Rodolfo Graziani – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Vuoti di memoria https://www.carmillaonline.com/2020/03/12/vuoti-di-memoria/ Thu, 12 Mar 2020 22:00:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58551 di Armando Lancellotti

Paolo Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia, Editori Laterza, Bari, 2020, pp. 244, € 20,00

Il più grave e cruento eccidio di cristiani africani è stato compiuto da soldati italiani e si è trattato di un insieme coordinato di azioni di “polizia coloniale” finalizzate alla repressione e alla vendetta. È accaduto poco più di ottant’anni fa, a seguito di una guerra di conquista imperialistica, che ha conosciuto il più ampio dispiegamento di uomini, armi, mezzi e risorse di tutta la storia del colonialismo europeo in [...]]]> di Armando Lancellotti

Paolo Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia, Editori Laterza, Bari, 2020, pp. 244, € 20,00

Il più grave e cruento eccidio di cristiani africani è stato compiuto da soldati italiani e si è trattato di un insieme coordinato di azioni di “polizia coloniale” finalizzate alla repressione e alla vendetta. È accaduto poco più di ottant’anni fa, a seguito di una guerra di conquista imperialistica, che ha conosciuto il più ampio dispiegamento di uomini, armi, mezzi e risorse di tutta la storia del colonialismo europeo in Africa, eccezion fatta per il conflitto anglo-boero. Una guerra che ha visto i soldati italiani fare ricorso ad armi messe al bando una decina di anni prima da accordi internazionali sottoscritti dall’Italia stessa, che si è assunta la responsabilità di attaccare un paese sovrano e compartecipe di quella Società delle Nazioni che avrebbe dovuto impedire l’aggressione tra stati membri. È successo in un momento estremamente critico per le relazioni internazionali nella prima metà del XX secolo, quando l’Europa stava rapidamente avviandosi sulla strada del secondo conflitto mondiale, così da favorire un sostanziale disinteresse delle cancellerie europee per le sorti del paese aggredito. Una violenta guerra di aggressione che ha contribuito in maniera determinante all’avvicinamento e all’alleanza tra due dittature e due regimi – quello fascista e quello nazionalsocialista – che, seppur ideologicamente strettamente apparentati, avevano espresso, fino a poco prima, finalità diverse e talvolta divergenti.

Una strage così brutale da poter essere considerata paradigmatica della violenza scatenata da una guerra condotta da un regime totalitario e con finalità totalitarie, tra le quali, ad esempio, quella di introdurre una legislazione di discriminazione e segregazione razziali in un paese prima ingiustificatamente aggredito, poi sconfitto, con il sistematico ricorso anche ad armi chimiche ed infine sottomesso, attraverso una spietata politica di repressione di ogni forma di dissenso e di resistenza. Un crimine di guerra che ha avuto il suo culmine nel massacro di un’intera comunità religiosa, cristiana, perpetrato da militi cattolici dell’esercito di un paese governato da un regime confessionale, che meno di una decina di anni prima aveva sottoscritto un concordato col Vaticano che aveva inteso “consacrare” il connubio, solido e duraturo, tra fascio e altare.

Insomma, questo crimine così grave e violento è avvenuto in Etiopia, nell’Africa Orientale dell’Italia fascista, tra il febbraio e il maggio del 1937, come vendetta per l’attentato subito dal viceré Rodolfo Graziani ad opera di alcuni resistenti anti italiani ed ha portato alla morte, come effetto di una serie di azioni tutte coordinate e sovraintese dalle più alte autorità del regime e del governo coloniale, di poco meno di diecimila persone, duemila delle quali erano monaci, teologi, professori, studenti, pellegrini della città conventuale di Debre Libanos, ossia il centro più importante della chiesa cristiana ortodossa etiope (o copta).

Di una pagina di storia tanto tetra quanto densa come questa, la memoria collettiva di un paese dovrebbe conservare ed alimentare il ricordo, ma la realtà dei fatti è di tutt’altro segno: dell’eccidio di Debre Libanos, delle sue premesse, dell’insieme delle circostanze e degli eventi, delle sue conseguenze gli italiani conoscono poco o nulla. E questo si deve, più ancora che agli sforzi del regime fascista di occultare quei fatti nel 1937 e negli anni successivi, a quella gigantesca operazione di rimozione della memoria storica avvenuta nel secondo dopoguerra e che ha condotto all’oblio delle pagine più oscure del fascismo italiano, delle sue guerre, dei suoi crimini e alla sostituzione di essi, nel profondo della coscienza collettiva, con il mito autoassolutorio degli “italiani brava gente”, di cui si è scritto in altre occasioni [qui e qui] e su cui qui si ritorna a riflettere, a seguito della recente pubblicazione per Laterza dell’interessante libro di Paolo Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia.

Borruso insegna storia contemporanea all’Università cattolica di Milano e da anni porta avanti le sue ricerche sull’Africa contemporanea, sull’Etiopia in particolare, sul colonialismo italiano, prestando una speciale attenzione ai fenomeni e agli aspetti religiosi, come in questo suo ultimo lavoro sulla strage di Debre Libanos, in cui l’accento è spesso posto sulla convergenza di fattori politici e religiosi, di interessi e di finalità del regime fascista e della Chiesa cattolica italiana, da intendersi come elementi che concorsero a creare i presupposti per scatenare e condurre a termine la guerra d’Etiopia, in un clima di piena collaborazione tra Stato e Chiesa: alla volontà del fascismo di “lavare l’onta” di Adua e di realizzare il sogno dell’impero africano, si aggiungevano le pretese civilizzatrici proprie dell’ideologia arrogante tipica di ogni colonialismo, che in questo caso facilmente si confondevano e si mescolavano con uno spirito missionario distorto, alimentato dal disprezzo per l’eresia scismatica del cristianesimo miafisita etiope. Gli obiettivi politici e militari del regime e quelli religiosi del cattolicesimo italiano si sovrapposero dal momento in cui la Chiesa abissina venne individuata come colonna portante della società e del sistema politico ed istituzionale dell’impero cristiano africano del negus neghesti, che da sempre, nella sua lunghissima storia, aveva trovato nella fede e nella consacrazione della Chiesa le basi della propria autorità. I più alti vertici dello Stato italiano, da Mussolini, al Ministro delle colonie Lessona, fino al viceré d’Etiopia Graziani, si convinsero sia dell’indissolubilità del legame tra Stato neghussita e Chiesa locale, sia dell’attività di sostegno o addirittura di organizzazione, da parte della Chiesa etiope stessa, della resistenza e della guerriglia anti italiana, anche dopo la fine della guerra e il ritiro del negus nel suo esilio londinese.

Infliggere un colpo mortale alla Chiesa etiope avrebbe significato destrutturare la società, quanto rimaneva del sistema politico precedente, l’identità e la coscienza nazionali della colonia appena conquistata, al fine di sottometterla totalmente. Una sottomissione che per la Chiesa italiana avrebbe dovuto essere anche religiosa, affinché la più antica comunità cristiana d’Africa potesse essere ricondotta sotto l’autorità cattolico-romana, più di millecinquecento anni dopo quel Concilio di Calcedonia del 351 che aveva segnato la separazione tra l’ortodossia cattolica e le chiese monofisite. La sconfitta e la completa sottomissione dell’Etiopia avrebbero condotto al trionfo della Roma fascista e della Roma cattolica in un unico colpo.

Il più convinto interprete di questa politica della inflessibile durezza della conquista, insieme al duce stesso, almeno fino a quando quest’ultimo non decise, tra la fine del 1937 e l’inizio del 1938, di correggere parzialmente la linea di condotta governativa in AOI, fu il generale Rodolfo Graziani, che durante gli otto mesi del conflitto aveva condotto le azioni militari sul fronte meridionale e che, dopo il rientro in Italia di Badoglio, assunse il titolo di viceré d’Etiopia. Fin dai primi mesi della sua esperienza di governo, si diede come obiettivo quello della “pacificazione” del territorio, ovverosia quello dello sradicamento di ogni forma di resistenza etiopica ed è in questo contesto che presero il via le grandi operazioni di “polizia coloniale”, che dovevano condurre all’assoluta imposizione della legge fascista e degli italiani sulla popolazione locale, il cui ruolo poteva essere solo quello dei sudditi sottomessi. Come ebbe a dire lo stesso Mussolini, nel governo dell’impero africano non sarebbe stata tollerata alcuna “mezzadria”; il comando sarebbe spettato solo agli italiani.

Insomma, nel caso dell’Africa Orientale Italiana, ad obiettivi, contenuti e metodi propri di ogni imperialismo coloniale, si aggiunse la natura totalitaria del regime politico del paese conquistatore, che fece dell’impero africano fascista un unicum nella storia del colonialismo. Un qualcosa di unico in particolare per la violenza praticata e per il disprezzo espresso nei confronti delle popolazioni indigene, disprezzo che individuò uno dei suoi bersagli principali nella Chiesa ortodossa etiopica, considerata l’anima nascosta della resistenza abissina. Ne conseguì, pertanto, la decisione presa da Graziani, qualche giorno dopo il 19 febbraio ’37, data dell’attentato alla sua vita al quale sopravvisse, di infliggere una punizione esemplare alla Chiesa etiopica, sulla base delle prove raccolte dalle autorità italiane che gli attentatori in fuga avevano fatto tappa al convento di Debre Libanos. Si trattò di un’occasione che Graziani, col pieno appoggio di Mussolini, non volle lasciarsi scappare e che si concretizzò nel «più grave crimine di guerra» compiuto dagli italiani, come si dimostra in questo interessante libro di Paolo Borruso, il quale, sulla base dell’ormai nutrita letteratura sull’argomento (gli studi di Campbell, Del Boca, Rochat, Labanca, giusto per citare i più importanti) e di accurate ricerche d’archivio, fornisce un’attenta e molto ricca disamina dei fatti accaduti tra febbraio e maggio 1937 in Etiopia.

Nei primi capitoli l’impresa abissina dell’Italia fascista viene collocata nel suo complesso contesto storico-politico nazionale ed internazionale e di particolare interesse risultano le pagine dedicate allo studio della posizione assunta dalla Chiesa cattolica italiana e dal Vaticano riguardo al cristianesimo etiopico, sia prima della guerra, quando organi e apparati ecclesiastici italiani si impegnarono a fondo nell’organizzare una sistematica campagna denigratoria nei confronti della Chiesa abissina, sia durante la guerra stessa, quando l’appoggio al paese in armi e al suo governo non venne mai fatto mancare, nelle prediche ai fedeli, negli articoli sulla stampa ecclesiastica o attraverso qualsiasi altro strumento utile allo scopo. Al contesto nazionale che si preparava alla guerra si aggiunse poi la cornice delle relazioni politiche internazionali, tutte incatenate a quella politica dell’appeasement che si rivelò essere una trappola letale non solo per l’Etiopia, ma, nel corso degli anni successivi, anche per l’Europa e che sarebbe culminata nella Conferenza di Monaco del 1938. Le pagine del libro incentrate sulla guerra [si veda anche qui], preparata con incidenti di frontiera creati e predisposti ad arte – soprattutto lungo l’incerto confine tra Somalia italiana ed Etiopia –, iniziata nell’ottobre del 1935 e conclusa nel maggio del 1936, conducono poi alla parte centrale del lavoro di Borruso, quella che ricostruisce nel dettaglio l’attentato a Graziani del 19 febbraio e soprattutto la furia vendicatrice che si scatenò subito dopo.

Alla mattanza condotta dai fascisti ad Addis Abeba nelle giornate immediatamente successive al 19 febbraio e che fece secondo le stime più contenute almeno 3000 morti tra i civili della capitale, si sommarono poi la cattura e l’uccisione di centinaia di cantastorie, accusati di fare propaganda anti italiana, di molti cadetti della scuola militare di Olettà, di decine di alti ex funzionari governativi. A questi, nei mesi successi, si aggiunsero altre all’incirca 1500 persone sommariamente fucilate, prima ancora che prendesse il via la fase ultima del “generale repulisti”, come ebbe modo di definirlo lo stesso viceré. L’attacco a Debre Libanos fu affidato al generale Maletti, che nelle prime settimane di maggio, con la sua marcia di avvicinamento al convento, causò la morte di 2500-3000 civili, insieme alla distruzione di una quantità enorme di beni materiali e giunse alla città conventuale per la festività del 20 maggio, giorno dedicato al santo Takla Haymanot, a cui è intitolato il convento stesso, consapevole di trovare molti pellegrini e fedeli, insieme ai religiosi del monastero. Secondo le ricostruzioni, l’eccidio, perpetrato tra il 20 e il 29 maggio, di monaci, preti, diaconi, insegnanti, pellegrini, ecc. toccò le 2000 vittime, prima catturate, poi momentaneamente internate, di seguito trasferite con alcuni camion verso località circostanti precedentemente scelte, ed infine fucilate e inumate in approssimative fosse comuni. Maletti e i suoi non si fecero sfuggire neppure l’occasione di razziare i beni e gli oggetti di culto preziosi custoditi nel monastero, che, trasferiti in Italia, non furono mai più ritrovati. Nei mesi successivi, fino a luglio, i pochi sopravvissuti alla strage vennero trasferiti – si trattò di alcune centinaia – nei campi di concentramento italiani in Africa, in particolare nel terribile campo somalo di Danane, dove molti morirono. Le puntuali analisi e le lucide riflessioni di Borruso seguono le vicende della strage di Debre Libanos per poi estendersi agli altri aspetti della politica di sottomissione fortemente voluta dal viceré Graziani: la legislazione razzista e segregazionista emanata nello stesso 1937 e la politica di discriminazione dei meticci, allo scopo eugenetico di difesa della razza bianca italiana attraverso la sua netta separazione da quella nera africana, che costituiscono di tale politica due momenti di essenziale importanza.

