo anticipa. A seconda di come storicamente è stato concepito il lavoro è stato inteso l’ozio.

Bertrand Russell nel suo “Elogio dell’ozio” (1932) prende di mira l’etica di matrice protestante che indica nel lavoro un dovere sociale denunciando come in ciò sia sottesa  una volontà di sfruttamento e polemizza nei confronti della stessa Russia comunista rea di aver ereditato dal capitalismo occidentale l’etica dell’operosità e dello spirito di sacrificio come realizzazione di sé e non come strumento per guadagnarsi da vivere. Soddisfatti i bisogni indispensabili, sarebbe auspicabile, sostiene Russell, una generalizzata riduzione dell’orario dedicato al lavoro. In linea con una tradizione di pensatori anglosassoni che si confrontano con i disastri dell’industrializzazione, secondo il filosofo inglese è attraverso l’ozio che si possono affermare altre forme di necessità indirizzare alla joie de vivre.

Secondo diverse sfaccettature, apologie dell’ozio si ritrovano in Robert L. Stevenson, Oscar Wilde, Jerome K. Jerome e Gilbert K. Chesterton ma, più in generale, la valorizzazione dell’inoperosità non può essere ricondotta esclusivamente all’ascesa dell’industrialismo. Nella Bibbia il lavoro è una maledizione divina derivata da quel peccato originale che, nel testo sacro, inaugura l’ingiustizia di genere (il dominio dell’uomo sulla donna), quella di specie (il privilegio umano sul resto del creato) e quella sociale (la necessità di ricorrere al lavoro finirà per non riguardare tutti allo stesso modo).

Nell’antichità al negotium si oppone l’otium aristocratico e a proposito delle modalità con cui vengono attribuiti valori o disvalori all’ozio, Marrone passa velocemente in rassegna le posizioni di Cicerone, Orazio, Seneca e Tacito. In ambito cristiano al lavoro come marchio d’infamia si è presto sostituita l’idea del lavoro come rifugio dalle tentazioni prodotte dall’ozio: è qua che trova la sua codifica, pur riprendendo alcuni elementi dalla tradizione greca, la colpa di accidia propria della cultura cristiana.

Se nel contesto medievale l’inattività resta un segno di distinzione sociale, progressivamente il lavoro cambia statuto tanto da necessitare di una nuova definizione e rivalutazione. Di come intendere l’operosità e l’ozio si occupano anche i propugnatori della Riforma protestante e i filosofi dell’utopia come Moro e Campanella. Con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese vengono presi di mira tanto i privilegi degli inoperosi aristocratici quanto coloro che intendono imitarli

«Lavorare è produrre, mettere in circolazione nuove cose, migliorando le condizioni di vita sulla terra senza attendere l’intervento risolutore dell’aldilà. Come diranno gli economisti, il lavoro è strumento di produzione ma anche, e soprattutto, origine del valore dei prodotti, ossia loro trasformazione in merce.» (pp. 28-29) É con la modernità che il lavoro assume stabilmente lo statuto di valore e di pari passo l’ozio diviene un malcostume che, suggerisce lo studioso, altro non è che una forma di accidia secolarizzata: un peccato mortale trasformatosi in disobbedienza civile. Interi sistemi educativi e teorizzazioni economiche e politiche si preoccupano di esaltare l’attivismo in quanto produttore di valore (e valore esso stesso) e di diffondere rancore e condanna verso tale accidia laicizzata. La stessa psichiatria, ricorda Marrone, si presta con solerzia alla medicalizzazione della pigrizia designandola come malattia da curare.

Già Rousseau, nel sottolineare come l’ineguaglianza degli esseri umani derivi dalla divisione sociale del lavoro e dal progresso della civiltà, esalta l’individuo non ancora “civilizzato” in quanto privo delle angosce dell’operosità. Contro le tesi espresse da Charles Fourier, circa la necessità di trasfigurare il lavoro in piacere, di fare del godimento il fine del lavoro, prende posizione Marx che, anziché preoccuparsi della diminuzione delle ore di lavoro (come fa Russell), si pone il problema di porre fine all’opposizione lavoro/riposo, fatica/svago, in modo da eliminare l’alienazione e permettere all’essere umano di «affermarsi come essere sociale libero e sicuro di sé grazie alla propria attività lavorativa». (p. 33)

Agli slogan inneggianti al diritto al lavoro, Paul Lafargue risponde con Il diritto alla pigrizia (1883): proclamare il diritto dell’essere umano al lavoro significa introiettare l’ingannevole morale diffusa e proposta come universale dal cristianesimo e dal capitalismo. «Che vi sia l’obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, di fannullare e di fare bisboccia per il resto della giornata e della notte». I lavoratori, sostiene Lafargue, dovrebbero fare propria la pigrizia che contraddistingue la borghesia e la loro voracità consumistica: il lavoro, in sostanza, deve essere proibito, non imposto o autoimposto.

Le cose, sappiamo, sono andate diversamente da come auspicato: il lavoro non è diminuito, il consumo è divenuto un obbligo sociale e la ricchezza ha finito per concentrarsi sempre più nelle mani di pochi. Non è andata meglio all’idea marxiana circa la necessità di porre fine all’opposizione fra lavoro e tempo libero: tutto si è trasformato in lavoro, anche lo spazio del leisure. Negli sviluppi successivi del sistema capitalista si è giunti a una società dei consumi in cui a produrre identità è l’atto stesso del consumo. Il loisir, la bisboccia, il tempo libero hanno finito per coincidere con il consumo e con il lavoro.

Il fancazzismo non è (più) l’esito triste della disoccupazione, una condizione che occorre necessariamente subire, ma un modo d’essere morale e civile rivendicato come una soluzione possibile, nemmeno così angosciosa. E la pigrizia, tutt’altro che diritto condiviso, diviene rivoluzionaria. O almeno da molti viene considerata tale. Da un altro lato, però, quella che è stata chiamata società della prestazione continua risucchiare al suo interno qualsiasi forma di attività, lavorativa o ricreativa. (pp. 39-40)

Marrone puntualizza come concetti come lavoro, ozio e pigrizia necessitino di una contestualizzazione culturale, oltre che storica: non in tutte le culture operosità e inoperosità assumono lo stesso valore, così come gli stessi concetti di progresso, tempo libero, sussistenza e opulenza non vengono significati nello stesso modo. A riprova di ciò lo studioso si sofferma su un paio di casi derivati da culture non occidentali.

Kenkō Yoshida in Tsurezuregusa (Ore d’ozio o Momenti d’ozio, 1330-1332) non contrappone l’ozio al lavoro o al negotium ma alla noia della quotidianità, esplicitando così un rifiuto per la società vissuto dall’interno. Lin Yutang, nel suo Importanza di vivere (1937), confronta il tradizionale distacco dalle cose terrene della cultura cinese con l’american way of life palesando come l’ozio nella prima venga vissuto, ben diversamente che in Occidente, come vivere alternativo al fare; non si tratta di una contrapposizione a un mondo su cui si vuole incidere ma di una particolare immersione in esso per coglierne le potenzialità.

Nel passare in rassegna le definizioni di pigro e pigrizia proposte dai dizionari, Marrone si sofferma su alcune dimensioni che vi si ritrovano: “estesica” (la pigrizia viene associata con la mancanza efficienza, con la lentezza, il torpore); passionale (il pigro è svogliato, indolente, apatico); cognitiva (la pigrizia ha a che fare con la mancanza di volontà, curiosità e interesse); pragmatica (pur essendo lento, apatico e svogliato, il pigro è tutt’altro che inoperoso: egli fa di tutto per non far nulla. Il pigro, pur scansando il lavoro, è a suo modo un gran lavoratore).

Il pigro, che può anche manifestarsi come attore collettivo, non fa quello che gli altri si aspettano da lui, non adempie agli impegni e ai doveri che la società gli impone rinnegando così il suo essere sociale. A scontrarsi sono due sistemi morali: l’azione di resistenza dispiegata dal pigro attraverso il suo non-voler-fare e non-voler-essere nei confronti della società del dover-fare e del dover-essere, «è tanto più potente quanto più è legata alla coscienza dei valori sociali cui egli si sta opponendo, del lavoro che sta a tutti i costi evitando» (p. 62).

Stando ai dizionari, rispetto alla pigrizia, l’ozio sembra aver più a che fare con una chiusura in se stessi che non con una resistenza ai doveri sociali. A differenza dei termini pigrizia e pigro, ozio indica tanto una “condizione”, una “disposizione” d’animo che un lasso di tempo (“prendersi un periodo di ozio”). L’ozio è indicato, inoltre, come inclinazione posseduta dal soggetto prima di ogni situazione intersoggettiva o tendenza sociale che rimanda alla ricerca indiscriminata del piacere che non può che condurre alla dissolutezza. Il termine può riferirsi anche all’inattività e all’inoperosità imposte dall’esterno a scopo punitivo, come nel caso della prigionia, oppure, in accezione positiva, a una situazione di inoperosità vacanziera.

Nel caso del termine accidia, i primi riferimenti proposti dai dizionari rimandano al peccato capitale, pertanto, in questo caso, l’indolenza non è rivolta ai doveri sociali e agli impegni intersoggettivi ma piuttosto al bene nella sua accezione etico-religiosa. A differenza dell’ozio, che può essere circoscritto a un periodo limitato (assumendo valore negativo o positivo a seconda dei casi), l’accidia, il disinteresse per il fare il bene, non è circoscritta nel tempo.

Prendendo in esame il folklore europeo, Marrone nota come questo sia intessuto di disapprovazione nei confronti della pigrizia. Nei modi di dire e nei proverbi, risulta evidente un’inclinazione moralistica volta a ribadire le conseguenze nefaste dell’inoperosità. D’altra parte, si tratta di massime scaturite da un universo contadino che percepisce il lavoro come strumento indispensabile al proprio sostentamento quotidiano, come destino indiscutibile e il sottrarsi a esso comporta sicura sciagura. Al di là delle convinzioni calviniste e dell’efficientismo capitalistico, anche il mondo delle fiabe, soprattutto russe,  è attraversato da un’ideologia utilitarista votata all’operosità in cui si sostiene l’idea di un’esistenza votata alla realizzazione di sé attraverso il buon superamento delle prove che la vita presenta.

In risposta all’ideologia fattiva e avventuriera della fiaba russa il saggio di Morrone propone un approfondimento dell’Oblòmov di Gončarov che rappresenta la rivincita di «chi non si limita a opporre una pigrizia positiva al dinamismo negativo, ma decostruisce pezzo per pezzo l’ideologia su cui tale attivismo si appoggia, mostrandone i limiti, la violenza costitutiva, la malafede» (p. 84). Il protagonista del romanzo di Gončarov non intende sostituire il sistema valoriale con un altro; semplicemente, e radicalmente, si limita a decostruire quello esistente. «È qualcuno che, conservando strenuamente i propri spazi di felicità, ha additato la banalità del fare. La sua è una pigrizia fattiva, una malinconia euforica, una nostalgia del futuro.» (p. 108)

Se di Oblòmov il lettore finisce per conoscere parecchio della sua complessa interiorità, non altrettanto si può dire di Bartleby di Melville, personaggio che non palesa alcuna volontà di non-fare; semplicemente esprime una preferenza: «I would prefer not to». Si tratta di un grado debole di volontà che lascia il lettore di fronte alla sua testarda indeterminatezza che però non cela alcun mistero. Ed è proprio l’assenza di una motivazione profonda ad affascinare e inquietare.

Ecco una nuova versione politica della pigrizia: non, alla Lafargue, la rivendicazione di un programmatico non-lavoro di contro al lavoro alienato del modo di produzione capitalistico, né il dolce far niente di chi del lavoro se ne infischia perché non ha bisogno, né, ancora, l’idea di un ozio creativo di contro al fare meccanico della modernità. Nulla di radicalmente oppositivo, insomma. Nessun volere, nessun controvolere. Piuttosto, l’esasperazione estrema di una preferenza tanto irragionevole quanto caparbia, di un progressivo ritiro dalle cose del mondo, dai suoi valori, dalle sue necessità e dai suoi piaceri. Non è pigrizia? Probabilmente no: è più che altro desiderio di santità, di ascesa all’ascesi, condotta angelica, emulazione di Cristo. Ma comunque, sotto sotto, alla pigrizia assomiglia parecchio. (pp. 111-112)

Nell’esaminare la figura del pigro nei fumetti – Arcibaldo, Mafalda, Garfield, Andy Capp, Homer Simpson… –, Marrone si concentra sulle specificità della pigrizia di Paperino, ben diversa da quella di altri personaggi disneyani, e su quella di Snoopy. Paperino è un pigro che, pur detestando il lavoro, nelle sue storie non fa altro che lavorare nella speranza di poter tornare alla sua amata amaca. «Il riposo è l’oggetto di valore, l’oggetto cercato o al quale vuol tornare; il lavoro lo strumento per ottenerlo, per tornarvi.» (p. 126)

Se per Paperino la pigrizia è un traguardo o un gesto di resistenza rispetto a chi intende farlo lavorare, per Snoopy è invece uno stato acquisito. Il personaggio di Charles Monroe Schulz poltrisce e basta, non ha doveri da scansare, è un pigro puro che avendo tanto tempo a disposizione lo impiega fantasticando: la sua pigrizia risulta produttiva, stimola l’immaginazione che lo porta a vivere mille vite attraverso meccanismi di assimilazione e identificazione. «Né apocalittico né integrato. Forse eroe decadente, ma – inaspettata forma di pigrizia – con lo sguardo rivolto al futuro.» (p. 140)

Nell’ultima parte del volume, Marrone riprende alcune riflessioni di Roland Barthes in cui passa in rassegna varie forme di pigrizia. Secondo il francese il tempo libero non può essere visto come vera e propria pigrizia, come ozio, in quanto esso presuppone il tempo del lavoro. Pigrizia e ozio dovrebbero esser sganciati da ogni presupposizione sociale. «Per ritrovare la pigrizia occorre piuttosto fuoriuscire dalla coercizione del tempo libero, e prospettare un tempo neutro e un’attività a sé stante: […] “a meno che – precisa Barthes – non si sia presi dal desiderio di finire il lavoro”» (pp. 146).

Il francese propone l’esempio del lavoro a maglia nel suo darsi come gesto puramente intransitivo. Altro esempio di pigrizia riuscita è, secondo Barthes, il restare al letto dopo essersi svegliati senza giustificazione, nemmeno di tipo fisiologico. In alternativa a queste pratiche antisociali si può pensare a uno sconvolgimento quotidiano del ritmo dell’esistenza, al frantumare il flusso abituale del tempo attraverso diversivi del tutto gratuiti, improduttivi.