A più di ottant’anni di distanza, la strage di Debre Libanos rimane ancora qualcosa di sostanzialmente sconosciuto all’opinione pubblica di quel paese che ne fu responsabile, quell’opinione pubblica che invece – forse anche a causa di questi abissali vuoti di memoria – non si è indignata tanto quanto avrebbe dovuto quando, nel 2012, ad Affile, sua città natale, per iniziative delle autorità cittadine, è stato eretto un mausoleo in onore del principale responsabile di queste brutalità: Rodolfo Graziani.

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Le false verità su Piazza Fontana https://www.carmillaonline.com/2017/12/12/le-false-verita/ Mon, 11 Dec 2017 23:01:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42087 di Fiorenzo Angoscini

Andrea Sceresini, Nicola Palma, Maria Elena Scandaliato, Piazza Fontana, noi sapevamo. Golpe e stragi di stato. La verità del generale Maletti, Prefazione di Paolo Biondani, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, ottobre 2017, pag. 215, € 18,00

Nella raccolta di saggi e discorsi del più eminente scrittore cinese di inizio ‘900, simpatizzante del Partito Comunista, fondatore della Lega degli scrittori di sinistra, Lu Hsun un intervento si intitola ‘Ricordo per dimenticare’, che può essere, leggermente modificato in ‘Ricordo per offuscare’, per inquadrare l’intervista, condotta a sei mani, all’ ex capo dell’ufficio ‘D’ del Sid, militare di professione, per tradizione di [...]]]> di Fiorenzo Angoscini

Andrea Sceresini, Nicola Palma, Maria Elena Scandaliato, Piazza Fontana, noi sapevamo. Golpe e stragi di stato. La verità del generale Maletti, Prefazione di Paolo Biondani, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, ottobre 2017, pag. 215, € 18,00

Nella raccolta di saggi e discorsi del più eminente scrittore cinese di inizio ‘900, simpatizzante del Partito Comunista, fondatore della Lega degli scrittori di sinistra, Lu Hsun un intervento si intitola ‘Ricordo per dimenticare’, che può essere, leggermente modificato in ‘Ricordo per offuscare’, per inquadrare l’intervista, condotta a sei mani, all’ ex capo dell’ufficio ‘D’ del Sid, militare di professione, per tradizione di famiglia e vocazione giovanile.
Per evitare scorciatoie intellettualistiche, abbiniamo (con un paio di nostre ‘arbitrarie’ aggiunte) anche quanto letto recentemente in un servizio pubblicato sul settimanale di uno dei due più diffusi quotidiani nazionali, dedicato al rapper canadese Aubrey Drake Graham che, citando Albert Einstein, inizia così: “Il mondo non è minacciato (solo, nda) dalle persone che fanno il male ma (soprattutto, nda) da quelle che lo tollerrano”. Perchè, naturalmente, se non ci fossero i ‘malvagi’ non ci sarebbe bisogno degli ‘gnorri’.

Il ‘Capitano’ Maletti concede parzialmente la sua memoria, i suoi intermittenti ricordi ma, soprattutto, le sue reticenze ed omertosi silenzi. Quando non addirittura una spudorata sfacciataggine: “Generale, ma lei ha una memoria prodigiosa…Ci osserva uno a uno. Poi sorride: ‘Sì, certo. E’ chiaro. Ma solo quando mi fa comodo‘” (pag. 30, il neretto è nostro). Più volte, in termini simili, anche se con parole diverse, ma senza modificarne la sostanza, l’agente segreto ribadisce tale concetto. Oppure, indicando come sicuri testimoni ben informati, individui ormai morti.

La verità pilotata, già pubblicata la prima volta nell’aprile 2010 dall’editore Aliberti di Reggio Emilia, aveva subito sollevato entusiasti consensi,1 ma anche esplicite critiche.2
La rilettura, avvenuta dopo sette anni dalla prima uscita, permette di cogliere, ed evidenziare, pregi (ci sono) e difetti, sviste, dimenticanze, confuse frammistioni e contraddizioni esplicite presenti nel testo, ottenuto e trascritto, sostanzialmente, dalla sbobinatura di una lunga video intervista durata tre giorni, condotta nel novembre 2009 in Sudafrica, dai tre giornalisti italiani al latitante d’oro, emigrato di lusso.

L’elaborato di Sceresini, Palma e Scandaliato, ci permette di inquadrare e ricordare chi è, cosa ha fatto, perché e per quali reati è stato condannato (in via definitiva) l’ex numero due del Sid, e a capo dal 1971 al 1975, dell’ufficio “D”, quello che si occupava di controspionaggio.
L’Africa, per i Maletti (il padre Pietro e il figlio Gianadelio) è come una ‘seconda casa’, usata ed abusata.

Il generale Pietro “trascorse in questo continente gli anni più ruggenti della sua vita. Nel 1917, giovane maggiore reduce dal Carso, fu inviato nel deserto libico…Poi, nel 1935, finì in Somalia: combatté alla testa di un raggruppamento di ascari. Partecipò a numerosi scontri…Nel maggio 1937, fu proprio lui, il generale Pietro Maletti, a guidare le sue truppe all’assalto del monastero di Debra Libanos, poco lontano dalla capitale”. Eseguendo alla lettera gli ordini del vicerè d’Etiopia, Rodolfo Graziani, il teorico dello sterminio ed utilizzatore di gas tossici contro le popolazioni etiopi ed abissine, il militare italiano Maletti, passò per le armi 449 monaci.3 Mentre percorrono i circa 150 chilometri che separano Addis Abeba dalla città santa della chiesa copta di Debrà Libanòs, le truppe agli ordini del regio generale incendiano 115.422 tucul e tre chiese e ‘giustiziano’ 2523 ribelli. Secondo Angelo Del Boca “la pagina più odiosa del colonialismo italiano”. Per i suoi servigi, e criminali attività africane, il regime fascista gli ha conferito una medaglia d’oro, tre d’argento, due di bronzo: un eroe littorio, autentico colonialista.

Il figlio Gianadelio, sin dalla più giovane età, respira e cresce in un’atmosfera intrisa di grigio-verde e camicie nere. Mentre il padre, figlio di un militare, lo vorrebbe artigliere, il futuro agente segreto sceglie la fanteria, nei cui reparti rimarrà sempre fino a raggiungere il grado di generale. Nonostante la dichiarata allergia fisica alla stoffa delle uniformi. Allievo in Accademia, nelle scuole militari -suoi commilitoni: Vito Miceli ed Eugenio Cefis – e di guerra (Cesano, Modena, Civitavecchia, Milano, e Car di Como), distaccato in Val Camonica durante i primi mesi del secondo conflitto mondiale. Poi, Sicilia nel Reggimento fanteria della Divisione Aosta, già ‘comandata’ dal padre, e posto a capo della Compagnia arditi reggimentali.

Catturato il 26 luglio 1943, giorno successivo alla caduta del regime dopo le decisioni assunte dal Gran Consiglio del fascismo, viene internato in campi di prigionia gestiti da statunitensi.
Dopo la cattura nei pressi di Petrosino, mi condussero nei campi di concentramento americani, passai gli ultimi mesi di guerra in prigionia. A volte mi trovai davanti gli inglesi, altre i francesi, soprattutto durante i trasferimenti. Ma la gran parte del tempo la trascorsi sotto il controllo americano, in Tunisia, Algeria e Marocco”. E’ rimesso in libertà, da Camp Liotei di Casablanca, nell’agosto 1945.

E, forse, come spesso sostengono psico-sociologi moderni, il ‘recluso’ Maletti viene colpito da una sorte di Sindrome di Stoccolma e ‘prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà tra vittima e carnefice’. Statunitense.
Conseguentemente, “vi posso raccontare di due esperienze formative, diciamo così, negli Stati Uniti. Nella prima occasione, fui assegnato alla Scuola di fanteria di Fort Benning, in Georgia, dove presi parte al cosiddetto corso avanzato di fanteria, durato circa un anno, dal 1949 al 1950. Ritornai negli States sette anni dopo, nel 1957, per frequentare la Scuola di Stato maggiore di Fort Leavenworth, in Kansas: ero insieme a un altro ufficiale italiano, e facevamo parte di un gruppo di settanta elementi provenienti da tutti i paesi del blocco occidentale…Poi, nel 1963, fui nominato addetto militare all’ambasciata italiana in Grecia”.

Anche in questo ‘estratto’ si può notare l’abilità oratoria ed omertosa dell’intervistato: ammette, rivela, la presenza di un altro ufficiale addestrato dagli amerikani senza indicarne il nome. Perché? Un agente da nascondere, coprire, occultare?
E dopo l’addestramento politico militare a casa dello Zio Sam, la trasferta nella penisola ellenica.
Nel periodo della sua permanenza presso l’ambasciata d’Italia ad Atene, i Colonnelli (aprile 1967) rovesciano il legittimo governo ed instaurano la dittatura militare. Un anno dopo (16 aprile 1968) un gruppo di studenti fascisti (gli stessi che gridano: Ankara, Atene, adesso Roma viene) , tra cui Mario Merlino, ospiti del Kyp, il servizio segreto greco, agenzia d’oltremare della Cia, in occasione del primo anniversario del putch partecipa ad un viaggio-premio (con contributo economico del Sid) e di studio delle strategie poliziesche repressive del regime.

Alcuni dei partecipanti alla gita oltremare, avevano preso parte (come uditori) al famigerato convegno dell’Hotel Parco dei Principi (maggio 1965) dedicato alla ‘Guerra Rivoluzionaria’, la cui seconda parte del titolo, che in moltissimi tendono a dimenticare, è: “Il terzo conflitto mondiale è già cominciato”.4 Che fosse stata dichiarata ‘la guerra’, e che fascisti, militari e ‘servizi’ la stessero conducendo (ognuno con le proprie armi, mezzi e strumenti) sono a dimostrarlo gli attentati dell’aprile alla Fiera di Milano e stazione Centrale, di agosto sui treni e dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura, i tentativi di golpe (dicembre 1970) e tutte le altre iniziative (Freccia del Sud-Treno del Sole: luglio 1970, Peteano, Questura di Milano, Piazza della Loggia, golpe bianco, Italicus, stazione di Bologna, loggia Propaganda 2) per fermare l’avanzata Bolscevica. Con ogni mezzo necessario5 e con la scia di morti che hanno provocato.

Nel settembre dello stesso anno del golpe, colui che “si adoperò, a partire dal 1972, per sottrarre agli inquirenti le persone inquisite” (Istruttoria Salvini) rientra in Italia ed assume “il comando del Ventiduesimo reggimento fanteria Cremona” con “un battaglione dotato di carri armati americani M47 e di veicoli corazzati per fanteria M113, anch’essi americani ma prodotti dalla Oto Melara”. Maletti può dimostrare quanto appreso negli stage formativi seguiti in America a fine anni cinquanta-inizio sessanta.

Dal novembre 1968 al novembre 1970, direttore dell’ufficio addestramento dell’esercito. Nello stesso periodo compie viaggi ‘turistici’ in Jugoslavia “per rendermi conto delle bellezze naturali del paese, delle sue diversità etniche e delle condizioni di strade e ponti”. Un turista particolare, verrebbe da pensare… ”Niente di ufficiale”, puntualizza immediatamente.
Sempre nel novembre 1970 inizia il corso annuale, presso il Centro Alti Studi Militari, con viaggi di istruzione a Parigi, Normandia, Londra e Tunisia (auspice l’Eni). Non può partecipare ad un altro viaggio-studio in Svezia “perché su richiesta del generale Miceli, allora capo del Sid, il Ministero mi trasferì presso quel servizio prima che il corso del Casm fosse concluso”.

Così, il 15 giugno 1971 viene nominato responsabile dell’ufficio “D” (Controspionaggio) del Servizio Informazioni Difesa, e ci rimane fino al 30 ottobre 1975. Ed è qui, che compie il suo ‘magistero’, inteso come opera di maestria. Ed è per queste opere che viene, prima arrestato (28 febbraio 1976) per falso ideologico in atto pubblico e favoreggiamento personale (organizzazione e realizzazione fuga) nei confronti di due imputati per la strage alla Banca dell’Agricoltura, Guido Giannettini (Agente ‘Z’) e Marco Pozzan (l’uomo di Freda a Padova) quindi condannato, in via definitiva ad un anno con la condizionale, interamente condonato.

Un’altra condanna definitiva, a 9 anni di reclusione, la ‘merita’ nel 2003 per sottrazione di documenti riservati appartenenti al dossier (redatto nel 1974-75) Mi.Fo.Biali (Miceli, Foligni, Libia) relativo ad un traffico di petrolio con la Libia.6 Documenti finiti misteriosamente nelle mani di Carmine Mino Pecorelli (prima ‘nemico’, poi ‘sopportato’ di Maletti), piduista, fondatore dell’agenzia di stampa Osservatorio Politico Internazionale, poi spregiudicato ed ambiguo giornalista-editore-proprietario del settimanale, in odore di finanziamenti da parte del ‘Servizio’, Osservatorio Politico che ne pubblica ampi stralci. Pecorelli viene ucciso con quattro colpi di pistola la sera di martedì 20 marzo 1979. Curiosamente, Maletti che non è più, ufficialmente, un effettivo del ‘servizio’, viene ‘casualmente’ informato dell’omicidio Pecorelli, da un agente in servizio, il ‘suo’ capitano Labruna.

Il giovedì successivo il settimanale ‘spazzatura’ doveva proporre ai lettori un servizio esplosivo contro Giulio Andreotti. Maletti sostiene che Pecorelli gli confidò di come Licio Gelli, per conto di Andreotti, gli offerse una ‘mancia’ per non far uscire quel numero della rivista. Che, per la sopraggiunta scomparsa dell’autore, non venne provvidenzialmente stampato. Giulio Andreotti, condannato in primo grado all’ergastolo, quale mandante dell’omicidio, viene assolto in Appello.

Nel mese di aprile del 1980 Maletti inizia la sua latitanza-trasferimento-esilio in Sudafrica. Dal ‘paese dei diamanti’, rientrò in Italia solo una volta, marzo 2001, per testimoniare al quinto processo per la strage di Milano: “Dietro la strage c’era l’ombra della Cia…Gli americani sapevano tutto. Conoscevano i neofascisti e li incoraggiavano. Furono loro a fornire l’esplosivo…Sono qui perché amo la patria”. Dopodiché, indisturbato, grazie ad uno speciale salvacondotto (rilasciato da chi?) secondo il quale nessuno avrebbe potuto arrestarlo nonostante le condanne, tornò nel paese dell’Africa meridionale, dove tutt’ora si gode il suo personale buen retiro.

La ricostruzione dei tre giornalisti ricorda (oltre a quanto già riportato) alcune situazioni delicate: la vicenda dell’aereo ‘Argo 16’, il taxi di Gladio. Nome in codice di un aereo Douglas C 47 dell’Aeronautica Militare italiana precipitato a Marghera il 23 novembre 1973, causando la morte dei quattro membri dell’equipaggio e sfiorando un disastro ambientale (la caduta si verificò molto vicino ad un bunker per lo stoccaggio del fosgene nel polo petrolchimico). Secondo fonti giornalistiche e l’opinione di Francesco Cossiga, abbattuto per vendetta dai ‘servizi’ Israeliani.

E poi: lo svuotamento, da parte del padre del neofascista Gianni Casalini (per il Sid, fonte “Turco”) del deposito di Venezia – pieno di esplosivo di origine americana proveniente dalla Germania, quasi sicuramente utilizzato per il massacro del 12 dicembre 1969 – grazie all’imbeccata di un capitano dell’arma, Manlio Del Gaudio.
L’ammissione, ermetica e semi-omertosa, nonché deviante dell’ex capo dell’ufficio ‘D’ che in Piazza Fontana “erano in quattro”, senza naturalmente specificare chi fossero quei quattro.

La quasi inutile intervista ad Ivano Toniolo, ‘rintracciato’ dai tre autori in Angola dopo la loro missione sudafricana, fascista della cellula padovana di Ordine Nuovo e che, secondo Casalini, era stato il suo complice nel posizionare gli ordigni sui treni (8-9 agosto 1969).
Il ruolo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, soprattutto del suo numero due (come Maletti) braccio destro del ‘capo’ Federico Umberto D’Amato, Silvano Russomanno, “Aveva militato nelle SS italiane, credo”.
La sera del 12 dicembre 1969, Russomanno venne mandato a Milano: il suo compito era quello di gestire le prime indagini. E forse, ha ipotizzato qualcuno, i primi depistaggi” .7

La ricostruzione del falso arsenale comunista di Camerino. Allestito dai carabinieri…
Ma…in ordine sparso, sono da ricordare anche certe sviste, dimenticanze e affermazioni, non proprio minori e non sempre ‘neutrali’. Ne evidenzieremo alcune.
Già in prefazione (non degli autori) un’affermazione stonata quando si paragona il 12 dicembre 1969 all’11 settembre 2001.

Un ‘altra sottolineatura fuori luogo è indicare “servizi segreti deviati” portando come testimonianza anche quella di Vincenzo Vinciguerra8 il quale precisa: “La linea terroristica veniva eseguita da infiltrati, da persone che stavano all’interno degli apparati di sicurezza dello Stato. Dico che ogni singolo scandalo, a partire dal 1969, ben si adattava a una matrice organizzata: non parliamo di elementi deviati, ma dello Stato e dell’Alleanza atlantica”.
Sempre a supporto di ‘deviazione statale’, quando ricordano gli avvenimenti terroristici (pag. 22) del periodo 1969 (Piazza Fontana) – 1980 (Stazione Bologna) ‘dimenticano’ i sei morti e i 66 feriti dell’attentato compiuto contro la ‘Freccia del Sud-Treno del sole’ (22 luglio 1970) e la strage del treno Italicus (4 agosto 1974, due mesi dopo Piazza della Loggia) che provocò la morte di 12 viaggiatori e il ferimento di un’altra cinquantina.

Un’altra ‘giustificazione a posteriori’ che, ‘servizi’, fascisti, complici e conniventi, nonché utili idioti e furbastri di ogni specie, tentano di spacciare (lo fa anche Maletti nell’amichevole colloquio), è quella relativa al non prevedibile esito dello scoppio e non volontarietà di provocare morti, cercando di accreditare la scopo dimostrativo della bomba, perché la banca, solitamente, a quell’ora è chiusa. “Milano, piazza Fontana. Il 12 dicembre è un venerdì. La Banca Nazionale dell’Agricoltura, a pochi passi dal Duomo, quel giorno resta aperta più del solito” (pag. 71) “La strage è avvenuta per caso” . (pag. 82)

Un volgare, e poco intelligente tentativo di ribaltare la realtà delle cose. Il venerdì pomeriggio la BNA resta sempre aperta per il mercatino degli agricoltori:9 lavoratori della terra, allevatori, produttori di sementi, materie prime e mangimi bilanciati, mediatori, agronomi, periti agrari e veterinari si incontrano nella sala della banca per partecipare alla borsa merci dei prodotti agricolo-zootecnici. L’allegato articolo del 13 dicembre 1969 del Corrierone lo certifica e conferma. 10
Così come stupefacente è la motivazione per cui né Giannettini, né Pozzan (i due esfoliati da Maletti) non possono essere gli autori del posizionamento della bomba. Alla sua tesi, ribattono:“Come fa ad esserne sicuro? La strabiliante risposta: “Entrambi erano dei pavidi” . (pag. 80)

Altre affermazioni ‘sensazionali’ sono quelle relative alla fede anarchica di Mario Merlino: “…gli anarchici Mario Merlino…” (pag. 177) e al filosovietismo di Giangiacomo Feltrinelli.
I sovietici, ai quali Feltrinelli stava a cuore…” (pag. 169).
Che il Circolo 22 Marzo di Roma fosse un organismo anarchico è una ‘verità’ assoluta, che fosse infiltrato da fascisti (Merlino) e poliziotti (Salvatore Ippolito) è, purtroppo, un altro reale dato di fatto. Questo non promuove Merlino a militante anarchico.
Sulla appartenenza ‘terzomondista’ e, quindi, non ‘sovietista’ di Feltrinelli, c’è abbondante materiale (e il suo curriculum) che lo certifica.

Ma quello che andava sicuramente evitato è quanto riportato a pag. 199. “Ha scritto qualcuno: ‘La giustizia è come un timone. Dove lo giri, va‘”.
La definizione è di Lao Tze, filosofo e scrittore cinese ma, soprattutto, utilizzata come titolo di uno dei primi contributi ‘rumorosi e teorici’ (anche se firmato Fronte Popolare Rivoluzionario) di Franco Freda ritenuto dall’ultimo processo, anche se non più punibile perché già precedentemente assolto, tra gli autori della strage di Piazza Fontana.

E Marco Nozza ricorda: “Nello scatolone del Viminale numero 19 (nero) e 51 (rosso) c’erano molti ritagli di giornale…e la cosa più sbalorditiva era che su quei pezzetti di carta un pennarello nero aveva tracciato, vistosamente e vibratamente, il segno inconfondibile di quelle tre lettere Fpr…mentre noi pistaroli avevamo scarsa dimestichezza con quella sigla, gli Affari riservati mostravano di averne molta, fin troppa…parlavamo sempre di pista veneta, pista nera, di neofascisti padovani e trevigiani, mai parlavamo di Fpr, ossia Fronte Popolare Rivoluzionario”.11
In poche righe, è svelato un arcano. Chi doveva e poteva sapere, sapeva. Faceva, o aveva fatto.

Al termine di queste note, riflettendo sui modi, scopi ed esiti della lunga intervista, ci ritorna un ammonimento di Bertolt Brecht: “Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l’ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l’accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l’arte di renderla maneggevole come un’arma; l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l’astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese”.12 .
Infine poche considerazioni ‘editoriali’. Ci ha stupito non trovare nessun rimando alla prima edizione. Così come ci è sembrato strano che si sia eliminato l’indice ragionato dei nomi principali e
l’indice dei nomi (sempre utilissimo) ed è stata ridotta ad una paginetta scarsa (termina al 26 ottobre 1962 con la morte di Enrico Mattei) la cronologia, prima ricca di ben 10 pagine.
Misteri di un libro sui…misteri?

Per cercare di comprendere meglio la situazione, le dinamiche precedenti e conseguenti che hanno portato alla strage di Piazza Fontana, il contesto politico in cui è maturata, da chi è stata compiuta, chi e come ha favorito e coperto gli organizzatori ed esecutori, suggeriamo la lettura (o rilettura) di una serie di opuscoli, dossier, inchieste condotte da collettivi o comitati politici a ridosso di quell’avvenimento. Evidenziando, esclusi i primi due, quelli di G.C. Feltrinelli, e gli ultimi due, la data di pubblicazione. Praticamente da subito, erano stati individuati e si sapeva chi erano i responsabili. Negli anni e nei decenni, successivi, grazie soprattutto all’intelligente, meticoloso e preciso lavoro di alcuni giornalisti d’inchiesta: Marco Nozza (Il Giorno), Camilla Cederna (L’Espresso), Giulio Obici (Paese Sera), Marcella Andreoli (L’Avanti!), Mauro Brutto (L’Unità), Corrado Stajano (Il Mondo e Tempo Illustrato) e tutto il collettivo che animava e partecipava all’attività del ‘bollettino di controinformazione democratica’ del movimento dei ‘giornalisti democratici’ di Milano, si sono potuti aggiungere particolari e nuovi elementi, ma la sostanza era quella subito individuata.
Molti altri contributi: articoli, inchieste, pubblicazioni a stampa di case editrici prestigiose e di giornalisti ufficiali, sono più facilmente reperibili e, forse, più conosciuti di quelli sotto ricordati. Solo per questo non li elenchiamo.

Giangiacomo Feltrinelli, La politica al primo posto. “Persiste la minaccia di un colpo di Stato in Italia!”, Libreria Feltrinelli, Milano, 1968;

Giangiacomo Feltrinelli, La politica al primo posto. “Estate 1969: la minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un colpo di Stato all’italiana. Le ragioni e i modi con cui si tenterà di imporre un regime autoritario in Italia, Libreria Feltrinelli, Milano, 1969;

La strage di stato. Controinchiesta, La nuova Sinistra-Samonà e Savelli, Roma, giugno 1970

Crocenera Anarchica, Le bombe dei padroni. Processo popolare allo stato italiano nelle persone degli inquirenti per la strage di Milano, Biblioteca delle collane ‘Anteo’ e ‘La Rivolta’, La Fiaccola edizioni, Ragusa, agosto 1970;

Vincenzo Nardella, Noi accusiamo! Contro requisitoria per la strage di stato, Jaca Book, Milano, 1971;

Milano e Roma-12 dicembre 1969. La strage di stato voluta dai padroni. Pinelli assassinato, Umanità Nova, 20 ottobre 1971;

Fotostoria 1969-1972 . Dalla strage alle elezioni. Da Valpreda a Feltrinelli. Il fascista, sicario della strage, è certamente tra queste foto. Giochi di potere intorno a un processo pericoloso: 16 assassinati-2 suicidati-5 provocatori-4 ammazzati-634 testimoni-180 giornalisti-21 fotografi-Inoltre: spie, commissari, presidenti, generali, fascisti, ministri, sicari, maggioranze silenziose e loquaci, Sapere Edizioni, Milano, Anno I, n° 1- marzo 1972;

Valpreda è innocente: la strage è di stato. Giustizia proletaria contro la strage dei padroni. Guida al processo a cura del Soccorso Rosso. Numero unico edito dal Comitato Nazionale di Lotta sulla strage di stato-Soccorso Rosso-presso LIDU, piazza Santi Apostoli, 49 Roma, senza data (ma 1972);

Chi è nella Cia. Who’s who in Cia. L’elenco completo dei 3.000 agenti militari e civili del Servizio Segreto americano operante in oltre 120 stati, Napoleone Editore, Roma, 1972