Tuttavia, una per una vera e propria pigrizia, secondo l’autore di Miti d’oggi, ci si potrebbe rifare allo Zen, al suo mirare al dissolvimento del soggetto. «Nella pigrizia, ci dice lo Zen, non c’è più il conflitto perché spariscono, prima ancora che le ragioni del contendere, i soggetti stessi che dovrebbero contendersele» (pp. 148-149). O ancora, continua il francese, per innescare una pigrizia risuscita, si potrebbe ricorrere alla via letteraria: legare il non far nulla alla pratica della scrittura, sul modello di Marcel Proust.

«Essere pigri, secondo questa prospettiva, è appunto, per riprendere la metafora proustiana, essere come la madeleine che si disgrega lentamente nella bocca, che, in quel momento, è pigra. Il soggetto si lascia disgregare dal ricordo, ed è pigro. Se non lo fosse ritroverebbe una memoria volontaria» (p. 149). Da questo punto di vista, la pigrizia durerebbe il tempo della preparazione del romanzo, poi, a questa, succede il tempo della scrittura, del lavoro e lì la pigrizia è obbligata a farsi da parte.

A  proposito di ozio e pigrizia, in conclusione vale la pena far riferimento a un bel saggio di Pablo Echaurren (Duchamp politique, Postmedia Books 2019) dedicato all’artista francese in cui l’autore argomenta come l’ozio praticato da Duchamp sia interpretabile come forma elaborata di rifiuto del lavoro e di rigetto della società capitalistica. Attraverso il suo oziare, appartarsi dalla scena artistico-mediatica, rifugiarsi nel gioco degli scacchi, Duchamp opera una rivolta nei confronti dell’accumulazione. La sua proverbiale inoperosità non è però fine a se stessa ma coincide con la critica di un modus operandi, di un amore per il lavoro che ha intaccato anche il mondo dell’arte, ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi votati al denaro e a ciò il francese risponde con la sua inoperosità. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare».

Insomma, a maggior ragione in questi tempi di pandemia, in un contesto in cui mentre vengono mandate sugli schermi personalità dello spettacolo per invitare la gente a restare chiusa in casa per evitare il contagio, solerti capitani d’impresa richiamano la nazione al posto di lavoro, sottrarsi alla società della prestazione è un lavoraccio che forse vale la pena di fare con impegno.

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Il backstage di Chiara Ferragni – Unposted https://www.carmillaonline.com/2019/09/23/il-backstage-di-chiara-ferragni-unposted/ Mon, 23 Sep 2019 21:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54854 di Gioacchino Toni

La Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è un grande baraccone di cui si narra sulla stampa e sugli schermi più per le passerelle sul tappeto rosso e dintorni che non per i film presentati. Recentemente i media hanno dato ampio risalto al film documentario Chiara Ferragni – Unposted (2019) realizzato da Elisa Amoruso, presentato durante la kermesse lagunare e incentrato sulla figura della giovane fashion blogger, recitando la parte di chi si stupisce sia per la presentazione veneziana che per il successo ottenuto al botteghino: oltre 160 mila biglietti staccati in tre giorni di proiezione, per un incasso [...]]]> di Gioacchino Toni

La Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia è un grande baraccone di cui si narra sulla stampa e sugli schermi più per le passerelle sul tappeto rosso e dintorni che non per i film presentati. Recentemente i media hanno dato ampio risalto al film documentario Chiara Ferragni – Unposted (2019) realizzato da Elisa Amoruso, presentato durante la kermesse lagunare e incentrato sulla figura della giovane fashion blogger, recitando la parte di chi si stupisce sia per la presentazione veneziana che per il successo ottenuto al botteghino: oltre 160 mila biglietti staccati in tre giorni di proiezione, per un incasso di oltre un milione mezzo di euro, con le sale piene di giovanissimi più abituati a stare sui social e a vedere film sulle diverse piattaforme che non ad entrare in una sala cinematografica. Già questo ultimo fatto meriterebbe qualche riflessione sulle modalità, sempre più solitarie, di fruizione del cinema nell’età della convergenza tra Studios, Broadcaster televisivi, DVD, tv multi-channel ed internet.

Per dare un’idea del giro d’affari che ruota attorno ai cosiddetti influencer di moda, secondo un’inchiesta del 2017 del quotidiano Daily Telegraph1 i più celebri, come Huda Kattan e Cameron Dallas, che vantano sui 20 milioni di follower su Instagram, guadagnano fino a 18 mila dollari per ogni loro post. Se poco interessa della vita della blogger star italiana celebrata dal film, vale però la pena spendere qualche breve nota sul backstage, per così dire, di questa “imprenditrice digitale”, come ama definirsi, tratteggiando quell’universo che l’ha cresciuta e che le ha consentito di diventare una star contemporanea che sembra altrimenti essere nata dal nulla. Per delineare il dietro le quinte di questa infestante influencer, può essere utile passare sommariamente in rassegna le recenti trasformazioni del sistema produttivo, delle modalità di consumo e di narrazione che hanno riplasmato il mondo della moda.

«L’abito è sempre stato il tramite di una rappresentazione pubblica, ma le dimensioni del pubblico sono passate dal salotto alla sala da ballo, poi alla città, per finire al mondo globale, e contemporaneamente dal rotocalco e dal grande schermo hollywoodiano al piccolo schermo della tv, fino al portatile e ubiquo schermo del cellulare e della nuova televisione degli anni Duemila, Instagram e Pinterest, con il relativo proliferare dei selfie più o meno professionali».2

Mentre negli anni Cinquanta, sostiene Nicoletta Polla-Mattiot, l’immaginario della moda si nutre sostanzialmente di icone hollywoodiane, le riviste dell’epoca che si occupano di moda si preoccupano ancora di spiegare come si rivolta un cappotto o come si realizza un abito in casa. Nell’Europa del dopoguerra, alla ridotta produzione di haute couture si affianca l’industria della confezione che realizza un tipo di abbigliamento massificato a prezzi contenuti ma decisamente di qualità scadente. Con il miglioramento economico di un vasto strato sociale che, pur non potendo permettersi l’haute couture, non si accontenta di prodotti anonimi e di bassa qualità, nasce il prêt-à-porter3 che, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, conquista il mercato grazie alla sua capacità di amalgamare creazione di moda, produzione e sistema di vendita controllato direttamente, in alcuni casi attraverso boutique monomarca.

«L’affermazione del Made in Italy, la rivoluzione del prêtà-porter (prodotto di qualità in serie, creatività individuale coniugata al processo industriale) segna un passaggio epocale e modifica la diffusione della moda, e insieme alla diffusione, il suo racconto. Gran parte del successo degli stilisti e del total look coincide e si deve al mito creato, tessuto e amplificato proprio dal boom delle riviste patinate. Il linguaggio evolve dai figurini e dall’illustrazione ai grandi servizi in studio e in location (destinazioni esotiche e produzioni internazionali), a cui poi seguirà l’epoca delle top model, delle maxi campagne pubblicitarie, degli investimenti ipertrofici».4 È nella possibilità d’accesso allargato e immediato che, sostiene la studiosa, «s’incardina la svolta della moda da fenomeno d’élite e di differenziazione di classe a libertà identitaria [ed il timore dell’anonimato] si supera rafforzando ciascuno la propria personalità, per minima che sia»5 in un difficile equilibrio tra rassicurante omologazione e desiderio di differenziazione.

A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta l’inserto domenicale del New York Times trasforma, pubblicandole, le immagini di semplici passanti in icone contemporanee. Il fotografo Bill Cunningham, che ha documentato per mezzo secolo la moda nelle strade newyorkesi, «è stato un grande precursore, non tanto per la capacità di cogliere le tendenze, quanto per il modo di comunicarle, per il rivoluzionario ribaltamento dell’apparato semantico […]. A lui si deve far risalire la storia dei fashion blogger, che oggi rappresenta un giro d’affari gigantesco […]. The Sartorialist apre ufficialmente i battenti nel 2005. Brian Boy comincia a postare foto di gente comune, eleggendo l’uomo della strada ad arbiter elegantiarum o almeno a trend setter: diventa quasi subito un caso. “La mia sola strategia quando ho aperto il blog era quella di fotografare stili e persone in un modo che ispirasse i designer”. L’osservazione è interessante: non è più il designer che impone il suo stile e la sua creatività, è la strada, è la metropoli che lo ispira. “La rete è la grande equalizzatrice”, dice ancora Brian Boy».6

Se i primi siti internet di moda fanno la loro comparsa attorno alla metà degli anni Novanta, lo snodo fondamentale nella storia della moda digitale si deve alla realizzazione dei fashion blog all’inizio del nuovo millennio. «Il rapido ricambio di informazioni è diventato in generale un tratto caratteristico dei fashion media online. Non solo questi hanno reagito alla popolarità della blogosfera attraverso il lancio dei loro blog, ma hanno anche assunto le qualità di velocità e immediatezza attraverso la creazione di sezioni che chiaramente rientrano nella tendenza delle notizie veloci».7

Gli spazi sul web dedicati alla moda si strutturano attorno alla rapidità, all’immediatezza ed alla frequenza. Se la rapidità è un tratto caratteristico della moda, insieme alla propensione all’effimero, «i fashion media hanno sempre dovuto riflettere, e insieme sostenere, questa evanescenza attraverso il costante aggiornamento delle loro pagine, giacché le riviste di moda sono esse stesse la materia prima della moda».8

Con internet è stato impresso un ritmo prima impensabile alla circolazione delle notizie sui media e i blog hanno del tutto destrutturato la tempistica dell’informazione tradizionale nata col proliferare dei quotidiani nel secolo dei Lumi, attraverso quella che Hartmut Rosa indica come la loro «ricorrenza in tempo reale di riscontri virtuali».9

Dunque, anche nell’ambito della moda la tempistica sui blog ha subito un’accelerazione senza precedenti, come dimostra l’aneddoto riportato da Agnès Rocamora che racconta di come nell’estate del 2011 una nota fashion blogger si sentisse in dovere di scusarsi per l’inattesa interruzione di aggiornamenti sul suo blog che non pubblicava post da tre giorni. «Che si sentisse obbligata a scusarsi mi colpì come dimostrazione della ridefinizione del tempo che il settore della moda sta sperimentando; un tempo nuovo, definito dall’accelerazione della circolazione di beni materiali e simbolici».10

Le modalità comunicative adottate dai fashion blog ricalcano quelle di una società mercificata e consumista in cui il tempo scorre in maniera sempre più veloce e che non permette a chi visita le pagine di soffermarsi su di esse più di tanto (molto difficilmente si arriva a dedicare un minuto ad una pagina visitata). Lo stile adottato è perciò estremamente sintetico, contraddistinto dalla presenza di refusi, di abbreviazioni e da un tono informale, tutti elementi che contribuiscono a conferire ai blog un’aria confidenziale e conversazionale che ben si adatta, rafforzandola, ad una società contemporanea votata all’effimero e alla rapidità.

Riprendendo le inflessioni di Roland Barthes sulla moda, scrive Nicoletta Polla-Mattiot che ciò che fanno i media che si occupano di moda è raccontare, semantizzare, gli abiti: «costruire la tessitura, insieme visiva e narrativa, che scompone, reinterpreta e ricompone la libertà d’azione dello stile e delle sue evoluzioni»11 L’attuale società dell’istante, incurante com’è del passato e del domani, vive del qui e ora e ciò è perfettamente testimoniato dalla caducità delle creazioni di moda ad obsolescenza programmata sempre più breve. Scrive Rolan Barthes che ogni moda nel momento in cui si presenta si palesa come rifiuto di ereditare, come sovvertimento nei confronti della moda precedente.12 E in una società che ama dimenticare il passato e non pensare troppo al futuro, la moda si rinnova incessantemetne in tempi sempre più brevi.

«Nell’era di snapchat, dove i filmati durano il tempo di essere visti, anche la moda sembra parcellizzare la sua funzione di interprete del momento presente al giorno e all’ora (non più al semestre, all’avvicendarsi di autunno-inverno e primavera-estate, com’è stato in passato. D’altronde, le geo grafie internazionali del fashion hanno da tempo cancellato la stagionalità delle collezioni). Da alcuni anni si parla sempre più insistentemente di “see now buy now”, un ripensamento delle sfilate che consenta di acquistare immediatamente il prodotto, non appena visto, azzerando totalmente il tempo dell’attesa. Anche questo è un portato del contesto (di Internet, dei social, di Youtube, dello streaming che rende accessibile a tutti gli show)».13

I ritmi si sono fatti talmente rapidi che da qualche tempo le sfilate vengono trasmesse online in diretta e vi sono aziende che permettono di acquistare abiti già nel corso della visione dell’evento. Tale velocità ha portato la studiosa Lidewij Edelkoort, nel suo Anti_fashion Manifesto,14 a ritenere che ben al di là delle obsolescenze programmate, che caratterizzano qualsiasi oggetto di consumo, è la moda stessa ad avviarsi a divenire “obsoleta” nel senso che sta implodendo su se stessa autonegandosi.

Con il fenomeno dei fashion blogger gli obiettivi dei fotografi a caccia di immagini nelle settimane della moda si trovano ad avere a che fare con soggetti disposti a tutto pur di essere fotografati. «È la look-at-me fashion, il celebrity circus delle persone “famose per essere famose”. A poco a poco, la spontaneità dello street style è diventato product placement. Questa è l’ultima evoluzione del fenomeno di semantizzazione e interpretazione dei codici vestimentari […] Il product placement ha trasformato i fashion blogger in influencer (di fatto venditori)».15

Vi è stata una trasformazione radicale del racconto della moda nell’epoca dei social, secondo Polla-Mattiot alla costruzione di un linguaggio stilistico personale si è sostituita la personalizzazione: «il contenitore prevale sul contenuto. L’oggetto-moda, debolmente significante in sé, non è semantizzato dal contesto e dalla relazione spazio-temporale con esso (che sia la metropoli d’appartenenza o il percorso narrativo-stilistico di una sfilata o di un brand), ma dal personaggio. La costruzione del racconto, con un suo sviluppo narrativo, è parcellizzata nell’estemporaneità del selfie».16

Con tale eccesso di significazione, tutto diventa equivalente, perciò insignificante e per fare in modo che la moda non risulti obsoleta prima ancora di diventare moda – sostiene Polla-Mattiot, riprendendo Lidewij Edelkoort – bisognerebbe forse saper «tornare alla cosa, alla sua cosità autosufficiente, al segno prima del suo interprete [che dovrebbe tornare ad essere] solo strumento e tramite, non sostituto del contenuto».17


  1. “The highest-paid Instagram influencers, including one star who gets £14,000 per post”, Daily Telegraph, 19 luglio 2017. 