Padova: Comitato di Documentazione Antifascista, Il silenzio di stato, Edizioni Sapere, Milano, febbraio 1973;

Maquis, mensile d’informazione politica militare internazionale, Chi farà il vero colpo di stato? La strage della guerra psicologica, n.1 giugno 1974, Milano;


  1. http://ilblogdinandomainardi.blogspot.it/2011/05/recensione-di-piazza-fontana-noi.html  

  2. http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-piazza_fontana_noi_sapevamo..php  

  3. Studi recenti, condotti all’inizio degli anni novanta, indicano in 1.400-2.000 i morti della strage  

  4. E. Beltrametti (a cura di) La guerra rivoluzionaria. Il terzo conflitto mondiale è già cominciato, Atti del primo convegno organizzato dall’ Istituto Pollio, Giovanni Volpe Editore, Roma, 1965  

  5. Elio Franzin, Mario Quaranta, Gli attentati e lo scioglimento del parlamento, Pamphlets-Diffusione sbl, Padova-Roma, 1970  

  6. Mario Foligni, fondatore di un Nuovo Partito Popolare, voleva contrastare, da destra, la Democrazia Cristiana  

  7. Gabriele Fuga, Enrico Maltini, Pinelli. La finestra è ancora aperta, Colibrì Edizioni, Paderno Dugnano (Mi) dicembre 2016  

  8. ‘Soldato politico’, come ama definirsi, già militante di Ordine Nuovo ed Avanguardia Nazionale, autore reo confesso dell’azione di Peteano-Frazione Sagrado (Go) del 31 maggio 1972, quando, in seguito all’esplosione di un’auto bomba, persero la vita tre carabinieri, oltre a due feriti  

  9. https://www.ildeposito.org/archivio/canti/piazza-fontana-luna-rossa  

  10. http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerArticolo.php?storyId=4d9f21347a581  

  11. Marco Nozza, Il pistarolo,. Da Piazza Fontana, trent’anni di storia raccontati da un grande cronista, Introduzione di Corrado Stajano, il Saggiatore, Milano, novembre 2006  

  12. Bertolt Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino, 1973  

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La smania fascista per l’impero: a ottant’anni dalla guerra d’Etiopia https://www.carmillaonline.com/2016/03/11/la-smania-fascista-per-limpero-a-ottantanni-dalla-guerra-detiopia/ Fri, 11 Mar 2016 22:30:32 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29017 di Armando Lancellotti

1936_Carlino_EtiopiaNicola Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015, 271 pagine, € 20,00

L’ultimo libro di Nicola Labanca si apre con una domanda che spesso chi si occupa di memoria storica italiana è costretto a porsi: «perché questa dimenticanza, o questo silenzio?» (p. 7) Come ci è capitato di considerare in altri pezzi pubblicati su Carmilla, quella italiana è una coscienza storica collettiva smemorata e distratta, facilmente portata a collocare in un’area periferica e secondaria della propria memoria, se non addirittura ad abbandonare e nascondere in un [...]]]> di Armando Lancellotti

1936_Carlino_EtiopiaNicola Labanca, La guerra d’Etiopia 1935-1941, il Mulino, Bologna, 2015, 271 pagine, € 20,00

L’ultimo libro di Nicola Labanca si apre con una domanda che spesso chi si occupa di memoria storica italiana è costretto a porsi: «perché questa dimenticanza, o questo silenzio?» (p. 7)
Come ci è capitato di considerare in altri pezzi pubblicati su Carmilla, quella italiana è una coscienza storica collettiva smemorata e distratta, facilmente portata a collocare in un’area periferica e secondaria della propria memoria, se non addirittura ad abbandonare e nascondere in un angolo remoto e buio, momenti al contrario fondamentali, essenziali del proprio vissuto, cioè della storia di questo Paese.

La dimenticanza qui presa in considerazione dallo storico riguarda la guerra d’Etiopia, scoppiata e combattuta esattamente ottant’anni fa (1935/’36), ma a differenza di altre ricorrenze dell’anno 2015, come l’inizio della Grande guerra italiana e il settantesimo della Liberazione, sostanzialmente trascurata, se non addirittura ignorata, dall’opinione pubblica, cosa che più in generale accade per l’intera storia del colonialismo italiano otto-novecentesco, affrontata, ricostruita ed interpretata dagli studiosi e da analisi sempre più attente e specifiche, ma sostanzialmente ignorata dall’opinione pubblica, soprattutto nelle sue manifestazioni più brutali ed imbarazzanti; ma non per questo meno pronta a riemergere da dietro le quinte della nostra coscienza storica collettiva, dove abita latente, per modellare luoghi comuni, pregiudizi e giudizi del modo italiano di pensare l’altro, lo straniero, l’africano in particolare.

Il “vuoto di memoria” collettivo risulta in questo caso particolarmente problematico perché riguarda una guerra che, per numerosi – e da Labanca con precisione considerati – motivi, ebbe un’importanza fondamentale per l’Italia fascista, produsse effetti incisivi sugli equilibri internazionali della seconda metà degli anni Trenta, fu organizzata e combattuta in modo per molti aspetti diverso dalle altre guerre coloniali europee e portò alla formazione di un impero coloniale africano fascista e razzista.
Innanzi tutto, come il titolo del libro lascia subito intendere, essa non fu la “guerra dei sette mesi” celebrata dal regime, ma durò molto di più, ben oltre il maggio del 1936 e l’entrata di Badaglio ad Addis Abeba, in quanto proseguì fino all’autunno del 1941, quando le truppe del Commonwealth britannico conquistarono l’AOI (l’Africa orientale italiana), evidenziando quanto velleitari fossero stati i sogni di grandezza imperiale di Mussolini. Una guerra quindi che inizia quattro anni prima del secondo conflitto mondiale, ma la cui conclusione costituisce un episodio di quest’ultimo.
Come scrive Labanca, «essa era iniziata almeno tre volte, e per tre volte dichiarata finita. […] Partita come guerra d’aggressione dello Stato fascista a uno Stato africano indipendente, era iniziata di nuovo ora da parte delle istituzioni ormai dell’Africa orientale italiana contro le popolazioni che non volevano accettare il nuovo dominio coloniale», fatto questo che diede luogo a ininterrotti cicli di operazioni di “polizia coloniale” contro oppositori e resistenti etiopi, «infine era ripresa di nuovo, come capitolo e campagna di una più ampia guerra mondiale». (p. 219)

Ma la guerra italiana in Abissinia fu anche un “evento globale”, sia per gli intrecci gravidi di nefaste conseguenze che stabilì con i contemporanei avvenimenti di un quadro politico internazionale che andava rapidamente predisponendosi per l’esplosione del 1939 – per questo, scrive Labanca, da storici africani ed africanisti è stato sostenuto che la guerra italiana del 1935/’36 sia da considerare come il primo passo della seconda guerra mondiale – sia perché fu osservata con attenzione preoccupata ed ostilità in tutto il mondo e non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, nell’Urss di Stalin, fino alla Cina e al Giappone. Ma nonostante la preoccupazione internazionale dinanzi alla smania mussoliniana per l’impero, le due grandi potenze coloniali europee (Inghilterra e Francia) – e si tratta di un ulteriore motivo di importanza di questa guerra – applicarono quella politica dell’appeasement, che avrebbero poi replicato nei confronti della Germania hitleriana fino alla Conferenza di Monaco compresa.

Labanca copertina EtiopiaMa allora perché a fronte di una così evidente rilevanza, tanto per la storia d’Italia quanto per quella mondiale, la guerra d’Etiopia occupa uno spazio così ridotto della nostra memoria nazionale collettiva? Ci sembra in realtà che la situazione di marcata divergenza tra analisi e ricerche sempre più numerose e sempre più puntuali di studiosi e storici prodotte negli ultimi decenni, da un lato e consapevolezza collettiva vaga ed approssimativa che facilmente muta in sostanziale ignoranza, dall’altro riguardi non solo o in particolar modo la guerra fascista all’Abissinia, ma anche altre pagine rilevanti del nostro passato, come la conquista “liberale” prima e la riconquista fascista poi della Libia, o le campagne di Grecia, Jugoslavia e Russia, la cui memoria storica è altrettanto vaga o quasi esclusivamente concentrata su alcuni aspetti, di solito quelli meno negativi o imbarazzanti per il popolo italiano.

Sul piano dello stato di avanzamento degli studi, Labanca – coerentemente con l’indirizzo dei suoi più recenti interessi che guardano in direzione di un approccio storiografico transnazionale [su Carmilla] – denuncia l’assenza, per il momento, di «una storia della guerra d’Etiopia radicalmente transnazionale, basata sulla conoscenza dell’intreccio della parte italiana e della parte etiopica (e, pro quota, eritrea, somala, araba, ecc)» (p. 21), ma è sulla ricostruzione dei meccanismi e delle ragioni delle dimenticanze e delle lacune della memoria collettiva che il libro si sofferma e si concentra.

Nell’interessante nono ed ultimo capitolo – Ricordare la guerra d’Etiopia – Labanca sostiene che affinché il ricordo di un evento storico si fissi nella memoria collettiva di un popolo occorre un contesto complessivo e generale che lo contenga, un «macro-ricordo (una categoria, una cornice) entro cui poter inserire quello specifico oggetto». (p. 220) Nel caso italiano della guerra in Abissinia, una prima “cornice” di riferimento fu il fascismo stesso, dal 1936 fino alla sua caduta, che la guerra l’aveva voluta e combattuta, ma dopo il 1945 essa risultò del tutto inutilizzabile, eccezion fatta – ovviamente – per i nostalgici più o meno dichiarati. A ciò si aggiunga che la guerra africana rimase schiacciata, finendone ridimensionata, dalla memoria di altri avvenimenti decisamente più importanti per il Paese, come la seconda guerra mondiale, la Resistenza e la Liberazione, il passaggio alla Repubblica. Ricordi questi che molto meglio si acconciavano al nuovo presente post fascista, repubblicano e democratico rispetto ad una guerra fascista, imperialista e razzista, seguita da una perdita dell’impero che Labanca definisce efficacemente come una «decolonizzazione senza decolonizzazione» (p. 221), essendo avvenuta per mano dei nemici della seconda guerra mondiale (gli inglesi) e non come conseguenza delle mobilitazioni ed insurrezioni popolari degli altri casi di decolonizzazione post ’45.

Anche la mancanza di una “Norimberga italiana”, cioè di un processo internazionale per crimini di guerra, che riguardò non solo la guerra d’Etiopia, ma l’intera seconda guerra mondiale italiana nonostante le richieste dei paesi aggrediti, contribuì ad ottundere la nostra memoria o quanto meno non risvegliò ricordi di un recente passato che conveniva lasciar trascorrere in silenzio. Come conveniva, considera l’autore, anche ai nuovi alleati dell’Italia democratica e in particolare al Regno Unito e alla Francia, ancora a capo di imperi coloniali, per quanto in via di disfacimento. Cosa sarebbe accaduto se le richieste abissine di consegnare i responsabili italiani di crimini di guerra, come Badoglio e Graziani, fossero state accolte? Questo «avrebbe rischiato di aprire un diluvio di analoghe richieste da parte di movimenti anticoloniali o stati decolonizzati. Per salvare se stessa Londra (e di fatto Parigi) salvò anche Roma, dannando Addis Abeba». (p. 222)

Della memoria pubblica della guerra d’Etiopia Labanca propone poi un’analisi e “sistematica” e “diacronica”, individuandone rispettivamente «tre tratti peculiari» e «tre diverse fasi», prima di una quarta, quella di oggi. Il primo tratto specifico consiste nel «silenziamento», cioè – spiega Labanca – nell’aver messo a tacere il più possibile il ricordo della guerra africana, come di altri aspetti e momenti del fascismo; il «secondo tratto è consistito nel guardare al conflitto in Etiopia in un’ottica quanto più possibile di “italiani brava gente”, secondo l’immagine che il Paese si è più volte autoattribuito» (p. 232) e che ha prodotto la distorsione o la dimenticanza anche delle responsabilità italiane nello scatenamento del secondo conflitto mondiale, delle leggi razziali e della collaborazione nello sterminio ebraico, del ricorso all’uso dei gas nell’Etiopia stessa, della costruzione di campi di concentramento in Cirenaica, ma anche altrove, ecc. Il terzo tratto, infine, è il «ridimensionamento», cioè un atteggiamento riduzionistico che tende a minimizzare le responsabilità e la portata storiche, politiche, etiche dei fatti accaduti, «in un quadro di ricordi nostalgici, di tipo nazionalista o parafascista, con venature persino “vittimistiche”». (p. 232)

Passando di seguito alla articolazione in fasi della memoria collettiva della guerra d’Etiopia – fasi la cui variazione è strettamente legata a quella dei contesti politici internazionali e nazionali – Labanca individua la prima nel ventennio che va dall’immediato dopoguerra fino alla grande decolonizzazione internazionale degli anni Sessanta e la ritiene caratterizzata da un sostanziale silenzio che calò sul recente passato coloniale, argomento monopolizzato, di conseguenza, dalla memoria di reduci e nostalgici. Concause di questo atteggiamento omertoso furono, tra le altre, l’incapacità e l’indisponibilità a fare i conti col passato fascista, la mancata epurazione e defascistizzazione del Paese e dell’apparato burocratico, militare e ministeriale, il tentativo di riottenere le vecchie colonie e l’assunzione dell’amministrazione fiduciaria della Somalia fino al 1960, le direttive strategiche di politica economica energetica che vedevano l’Italia impegnata a stabilire buoni rapporti col Medio Oriente.