  2. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, in D. Baroncini, Moda, metropoli e modernità, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 132. 

  3. Il termine, nato in Francia già sul finire degli anni Quaranta, può dirsi codificato dalla rivista Vogue nel 1956, quando dedica un intero numero a questo nuovo tipo di proposte di moda. 

  4. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, op. cit., p. 133. 

  5. ivi, p. 134. 

  6. ivi, p. 135. 

  7. A. Rocamora, I nuovi fashion media e l’accelerazione del tempo della moda, 2013, in C. Evans e A. Vaccari (a cura di), Il tempo della moda, Milano-Udine, Mimesis, 2019, p. 65. 

  8. ivi, p. 66. 

  9. H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, Torino, 2015 

  10. A. Rocamora, I nuovi fashion media e l’accelerazione del tempo della moda, op. cit., p. 63. 

  11. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, op. cit. p. 128. 

  12. R. Barthes, Sistema della moda, Einaudi, Torino 1970. 

  13. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, op.cit., p. 131. 

  14. Lidewij Edelkoort, ANTI_FASHION, a manifesto for the next decade, Trend Union, Paris 2015 

  15. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, op. cit., p. 136. 

  16. ivi, p. 137. 

  17. ivi, p. 137. 

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L’essenza dell’uomo: dietro l’ipotesi Sapir-Whorf https://www.carmillaonline.com/2017/12/09/41961/ Fri, 08 Dec 2017 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41961 di Antonio Merola

Era il 1957: Miti d’oggi di Roland Barthes infligge alla cultura Occidentale una ferita al costato. Il cervello di Einstein, un incontro di pugilato, la nuova Citroën; e poi ancora, l’astrologia, lo strip-tease, il Tour de France: l’alto e il basso, il sublime e il massificante, in breve ogni elemento di ciò che viene definito Cultura viene a mancare della propria essenza: il significato. L’occhio di Barhes caratterizza invece l’operare umano, nel suo insieme, come un operare espressivo, dove per espressività si intende l’essere, per ogni elemento culturale, significante di un significato più ampio: la struttura di base. [...]]]> di Antonio Merola

Era il 1957: Miti d’oggi di Roland Barthes infligge alla cultura Occidentale una ferita al costato.
Il cervello di Einstein, un incontro di pugilato, la nuova Citroën; e poi ancora, l’astrologia, lo strip-tease, il Tour de France: l’alto e il basso, il sublime e il massificante, in breve ogni elemento di ciò che viene definito Cultura viene a mancare della propria essenza: il significato.
L’occhio di Barhes caratterizza invece l’operare umano, nel suo insieme, come un operare espressivo, dove per espressività si intende l’essere, per ogni elemento culturale, significante di un significato più ampio: la struttura di base. L’autonomia essenziale, in poche parole, va a farsi fottere, danneggiando drasticamente, se si vuole allargare il campo d’indagine dall’opera all’operatore, l’io, o l’idea di uomo. L’essere umano, quindi.

Oggi, sappiamo che il Cogito ergo sum non basta più. Il pensiero umano è, in ogni sua forma, pensiero strutturato. Saussure ci ha insegnato che il linguaggio è arbitrario e ci hanno insegnato poi, a partire dagli studenti che per primi registrarono e trascrissero la Voce del Maestro, che una tale affermazione è verificata e verificabile in ogni suo aspetto cognitivo. Saussure non era un tipo da corbellerie, insomma. E le conseguenze di un tale pensiero ci portano subito alla scuola strutturalista e quindi, a Roland Barthes, o meglio, anche a Roland Barthes. Perché tutto ciò che viene dopo Saussure, in ambito critico, si basa proprio su un tale assioma: non è sulla scoperta della struttura, o di una struttura, ma sulla qualità della struttura, su cui si focalizza realmente l’attenzione; ovvero, in una critica negativa alla struttura, come nel femminismo, negli studi Queer, nel marxismo, o in una positiva, come nell’egemonia culturale capitalista. Non dovrebbe meravigliare, infatti, che alla base del pensiero umano vi sia una struttura, una qualsiasi struttura, che è presente anche nelle azioni più banali, nella quotidianità tutta, anche nel modo in cui un soggetto si appresta all’uso del bidet.

Ma, nel mare della consequenzialità, gli effetti non si manifestano sempre in maniera esplicita, come ci piacerebbe credere.

Torniamo per un attimo a quanto detto sopra: il pensiero umano è, in ogni sua forma, pensiero strutturato. Lo è, in quanto espressione del linguaggio, che a sua volta viene visto da Saussure come arbitrario. Bene; riassumendo, quindi, il linguaggio dell’animale umano è struttura arbitraria. Ma, quando parliamo di linguaggio, parliamo di lingue. E nel mondo, ad oggi, ne esistono più di seimila.
Eppure, benché l’ipotesi, anzi, l’affermazione, perché verificata e verificabile, di Saussure, l’affermazione di base quindi, è accettata e condivisa dai più, un’altra affermazione, questa sì ancora allo stato di ipotesi, ovvero quella della relatività linguistica di Sapir-Whorf, secondo cui il pensiero umano, e il modo in cui esso si esprime, è determinato, e non mediato, dalla lingua che il pensante si trova per nascita, o per apprendimento secondario, a parlare, trova difficoltà a essere dimostrata.

Banalizzando, potremmo dire che se il parlante A è inglese, il parlante A penserà in inglese, come un inglese, e così via per ciascuna delle seimila lingue del mondo.

La differenza tra Saussure e Sapir-Whorf non sta nel concetto di arbitrarietà: per il primo il linguaggio, per i secondi le lingue, sono entrambi un qualcosa di arbitrario; la differenza è invece nell’ipotesi che il pensiero sia, per i secondi, o non sia, almeno in modo diretto, per il primo, espressione del linguaggio. Soltanto se si prende l’affermazione di Sapir-Whorf come tale, e non come una mera ipotesi, si può arrivare logicamente ad affermare che il pensiero umano è strutturato. Questo perché verrebbe dimostrata la subordinazione tra pensiero e linguaggio, il nodo inestricabile. Ma finché ciò non viene dimostrato, noi avremo da un lato il pensiero, dall’altro il linguaggio, che è sì arbitrario, ma solo uno degli strumenti con cui l’uomo è in grado di esprimere se stesso. E, stiamo attenti, con linguaggio non si intende qui solo il linguaggio parlato; perché, a ben pensare, ognuno di noi, nel dialogo intimo con se stesso, parla in modo silenzioso, pensa costruendo linguisticamente il proprio pensare. In sostanza, non è con i grugniti che noi pensiamo, ma con parole ben precise, anche se non pronunciate. E già questo, sembrerebbe una constatazione a favore dell’ipotesi Sapir-Whorf.

Ma, poniamo per assurdo, anzi, realmente, visto che si tratta di un’ipotesi, che i nostri Sapir-Whorf non avessero ragione. Capovolgiamo il nostro enunciato: non più il pensiero come espressione del linguaggio, ma il linguaggio come espressione del pensiero. Siamo davanti a un dato di fatto, dove vedremmo annuire sicuro anche il docente Saussure. Ma siamo davanti, anche, a un uso del linguaggio come strumento, medium del pensiero. Peraltro, difettoso per il suo stesso fatto di essere arbitrario. Ovvero, anche se accettassimo l’affermazione capovolta di cui sopra, il linguaggio come espressione del pensiero, e non viceversa, ci troveremmo di fronte comunque a un’espressività mediata da uno strumento arbitrario per sua natura, e quindi a un’espressività fallace. Non è quindi il linguaggio che può esprimere l’umano nella sua essenza, la purezza del pensiero non mediato.

Eppure, non confermando l’ipotesi Sapir-Whorf, il pensiero resta comunque dato come altro, situato in un altrove da ricercare. Un’essenza, quella umana, che trascende il linguaggio, che si pone quindi prima del linguaggio e che non ne ha, necessariamente, bisogno. Verrebbe da pensare che anche questa volta i greci avessero ragione; verrebbe da pensare a Platone, dove l’altrove si conforma nell’Iperuranio, nel mondo delle Idee preesistenti…

Oppure, messo il pensiero in una condizione di impeachment, si potrebbe spostare l’attenzione nel sentire, il sentire come espressione dell’umano nella sua purezza, senza mezzi termini, senza mediazioni. Certamente, così era per l’uomo primitivo – dove, con primitivo non si intende necessariamente inferiore a livello cognitivo, quanto, semplicemente, l’uomo delle origini. Ma oggi, è davvero così che stanno le cose? Prendiamo per esempio il sentimento dell’ira, nella sua massima espressione, l’ira funesta e furibonda. Il sentire si manifesta prima ancora del linguaggio: un uomo delle origini sente, dentro di sé, un sentimento di furia. Lo stesso uomo delle origini non è ancora in grado di parlare. Sente quindi l’ira, ma non la definisce come tale. L’uomo del nuovo millennio, invece, vede il proprio sentire continuamente violentato dal linguaggio. Anche l’uomo del nuovo millennio, come il primo, sente la collera; ma egli sa, a differenza del primo, e grazie al primo, che quel sentimento di collera che lo brucia altro non è che il sentimento dell’ira; allo stesso modo, egli riconosce le altre emozioni, le sente e le definisce nello stesso momento, ne prende coscienza attraverso il linguaggio.

Inoltre, l’uomo del nuovo millennio transita anche per un individualismo mancato. Intendo dire che l’uomo primitivo non era a conoscenza della definizione di ira, ma sentiva l’ira, e che, tuttavia, è proprio l’uomo primitivo ad aver definito il sentimento dell’ira, perché, seguendo il principio di uguaglianza, più uomini avevano riconosciuto che un determinato sentire, che si ripeteva più volte nella propria vita, si ripeteva più volte anche nella vita dell’altro; un sentire comune, quindi, che lo ha portato a denominare un’emozione comune. L’uomo del nuovo millennio, invece, ha già di per se stesso un’intera gamma di emozioni definite, sa che X corrisponde all’ira tanto quanto Y corrisponde alla gioia, ma sa anche, anzi ritiene, che il proprio X o la propria Y, benché ira e gioia, si manifestino in lui, nel suo io intendo, diversamente dall’altro; che X e Y abbiano, in definitiva, una sfaccettatura personale che si distacchi dal principio di uguaglianza, ma che, tuttavia, e per questo lo chiamo individualismo mancato, non si ricrea, ovvero non si riconosce in una nuova definizione, non si ri-definisce, non si ri-nomina, se non, in rari casi, attraverso l’espressione artistica, a sua volta espressione, in casi ancora più rari dei primi, di ciò che fa l’uomo, l’uomo.


[Antonio Merola, classe 1994, è laureato in Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Sue poesie inedite sono apparse su Atelier, Poetarum Silva, PageArte, Euterpe e nel Poetico Diario (LietoColle, 2017). Collabora o ha collaborato con con Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì, Lavoro Culturale e Culturificio. È cofondatore di YAWP: giornale di letterature e filosofie, per il quale ha curato inoltre la raccolta poetica L’urlo barbarico (A. V., Le Mezzelane, 2017) – recensione su Carmilla. Ha pubblicato sotto pseudonimo assieme a Iuri Lombardi la raccolta di racconti Il Vice Presidente venne dopo sette secondi, (2016) – ght]

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Il reale delle/nelle immagini. Riflessioni sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea https://www.carmillaonline.com/2017/10/07/reale-dellenelle-immagini-riflessioni-sulla-cultura-visiva-politica-nellitalia-contemporanea/ Fri, 06 Oct 2017 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40941 di Gioacchino Toni

Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea, Meltemi, Milano 2017, pp. 150, € 15,00

«Le immagini e il campo del visivo in generale sono da sempre arene profondamente politiche, spazi in cui si riversano questioni legate alla gestione del potere e alla divisione delle risorse» (Paolo S.H. Favero, p. 12)

Secondo Michel Foucault (Sorvegliare e punire, 1975) se in epoca pre-moderna l’essere guardati e descritti è un privilegio del potere, in particolare del re che si concede, di tanto in tanto, agli occhi del popolo, nella modernità le cose sembrano [...]]]> di Gioacchino Toni

Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea, Meltemi, Milano 2017, pp. 150, € 15,00

«Le immagini e il campo del visivo in generale sono da sempre arene profondamente politiche, spazi in cui si riversano questioni legate alla gestione del potere e alla divisione delle risorse» (Paolo S.H. Favero, p. 12)

Secondo Michel Foucault (Sorvegliare e punire, 1975) se in epoca pre-moderna l’essere guardati e descritti è un privilegio del potere, in particolare del re che si concede, di tanto in tanto, agli occhi del popolo, nella modernità le cose sembrano invertirsi e l’atto del guardare diviene sinonimo di controllo e disciplinamento operato dal potere nei confronti degli individui. Oggi, sostiene l’antropologo Paolo S.H. Favero, riprendendo il concetto di “ipertrofia visiva” così come è espresso da Lucien Taylor (Visualizing Theory, 1994), le immagini hanno un ruolo centrale nel modo di vivere dell’essere umano che ne è sia consumatore che oggetto di monitoraggio visivo. Secondo lo studioso la commistione tra visivo e digitale non ha però condotto alla dissoluzione della realtà materiale ma a rendere le immagini parte della concretezza della materialità quotidiana collegando la vita online con quella offline. In sostanza le immagini non avrebbero allontano l’individuo dal reale ma si sarebbero fuse con il quotidiano.

Se Marshall MacLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1967 – orig. 1964) sosteneva che i mezzi elettronici erano diventati protesi del nostro corpo, oggi occorrere «chiedersi se i nostri corpi non stiano diventando protesi dei mezzi di rappresentazione visiva. La progressiva fusione tra tecnologia e corpo e l’immersività che caratterizza il mondo della produzione d’immagini porta a chiederci se forse non siamo entrati nell’era del Plenopticon (una sorta di post Panopticon), un’era nella quale non abbiamo più bisogno di un re che ci osservi, ma in cui siamo noi stessi a osservarci reciprocamente nella nostra orgiastica produzione di co-presenza visiva» (p. 16).

Nel corso del tempo la fotografia sembra aver via via preso il posto della parola come portatrice di testimonianze grazie probabilmente a quel «potere affettivo delle immagini [capace di] generare quel surplus che in qualche modo ci riesce a commuovere, a collocare la nostra sensibilità all’interno di un evento avvenuto in tempi e luoghi lontani da noi» (p. 18). Sull’onda delle riflessioni di Roland Barthes (La camera chiara, 2003 – orig. 1980) che vogliono le immagini fotografiche capaci di evocazione, oltre che di descrizione, nel loro contenere qualcosa (punctum) capace di colpire l’osservatore tirandolo dentro l’immagine, si può allora, secondo Favero, individuare nel visivo una chiave utile a comprendere il contesto politico in cui si vive e il volume Dentro e oltre l’immagine si propone proprio di riflettere su tale questione applicata al contesto dell’Italia contemporanea.

Nel contesto italiano le immagini «sono intrinsecamente politiche e ci offrono soprattutto una possibilità di attuare una decostruzione di rappresentazioni comuni sulle quali si fonda la vita pubblica» (p. 19). Una parte importante dell’analisi dello studioso deriva da una ricerca sul campo attuata a Roma nel quartiere Esquilino tra il 2005 ed il 2007, coincidente con un momento in cui le storie del luogo vanno a collocarsi in un contesto nazionale in cui i media, sotto le vesti dell’intrattenimento celavano messaggi “ri-producenti” «una distanza (a volte proprio ontologizzata) fra “italiani” e “immigrati”, tra “uomini” e “donne”, tra “eterosessuali” e “non-eterosessuali”. Spesso si coglievano anche messaggi apertamente razzisti, omofobici e sessisti» (p. 19). Le strade dell’Esquilino all’epoca abbondavano di scritte contro rom, immigrati, omosessuali e slogan fascisti in diversi casi in onore del boia nazista Priebke mentre i media nazionali sostenevano le politiche ostili ai migranti presentandoli attraverso immagini di orde anonime di invasori e la televisione, a reti unificate, inondava i programmi «di ricchi décolleté e “lati B” di ignote soubrette (la solita riduzione della donna a collezione di dettagli anatomici). Questa era anche l’era in cui la visibilità si affermava come un fine a se stante. Momento nel quale personaggi del Grande Fratello diventavano opinion makers e nel quale una soubrette televisiva (ex partecipante a Miss Italia e protagonista di copertine di riviste per uomini) riusciva a realizzare una vertiginosa carriera “politica” e a diventare Ministro per le pari opportunità. Questi erano anche gli anni dell’ambiguo “sdoganamento” della politica e nei quali ministri e uomini d’affari si inserivano nelle case dei cittadini tramite i programmi di cucina e di calcio» (p. 20).

Presto sarebbero arrivati gli anni in cui Berlusconi avrebbe sentenziato che “in Italia non ci sono mai stati campi di concentramento, ma solo campi di villeggiatura”, in cui le battute sui Kapó si sarebbero inserite in un contesto ove termini come “frocio”, “negro”, “terrone” e “zoccola” venivano ormai tranquillamente utilizzati anche dai media come semplici e innocenti “modi di dire”, dove i cori razzisti negli stadi sarebbero stati  indicati come “cori a sfondo territoriale” e dove la Federazione di calcio avrebbe eletto un presidente capace di sostenere, tra le altre cose, che i calciatori di colore prima di far parte delle squadre italiane erano semplici mangiatori di banane.

«Dentro e oltre l’immagine entra in questa particolare epoca della storia e vuole offrire una serie di riflessioni sul significato nonché sul ruolo politico e sociale della cultura popolare visiva nell’Italia contemporanea. Basato su ricerche etnografiche in campi quali il cinema, la televisione, il documentario, la fotografia e la cultura (materiale e visiva) di strada, il libro affronta l’arena della visualità come un campo nel quale si possono decodificare continuità e rotture politiche ed ideologiche» (p. 21). Tutto ciò viene indagato dall’autore nella sua posizione di insider/outsider, di colui che conosce bene la cultura e la società italiane essendo di famiglia italo-svedese, ma che vive e lavora all’estero, capace dunque di avere un’osservazione sufficientemente esterna per restare colpito da ciò in cui si imbatte ma anche di trovarsi in una posizione abbastanza interna al mondo indagato per indignarsi e voler cambiare le cose.

Il volume raccoglie sei diversi saggi scritti in momenti diversi, in alcuni casi pubblicati originariamente su riviste internazionali. Gli scritti possono essere divisi in due grandi blocchi con i primi tre che affrontano criticamente quella che viene indicata dall’autore come una delle rappresentazioni fondanti della cultura italiana, ossia la nozione di “italiano buono”. In questi primi tre interventi viene mostrato come tale rappresentazione, oltre ad essere parte della storia della cultura popolare italiana, sia uno strumento fondamentale per la costruzione dell’identità nazionale dell’Italia contemporanea. Nei successivi tre saggi viene invece indagata la cultura popolare visiva italiana focalizzando l’analisi sui rapporti tra società italiana e culture altre con cui questa viene a contatto.

Nel primo saggio Italiani, “brava gente”? l’autore mostra come tale rappresentazione venga oggi evocata per affrontare questioni inerenti i crimini a sfondo xenofobo e la partecipazione militare italiana ai conflitti internazionali. «L’espressione “italiani brava gente”, usata anche in situazioni colloquiali, implica, schiettamente parlando, che a differenza di altri, gli italiani siano per natura brava gente. Non nuocciono mai a nessuno e la loro storia (almeno per come loro stessi la conoscono) ne è apparentemente la prova. “Brutti eventi” sono ovviamente capitati (e capitano) anche qui, ma si tratta solo d’incidenti; altri popoli e nazioni hanno compiuto atti peggiori dei nostri. Ma gli italiani, non hanno mai realmente voluto nuocere. Nemmeno in epoca fascista» (p. 30).

Fino a qualche decennio fa gli stessi libri di testo nelle scuole non mancavano di rappresentare gli italiani come un popolo sostanzialmente di brava gente finito in balia delle follie mussoliniane e soprattutto straniere, quasi inconsapevolmente e involontariamente. L’onda lunga di tale lettura delle cose, sostiene lo studioso, la si rintraccia nelle maldestre affermazioni di qualche anno fa dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi quando ha sostenuto pubblicamente che, in realtà, in Italia non ci sono mai stati campi di concentramento, ma solo “campi di villeggiatura”. «E, in ossequio alla medesima logica, viene oggi detto agli italiani che le “guerre al terrore” alle quali partecipano, sono in realtà “missioni di pace” e che i loro soldati, riconosciuti ovunque come “brave persone”, non sono mai realmente esposti a minacce […]. Nello stesso modo, viene anche fatto credere che xenofobia e omofobia certamente risiedono altrove ma non nel “nostro” paese» (p. 31).

Insomma, il mito dell’italiano buono si rivela, dal punto di vista storico, uno strumento utile a celare eventi drammatici. A tale mito ricorrono spesso sia quei ragionamenti intenzionati a difendere le idee xenofobe e omofobe che quelli volti a giustificare la partecipazione militare italiana alla cosiddetta “guerra al terrore”. Viene dunque mostrato lo stretto legame esistente tra memoria, politica e identità evidenziando come «il concetto di “italiani brava gente” [sia] alla base della costituzione di un’identità nazionale moderna» (p. 50). Sull’argomento risultano frequenti i riferimenti di Favero agli studi di Angelo del Boca, questi ultimi ripresi più volte su Carmilla [1] [2] [3] da Armando Lancellotti.

Nel saggio Il “soldato buono” viene indagata criticamente la rappresentazione del soldato italiano nel cinema nazionale delle ultime quattro decadi mostrando come sia facilmente individuabile una continuità storica di tale rappresentazione. Lo studioso parte dalla presa d’atto che negli ultimi decenni in Italia si è diffuso, grazie ad un lento ma costante lavoro di costruzione, un orgoglio nazionale prima sconosciuto. «Tale processo vedeva coinvolti molti attori (dai media al sistema scolastico, ecc.) ed era fondato sull’inserimento nella cultura popolare di una serie di figure portanti, capaci di infondere fede e rispetto nella nazione, nello Stato e in coloro che lo rappresentavano. In un’epoca caratterizzata dalla partecipazione dell’Italia alla “coalizione dei volenterosi” e dal suo conseguente coinvolgimento nelle missioni di guerra in Iraq e Afghanistan, la figura del soldato, in una sorta di ricorso storico, sarebbero stata rivalutata. È diventata un pilastro portante nella creazione di un orgoglio nazionale» (pp. 54-55). A partire dalla convinzione che la figura del soldato sia davvero uno dei punti focali della costruzione dell’identità nazionale, Favero passa in rassegna la produzione cinematografica italiana del dopoguerra e i più recenti reportage dedicati al coinvolgimento italiano alle cosiddette “missioni di pace”.

Nelle modalità con cui la cultura popolare italiana ha mantenuto viva l’immagine del “soldato italiano buono” vi sono certamente alcune costanti. «Guidato da amore e altruismo, il “soldato buono”, a volte appare un briciolo egoista, codardo, opportunista e forse un po’ pigro. Ma risulta, comunque, assolutamente incapace di far del male e viene pertanto sempre sollevato da qualsiasi responsabilità storica. Questa rappresentazione, trova ampio riscontro nell’immagine dell’“italiano buono” nata per giustificare la prima (fallimentare) impresa coloniale» (p. 55). Dunque, tale autorappresentazione, che ha svolto storicamente, e continua a farlo, un ruolo di “lavanderia” delle vergogne nazionali, è indicata dall’autore come centrale nella creazione della moderna identità nazionale.

È il cinema italiano del dopoguerra ad essersi fatto carico della divulgazione di una rappresentazione del soldato edulcorata e familiarizzata: «Spostato dal contesto del belligerante patriottismo fascista, egli venne introdotto, a volte in modo ironico, nello spazio quotidiano della vita di famiglia» (p. 62). L’analisi di Favero si sofferma su tre film che hanno promosso un’immagine iconica del soldato capace, visto anche il successo di pubblico, di lasciare tracce importanti nella cultura popolare nazionale: Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, La Grande Guerra (1959) di Mario Monicelli e Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores. «Nei tre film, il soldato è sempre un uomo semplice e un po’ ingenuo, nonché un amante del divertimento. I soldati protagonisti di questi tre film sembrano tutti piuttosto inconsapevoli di quel che succede intorno a loro e di conseguenza, sono staccati e deresponsabilizzati dalla storia. Hanno in comune la vicinanza e l’affetto delle popolazioni locali che incontrano durante le loro missioni e dimostrano anche una particolare devozione nei confronti delle donne e delle madri. Anche se in alcune occasioni vengono presentati come ipocriti, opportunisti ed egoisti, in realtà sono “brave persone” il cui unico desiderio è quello di tornare a casa e vivere serenamente insieme ai loro cari. Incapaci di agire, questi soldati sono pertanto indubbiamente anche incapaci di fare del male» (p. 64).

Venendo ai recenti reportage relativi a quelli che vengono descritti come “buoni soldati italiani”, martiri contemporanei, lo studioso individua in tali rappresentazioni l’intero armamentario retorico volto a presentarli non tanto come soldati impegnati in azioni di guerra, ma come brave persone andate a portare aiuto, amate da donne bambini locali, in trepidante attesa di tornare a casa dalla propria famiglia, martiri vittime di atrocità sempre e solo straniere. Insomma il soldato italiano è un soldato diverso dagli altri, per certi versi non sembra nemmeno un soldato.

La seconda parte di Dentro e oltre l’immagine è dedicata, come detto, all’analisi della cultura popolare visiva nazionale a proposito dei rapporti tra la società italiana e le culture altre. Nel primo saggio di tale sezione, Perché Sanremo è Sanremo, lo studioso si occupa della questione di genere soffermandosi sulla rappresentazione dell’omosessualità nel contesto del Festival sanremese del 2012. L’edizione indagata era stata preceduta da alcuni interventi pubblici di Adriano Celentano volti a criticare duramente la stampa cattolica nazionale, in particolare «Avvenire» e «Famiglia Cristiana», accusata dal cantante di subordinare le tematiche religiose a quelle politiche. Con tali premesse prendeva il via un’edizione della manifestazione canora fortemente segnata dalla presenza di riferimenti a Dio e alla Fede. «È nel testo della canzone vincitrice del festival, cantata da Emma, che la “fede” si mette esplicitamente in dialogo con la “patria” proponendo una sorta di consolidamento “pop” del concordato tra Stato e Chiesa. Per raccontarci una storia di disoccupazione e precarietà, la cantante pugliese sceglie la figura di un soldato e un testo (peraltro criptico, scritto da Kekko dei Modà) che recita: “Ho dato la vita e il sangue per il mio paese e mi ritrovo a non tirare a fine mese, in mano a Dio le sue preghiere” e poi “ho giurato fede mentre diventavo padre, due guerre senza garanzia di ritornare, solo medaglie per l’onore”. Questa commistura di fede, patria e guerra ri-propone, oltre un possibile tentativo di provocazione dell’autore, la figura del “soldato buono” una delle rappresentazioni più forti e longeve (nonché politicamente ed eticamente dubbie) della cultura popolare italiana» (p. 81).

Se poi al testo della canzone si aggiungono le dichiarazioni della cantante alla stampa che parlano della sua volontà di diventare madre come di una “missione” a cui tutte le donne sono chiamate, allora il patriottismo dispensato dalla canzone può essere interpretato come il «segnale di un nuovo conservatorismo giovanile all’interno di un paese ormai culturalmente invecchiato in modo irreparabile» (pp. 81-82). Di certo, sostiene lo studioso, l’immagine «della donna procreatrice, cui fa riferimento Emma, funziona paradossalmente bene in un contesto quale quello del festival, in cui le donne (con piccole dovute eccezioni) appaiono come la somma di parti anatomiche messe a servizio degli uomini, di cui fungono da spalla silente» (p. 82).

L’arretratezza italiana nell’affrontare la diversità di genere (o d’identità sessuale) emerge in maniera eclatante quando viene affrontato il tema dell’omosessualità. In questo caso la kermesse sanremese non manca di mettere in scena tutti gli stereotipi più scontati. L’immagine dell’Italia offerta dal festival è quella di un paese «dominato da uomini (maschi) eterosessuali e vecchi, chiuso su se stesso e con poca voglia di cambiare. Questo è un paese autoreferenziale, trincerato dietro una fede cattolica, che appare sempre più oggetto di opportunismo e molto raffinato nella sua capacità di mettere all’angolo (tramite, paradossalmente, la sua spettacolarizzazione) ogni forma di diversità culturale» (p. 84).