L’inizio della seconda fase viene fatto coincidere con la pubblicazione nel 1965 del libro di Angelo Del Boca, La guerra d’Abissinia, «nel clima generale dell’entusiasmo per la decolonizzazione» (p. 235). Ebbero così inizio studi critici e scientifici sul colonialismo italiano e sul fascismo più in generale e alle ricerche di Del Boca si aggiunsero quelle di altri storici, tra i quali è doveroso ricordare Giorgio Rochat, che se da un lato impostarono un primo dibattito, anche pubblico, su questi temi, dall’altro però non furono in grado di scalfire il coriaceo mito riduzionistico ed autoassolutorio degli “italiani brava gente”, che connotò la lettura più diffusa del passato coloniale italiano nel ventennio tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta. Si tratta di una «visione del fascismo e del colonialismo “da brava gente”» che, seppur in misura minore rispetto al passato e nonostante gli esiti della ricerca storica, «continua ad essere accreditata in più sedi». (p. 233)

Ancora un altro gruppo di scritti di Del Boca ha dato inizio – sostiene Labanca – alla terza fase della memoria collettiva nazionale della guerra in Abissinia, fase contraddistinta da un atteggiamento più critico e dialettico. Il Negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re (1995), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia (1997), Italiani, brava gente? Un mito duro a morire (2004) sono gli scritti di Del Boca che innescarono, accompagnarono e seguirono la dura polemica pubblica tra Del Boca stesso ed Indro Montanelli, polemica che a sua volta diede un contributo determinante alla decisione del Ministro della Difesa Domenico Corcione di ammettere per la prima volta l’uso da parte italiana di gas e altri aggressivi chimici durante la guerra d’Etiopia. Poteva così prendere il via un «percorso di riconquista della memoria e di maturazione del paese rispetto al passato coloniale nazionale. Il senso di tale percorso sta nella progressiva accettazione da parte degli italiani di un passato complesso, non solo da brava gente, in Etiopia e in genere nel colonialismo». (p. 238)

E con i primi anni del XXI secolo si apre la quarta fase, quella attuale, che Labanca definisce “postcoloniale”, sia perché le generazioni di coloro che la guerra d’Etiopia l’hanno combattuta o che hanno vissuto in un’Italia “imperiale e coloniale” sono per lo più scomparse, sia perché l’assetto politico mondiale ha quasi superato il ciclo storico plurisecolare del dominio coloniale europeo del resto del pianeta, sia perché – scrive Labanca – «da un paio di decenni si è ormai affermata una visione della storia che si è appunto definita e proclamata postcoloniale» (p. 241), la quale muove dall’esigenza di operare una profonda decostruzione critica della cultura e del pensiero coloniali. Un approccio che, tra l’altro, intende muovere alla ricerca dei lasciti, dei residui, delle eredità palesi o implicite che il passato coloniale ha tramandato all’immaginario e alla mentalità odierni. Residui del passato che, sottolinea l’autore, è possibile trovare un po’ ovunque: «nella politica, per come essa tratta oggi i migranti; nei media, per come essi trasmettono e moltiplicano lo scontro di civiltà; nelle menti degli italiani, per come essi siano ancora impregnate di stereotipi e di pregiudizi razziali, chiaro retaggio dell’epoca coloniale». (p.242)

All’interno di questa cornice complessiva, il cui perimetro è dato dal riconoscimento dell’importanza storica fondamentale della guerra d’Etiopia e dall’esame delle modalità e delle ragioni della costruzione della sua memoria storica collettiva, Labanca colloca il suo articolato studio sulla guerra italiana in Abissinia, la cui tesi di fondo ci sembra possa essere colta nella affermazione del carattere essenzialmente fascista di questa guerra, delle sue motivazioni, delle sue finalità, delle modalità con cui fu combattuta, degli effetti che produsse.
È una smania per l’impero quella che spinge Mussolini e il regime verso la guerra d’aggressione all’antico impero africano e per ragioni di prestigio sia internazionale sia interno: negli anni Trenta del Novecento, l’Italia fascista, che «era tanto un latecomer quanto un junior partner dell’imperialismo coloniale europeo» (p. 36), voleva la “grande impresa”, per trionfare laddove l’Italia liberale aveva fallito, che riportasse – per dirla con Mussolini stesso – “l’impero sui colli fatali di Roma”, che consentisse di gettare un ponte lungo un paio di millenni tra la Roma dei Cesari e la Roma fascista. Per tutti questi motivi la guerra all’impero del Negus non poteva essere una “normale” spedizione coloniale, ma doveva assumere un chiaro ed inequivocabile carattere fascista.

La scelta almeno iniziale dell’anziano quadrumviro della marcia su Roma, De Bono, poi sostituito dal più esperto Badoglio, come comandante dell’intero corpo di spedizione e del fronte nord in particolare a cui si aggiungeva sul fronte sud, quello somalo, il generale Graziani, modello del soldato e dell’ufficiale che il regime avrebbe voluto replicare e diffondere, dichiaratamente fascista, a tal punto distintosi per ferocia nella “riconquista” della Cirenaica da meritarsi l’epiteto di “macellaio degli arabi”, dimostra come quella in Etiopia non avrebbe dovuto essere una piccola guerra coloniale, ma una grossa guerra fascista e poi nazionale e moderna.
Da grande guerra moderna fu il dispiegamento imponente di forze che tra soldati dell’esercito, reparti della MVSN – la cui presenza accentuava il tratto politico-ideologico dell’impresa – e ascari arrivò a circa 5/600.000 uomini: «[…] grosso modo 300 mila soldati regolari, 100 mila camicie nere, 100 mila lavoratori italiani militarizzati, 100 mila e più ascari (truppe indigene regolari)». (p. 87) «Non vi era stata nessuna precedente guerra coloniale che fosse costata un simile impegno alla potenza europea che l’aveva lanciata. L’unico possibile paragone può andare alla guerra sudafricana (1899-1902), o guerra angloboera […]. Ma in quel caso era in gioco una posta straordinaria per Londra: il più grande impero coloniale europeo, all’apice del suo potere […]». (p. 75)

Tutt’altra era la situazione italiana, che intraprendeva nel 1935 una guerra “anacronistica”, proprio nel momento in cui l’espansionismo coloniale europeo si era fermato, stava avvenendo il passaggio dalla conquista alla valorizzazione economica e dalla gestione militare a quella civile dei territori coloniali e i governi europei dimostravano qualche disponibilità alla concessione di limitate autonomie per fronteggiare la crescita dei movimenti nazionalisti ed indipendentisti delle colonie. Questa guerra “anacronistica” doveva essere anche “nazionale”, nel senso che doveva coinvolgere l’intera nazione e per questo fine si prodigò l’apparato propagandistico del regime totalitario fascista, che diede un fondamentale contributo alla attribuzione di caratteri e contenuti precipuamente fascisti al conflitto: «un’impostazione dichiaratamente razzista, un’accentuazione nazionalistica e classicistica (con le pretese di riallacciarsi all’antica Roma), un’intonazione populistica (le colonie come luogo dell’espansione del lavoro italiano)». (p. 61)

Una “guerra fascista”, quindi, di cui Labanca individua almeno sei tratti distintivi ed innanzi tutto il ruolo determinante ricoperto da Mussolini sia per quanto riguarda la progettazione e la decisione del conflitto sia per quel che concerne la sua conduzione, come le direttive inviate dal duce stesso a Lessona, Badoglio o Graziani e contenenti l’assenso all’uso massiccio di gas ed aggressivi chimici dimostrano. Il secondo tratto essenziale è individuato nel carattere “totalitario” di una guerra per combattere la quale il regime si era scontrato con la Società delle Nazioni, per quanto blande e sostanzialmente ininfluenti fossero state le sanzioni da questa imposte all’Italia, e con la quale «metteva in chiaro il proprio programma di politica estera: bellicista, revisionista, antipacifista, “antisocietario”, in guerra con il “wilsonismo democratico” e con il nazionalismo che stava emergendo dai paesi colonizzati. Più che di un conflitto coloniale si trattava, insomma, di una guerra altamente ideologica». (p. 85)

Il terzo punto rilevante è colto da Labanca nel razzismo che fa da denominatore comune a tutta la guerra, all’imponente campagna propagandistica che l’accompagnò e ai cinque anni di governo italiano del territorio. Un quarto elemento distintivo, conseguenza dei due precedenti – il “totalitarismo” della guerra e il disprezzo del nemico – consiste nella volontà di annientare l’impero del Negus, non solo abbattendo quest’ultimo, ma anche smantellando le strutture del paese: la classe dirigente, la chiesa, l’intellettualità, ecc. Il quinto tratto peculiare Labanca lo individua – come già spiegato prima – nell’impiego di un esercito e di mezzi da grande guerra moderna e non da limitata impresa coloniale; infine, il sesto elemento propriamente fascista della guerra d’Abissinia fu il tratto “popolare” che il regime voleva attribuire all’impresa, sia dal punto di vista del consenso che intendeva raccogliere attraverso propaganda e repressione, sia dal punto di vista della effettiva partecipazione “nazionale”, di “massa” alla spedizione: un paese, l’Italia, che contava circa 42 milioni di abitanti, ne inviava pressappoco 500 mila in Africa.

Dei vari argomenti Labanca tratta poi nei diversi capitoli del libro, come per esempio nel § 2, La propaganda e la questione del consenso, del cap. IV, oppure nel cap. VI, L’impero e le leggi razziste, 1936-1937 e nel cap. VII, I cicli operativi di grande polizia coloniale, 1936-1940.
Il discorso sull’allestimento della campagna propagandistica a sostegno della guerra non può prescindere dall’analisi della conosciutissima “giornata della fede” (18 dicembre 1935) e conseguente “dono dell’oro alla patria”. Anche in questo caso, come in quello del dispiegamento della forza militare, per estensione ed intensità lo sforzo propagandistico del regime fascista è da paragonarsi a quello sostenuto dalle maggiori potenze nei due conflitti mondiali più che alle politiche più modeste di mobilitazione dell’opinione pubblica a sostegno delle imprese coloniali di paesi quali la Francia o l’Inghilterra. Insomma il fascismo fece di tutto per forgiare una nuova mentalità che fosse capace di concepire il ruolo dell’Italia dal punto di visto del suo presunto nonché preteso “destino imperiale”.

Ma la parte più interessante del discorso di Labanca riguarda il sintetico richiamo al dibattito storiografico sul problema del “consenso” alla guerra d’Etiopia, in particolare e al regime, più in generale, con il quale l’autore ridiscute la tanto dibattuta tesi defeliciana del 1975 (Intervista sul fascismo) della guerra in Abissinia come “capolavoro del consenso”, giudicato dallo storico reatino come crescente nell’arco temporale che andò dai Patti lateranensi alla guerra africana. In realtà, senza negare che vi sia stata nel 1935-’36 una «emozione grande e collettiva» (p. 115), cioè un coinvolgimento diffuso del popolo italiano nelle vicende belliche, le ricerche degli ultimi decenni dimostrano – sostiene Labanca – come la categoria del “consenso” debba essere applicata al caso abissino in particolare e più in generale al fascismo, come ad ogni altro totalitarismo, con estrema cautela ed in modo altrettanto articolato e critico. Occorre pertanto tener conto di alcuni fattori: la predisposizione degli italiani ad assorbire una propaganda filocoloniale (e razzista), resa possibile dalle precedenti campagne d’opinione già dell’Italia liberale a supporto delle imprese africane (da questo punto di vista il caso della guerra italo-turca per la Libia è il più emblematico); la diversificazione nel tempo e nello spazio e per classe sociale del consenso alla guerra abissina, che variò a seconda dei momenti tra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936, che fu differente da regione a regione e presso i diversi ceti o classi sociali; infine la consapevolezza che la misurazione della “spontaneità” del consenso in un regime totalitario, portato per sua natura a produrlo forzatamente, ad estorcerlo ed imporlo, è quanto mai complessa.

Di certo, però, anche la macchina della propaganda e del consenso predisposta dal fascismo per accompagnare la conquista dell’impero del Negus contribuì a costruire quella mentalità da “razza superiore”, quell’atteggiamento di disprezzo nei confronti della popolazione indigena che a sua volta fece da supporto alle efferatezze e ai crimini compiuti, sia a guerra in corso (ancora ricordiamo l’uso dei gas), sia dopo la guerra, con le “operazioni di polizia coloniale”, ossia la violentissima repressione della resistenza locale e con la legislazione razziale.

Finita la guerra di conquista con l’entrata ad Addis Abeba, ne cominciava (o continuava) un’altra contro l’insorgere di un movimento di resistenza abissino e, almeno inizialmente, il principale protagonista fu il generale Graziani, a cui Badoglio, rientrando in Italia, lasciava le cariche di viceré d’Etiopia e governatore generale dell’AOI. E «Graziani dette la caccia alle formazioni resistenti. Comandate da alcuni noti ras, queste disturbavano le comunicazioni, tenevano rapporti con le popolazioni, rendevano ancora presente a livello locale quel “vecchio ordine negussita” che il fascismo affermava di aver sradicato. Per ottenere i loro scopi le colonne italiane ebbero carta bianca: villaggi incendiati, raccolti distrutti, contro le formazioni di resistenti e contro le popolazioni fu condotto ogni genere di guerra regolare e irregolare. […] Quando non furono i fucili o le mitragliatrici delle esecuzioni sommarie, furono le carceri e i campi di internamento a lavorare. Fra questi, tristemente noto divenne quello di Danane, in Somalia, in cui si dice che abbiano perso la vita migliaia di internati». (p. 156)

L’episodio tanto più noto quanto più efferato fu certamente la mattanza scatenata dopo l’attentato a Graziani del 19 febbraio 1937 e conclusasi solo tre mesi dopo, a fine maggio, con un numero ancora incerto, ma di diverse migliaia, di vittime e che culminò nella strage di Debrà Libanos. [Oltre alle pagine del libro di Labanca, per la ricostruzione delle vicende legate a Debrà Libanos ci permettiamo di rimandare al nostro Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica] All’inizio del 1938, Mussolini, irritato per l’inefficacia della campagna di sradicamento della resistenza etiopica condotta da Graziani, decise di richiamarlo e di sostituirlo con un rappresentate della famiglia reale: il duca Amedeo di Savoia-Aosta. Con l’arrivo di quest’ultimo alcune cose cambiarono e migliorarono e alle «fucilazioni sommarie si sostituirono i processi, Danane fu lentamente svuotata, gran parte dei notabili deportati in Italia furono fatti tornare: si sperava che il tempo lavorasse per la solidità dell’impero». (p. 184) Non si può però tacere il fatto – osserva opportunamente Labanca – che fu proprio durante il periodo di governo del duca d’Aosta che la legislazione razziale fu messa in atto nell’AOI e che le operazioni di polizia coloniale continuarono, con le conseguenti violenze, in alcuni casi trasformatesi in strage, come in occasione della «feroce repressione condotta fra il 1° marzo e il 15 aprile 1939 di fronte a una grotta a Zeret, […], circa 200 chilometri a nord di Addis Abeba». (p. 193)

La legislazione razziale, appunto, introdotta con r.d.l del 19 aprile 1937, di seguito tradotto in legge il 30 dicembre 1937, e recante il titolo: Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi. Labanca, facendo riferimento a suoi precedenti studi in materia come a quelli di Enzo Collotti e Michele Sarfatti, osserva come la legislazione razzista in AOI, non solo abbia introdotto un odioso regime di apartheid, del tutto simile a quello sudafricano, non solo abbia perseguito l’intento di impedire il meticciato, la mescolanza per via sessuale e coniugale tra italiani ed africani, non solo abbia applicato i principi del peggior razzismo biologico, ma abbia anche fatto da presupposto teorico e pratico al successivo r.d.l del 17 novembre 1938, cioè ai Provvedimenti per la difesa della razza italiana e al conseguente antisemitismo. Aspetto, quest’ultimo, di fondamentale rilevanza in sede di analisi della genesi e dello sviluppo del razzismo e dell’antisemitismo fascisti, in quanto consente di ostacolare le tesi “riduzionistiche” che vorrebbero leggere l’antisemitismo italiano come conseguenza di una imposizione o dettatura da parte dell’alleato tedesco.

Per concludere, come dimostra il libro qui proposto di Labanca, un’opera che in relativamente pochi capitoli e pagine riesce a trattare con grande ampiezza di prospettiva, ricchezza di temi ed aspetti trattati, profondità di analisi una questione storica così complessa come la guerra italiana contro l’Etiopia, lo stato di avanzamento degli studi su questo argomento è ormai molto avanzato e sicuramente si arricchirà ulteriormente nei prossimi anni; ma, allora, ancor più grave e problematica risulta la sostanziale ignoranza collettiva e pubblica di queste pagine di storia italiana. Infatti, scrive l’autore, «mentre l’opinione pubblica e gli italiani appaiono sempre più distanti e meno informati, gli studiosi hanno invece riscoperto la dimensione coloniale della storia d’Italia». (p. 242)
A questa divergenza sempre più profonda e non certo positiva tra ricerca storica e coscienza storica collettiva si aggiunge poi un fenomeno recente che Labanca registra in conclusione del suo lavoro e che è da ritenersi preoccupante, anche alla luce della situazione politica internazionale attuale e cioè il fatto che «in questi ultimi anni si è diffuso nelle opinioni pubbliche europee degli stati già potenze coloniali un sentimento vagamente ma corposamente nostalgico nei confronti dell’ormai lontano passato imperiale. Attraverso la “nostalgia coloniale, la “colonial-algia”, l’Europa ricorda così quando in effetti era potente e dominava il mondo, cosa che non avviene più oggi». (p.243)

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Il reale delle/nelle immagini. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica https://www.carmillaonline.com/2015/11/12/il-reale-dellenelle-immagini-potere-ideologia-violenza-dellimmagine-fotografica/ Thu, 12 Nov 2015 22:45:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26497 di Gioacchino Toni

etica_fotografiaRaffaella Perna, Ilaria Schiaffini, Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, Derive Approdi, Roma, 2015, 154 pagine, € 16.00

«L’intrattabile realtà della fotografia si sposa oggi con una fruizione sempre più frettolosa, o “distratta”, per usare le parole di Benjamin: l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (I. Schiaffini, p. 12)

Il saggio raccoglie una serie di contributi volti ad indagare ciò che è ben sintetizzato dal sottotitolo del [...]]]> di Gioacchino Toni

etica_fotografiaRaffaella Perna, Ilaria Schiaffini, Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, Derive Approdi, Roma, 2015, 154 pagine, € 16.00

«L’intrattabile realtà della fotografia si sposa oggi con una fruizione sempre più frettolosa, o “distratta”, per usare le parole di Benjamin: l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (I. Schiaffini, p. 12)

Il saggio raccoglie una serie di contributi volti ad indagare ciò che è ben sintetizzato dal sottotitolo del saggio stesso: Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica. In estrema sintesi, ad essere affrontati nei diversi interventi sono: il ruolo delle immagini traumatiche in un contesto ove pare sempre più importante condividerle e commentarle piuttosto che osservarle e comprenderle; la funzione del fotografo come testimone e produttore di informazioni; il rapporto tra fotografia ed etnografia nel suo tentativo di trasformarsi da strumento di dominio a mezzo di socializzazione; il carattere documentale della fotografia dei campi di prigionia e dei profughi; il ruolo dell’immaginario bellico e della costruzione dell’identità di genere prima e dopo l’avvento della fotografia; la questione della censura del corpo delle donne ed il ruolo assunto a tal proposito dall’immagine fotografica; il rapporto tra fotografia e Movimento del ’77; il dominio ad opera di uno stile unico ed omologante della cultura visuale della contemporaneità; l’epica contemporanea in alcuni esempi di sinergie tra letteratura e fotografia.

Immagini di stragi, di massacri e di torture compaiano con sempre maggior frequenza sui diversi mezzi di comunicazione ponendo, ancora una volta, d’attualità la questione relativa all’eventualità o meno di mostrare tali immagini e l’obbligo di interrogarsi circa il senso ed il fine che tali visioni vengono ad avere in un contesto, come quello attuale, votato alla mercificazione più spietata. Di fronte a tale tipo di immagini, sostiene Ilaria Schiaffini, tornano a confrontarsi coloro che ritengono la loro diffusione una sorta di obbligo al fine di suscitare una reazione morale e quanti, invece, vedono nella proliferazione forsennata di tali immagini il rischio dell’anestetizzazione.
Susan Sontag, nel celebre saggio pubblicato nel 1973, On Photography (Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, 1978), sosteneva che la fotografia traumatica finiva col provocare un effetto di paralisi nell’osservatore a causa del senso di impotenza da cui veniva investito. A proposito di effetto anestetizzante, John Berger, nel suo “Photographs of Agony” in About Looking del 1980, (“Fotografie d’agonia” in Sul guardare, 2009) segnala come nella foto traumatica le distanze di ordine temporale, culturale e geografico che intercorrono tra l’evento riprodotto e l’osservatore possano provocare, dopo lo shock iniziale, un senso di inadeguatezza morale superato tramite rimozione od attraverso un distaccato gesto di beneficenza. Tale distanza tra immagine traumatica ed osservatore decontestualizza l’evento facendogli perdere valenza politica.
La diffusone delle immagini traumatiche è utile al fine di denunciare le atrocità e rendere una qualche forma di giustizia alle vittime o, viceversa, rappresenta un superamento della soglia di rispetto dell’altrui dolore? Inoltre, tale esposizione, quanto ha a che fare con un insensibile, macabro e profittevole voyeurismo? Si pensi a quante trasmissioni televisive hanno costruito la loro fortuna in termini di audience e relativi introiti pubblicitari sulle immagini drammatiche. Ci si potrebbe spingere addirittura a chiedersi se qualche traccia di inconsapevole voyeurismo è presente anche in chi, in tutta onestà, decide di mostrare tali immagini col nobile fine di denuncia.
Oltre all’aspetto voyeuristico, l’autrice sottolinea come l’attualità sia contraddistinta anche da un’evidente esibizione narcisistica, in entrambi i casi ciò è consentito anche dai particolari e diffusi dispositivi tecnologici e comunicazionali contemporanei. Voyeurismo ed esibizionismo finiscono col «modificare non solo le modalità di ricezione e apprensione delle informazioni, ma anche le relazioni sociali e affettive, con un impatto dirompente nelle nuove generazioni» (p. 12).
L’antica questione dell’autenticità dell’immagine fotografica pare essere tornata d’attualità, se mai ha conosciuto un periodo d’oblio, e non solo a causa dell’estrema malleabilità dell’immagine digitale perché, secondo Ilaria Schiaffini, se «ci spostiamo dalla teoria del dispositivo fotografico alla pratica dei suoi usi sociali, possiamo concludere che il paradigma realistico documentario della fotografia sopravvive col digitale, e che all’idea di autenticità si è sostituita quella, diversa ma affine, di credibilità. (…) Quali che siano le potenzialità di simulazione della realtà nell’era digitale, inalterato sembra rimanere il valore probatorio della fotografia, l’attestazione di realtà che essa è in grado di introdurre nell’osservatore fin dalle origini» (p. 7).
Per quanto riguarda gli usi attuali della fotografia, secondo Ilaria Schiaffini, a determinare conseguenze etiche e politiche rilevanti non è tanto la tecnologia di produzione, più o meno manipolabile, quanto la pratica della condivisione che sui social media è istantanea e non mediata da un’agenzia di stampa o da un editore. Oggi tutti gli individui possono divenire fotogiornalisti occasionali visto che attraverso un semplice smartphone possono riprendere un evento e diffonderlo istantaneamente ad un numero potenzialmente infinito di destinatari. Tutto ciò può essere letto tanto come forma di democratizzazione dell’informazione quanto come forma di controllo sociale. Inoltre, sostiene Schiaffini, la libertà individuale di realizzare e distribuire fotografie, produce una democrazia illusoria se ciò non si traduce in responsabilità individuabili.
In un panorama come quello attuale, in cui, sostiene la studiosa, «l’utente tende a privilegiare la condivisione dell’immagine rispetto alla sua visione, il commento rispetto alla sua comprensione, e a sostituire l’esperienza diretta con la sua simulazione» (p. 12), occorre affrontare una riflessione sull’immagine fotografica che coinvolga più ambiti disciplinari, nella consapevolezza di come l’indagine sulla fotografia debba oggi più che mai tenere in considerazione i suoi usi nell’ambito di un web evoluto in direzione di un alto livello di interazione tra gli utenti e di condivisione di materiali. Da tale premesse nasce il volume Etica e Fotografia nell’ambito di un convegno tenutosi presso l’Università di Roma La Sapienza allo scopo di intrecciare riflessioni sull’immagine fotografica derivanti da diversi ambiti disciplinari e sensibilità.

riis_008Antonella Frongia affrontando il ruolo del fotografo nel suo essere testimone e produttore di informazioni, si sofferma sulla valutazione etica dell’esibizione di immagini di violenza ad un pubblico che non ha assistito direttamente a tali eventi. Di fronte a situazioni particolarmente cruente è opportuno o meno fotografare? Tali immagini si devono diffondere pubblicamente o è meglio censurarle al grande pubblico? Altra riflessione sviluppata dalla studiosa riguarda «il tema della violenza in rapporto all’ontologia del mezzo fotografico» (p. 15), questione cara a diversi teorici che in passato hanno ragionato circa la violenza intrinseca al medium fotografico, come Metz, Baudrillard, Barthes ed, in particolare, Susan Sontag. Se buona parte delle letture critiche pongono l’accento sul fatto che guardare significa imporre il proprio sguardo sull’Altro, è però possibile opporre ad una visione così drastica una lettura della fotografica volta a mettere in luce il suo essere un processo più che un atto.
L’intervento di Antonella Frongia si sofferma in particolare sull’operato di Jacob Riis, fotografo che a fine Ottocento ha documentato i bassifondi newyorchesi attraverso scatti notturni ottenuti grazie ai lampi di polvere di magnesio. Si è più volte insistito sulla violenza di tali bagliori che, in ossequio alle teorie del determinismo sociale a cui si rifaceva Riis, avrebbero dovuto, secondo una logica di denuncia sociale, esporre i “fatti”, relativi alle miserie del lumpenproletariat urbano, a cui rispondere poi con un’azione sociale volta a migliorare le cose. La fotografia di Riis può essere letta come mezzo di svelamento dello stato di miseria a cui è costretta una parte di popolazione newyorchese, ma anche come atto violento ed aggressivo, volto a ledere la privacy dei cittadini meno abbienti per finalità commerciali. Sebbene la critica nei confronti dell’uso della luce violenta del flash ha una sua ragion d’essere, secondo la studiosa, a ciò si dovrebbe affiancare l’idea che probabilmente lo stesso Riis cercava nelle sue fotografie un minimo di interazione con gli individui ripresi; se alcuni personaggi si mostrano accecati dai lampi del falsh, dunque in balia del gesto autoritario dello scatto del fotografo, altri sembrano interagire nei confronti di tali bagliori palesando sguardi di resistenza conflittuale. Ciò non toglie che anche in tali foto non viene meno il rapporto gerarchico autoritario che vede il fotografo compiere un atto di violenza nei confronti di chi viene dapprima sottoposto ad un lampo abbagliante e poi ritratto senza alcun consenso, ma resta il fatto che forse è possibile scorgere nell’autore l’idea di come anche in questo tipo di fotografia dei “fatti” vi sia una componente di interazione in cui i soggetti ripresi hanno un, seppur piccolo, momento attivo.