Nel saggio Lo spettacolo del multiculturalismo viene offerta una lettura critica del documentario L’Orchestra di Piazza Vittorio (2006) di Agostino Ferrante mettendo in rapporto l’idea di multiculturalismo suggerita dall’opera con il dibattito politico che ha caratterizzato le lezioni comunali romane del 2008. Alla realizzazione di Ferrante dedicata all’orchestra multiculturale dell’Esquilino, viene rimproverato di non approfondire i temi lanciati dalle sue immagini e di non giungere mai a un confronto paritario con l’Altro” dandogli realmente voce. «Il film sembra risentire della mancanza di un dialogo critico con lo stesso “Altro” che intende rappresentare e viene penalizzato dalla scelta di evitare di approfondire il contesto che ha reso possibile la realizzazione dell’Orchestra. Il fatto, per esempio, che la band abbia, nel corso degli anni, rinunciato a fare dichiarazioni apertamente politiche, temendo comprensibilmente di non essere poi in grado di creare una struttura solida che potesse pagare regolari stipendi ai musicisti (come spiegatomi da Mario Tronco durante un’intervista), delinea una situazione di fondo piuttosto critica che testimonia anche i paradossi che segnano le ideologie multiculturali contemporanee. Il film avrebbe potuto trarre dei benefici dall’approfondire queste tematiche, piuttosto che dal smorzarle in nome della rappresentazione dei “musicisti immigrati” come persone simpatiche» (p. 92).

Dalla visione dell’opera, sostiene ancora Favero, si individua come unico vero protagonista l’organizzatore italiano Mario Tronco mentre le vite dei musicisti sono soltanto sfiorate in superficie: «ci vengono presentati come personaggi abbastanza gioiosi, distaccati, bizzarri e divertenti, ognuno di essi rappresentante di quella “pittoresca” parte di mondo da cui proviene […] i musicisti ci vengono subito presentati (nel film e durante il concerto) in associazione alla loro nazionalità (mentre gli italiani alle loro città di provenienza). Ciò li rende principalmente “rappresentanti di un’etnicità” piuttosto che “musicisti professionisti”» (pp. 92-93). Insomma, secondo lo studioso il film «manca, da un punto di vista politico, di un riflessivo esporsi e dialogare con l’“Altro” che intende rappresentare. Questo forse riflette anche il destino dell’orchestra che, malgrado il suo intento originario, con gli anni si è trovata intrappolata a rappresentare la diversità e l’alterità, di fronte a un pubblico prevalentemente “bianco” e di classe media (partecipando ai loro concerti ho potuto notare la netta minoranza di stranieri presenti tra il pubblico) invece che a creare un ponte a cavallo di categorie razziali ed etniche […] Qui i migranti diventano oggetto dell’intrattenimento altrui invece che produttori di musica e di un film-denuncia a difesa dei loro diritti. La sensazione è che non sia stata sfruttata a dovere la splendida opportunità di mettere in discussione le categorie ferree che dividono gli “italiani” dagli “stranieri”» (pp. 93-94).

Gli ultimi due saggi sono dedicati rispettivamente all’immaginario italiano sull’India – Bello e distante. La politica dell’esotismo e la rappresentazione visiva dell’India nella cultura popolare italiana – e al mito del Nord nella cultura popolare italiana – ’O Sole mio: turisti charter italiani in visita al Sole di Mezzanotte di Capo Nord (Norvegia). Lo studioso indaga qui le esperienze turistiche di italiani a Capo Nord, la costruzione del Sole di Mezzanotte come oggetto mitico.

Dentro e oltre l’immagine decostruisce criticamente alcuni dei miti e delle rappresentazioni che hanno contribuito a costruire l’identità nazionale italiana e lo fa con gli occhi di un antropologo, Paolo S. H. Favero, che si trova nella particolare, e per certi versi privilegiata, posizione di insider/outsider.


Serie completa: Il reale delle/nelle immagini

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Lasciti coloniali: perché Calimero è tutto nero https://www.carmillaonline.com/2016/10/10/lasciti-coloniali-perche-calimero-nero/ Mon, 10 Oct 2016 21:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33911 di Armando Lancellotti

passato-prossimo-grechi-presente-imperfetto-coverGiulia Grechi, Viviana Gravano, (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 194, € 18,00

Ormai due anni or sono, nel novembre del 2014, si è tenuta a Roma, presso la Casa della Memoria e della Storia, un’iniziativa di due giornate di incontri e di studio sul tema dell’immaginario postcoloniale italiano e delle eredità prodotte dal colonialismo del nostro paese che aveva lo stesso titolo del libro recentemente uscito a cura di Giulia Grechi e Viviana Gravano, che di quella “due giorni” raccoglie [...]]]> di Armando Lancellotti

passato-prossimo-grechi-presente-imperfetto-coverGiulia Grechi, Viviana Gravano, (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 194, € 18,00

Ormai due anni or sono, nel novembre del 2014, si è tenuta a Roma, presso la Casa della Memoria e della Storia, un’iniziativa di due giornate di incontri e di studio sul tema dell’immaginario postcoloniale italiano e delle eredità prodotte dal colonialismo del nostro paese che aveva lo stesso titolo del libro recentemente uscito a cura di Giulia Grechi e Viviana Gravano, che di quella “due giorni” raccoglie le relazioni, i lavori ed i materiali prodotti. Un volume con il quale la casa editrice Mimesis incrementa un catalogo già ricco di studi e saggi che da punti di vista differenti e con approcci molteplici affrontano il tema del colonialismo italiano; basti citare al riguardo alcuni titoli della stessa collana – Passato prossimo – a cui appartiene anche il libro che qui presentiamo: Alessandro Boaglio, Plotone chimico. Cronache abissine di una generazione scomoda, 2010; Paolo Bertella Farnetti, Adolfo Mignemi, Alessandro Triulzi (a cura di), L’impero nel cassetto. L’Italia coloniale tra album privati e archivi pubblici, 2013; Valeria Deplano, Alessandro Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, 2014.

Le riflessioni compiute e proposte in quella occasione intendevano dare un contributo al progresso degli studi post-coloniali, che nel nostro paese non hanno ancora conosciuto uno sviluppo analogo a quello prodottosi altrove e non solo e non tanto per il presunto minor peso del colonialismo italiano rispetto ad altri imperialismi o per l’inferiore durata della sua storia, ma anche e soprattutto per il fatto che dal 1945 in poi, quel paese – l’Italia, appunto – che nei precedenti decenni fascisti aveva fatto di tutto per conquistare l’Impero e per fare degli italiani un popolo razzista di dominatori-civilizzatori di razze inferiori [su Carmilla], ha rapidamente sgravato la propria memoria di un passato divenuto ingombrante, nascondendo dietro una fitta nebbia di oblio i roventi deserti della Libia o gli assolati altopiani etiopi.

Ricordare, ripercorrere e ripensare quel passato e i suoi lasciti è divenuta, pertanto, un’urgenza sempre più impellente proprio oggi, sia per colmare una lacuna o correggere un ben poco involontario errore della memoria collettiva italiana, sia – come scrivono le curatrici, tanto delle due giornate di incontri quanto del libro, G. Grechi e V. Gravano – per «mettere in relazione quel passato coloniale con l’oggi: rispetto alla relazione degli italiani con i migranti che vivono nelle nostre città, che lavorano nelle nostre campagne e nelle nostre aziende; rispetto a quelle seconde, terze o quarte generazioni, che si fa ancora inspiegabilmente fatica a definire semplicemente italiane/i; rispetto alle relazioni con gli altri paesi del Mediterraneo, nostre ex colonie, o ex colonie di altri paesi europei; rispetto alla nostra cultura di consumo e agli immaginari che circolano nei linguaggi visivi contemporanei (dalla pubblicità alle serie televisive, al cinema, ai quotidiani, ai festival culturali)» (p. 23).

Una lettura postcoloniale del colonialismo italiano può fornire un contributo alla comprensione del processo di formazione della nazione e del “carattere nazionale” italiani, dal momento che – come opportunamente ricordano le due studiose – esso è stato intrapreso ben prima del fascismo, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, e quindi ha accompagnato buona parte della storia d’Italia dall’unità al secondo conflitto mondiale, in stretta relazione con altri «eventi di portata altrettanto globale, come le migrazioni di milioni di italiani», proprio mentre i governi propagandavano la conquista di un “posto al sole” per dare lavoro alle braccia disoccupate e come «le relazioni tra nord e sud, spesso caratterizzate anch’esse da un atteggiamento profondamente coloniale, tutto interno ai confini della nazione» (p. 25).

L’originale progetto – Immaginari (post)coloniali. Memorie pubbliche e private del colonialismo italiano – presentato in occasione del Convegno si proponeva inoltre di approntare un innovativo ed inedito archivio del colonialismo italiano, al fine di andare oltre l’approccio meramente storiografico e secondo una prospettiva di tipo postcoloniale che sia in grado di scardinare e oltrepassare la logica dell’archivio istituzionale, che «è di per sé uno strumento coloniale, usato per definire “l’altro”, attraverso una vera e propria ossessione tassonomica, non a caso nata nella modernità in parallelo alla formazione delle nazioni, e dei conseguenti nazionalismi» (p. 28). Se – come sostengono le autrici – l’istituzione archivio, tradizionalmente intesa, oltre ad essere luogo di conservazione della memoria è anche uno strumento culturale di potere, «fondamentalmente di origine europea, che deve catalogare l’intero mondo per condurlo a una sola spiegazione, a una sola lettura universalista, e quindi al possibile controllo» (p. 28), allora un valido contributo al superamento di questa logica di dominio propria della forma mentis imperialistica occidentale può venire dalla realizzazione di un archivio “affettivo” (p. 25), che nasca dalla raccolta di oggetti di piccoli archivi privati, di collezioni di persone e famiglie che hanno vissuto il periodo coloniale, da catalogare poi secondo un criterio insolito, non “misurativo”, tassonomico e quantitativo, ma qualitativo, “affettivo” e “narrativo”.

Pertanto – propongono Grechi e Gravano – «immaginiamo la scheda», che accompagna gli oggetti, prima digitalizzati e poi restituiti, «non tanto come un dispositivo quantitativo di controllo, ma come un piccolo componimento, una narrazione, attraverso la quale i donatori potranno raccontare liberamente le storie che li hanno legati e li legano al loro oggetto. In questo modo l’archivio conserverà la memoria intima, e quindi affettiva, degli oggetti, innescando sentimenti empatici in chi poi andrà a leggere le storie, e facendo in modo che la “storia” del colonialismo italiano non sia più solo patrimonio delle narrazioni istituzionali ma divenga materia viva e condivisa. Ogni oggetto è portatore di una propria biografia, e allo stesso tempo rifrange la storiografia, e la biografia delle persone che hanno avuto a che fare con esso. Non si tratta perciò di costruire un museo di oggetti, ma un archivio di storie» (p. 26); storie che intrecceranno punti di vista molteplici e apriranno prospettive nuove e plurali.

Di questo fervido laboratorio di idee e progetti dà conto il libro Presente imperfetto, che nelle quattro parti che lo compongono (I. Immaginari (post)coloniali; II Verso un postcoloniale italiano; III Archivi aperti; IV Le pratiche) raccoglie gli interventi e i contributi di tanti studiosi di aree disciplinari differenti (storici, archivisti, sociologi, studiosi di cultural studies, di cinema e media, fotografi, storici dell’arte, scrittori e critici letterari), alcuni dei quali, a mo’ d’esempio, di seguito consideriamo.

brusca-e-strigliaCristina Lombardi Diop (Teoria e grammatica della razza. Il passato prossimo del razzismo coloniale), docente di italianistica e studi di genere presso la Loyola University di Chicago, prende le mosse dall’interessante considerazione secondo cui, per quanto sia corretto e doveroso denunciare i processi di generale amnesia o di complessiva rimozione del passato coloniale e razzista italiano che hanno caratterizzato la memoria collettiva del nostro paese in seguito alla perdita delle colonie, l’insistenza sull’oblio della storia «lascia inesplorata (o rischia di offuscare) la persistente presenza del razzismo nel senso comune e nella quotidianità» (p. 45). Secondo la studiosa, esiste un immaginario coloniale e razzista ben più presente e duraturo di quanto non si sia per lo più consapevoli; anzi, proprio la generale inconsapevolezza riguardo ad esso certifica l’avvenuta traduzione senza soluzione di continuità, dal recente passato coloniale al presente, di immagini, stereotipi, pregiudizi razzisti che sono a tutti gli effetti forma mentis diffusa.

Per spiegare l’origine e lo sviluppo di un immaginario razzista persistente, Lombardi Diop fa ricorso alla metafora, presa a prestito da David Theo Goldberg, della “evaporazione” della razza, che esprime il senso di una diffusione pervasiva, di un «movimento non lineare, ma piuttosto a spirale, delle tracce sedimentate del razzismo coloniale, movimento che produce la simultanea visibilità e invisibilità dei suoi elementi» (p. 46). Si tratta di un processo di sedimentazione che avviene per riattualizzazione continua di rappresentazioni razziste che provengono dal passato e che finisce per rendere consuete e familiari quelle medesime rappresentazioni; è uno scambio comunicativo continuo tra passato e presente, «un “campo discorsivo mobile” che contiene il passato e contemporaneamente produce nuove immagini adatte alla contemporaneità» (p. 46). E come vi è continuità tra l’immaginario razzista del passato e quello del presente, così non vi è separazione tra il razzismo di Stato, delle istituzioni politiche e statali e quello diffuso nella «società civile, attraverso (pre)giudizi e pratiche del vissuto individuale» (p.46).

calimeroSe, come vuole Lombardi Diop, il «razzismo scaturisce in modo esplicito dalle passioni incontrollate della gente comune e prende forma nelle pratiche quotidiane» (p. 47) e se il “razzismo quotidiano” è «quel processo attraverso il quale le idee razziste assumono significato perché tradotte in pratiche quotidiane ripetute e quindi familiari e gestibili» (p.47), allora determinante diviene l’humus sociale in cui tutto questo si produce, la cornice complessiva all’interno della quale prende forma quella che la studiosa definisce la “grammatica della razza”, «ossia quella logica sociale attraverso la quale le sfere primarie del razzismo (la sfera istituzionale, quella ideologica, e quella delle pratiche sociali) si congiungono a formare una sintassi del sentire comune» (p.47).

Per rendere conto di quanto sostenuto sul piano teorico, Lombardi Diop, applicando concetti presi a prestito da Roland Barthes, considera di seguito alcune immagini della cultura popolare e della propaganda razzista di epoca fascista per coglierne gli aspetti di continuità con una celebre immagine pubblicitaria comparsa per la prima volta agli inizi degli anni Sessanta, quella di Calimero per il detersivo per lavatrice Ava. Ciò che per Barthes vale per l’immagine pubblicitaria – l’estrema chiarezza di un significato intenzionalmente stabilito a priori e la polisemia dell’immagine, che può essere letta sia a livello denotativo sia a livello connotativo – può essere esteso anche al messaggio propagandistico. La decodifica del messaggio dipende poi tanto dalla cultura del singolo destinatario del messaggio stesso quanto dall’ideologia sociale del contesto complessivo e «la lettura di una pubblicità o di un fumetto dipende dai diversi tipi di conoscenza investiti nell’immagine attraverso la combinazione di testo/immagine/stile del disegno/azione narrativa» (p.48).

la-doccia-salutareTra le immagini più ricorrenti della propaganda coloniale che coinvolgeva anche quei bambini del Ventennio divenuti poi «genitori degli adulti di oggi nati all’inizio del boom economico» (p. 49) – cioè quando venne inventato il personaggio di Calimero – vi era quella del soldato/colonizzatore, portatore di civiltà, nel solco della civilizzatrice Roma antica e del “destino/fardello dell’uomo bianco”; immagine già presente nella retorica coloniale del periodo liberale, ma corroborata dall’insistenza del fascismo circa la specificità razziale “bianca” degli italiani e la sua essenziale distanza dalla razza “nera” africana, etiope in particolare. È del 1937 l’introduzione in Africa Orientale della legislazione razziale e segregazionista e degli anni di poco precedenti e successivi sono fumetti quali La Piccola Italiana, Piroletto e famiglia in A.O., Peperino nell’Etiopia italiana, o le serie di cartoline postali coloniali a colori, in cui l’atto civilizzatore italiano consiste di frequente nel «lavaggio “salutare”, tema presente in molte delle immagini che ci giungono dagli imperi europei, che associavano la nerezza alla sporcizia, misurando il grado di civilizzazione alla quantità di sapone a disposizione degli europei per sbiancare e curare l’igiene del corpo e della casa. Il lavaggio “salutare” connota il corpo nero come un pericolo dal quale la razza italiana deve proteggersi a causa della sua contaminazione e della degenerazione dell’ordine sociale che esso provoca. Queste immagini entrarono in circolazione pervadendo la coscienza dei “bravi italiani”» (p. 52).

Il meccanismo connotativo innescato da queste immagini è il medesimo della pubblicità del detersivo per lavatrice Ava e del suo personaggio, Calimero, il pulcino nero, apparso per la prima volta in televisione con Carosello nel 1963. Calimero viene sottoposto al lavaggio “salutare” con il detersivo Ava dalla bianca e bionda “olandesina” che gli rivela che lui non è nero, ma solo sporco e così, nuovamente riportato alla sua natura bianca può ricongiungersi alla madre che lo aveva rifiutato, «apostrofandolo con la frase rimasta famosa: “Vattene via, piccolo sgorbio nero”. […] Nella sequenza narrativa di Calimero, il contrasto sporco/pulito denota l’azione del bianco (il detersivo) che trionfa sul nero (lo sporco), mentre connota simultaneamente e ripropone gli elementi dominanti dell’immaginario igienico-razziale del fascismo. […] In conclusione, il passaggio generazionale tra i protagonisti del colonialismo e coloro che furono esposti alla sua propaganda da una parte, e i figli del miracolo economico dall’altra, fa sì che il bagaglio razziale del colonialismo possa essere rimesso in circolazione rendendo invisibili gli elementi razzializzanti del suo messaggio» (p. 53).

Nel suo intervento, dal titolo Appunti su scuola italiana, colonialismo e razzismo, Gianluca Gabrielli, dottore di ricerca in History of education all’Università di Macerata e autore di numerosi lavori sul razzismo italiano e sulla storia della scuola italiana, va alla ricerca di “costanti” nell’atteggiamento della scuola, dagli anni precedenti l’unità politica del paese fino ad oggi, nei confronti delle popolazioni non europee e dei popoli colonizzati da europei ed italiani in particolare.

ilpontedoro_1966Una prima costante la individua nello stereotipo, già precedentemente considerato, della missione civilizzatrice e lo fa partendo da un testo della scuola elementare, un sussidiario, non di epoca coloniale, che porta la firma del “maestro Manzi” e che uscì in prima edizione nel 1966 con il titolo Il ponte d’oro. L’immagine di copertina – osserva Gabrielli – meritoriamente «rompeva gli stereotipi della subordinazione africana, e anche quelli della semplice fratellanza di matrice cristiana, ciononostante il suo senso rimaneva interno a un’interpretazione del mondo in cui la “civiltà” matura nella società bianca e occidentale, e che solo un gesto di generosità del bianco può permettere che si trasmetta alla società nera (originariamente considerata priva di civiltà)» (p. 66): è infatti il ragazzo bianco che, in una sorta di corsa a staffetta, generosamente passa la pergamena, simbolo metonimico di cultura e conoscenza, al ragazzo nero, che altrimenti ne rimarrebbe privo.

Una seconda costante è quella della categorizzazione tassonomica e gerarchica delle razze, in base ai tratti somatici, al colore della pelle e secondo la tipica logica deterministica del razzismo biologico positivistico che connette tratti morali, comportamentali, cognitivi, culturali, spirituali ed altri ancora all’identità razziale. Gabrielli ritrova questa pedagogia razzista già nel Giannetto, «il libro di letture e cultura generale per la scuola primaria di Luigi Alessandro Parravicini che rappresentò un best seller tra gli insegnanti con un centinaio di ristampe tra il 1834 e il 1900» (p. 67). Il determinismo estetico-razzista, che fa corrispondere la presunta bellezza bianca alla sua superiorità in termini di intelligenza, laboriosità, moralità e civiltà, si fa via via sempre più frequente nei testi scolastici sia a fine Ottocento, in un clima culturale egemonicamente positivistico-evoluzionistico e nel momento delle prime conquiste coloniali italiane nel Corno d’Africa, sia durante il fascismo, soprattutto a partire dagli anni della conquista dell’Etiopia e della conseguente introduzione in A.O. della legislazione razziale.

In questo periodo fu introdotto un libro destinato ai ragazzi dai 10 ai 14 anni, Il secondo libro del fascista, che «insegnava la superiorità “razziale” degli italiani e l’inferiorità delle popolazioni africane e degli ebrei; la “teoria della razza” era espressa in termini biologici senza alcuna ambiguità» (p. 69). Il crollo del fascismo – osserva Gabrielli – non scalfì però più di tanto il paradigma razziale, ormai presente nella società italiana e nella fattispecie nella scuola da quasi un secolo e pertanto tenacemente radicato e molto diffuso, se è vero che manuali scolastici e testi di geografia in particolare riproponevano lo stereotipo eurocentrico e razzista del primato dei popoli di razza bianca ed europei. Alla permanenza e alla resistenza, esplicite o sotto traccia, del paradigma razziale si aggiunse poi il silenzio, via via crescente fino a diventare oblio, riguardo al passato coloniale italiano, con la fine della guerra e la perdita anche della amministrazione fiduciaria della Somalia (1960); oblio che riguardò l’intera società italiana e pertanto anche la scuola. Quanto mai significativo l’esempio proposto da Gabrielli di «un volume per le verifiche pubblicato nel 1965; qui la mappa delle colonie italiane su cui i ragazzi dovevano tracciare i nomi dei possedimenti nazionali semplicemente non comprende l’Etiopia (la maniera più efficace di non fare i conti con il fascismo era fare finta che non fosse mai esistito)» (p. 71).

È a partire dagli anni Settanta e in seguito alla riforma e al rinnovamento della scuola che di colonialismo e razzismo si comincia a parlare nelle aule italiane, ma le omertà e i silenzi del passato continuarono a fare sentire il loro peso al punto che – dice Gabrielli – si può parlare di una “decolonizzazione per interposto colonialismo”, in quanto gli italiani cominciarono a fare i conti con il colonialismo ed il razzismo altrui, appoggiando e condividendo le lotte degli afroamericani negli Usa o dei sudafricani contro il regime segregazionista, ma continuando sostanzialmente ad ignorare il colonialismo, il razzismo, le stragi e i crimini compiuti dagli italiani, nonostante i grandi passi avanti compiuti nel frattempo dagli storici, in particolare da Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, che poi produssero effetti anche nell’editoria scolastica. Da ricordare a tal proposito il primo volume della collana di Loescher Editore, diretta da Massimo L.Salvadori, Documenti della storia: G.Rochat, Il colonialismo italiano, 1972.

Con gli anni Novanta e l’inizio dei fenomeni migratori di massa, che hanno condotto in Italia uomini e donne provenienti per lo più da ex colonie (italiane o di altri paesi europei poco importa), si apre un nuovo capitolo della storia dei rapporti tra gli italiani, il passato coloniale e il razzismo; un capitolo che potrebbe portare «a rivedere il punto di vista eurocentrico con cui guardare alla storia e a valorizzare lo sguardo dei conquistati» e che potrebbe inaugurare una nuova prospettiva veramente post-coloniale. Ma le cose per ora paiono andare esattamente in direzione opposta, cioè quella di un riemergente razzismo italiano e della costruzione di una «immagine del migrante, in parte tributaria delle diverse immagini dell’indigeno prodotte e modificate a partire dall’Ottocento e in parte catalizzatrice delle nuove paure che fermentano nella società» (p. 73).

difendilaDella elaborazione di un’immagine negativa del migrante che eredita e ripropone stereotipi razzisti del passato coloniale parla anche Francesca Locatelli – studiosa di storia dell’Africa e del colonialismo italiano e collaboratrice del AMM-Archivio Memorie Migranti – nel suo intervento (Da “sudditi coloniali” a “extracomunitari”: il razzismo italiano ieri e oggi), con l’esame del quale concludiamo le riflessioni su questo interessante libro.
Secondo Locatelli l’atteggiamento europeo nei confronti dei migranti risente in maniera determinate del passato coloniale del vecchio continente e gli esempi sono facilmente reperibili, come «l’ossessione della Francia per l’abolizione del velo come segno di integrazione nella società nazionale non fa altro che rievocare l’ideologia coloniale dell’assimilation, che misurava il grado di civiltà dei popoli colonizzati in base all’accettazione, all’adeguamento e alla conformità con la cultura francese, intesa come cultura superiore» (p. 127).

Anche l’Italia non è di certo esente da questo fenomeno di ritorno del passato coloniale, della sua ideologia e delle sue pratiche che confluiscono sia nelle politiche istituzionali sia negli atteggiamenti diffusi nei confronti di migranti. Al fine di meglio comprendere queste dinamiche, la studiosa suggerisce di indagare, con maggiore attenzione di quella riservatagli fino ad oggi, il fenomeno del colonialismo demografico fascista, cioè del trasferimento in colonia di centinaia di migliaia di italiani, soprattutto negli anni Trenta, a seguito della riproposizione da parte del regime del progetto (anacronistico in quel momento storico) della colonizzazione di popolamento. «Gli italiani presenti in colonia, come quelli che rimangono in Italia, sono cresciuti con la cultura della superiorità della razza che emerge nei loro comportamenti quotidiani […]. Lo dimostrano le numerosissime storie raccontate dalle sentenze penali riguardanti i coloni presenti in Eritrea, conservate nell’archivio della Corte Suprema di Asmara. […] Storie di stupri di donne e bambine, di arroganza e violenza razzista e di maltrattamenti quotidiani» (p. 128).

Quali esperienze fecero e quali convinzioni e pratiche o atteggiamenti razzisti riportarono indietro, mettendoli in circolo nel paese, quei circa 500.000 italiani che a metà degli anni Trenta si trasferirono nei territori d’oltremare? E di tutto questo quanto è rintracciabile nelle decisioni politiche e nei comportamenti quotidiani odierni verso stranieri e migranti presenti in Italia?
«Come studiosi» – conclude Locatelli – «dovremmo quindi interrogarci di più sulle dinamiche che il colonialismo demografico aveva innescato nelle colonie. E in particolare, sui rapporti inter-personali e sociali nei territori d’oltremare e sul ruolo che gli ex coloni hanno avuto nella circolazione di idee, miti, esperienze in Italia nel periodo postcoloniale attraverso le loro associazioni» (p. 131).

Infine, alcuni riferimenti a fatti e vicende recenti – anche molto noti – non possono che confermare le analisi e le preoccupazioni riguardo alla crescita incontrollata di un immaginario razzista che, strisciante fino a qualche anno fa, cammina ormai attraverso il paese ben ritto sulle proprie gambe, non preoccupandosi neppure più di fingersi altro da ciò che è. C’è solo l’imbarazzo della scelta di episodi – all’interno di una cornice sociale fatta di considerazioni e pensieri diffusi, di parole violente e volgari, di atteggiamenti discriminanti – che esplicitano in maniera smaccatamente disarmante quanto l’immaginario collettivo italiano sia pieno zeppo di stereotipi e pregiudizi razzisti di cui non sono esenti neppure le istituzioni pubbliche.

fertility-day-598Si commentano da soli sia il becero vaniloquio di Carlo Tavecchio, presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio, che è riuscito più volte nella non facile impresa di offendere tutti (donne, omosessuali, stranieri, neri…), inanellando volgarità figlie dei tempi di “Faccetta nera”, sia il manifesto propagandistico per il Fertility Day del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, in cui visi fin troppo bianchi, biondi e sorridenti (insomma, molto ariano-caucasici, ma – paradossalmente – quasi più da attori di Baywatch che da italiani) sono associati alla “fertilità” e alla “salute” della “stirpe”, mentre visi di neri e di rasta accanto a bianchi, ma amalgamati in una immagine “seppiata” quanto mai demodé, sono associati al concetto del comportamento insano, asociale, sterile, cioè eugeneticamente pericoloso, non diversamente dai manifesti della propaganda della RSI che mettevano in guardia le “indifese vergini italiane” dal contatto con i “bruti e naturalmente libidinosi” soldati neri statunitensi sbarcati in Italia.

carlo-tavecchio-887E non servono come alibi o attenuanti né l’inconsapevolezza culturale di un Tavecchio, da un lato, né l’involontaria e frettolosa imperizia di un’inesperta responsabile della comunicazione del Ministero della Salute (anche a voler credere alla abborracciata versione ufficiale del Ministero stesso), perché altro non fanno che confermare quanto siano incontrollatamente diffusi stereotipi e pregiudizi razzisti che molto facilmente riaffiorano dal carsico terreno dell’immaginario collettivo italiano.