Antonello Ricci si occupa del rapporto tra fotografia ed etnografia a partire dalla loro nascita e dal loro sviluppo pressoché contemporaneo nel corso della seconda metà dell’Ottocento, in un ambiente permeato dalla cultura positivista. Vista l’importanza che l’antropologia dell’epoca concede allo sguardo ed all’osservazione è inevitabile che la fotografia venga ad avere un ruolo importante nel rilievo antropometrico. Alle misurazioni del corpo si aggiunge il dato fotografico. Non è difficile individuare nella fotografia antropometrica un atto estremamente violento nei confronti della persona costretta ad esibire il proprio corpo nudo in maniera tutt’altro che spontanea, ad assumere una postura innaturale in «una messa in scena del tutto estranea alle prospettive emiche dell’autorappresentazione» (p. 31), incurante del punto di vista di chi viene fotografato a proposito delle modalità rappresentative della persona e del disinteresse per le «ricadute a livello simbolico, religioso, mitico e rituale che la ripresa fotografica e la conseguente esposizione/rappresentazione figurativa porta con sé nell’orizzonte culturale della persona ripresa» (p. 31). Fortunatamente, in età contemporanea, la fotografia etnografica si è indirizzata verso una riduzione della distanza tra studioso-ricercatore e soggetto della ricerca, in ossequio ad una concezione della fotografia come “veicolo di socializzazione” tra fotografo e soggetto fotografato.

andersonville-1864Adolfo Mignemi indaga il carattere documentale delle immagini aerofotografie dei prigionieri e dei profughi dalla Guerra di secessione americana fino alla Seconda guerra mondiale. Per quanto riguarda la Guerra di secessione americana vengono affrontate in particolare le immagini di Camp Sumter, ad Andersonville, ove l’esercito sudista raccoglie ben 45.000 prigionieri di guerra. Tali fotografie testimoniano le tremende condizioni di vita dei prigionieri, condizioni che causeranno la morte per malattia e stenti di quasi 13.000 reclusi. A proposito della Grande guerra viene posto l’accento sull’uso della fotografia come arma di propaganda da parte dei diversi governi nazionali e di come si sviluppi una vera e propria ossessione per rappresentare la potenza militare del proprio esercito a confronto con la debolezza dell’avversario. Non di rado si tende a voler evidenziare anche la superiorità del proprio soldato dal punto di vista sociologico e razziale, tanto che si può parlare di nascita una “immagine del nemico” connessa alle strategie di propaganda. Altra documentazione importante riguarda il genocidio degli armeni da parte del governo dei Giovani turchi. Particolare attenzione viene poi riservata alla cosiddetta “pacificazione della Cirenaica” portata avanti dal governo italiano attraverso atrocità di ogni tipo, armi chimiche comprese. In tal caso l’album fotografico che correda il volume di Rodolfo Graziani rappresenta una documentazione importante.
Dagli anni Trenta si inizia a disporre di documentazioni visive significative al fine di rivelare l’ideologia sottesa alle immagini ufficiali. Sempre a proposito degli anni Trenta, le aggressioni italiana all’Etiopia e giapponese ai territori cinesi sono documentate da numerose fotografie che mostrano un incredibile campionario di atrocità che spazia dalle rappresaglie sui civili, agli stupri di donne fino all’utilizzo dei prigionieri come sagome per esercitare le reclute al combattimento all’arma bianca. Un passaggio significativo dell’intervento di Mignemi riguarda il fatto che le fotografie di quelle atrocità, così come quelle scattate dai telefoni cellulari nel corso delle guerre recenti, come in Afganistan, non sono state realizzate per denunciare i fatti, ma al fine di diffondere compiaciute immagini-ricordo. Da ciò deriva la necessità di «ricostruire la natura e i caratteri del rapporto tra immagine pubblica e immagine privata intesa come terreno di emulazione lessicale e linguistica e campo di sperimentazione di vere e proprie parafrasi visive». (p. 48).
Interessante anche lo svilupparsi in diversi paesi, tra questi l’Italia, e non solo nei territori coloniali, di una modalità di rappresentare il “nemico interno” come una patologia da estirpare anche attraverso il ricorso a strutture pensate in funzione dello stato di guerra; si tratta di una vera e propria militarizzazione dei rapporti sociali e di una totale sospensione democratica, tanto che in tali strutture viene ritenuta legittima l’arbitraria eliminazione fisica dei prigionieri.
È con la Seconda guerra mondiale, sottolinea lo studioso, che la fotografia si impone decisamente come strumento di costruzione delle immagini dei prigionieri a scopo propagandistico. Ad esempio, dalla diffusione di immagini relative allo sterminio di ebrei nei territori occupati dell’Europa orientale, si comprende come vi fosse una «conoscenza diffusa in Germania di quanto stava accadendo in quei territori e la totale assuefazione a una crescente spirale di violenza il cui principale obiettivo è consolidare il principio che nel conflitto in corso vi sono avversari che per la Germania devono necessariamente essere annientati» (p. 49).
Risulta importante tener presente che il racconto trasmesso dalle immagini suscita nel corso del tempo emozioni anche opposte, pertanto ogni immagine fotografica deve essere assolutamente contestualizzata “all’universo visivo” dell’epoca in cui è stata realizzata.
Esistono anche fotografie scattate clandestinamente dai prigionieri stessi. Celebre il caso delle fotografie scattate da un prigioniero polacco ad Auschwitz-Birkenau che, dopo essere restate a lungo chiuse in un cassetto, nel momento in cui vengono diffuse subiscono pesanti ritocchi volti a drammatizzare ulteriormente il contenuto rendendole così del tutto inattendibili dal punto di vista storico. Tra le altre immagini scattate da prigionieri vengono ricordate quelle dell’ufficiale italiano Lido Saltamartini, prigioniero in India degli inglesi, e le foto realizzate dal tenente Vittorio Vialli durante la sua prigionia in Germania ed in altri territori occupati.
Per quanto riguarda la testimonianza fotografica dei profughi, è a partire dalla Seconda guerra mondiale che si ha diverso materiale a disposizione e, nel saggio vengono ricordate immagini riguardanti profughi italiani in Svizzera sia nell’ambito delle vicende relative la riconquista nazifascista dell’Ossola che dei profughi sfuggiti dalla RSI e concentrati nel campo di Woeschnau.
Se, dopo la fine della guerra, per un periodo compreso tra gli anni Cinquanta fino circa alla fine del secolo, il fotografo tendeva a qualificarsi come testimonianza neutrale, ultimamente le cose sembrano di nuovo cambiate, tanto che «le sue immagini assumono sempre più il connotato di un’arma non facilmente dominabile. È l’eredità di un profondo mutamento degli immaginari visivi individuali e collettivi con lo sfumare della percezione del reale nella produzione di immaginari artificiali dai caratteri molto realistici, proveniente, da un lato dalla consuetudine con le più recenti tecnologie mediatiche tutte individualistiche e individualizzanti; dall’altro con il perdersi delle pratiche di costruzione di immaginari visivi collettivi che deriva, ad esempio, dalla pratica della visione cinematografica pre-televisiva». (pp. 58-59)
L’immagine fotografica contemporanea è sempre più difficilmente identificabile come rappresentazione di una situazione reale o simulata; occorre pertanto imparare a distinguere la manipolazione del contenuto dell’immagine dall’uso manipolatorio delle immagini.

Lucia Miodini affronta la questione dell’immaginario bellico e della costruzione dell’identità di genere. «L’opinione comune condanna l’atto di violenza, ma non considera le premesse culturali che lo rendono possibile. La violenza maschile sulle donne si spiega solo all’interno di uno scenario culturale diffuso e condiviso. Per uscire da queste cornici culturali e ideali, un primo passo è la decolonizzazione dell’immaginario» (p. 64). Nel suo intervento l’autrice intende individuare le connessioni che legano l’immaginario bellico e la violenza maschile sulle donne a partire dai nazionalismi Otto-Novecenteschi. Miodini invita a non pensare alla guerra come evento accidentale ma come “fatto sociale totale” la cui logica è «materializzata nei discorsi e nelle rappresentazioni dell’alterità» (p. 65). Dai dipinti alle immagini delle pubblicità la rappresentazione della donna sembra «legittimare l’esistenza dell’aggressione sessuale come dato irrinunciabilmente estetico» (p. 66). Tra Sette e Novecento ricorrono spesso narrazioni volte ad utilizzare l’immagine della donna come personificazione dell’intera nazione: «la donna violata, metafora della nazione aggredita sessualmente da un tiranno oppure dall’invasore straniero. Immagine paradigmatica, rivelatrice della differenza sessuale che ritorna, seppure con diversa connotazione, in gran parte dell’odierna produzione mediatica» (p. 68). Il tema dello stupro è ossessivamente presente nei discorsi nazional-patriottici ed il corpo della donna diviene metafora della comunità nazionale violentata dall’invasore. Soprattutto nel Novecento «si consolida l’associazione tra razzismo e sessualità e il formarsi dello stereotipo della razza inferiore dedita alla libidine» (p. 68). Lo stupro viene considerato un’offesa contro la morale e la «perdita della virtù corrompe l’anima della donna stuprata e la rende impura, la fragilità femminile accentua la necessità che la donna sia guidata e protetta» (p. 68). «Rapportare l’etnicità al genere ed all’eterosessualità ha di fatto reso possibile una nuova concettualizzazione del nazionalismo. La politicizzazione dello stupro e l’uso nazionalistico della violenza sessuale nei conflitti degli anni Novanta evidenziano una prospettiva qualitativamente diversa: nuova è la costruzione dell’appartenenza etnica attraverso lo stupro, che funziona come arma bellica» (p. 69). Lo stupro pare derivare direttamente dal modo con cui la mascolinità si rapporta col potere, tanto che le vittime della violenza sono coloro che esulano dal modello virile dominante, dunque donne in primo luogo, ma anche uomini appartenenti a categorie discriminate, prigionieri compresi.
Negli ultimi decenni, inoltre, spesso aggressori ed aggredite appartengono al medesima etnia e la difesa della parte aggredita viene presa da una comunità etno-nazionale “superiore”, tanto che, continua la studiosa, l’aggressione alle donne nell’età contemporanea sembra simboleggiare una contrapposizione sovranazionale tra barbarie e civiltà.
Nella guerra si esprimono al massimo livello gli ideali di virilità e cameratismo ed, a ben guardare, suggerisce Miodini, l’immaginario contemporaneo veicolato dai media, in molti casi, non sembra aver davvero messo in crisi tali ideali di mascolinità volta alla sopraffazione. «La violenza è qualcosa cui gli uomini sono stati socializzati, come espressione identitaria e culturale della propria maschilità o virilità, come modo di affermazione sociale» (p. 70).
Dalle fabbriche di immaginario contemporanee scaturiscono anche figure femminili che si fanno portatrici di virtù virili mostrare in atteggiamenti violenti. A tal proposito l’autrice si chiede quanto questi atteggiamenti rispondano a desideri femminili o quanto siano la proiezione dell’immaginario maschile.
Al fine di decostruire l’immaginario bellico, ove si radica la violenza maschile nei confronti delle donne, occorre analizzare i dispositivi della visione e gli sguardi con cui si affrontano le immagini, visto che essi «concorrono alla prefigurazione del potere che le immagini esercitano e al piacere che suscitano» (p. 71). Miodini riflette sulle modalità di visione occidentali a partire dagli albori dell’età moderna, ricordando come esse siano strutturate attorno ad un tipo di rappresentazione prospettica che porta all’interno dell’immagine lo sguardo ed il soggetto guardante, soggetto che non è neutro: l’osservazione occidentale è avvenuta ed avviene attraverso uno sguardo maschile. Allo stesso modo la rappresentazione visiva delle proporzioni ideali del corpo umano ha la forma del nudo maschile, così come nudo e maschile è l’archetipo eroico del guerriero in battaglia. Ancora nella prima metà del Ventesimo secolo, la figura eroica del soldato viene rappresentata nei media e nei monumenti della memoria attraverso nudità ed eroismo.
«Nella cultura occidentale gli uomini si mettono in luce mostrando il proprio valore in battaglia, la morte eroica diviene così il momento di massima visibilità, che conferisce significato a una vita intera. La visibilità fornisce, infatti, alla guerra sia il criterio della sua rappresentazione sia quello della sua motivazione» (p. 73).
All’inizio del Novecento il diffondersi dell’immagine fotografica è parallelo alla massificazione e anonimia del soldato caduto in guerra. A lungo il fotoreporter viene percepito come eroe di guerra, poi, dagli anni Novanta, in piena globalizzazione delle immagini, il mito inizia a decadere: a cambiare drasticamente sono le forme di consumo delle immagini tanto che, sull’onda delle riflessioni di Virilio, si può parlare di «inversione della pulsione scopica del voyeurismo (…) Non si vuole vedere la guerra ma essere visti» (p. 75).
Secondo Miodini la questione principale nell’immaginario bellico contemporaneo è la costruzione dell’identità mediatica. La violenza, ai nostri giorni, non è «la conseguenza di una contrapposizione tra identità diverse, ma è essa stessa uno dei modi in cui si è prodotta l’illusione di identità» (p. 77), ed, aggiunge la studiosa, la fotografia autoprodotta e condivisa in rete è la pratica che simboleggia tale illusione. «I media funzionano come tecnologie di genere, come possibile luogo di strutturazione delle nostre identità femminili e maschili. Il genere è una collezione di rappresentazioni culturali concorrenti e talora contraddittorie e di significati simbolici antagonistici, tutti connessi all’elaborazione sociale della differenza sessuale» (p. 78). Rifacendosi agli studi di Consuelo Corradi (Sociologia della violenza. Modernità, identità, potere. 2009), l’autrice conclude che il «concetto di genere non è sufficiente a comprendere i cambiamenti in corso: la violenza maschile sulle donne si manifesta nel vuoto d’identità. È nel dominio del corpo, nella prossimità della carne, nella fisicità dei sessi che sta una parte importante della violenza maschile contro le donne» (p. 78).