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Nemico (e) immaginario. I media dei morti viventi del/nel neoliberismo https://www.carmillaonline.com/2016/08/23/nemico-immaginario-media-dei-morti-viventi-delnel-neoliberismo/ Tue, 23 Aug 2016 21:30:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32359 di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto [...]]]> di Gioacchino Toni

ds345Dopo aver analizzato, attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore [su Carmilla], dopo esserci soffermati sulla narrazione/costruzione del nemico nel cinema di fantascienza statunitense [su Carmilla] ed a proposito di come sulla figura dell’alieno (“dell’altro”) spesso vengano proiettate le peggiori caratteristiche dell’umanità [su Carmilla], è il caso di affrontare ancora alcuni aspetti del dilagare contemporaneo della figura del morto vivente. L’invasione zombie che ha occupato una parte importante dell’immaginario contemporaneo non può essere ricondotta soltanto alla comparsa nella fiction di un’orda di living dead. Vi sono almeno altri due ambiti in cui, in forma metaforica, si manifesta la figura dello zombie: il mondo del lavoro, nelle sue forme di alienazione e sfruttamento, ed il mondo dei media tanto nella “narrazione-produzione” di morti viventi (basti pensare a come vengono quotidianamente presentati i migranti), quanto nel suo stesso palesarsi come mondo sospeso tra la vita e la morte, nel suo proiettarsi oltre il luogo, lo spazio ed il tempo. Insomma, come vedremo, i media costruiscono e sono morti viventi.

Al fine di approfondire tali tematiche ci viene in aiuto il nuovo libro di Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis 2016), ove lo studioso analizza la figura dello zombie come metafora che riguarda i media dal punto di vista produttivo, delle modalità di rappresentazione del potere da essi attuate e delle forme di consumo dei contenuti da parte del pubblico. La metafora dei morti viventi viene dunque indagata dall’autore facendo riferimento ai lavoratori delle imprese mediatiche, ai potenti messi in scena dai media ed ai pubblici.

La figura dello zombie sembra mettere in scena le paure e le ansie che abitano l’immaginario occidentale contemporaneo. Secondo diversi studiosi i morti viventi che popolano i media contemporanei rappresentano una sorta di reazione culturale alle ingiustizie sociali e politiche del momento. Quel che è certo è che quella dello zombie è una figura decisamente malleabile e ciò la rende supporto metaforico per inquietudini diversificate.

«Nel nostro percorso ci capiterà di imbatterci in orde di morti viventi, a seconda vittime o carnefici di un sistema neoliberista che riduce le persone a una non-vita. Incroceremo i loro sguardi, spesso interrogativi, e cercheremo di interrogarli a nostra volta» (p. 11).

A proposito dei morti viventi che popolano le produzioni audiovisive, Boni ne ricostruisce le principali fasi di sviluppo a partire dalla loro comparsa sul grande schermo negli anni Trenta e Quaranta quando, in linea con le sue origini haitiane, la figura dello zombie rimanda alla rappresentazione dello “schiavo senz’anima” delle piantagioni con evidenti riferimenti alle condizioni della working class americana negli anni della Grande Depressione. I film di questo periodo, inoltre, non mancano di esplicitare il timore degli occidentali di venire prima o poi dominati e “colonizzati” dai discendenti degli schiavi deportati dall’Africa. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, la figura del morto vivente, oltre a richiamare le atrocità della guerra da poco terminata, rinvia al terrore per un’eventuale invasione comunista, successivamente, attraverso una nuova generazione di zombie, inaugurata da George Romero con La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), si sviluppano riflessioni sul razzismo, sull’imperialismo e sul consumismo.

Nelle più recenti produzioni audiovisive di zombie, in cui è diventato sempre più difficile distinguere nettamente la condotta dei morti viventi da quella dei sopravvissuti, oltre che a dare immagine all’ansia contemporanea determinata dalla mancanza di stabilità e sicurezza, si insiste sul tema del contagio e su questioni bioetiche. L’ultima generazione di zombie si lega «a una dimensione che potremmo ricondurre alla patologizzazione e alla medicalizzazione della società, la cui diffusione planetaria suscita tutti i nostri timori relativi ai processi della globalizzazione neoliberale […] I morti viventi diventano così la rappresentazione fin troppo realistica del proletariato contemporaneo, dei flussi migratori e della estrema facilità con cui è sempre più possibile per le persone finire in uno status di “non-persone”, veri e propri morti viventi» (p. 19).

Riprendendo il discorso sul mito sviluppato da Roland Barthes (Miti d’oggi), secondo Boni «il morto vivente costituirebbe una categoria dell’immaginario nella quale la nostra società trasferisce le proprie vittime sacrificali […] La furia e la soddisfazione che si provano nell’eliminare definitivamente uno zombie nei film e nelle fiction […] tradiscono questa funzione di capro espiatorio […], ma va sempre ricordato che, originariamente, esso è uno schiavo, “che ha perso l’anima per il lavoro imposto dal capitalista. Ogni mito conserva la propria origine, nascondendola, tramutandola in sintomo. Se ciò è vero gli schiavi sono sempre schiavi, anche oggi, come in origine, sono loro che il mito nasconde”. Insomma: lo zombie è un mito, ma queste orde di morti viventi esistono davvero, sono tristemente reali» (p. 27).

Attraverso il mito del morto vivente le vittime vengono trasformate in mostri, dunque diviene lecito, oltre che divertente, eliminarle. Scrivono a tal proposito Martino Doni e Stefano Tomelleri: «Gli zombi sono coloro che, nella loro difformità relativa, sono trasformati in difformi assoluti da un modo di produzione che ha perso ogni traccia di anima, che predica egualitarismo estremo e fa erigere mura difensive e ingaggia guerre preventive per accaparrarsi fonti energetiche. Gli zombi sono uomini, donne e bambini massacrati per mare e per terra, ogni giorno, con spietata e immonda regolarità, nel torpore delle estati occidentali […]. Noi guardiamo loro e vediamo degli zombi: vediamo cioè tutto ciò che noi non vorremmo mai essere. Questa è la vera proiezione. Lo zombi è il non-me […]. La nostra piccola sicurezza quotidiana è garantita dal mito che non muore mai: quello della vittima che è sempre pronta a farsi uccidere, infinitamente, tanto è già morta» [M. Doni, S. Tomelleri, Zombi. I mostri del nuovo capitalismo, pp. 70-71] (p. 28).

sociologie-boni-watching-dead-1Lo zombie, oltre a definire il campo discorsivo del neoliberismo politico ed economico e gli stessi corpi dei suoi protagonisti, si presenta anche come metafora degli effetti della “necropolitica” applicata sui corpi degli individui. I morti viventi vengono presentati come massa informe ma, sostiene l’autore, questi “ultimi degli ultimi” sono anche i rifiuti, gli scarti, della società neoliberista, sono l’immagine di quelle “vite di scarto” di cui parla Zygmunt Bauman (Vite di scarto). I morti viventi non sono soltanto gli operai zombificati dallo sfruttamento neoliberista, essi sono anche «i lavoratori-consumatori, una sorta di “proletariato inattivo” e inutile per cui non solo il lavoro è un ricordo, ma anche lo stesso consumo delle merci è una sorta di istinto inconscio e quasi inconsapevole e involontario. Sono molti gli studiosi che hanno individuato soprattutto ne L’alba dei morti viventi […], di George Romero, una metafora neanche troppo velata del consumismo contemporaneo, dove orde di zombie si assiepano intorno a un mall (riuscendo infine a entrarvi, spinti da un ricordo o da un istinto al consumo fine a se stesso)» (pp. 55-56).

A proposito di consumo, Rocco Ronchi sostiene che nello zombie è possibile scorgere una “nuova forma di proletarizzazione” che «consiste nella organizzazione del consumo come “distruzione del saper-vivere”, al fine di creare un astratto potere d’acquisto. Come il capitalismo classico si reggeva su di una forza lavoro astratta così il capitalismo postmoderno si regge sulla compulsione al consumo, vale a dire su di un vivente ridotto il più possibile alla sola funzione astratta di consumatore di merci» [R. Ronchi, Zombie outbreak, p. 59] (p. 57).

Nel saggio vengono affrontati i fenomeni della “mediatizzazione dello zombie” e della “zombificazione dei media”. Nel primo caso l’autore fa riferimento a come la figura dello zombie venga prodotta all’interno dei media, dunque a come essa sia un discorso mediatico, nel secondo caso a come gli stessi media possano essere letti come morti viventi.

A proposito della “mediatizzazione dello zombie”, Boni sostiene che lo zombie è una figura costitutivamente mediatizzata derivando da un processo di produzione e riproduzione di testi interni ai diversi media. I morti viventi mediatizzati, continua lo studioso, sono soprattutto “ri-mediati” e “crossmediali”, derivanti dal passaggio dei contenuti di un medium in un altro. Inoltre, la figura dello zombie investe praticamente tutti i generi cinematografici e televisivi e, in generale, tocca tutti i mezzi di comunicazione nelle loro più svariate produzioni, dalla narrativa agli audiovisivi artistici e musicali, dai videogame ai fumetti.

Per quanto riguarda la “zombificazione dei media” l’autore porta alcuni esempi di produzioni audiovisive che palesano tale fenomeno. Nel film Pontypool. Zitto… o muori (Pontypool, 2009) di Bruce McDonald, il contagio si propaga attraverso la trasmissione radiofonica e telefonica: «la zombificazione corrisponde al linguaggio, anzi alla lingua inglese – più precisamente ancora, al significato delle parole inglesi. Per eliminare il virus è necessario uccidere la parola – ucciderne il significato –, ripetendola finché non diviene incomprensibile» (p. 73). Di fatto, ricorda l’autore, tutti i mondi mediati elettronicamente dalle telecomunicazioni tendono ad evocare il soprannaturale ed il mostruoso, abitando, tali media, una zona liminale, tra la vita e la morte, proprio come gli zombie. Se i mezzi di trasmissione delle comunicazioni proiettano oltre il luogo e lo spazio, quelli di registrazione consentono anche di andare oltre il senso del tempo. I media possono allora essere letti come morti viventi.

Secondo lo studioso Erik Bohman (Zombie Media) nelle opere di Romero è possibile individuare la metafora del medium come morto vivente: nei suoi film i media sono mostrati come agenti di zombificazione, dunque come zombie essi stessi. Boni mette in evidenza come La notte dei morti viventi (1968) di Romero giunga nelle sale pochi anni dopo la pubblicazione di Gli strumenti del comunicare (1964) di Marshall McLuhan, saggio in cui lo studioso canadese sostiene che la specializzazione derivante dall’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate riduce le persone ad automi ed i mezzi di comunicazione elettronici determinano un nuovo tribalismo che si esplicita nella forma del “villaggio globale”. «La notte dei morti viventi ci mostra questo tribalismo nei suoi effetti più devastanti, sia nella sua declinazione nella figura dello zombie (che da poche unità diviene poi una massa minacciosa) sia nella sua articolazione nei sopravvissuti asserragliati all’interno di una fattoria, le cui azioni sono peraltro orientate dalla radio e della televisione, i cui annunci tuttavia nel corso della vicenda perdono sempre più di credibilità e affidabilità» (p. 76).

Nel lungometraggio Le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead, 2007) di Romero, «assistiamo alla pervasività (e alla disfatta) dei media: nel film un gruppo di studenti documenta l’apocalisse zombie attraverso le loro cineprese e i loro telefonini, e vediamo spesso immagini tratte da telecamere di sicurezza e altri sistemi di controllo e vigilanza […] Tuttavia, a onta di tutto il materiale di immagini che viene raccolto nel corso della vicenda, i protagonisti sono consapevoli della sostanziale inutilità di quella documentazione. Se già a livello testuale è possibile verificare il delinearsi della metafora dei media come morti viventi – capaci di zombificare i loro consumatori –, a un ulteriore livello di analisi è possibile vedere come la stessa grana delle immagini mediatiche che rappresentano i cadaveri in disfacimento degli zombie restituisca le tracce della loro mediazione e rimediazione, rinvenibili negli effetti di distorsione e negli interventi digitali sulle immagini[…] è possibile parlare di zombie media poiché il corpo dello zombie (reso con tutte queste tecniche) e il corpo dei media (la qualità stessa delle loro immagini) sono connessi metaforicamente in una relazione reversibile. A questa sorta di “ontologia” dei media si unisce una “fenomenologia” dei media, “nella quale i piaceri e le paure associati al guasto dei media sono veicolati dallo spettacolo della disintegrazione del corpo dello zombie”» (pp. 78-79).

I mezzi di comunicazione, esattamente come i corpi umani, si corrompono, sono soggetti all’invecchiamento ed alla decadenza. Inoltre, continua lo studioso, i media divengono presto obsoleti (dead media) e la riattivazione di questi, attraverso processi di manipolazione, permette di farli tornare in vita, come accade agli zombie. «In questo modo, gli zombie media mostrano come degli scarti tecnologici (gli stessi scarti che abbiamo visto costituire uno degli aspetti principali della rappresentazione del morto vivente) possano “tornare in vita”, perché “i media non muoiono mai» (p. 80). Anche i più recenti media digitali sono duri a morire; Angela M. Cirucci (The Social Dead: How Our Zombie Baggage Threatens to Drag Us into the Crypts of Our Past) a tal proposito ricorda come i dati pubblicati sui social network, anche quando si pensa di averli definitivamente cancellati, possano “ricomparire” in contenti imprevisti.

dead-set-poster-09La metafora dello zombie è utilizzata dai media anche per rappresentare il mondo del lavoro dei mezzi di comunicazione. Al fine di indagare tale ambito, lo studioso prende in esame la serie televisiva Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, autore della serie documentaria How TV Ruined Your Life (2001) e della serie Black Mirror (dal 2011). Dead Set narra di un’epidemia zombie che si diffonde sia nel paese che all’interno del cast e dell’equipe che lavora alla realizzazione del reality inglese Big Brother. A partire da tale esempio, Boni «si concentra sulla metafora dello zombie come di un “morto che lavora”, in un’epoca in cui il campo professionale delle grandi imprese mediatiche è sempre più caratterizzato dalla precarietà e dallo sfruttamento. Le “videopolitiche” diventano qui davvero delle “necropolitiche” lavorative, dove la flessibilità, la mobilità e il rischio costituiscono i fattori centrali che presiedono alle pratiche professionali di chi lavora all’interno degli apparati dei media, e delle stesse celebrità – effimere, undead – che vengono prodotte» (p. 10). Nella serie di Brooker tutti sono rappresentati come zombie: i partecipanti al reality, i produttori ed il pubblico sono ormai privi di qualsiasi funzione celebrale. Gli esseri umani sono soltanto propensi al consumo di immagini, carne umana, celebrità a loro volta zombificate.

David McNally (Monsters of the Market. Zombies, Vampires and Global Capitalism) sostiene che nel presentare gli zombie come consumatori compulsivi, molte produzioni recenti hanno finito per celare il mondo della produzione, dello sfruttamento del lavoro e delle diseguaglianze di classe che rendono possibile tale consumo. Dunque, secondo lo studioso, molti film sugli zombie contemporanei si limitano a criticare il consumismo senza mai affrontare di petto il capitalismo a partire dai processi lavorativi che zombificano i lavoratori. La serie Dead Set può essere vista come rimedio a tale limite, visto che oltre al processo di zombificazione dei consumatori dei media, affronta anche quello dei lavoratori dei media.

A ben guardare gli stessi spettatori sono messi al lavoro (labouring audience) e contribuiscono alla produzione dei media. Lo studioso Dallas Smythe (On the Audience Commodity and Its Work) sostiene che il pubblico si sta trasformando in un bene di consumo venduto dai media agli inserzionisti pubblicitari; la tv produrrebbe telespettatori per poi venderli agli sponsor. «Nel capitalismo contemporaneo il pubblico costituisce così la “forma-merce” dei prodotti della comunicazione […] una “merce” molto particolare, che produce da sé il proprio valore: e questa è appunto la teoria della labouring audience, secondo cui il pubblico elabora attraverso i messaggi pubblicitari (ma non solo) la propria ideologia consumistica. La nostra “storia” di consumatori, cioè di pubblico dei messaggi pubblicitari, è molto lunga […] e questo fa di noi non solo un pubblico competente in ordine ai consumi, ma dei veri e propri “stacanovisti” del consumo, una merce che lavora incessantemente per valorizzare sempre più il proprio ruolo – il proprio pregio – di ascoltatori, spettatori o lettori. Con le proprie ricerche sul pubblico, i media non cercherebbero quindi di ottenere prodotti migliori per il pubblico stesso, ma punterebbero a sfruttare quest’ultimo con una vera e propria forma di lavoro» (p. 87).

Visto che le ricerche di Smythe risalgono alla fine degli anni Settanta, alcuni studiosi hanno pensato di aggiornarle facendo riferimento al panorama dei social media contemporanei, ove gli utenti sono divenuti anche produttori di contenuti. «A completare la metafora dello zombie come lavoratore alienato asservito agli interessi e allo sfruttamento dell’industria dei media, abbiamo l’analogo concetto di free labour, dove i riferimenti alla zombificazione sono piuttosto espliciti: gli utenti di Internet sono definiti “NetSlaves” (schiavi della rete) – un riferimento piuttosto sinistro alle origini culturali dello zombie –, e la loro attività costituisce uno “sweatshop elettronico”, in funzione 24 ore al giorno e sette giorni su sette. Altro che consumattori: laddove alcuni amano vedere in queste nuove figure un’élite culturale, altri vi vedono semplicemente un’inedita forma di lavoro proletarizzato, un nuovo, “terrificante mostro”. Il free consumer è uno spettro, un non-morto sfruttato e sottoposto a una nuova forma di governamentalità. E – ciò che è peggio – si tratta di una schiavitù di cui non si è nemmeno consapevoli, dal momento che viene associata a una piacevole attività, spesso svolta tra le pareti domestiche» (pp. 89-90).

In Dead Set, come si diceva, anche i lavoratori intenti alla realizzazione del reality divengono zombie; si tratta di lavoratori in balia di quella flessibilità e precarietà caratteristiche del lavoro e della vita contemporanea che il sistema produttivo degli audiovisivi ha da tempo introdotto. Una ricerca di inizio anni Duemila di Gillian Ursell (Working in the Media), ha messo in luce «come le imprese mediali abbiano di fatto trasferito la maggior parte dei rischi, dei costi e dei compiti di management ai lavoratori stessi, ma si trovino allo stesso tempo minacciate da nuove imprese produttive che impiegano lavoro flessibile sulla base di singoli progetti, magari offrendo migliori condizioni» (p. 93). Dunque, i lavoratori dei media risultano sempre più «sottopagati e sottoposti a un regime di auto-imprenditorialità all’insegna dell’“ognuno per sé”, che indebolisce peraltro i legami tra colleghi» (p. 93).

I lavoratori dei media, del tutto in linea con le politiche neoliberiste, si presentano come una moltitudine di lavoratori ridotti al precariato lavorativo ed esistenziale, obbligati all’auto-sfruttamento, all’auto-commercializzazione, all’auto-formazione, al “presentismo produttivo” anche quando non sono fisicamente sul posto di lavoro (ormai estesosi a dismisura nel tempo e nello spazio), all’identificazione con l’azienda che, masochisticamente, porta ad amare l’essere sfruttati.. «Come gli zombie, i freelance dell’industria dei media sono orde, masse di lavoratori assolutamente sostituibili; come gli zombie, gli stagisti che lavorano nella produzione della reality tv sono stretti in una morsa da parte della stessa reality tv, che li sfrutta succhiando loro le competenze professionali e le energie lavorative» (p. 95). Gli stessi partecipanti ai reality non solo si trovano ad essere le più effimere tra le celebrità, dalla durata sempre più limitata, ma hanno anche rinunciato contrattualmente ad avere vita ed identità proprie. Inoltre costoro incarnano un tipo di celebrità disprezzata dal pubblico borghese che assiste alle loro performance con sufficienza, come di fronte ad un freak show. Sono personaggi visti come reietti, scarti umani… morti viventi.

La metafora dello zombie viene sempre più spesso applicata anche ai personaggi politici messi in scena dai media. A tal proposito Boni si focalizza sulla rappresentazione mediatica del corpo di Silvio Berlusconi. Secondo lo studioso «possiamo vedere come di fatto il campo discorsivo mediatico dello zombie rispetto alla figura politica di Berlusconi si declini nella doppia accezione di body politic e di body politics. La doppia valenza di questa metafora – che restituisce l’immagine di un leader non solo mostruoso carnefice ma anche vittima della zombificazione – la rende particolarmente efficace per restituire diverse caratteristiche di Berlusconi e del “berlusconismo” di questi ultimi vent’anni: il sistematico ritorno alla politica anche (soprattutto) quando dato “politicamente morto”; la “serialità” e la “viralità” della sua immagine caleidoscopica, che contiene e allo stesso tempo contraddice tutte le sue rappresentazioni […]; il “berlusconismo” come commodification e lifestyle politics, “specchio” di un’avvenuta trasformazione socio-culturale dell’Italia degli ultimi decenni; pericoloso e mostruoso cannibale, affamato non solo delle vite dei cittadini ma anche delle carni di donne giovani e procaci; cadavere la cui putrefazione rimanda alla corruzione di un intero sistema politico ed economico; mummia […] che si sottopone a macabre cure per sconfiggere la vecchiaia e la morte; infine, un caricaturale mostro tutto italiano, nel suo farsesco machismo di altri tempi» (pp. 130-131).
Se il leader arcoriano invitava i suoi venditori a considerare il pubblico come una moltitudine di decerebrati guidati solo dal consumo compulsivo di merci ed immagini, il Berlusconi mediatico, mette in guardia Boni, vittima e carnefice al tempo stesso, rischia di uscire di scena “cannibalizzato” dallo stesso popolo-zombie. Si tratta pur sempre di un prodotto dei media e come tale soggetto al consumo.

dead_set222Focalizzandosi sul pubblico si può facilmente notare come, tradizionalmente, questo venga rappresentato come una massa amorfa totalmente acritica. Ciò avviene anche nella serie inglese Dead Set, visto che la metafora dello zombie qua si estende al pubblico che circonda minacciosamente il set ove viene prodotto il Grande Fratello. A tal proposito Boni compara l’attrattiva per il centro commerciale degli zombi de L’alba dei morti viventi di Romero con l’attrattiva per la “Casa” del reality della serie Dead Set: dal consumo dei beni materiali al consumo dei media. Nella serie inglese però le battute tra i personaggi del set circondati dal “pubblico-zombie” denotano la pessima considerazione che il mondo della tv ha dei telespettatori tanto che il “caro vecchio pubblico inglese” viene identificato come un’orda di voraci morti viventi pronti a consumare anche da morti le immagini, i corpi ed i luoghi della televisione.

Secondo Boni le stesse viralità e velocità di trasmissione del contagio, messe in scena da Dead Set, possono essere lette come metafora della facilità con cui si ritiene che i media infettino il pubblico rincretinendolo (zombificandolo, appunto). La questione del “contagio” operato dai media è stata, sin dalle origini, al centro della communication research. Nella cosiddetta “magic bullet theory” i media sono visti come strumenti persuasivi che agiscono direttamente su di una massa totalmente passiva ed inerte. Nella teoria “degli effetti limitati” si sostiene che, tutto sommato, i media si limitano a rafforzare le opinioni che gli individui già hanno. Paul Felix Lazarsfeld, uno dei principali teorici degli effetti limitati, ritiene però sia possibile collegare gli effetti dei media ai tempi di esposizione a cui si sottopone il pubblico; lo studioso affronta l’influenza dei media come si trattasse di un’epidemia tanto da focalizzarsi sull’effetto cumulativo dell’esposizione “contaminante”.
Parallelamente a tali ricerche americane, in Europa si sviluppa la “teoria critica” della Scuola di Francoforte che affronta i media, come l’intera industria culturale, inserendoli all’interno di una più estesa strategia di manipolazione dei cittadini. I Cultural studies anglosassoni, rielaborando la teoria critica francofortese, da un lato limitano la portata manipolatrice dei media e dall’altro affiancano all’analisi del consumo quella della produzione. La Scuola di Birmingham insiste particolarmente sul ruolo attivo degli spettatori.

In epoca più recente alcuni studiosi hanno invece ripreso visioni più apocalittiche; Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio), ad esempio, connette lo schermo all’oblio e, ricorda Boni, l’essere un corpo senza memoria è proprio una delle caratteristiche dello zombie. Ad insistere sull’assenza di memoria del pubblico è anche Stefano Tani (Lo schermo, l’Alzheimer, lo zombie. Tre metafore del XXI secolo), studioso che definisce la visione contemporanea un “vedere senza pensiero”. «Il telespettatore è in balia delle immagini che gli vengono somministrate […] “è diventato un utente, cioè qualcuno che crede di usare qualcosa non sapendo di essere usato”. In questa “falsa coscienza”, l’utente televisivo “è un compulsivo consumatore del nulla”. Soprattutto, è un consumatore senza memoria: provvisto al limite di “quella sorta di istinto” che lo fa tornare, da morto – o meglio da non-vivente – al centro commerciale o ai cancelli della “Casa” del Grande Fratello» (pp. 140-141). L’individuo contemporaneo si sottopone anche ad altri schermi oltre a quello televisivo e, sostiene Tani, sul Web esso è privato della propria identità, è uno zombie a cui è stato rubato tutto facendogli credere di poter acquistare.

Boni affronta quel processo che può essere definito di “romanticizzazione dell’audience”, in buona parte costruito sull’idea di “pubblico-attivo” e sulle “capacità critiche del pubblico”. Nel primo caso, sostiene lo studioso, se ci si accontenta del fatto che uno spettatore televisivo “processa ed elabora” ciò che fruisce, allora si è di fronte ad una tautologia; la questione cruciale, come ricorda Roger Silverstone (Televisione e vita quotidiana), non risiede nel fatto che un’audience sia attiva ma piuttosto se quell’attività abbia un senso. Circa i limiti dell’idea di “pubblico-attivo”, diversi studiosi che si rifanno alla cosiddetta “ipotesi dell’agenda setting”, segnalano come se è pur vero che i media non ci dicono che opinione dobbiamo avere, ci impongono però l’argomento, l’agenda, su cui dobbiamo esprimere un’opinione. Secondo tale ipotesi i media sarebbero i principali costruttori di realtà sociale.
Nel caso delle “capacità critiche del pubblico”, «assumere che lo spettatore sia “critico”», secondo diversi studiosi, «non significa per ciò stesso che esso dia una lettura oppositiva del testo mediale fruito, né tanto meno, come vorrebbero alcuni autori, che tale lettura “critica” sia un “atto politico”, in grado di ridefinire codici culturali dominanti in chiave antagonista» (p. 143). Inoltre, secondo alcuni studiosi, focalizzarsi eccessivamente sulla capacità del pubblico di leggere criticamente il contenuto dei media rischia di deresponsabilizzare i media e di far dimenticare il fatto che le pratiche di consumo passivo rappresentano le modalità di fruizione dominanti.

La spettacolarità e la retorica dell’“interattività” contribuiscono a costruire un’immagine falsata del pubblico che in realtà mette in atto spesso un “consumo distratto” dei media. Secondo Landi Raubenheimer (Spectatorship of screen media; land of the zombies?) si può paragonare il consumo automatico di immagini sullo schermo da parte del pubblico, alla “sete di sangue” dei morti viventi che sbranano chi incontrano senza averne necessità. Secondo lo studioso, in molti casi, ci si trova davanti allo schermo senza una necessità specifica e senza consapevolezza.

Volendo insistere sul pubblico-attivo si possono prendere in esame casi in cui il pubblico si è mostrato in grado di appropriarsi dei testi mediatici per farne un uso nuovo e differente. Un caso emblematico a cui fa riferimento il saggio è quello delle zombie walks, quelle sfilate in cui la gente ama travestirsi da morti viventi per mettere in scena l’apocalisse zombie nel cuore delle città, non di rado come forma di protesta, come è accaduto nell’ambito di Occupy Wall Street a New York. «Zombificati dagli orrori del capitalismo e del neoliberismo, i “pubblici-performer” che si impadroniscono delle vie e delle piazze delle città finiscono per mettere in scena in realtà una “de-zombificazione”» (pp. 154-155). Questi morti viventi deambulanti lungo le vie cittadine appaiono come «il perturbante “inconscio” della città, tutto ciò che si cerca di allontanare e che torna per rivendicare quelle stesse strade da cui era stato cacciato» (p. 155).

Molte descrizioni delle zombie walks però, sostiene Boni, tendono a ricordare le retoriche consolatorie diffuse dalle letture “romanticheggianti” dei pubblici di cui si è parlato prima. «Nel loro trarre materiali dall’industria dei media e ri-significarli in senso oppositivo e sovversivo, le sfilate dei morti viventi dovrebbero rappresentare il massimo dell’attività dei pubblici-performer, e tuttavia la loro incapacità di indicare soluzioni alternative a quelle contro cui protestano ci parla di una sostanziale passività, che ricorda da vicino l’eterno presente in cui “vive” – o meglio ancora non-vive – lo zombie. In questo senso, le zombie walks e le zombie parades non sono solo appropriate per il tentativo di movimenti come Occupy di richiamare l’attenzione sull’organizzazione dello spazio urbano nell’epoca del capitalismo neoliberista, ma rappresentano anche un riflesso (forse inintenzionale e inconsapevole?) dell’assenza di una possibile alternativa» (p. 157).

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