Federica Muzzarelli affronta la questione della censura a proposito del corpo delle donne. La dimensione della corporalità è da sempre, da un punto di vista culturale, filosofico e religioso, associata al mondo femminile, tanto che «il corpo delle donne è stato tradizionalmente vissuto come l’interfaccia della loro identità» (p. 81). Relegate ai margini della cultura ufficiale, sostiene la studiosa, le donne hanno costruito a partire da tale isolamento strategie di rivendicazione di «un’autonomia borderline e di un’attiva sperimentazione delle proprie esigenze esistenziali ed estetiche» (p. 81). Viene così rovesciata una condizione di inferiorità in «arma di incredibile vantaggio su chi, gli uomini, erano già allineati al sistema, al sistema appartenevano naturalmente e culturalmente» (pp. 81-82). Nel momento in cui, nell’estetica novecentesca, il gesto ed il corpo conquistano una centralità a lungo negata, «la dimestichezza e la familiarità delle donne con le dinamiche del corpo le predisporrà quasi in posizione di imprevedibile vantaggio» (p. 82). Non è un caso, sostiene la studiosa, se la presenza femminile nell’arte coincide, oltre che con l’emersione del femminismo tra fine Ottocento ed inizio Novecento, con l’affermarsi delle filosofie dell’esperienza mondana e della tecnologia indicale fotografica e cinematografica che ben si presta al recupero del gesto. I temi della corporeità risultano presenti in molta produzione artistica femminile a testimonianza, sostiene Muzzarelli, di un processo di ricomposizione, riappropriazione ed autodeterminazione fisica. Per le donne la fotografia si mostra un’importante alleata «all’emancipazione dello sguardo e dunque del ruolo» (p. 83).
La studiosa si focalizza su alcuni episodi della fotografia contemporanea «in cui è l’immagine, è il corpo stesso delle donne (presentato o rappresentato), a essere mostrato censurato o piuttosto a essere stato messo in discussione» (p. 83). Vengono analizzati i casi relativi alle fotografie scattate dal Sonderkommando nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau relative ad un gruppo di donne denudate e condotte verso le camere a gas, foto successivamente ritoccata e manipolata, o le foto censurate di Ida Irene Dalser, amante e moglie di Mussolini, rinchiusa come pazza, o, ancora, il rifiuto dalla rivista “Interview” di pubblicare le foto scattate da Cindy Sherman negli anni ’80 per una casa di moda in quanto, mettendo in scena se stessa, fuoriesce totalmente dai canoni stereotipati di bellezza richiesti dal mondo della moda e delle copertine patinate.
Il contributo di Federica Muzzarelli si chiude sull’interessante confronto proposto da Nicolas Mirezoeff tra il lavoro fotografico di Nan Goldin, Nan one month after being battered (Autoritratto. Un mese dopo essere stata picchiata. 1984) che mostra ancora i segni della violenza privata, e le fotografie realizzate da Weegee, Ethel, the Queen of the Bowery degli anni ’40, ritraenti una donna che guarda in macchina mostrando il suo occhio nero. A partire da tale confronto, la studiosa invita a cogliere come nel passaggio «dall’essere un oggetto del voyeurismo maschile al divenire testimone autobiografico in prima persona [risieda] la rivoluzione che ha cambiato il ruolo delle donne nel Novecento» (p. 89).

mettiamo tutto a fuocoRaffaella Perna indaga il rapporto tra fotografia e Movimento del ’77 partendo da una pubblicazione del 1978 edita da Savelli: Mettiamo tutto a fuoco! Manuale eversivo di fotografia di Fabio Augugliaro, Daniela Guidi, Andrea Jemolo e Armando Manni. La storica pubblicazione aveva l’obiettivo di collegare gli aspetti pratici del fotografare con una serie di questioni teoriche volte sia a denunciare le modalità informative dei media ufficiali sia a decostruire il linguaggio fotografico e, soprattutto, a riflettere sul rapporto tra fotografia e Movimento del ’77. L’ambizione era quella di individuare una modalità fotografica anticelebrativa in grado di esprimere dall’interno dei movimenti i desideri e le aspirazioni politiche dei partecipanti.
In particolare è grazie al diffondersi del pensiero femminista che saltano le barriere tra pubblico e privato e viene valorizzata la riappropriazione del piacere e del desiderio. Lo scritto di Raffaella Perna si focalizza proprio sugli “aspetti soggettivi del Movimento”, mettendo in luce il diffondersi di una “fotografia della soggettività” riferita non soltanto alla diversificazione delle tematiche affrontate ma anche ad un differente rapporto tra il fotografo e il soggetto ritratto basato su uno sguardo dall’interno del Movimento e sul senso di fratellanza e sorellanza tra fotografo e militanti.
vivere a milano bonasiaAll’interno del clima conflittuale che attraversa il paese negli anni ’70, si diffonde un uso della fotografia volto a testimoniare le lotte ed i drammi del Paese. È all’interno di tale contesto che esce nel 1975 il libro Come eravamo (Savelli edizioni) che documenta, attraverso le foto di Adriano Mordenti e Massimo Vergari, un decennio di lotte studentesche romane, dai primi anni ’60 ai primi anni ’70. Si tratta di una rievocazione “dall’interno”, come suggerisce lo stesso titolo, che si focalizza su alcuni momenti particolari, come gli scontri e gli arresti, offrendo un’immagine eroica degli eventi. Anche il libro fotografico del 1976 Vivere a Milano (CSAPP), che ricostruisce, attraverso gli scatti di Aldo Bonasia, una serie di manifestazioni milanesi, segue la medesima logica della pubblicazione romana ma, puntualizza Perna, nel caso milanese risulta particolarmente interessante l’ultima immagine fotografia che esce totalmente dalla logica delle altre immagini: viene mostrato un ragazzo mentre si buca. La dimensione epica del movimento in lotta lascia il posto al dramma dell’emarginazione dell’individuo. Inoltre, sottolinea la studiosa, cambia anche la relazione tra fotografo e soggetto; nelle restanti immagini il fotografo «pur trovandosi nel mezzo dell’azione, non intrattiene uno scambio diretto con le persone ritratte, mentre in quest’immagine tra il fotografo e il giovane davanti all’obiettivo il rapporto è privo di mediazioni» (p. 100). Tale fotografia sancisce il passaggio «dalla rappresentazione dei drammi collettivi (…) al racconto dei traumi e dei drammi privati» (p. 100).
La pubblicazione di Uliano Lucas, L’istituzione armata (1977, T. Musolini, Torino) si occupa delle forze armate di polizia e di militari di leva offrendone una visione sfaccettata: «Lucas documenta con uno sguardo partecipe e dall’interno la vita quotidiana dei soldati, i momenti di convivialità tra le reclute e il processo di sindacalizzazione della polizia. Il libro assume il carattere di una ricerca sociologica» (p. 101). Anche in Tano D’Amico è centrale l’interesse per la soggettività e ciò e particolarmente evidente in È il 77 (1978, Libri del no, Roma). In tale pubblicazione, sottolinea Raffaella Perna, si possono ritrovare le due anime della fotografia di D’Amico: le immagini di piccole storie ed eventi marginali rispetto agli accadimenti e le fotografie di denuncia. Nel primo caso le fotografie di Tano D’Amico restituiscono la dimensione quotidiana, i desideri e le aspirazioni degli attivisti.
Una parte importante dell’analisi della studiosa riguarda il rapporto tra fotografia ed esperienza femminista a partire dall’analisi del libro fotografico Riprendiamoci la vita. Immagini del movimento delle donne (1976, Savelli) di Paola Agosti, Silvia Bordini, Rosalba Spagnoletti ed Annalisa Usai, illustrato dagli scatti di Agosti. In questo caso le fotografie sono scelte collettivamente e, nella sezione finale del libro, viene dato spazio a fotografie di carattere intimo a testimonianza della volontà di «esprimere anche il lato privato e “interno” dell’azione femminista» (p. 105)
mercoledìImportante risulta l’analisi della produzione di Paola Mattioli a partire dall’incontro col femminismo. In particolare vengono passati in rassegna Cosa pensi del femminismo? (1975) e Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo (1978, ed. G.Mazzotta, Milano), testo nato dall’esperienza collettiva di Adriana Monti, Diana Bond, Bundi Alberti, Mercedes Cuman, Esperanza Núñez, Silvia Truppi, oltre Paola Mattioli. «Il libro raccoglie materiali individuali ed esperienze collettive incentrate sull’immagine femminile e sul rapporto tra donne: il corpo, la soggettività, la sorellanza, le disparità tra i sessi, il desiderio di non conformarsi a modelli estetici e culturali percepiti come estranei e alienati» (p. 106). A proposito di tale pubblicazione e, più in generale, dell’intera opera di Paola Mattioli, la studiosa sottolinea come «la fotografia non è intesa soltanto come ricerca formale, ma anche e soprattutto come un mezzo per esplorare l’identità e, nel contempo, per creare e rafforzare le relazioni umane» (p. 106).

Il saggio di Michele Smargiassi si occupa del ruolo del ritocco fotografico a partire dalla celebre fotografia vincitrice del World Press Photo Award 2012 di Paul Hansen relativa al funerale dei fratellini palestinesi Suhaib e Muhammad [FOTO], in cui l’autore stesso è intervenuto ritoccando a posteriori i colori con la finalità di drammatizzazione degli eventi. Analizzando tale esempio lo studioso si interroga circa la portata della modifica: tale intervento varia soltanto la presentazione o anche il significato? Nel fotogiornalismo più volte si è assistito a discussioni a proposito della manipolazione del contenuto (es. aggiungere o togliere dettagli) ma se e quanto lo stile influenzi il contenuto appare una questione decisamente più controversa. La proposta di Smargiassi è quella di leggere il colore oggi come «la risorsa retorica che con ogni evidenza (…) viene chiamata in causa dai fotografi per conferire ai propri lavori una riconoscibilità o uno stile. Se questo risultato si ottiene essenzialmente in postproduzione, non sono certo i software ad averlo creato. I fotografi dell’era analogica sapevano scegliere quel pellicola usare per ‘tirare su i rossi’ o per ottenere quella certa “dominante fredda”» (p. 116).
Il dibattito circa la liceità o meno del manipolare i colori nel fotogiornalismo, sottolinea lo studioso, non deve dimenticare che esso nasce con «la più stilizzata delle coloriture fotografiche: il bianco e nero» (p. 117), nel suo arcobaleno di sfumature, comunque. Ancora oggi, per certi versi, si tende a leggere il bianco e nero, tanto in fotografia quanto nelle immagini in movimento, come una sorta di marca di autenticità. Occorre tener presente che per molto tempo il bianco e nero ha rappresentato l’unica opzione possibile, una costrizione tecnica che ora non è più tale; essa rappresenta, al limite, soltanto una opzione tra le tante, che il fotografo può scegliere. Dalla costrizione tecnica si è dunque passati ad una libera scelta. Sarebbe comunque troppo sbrigativo parlare genericamente di fotografia a colori visto che oggi ogni epoca ha i suoi colori ed ogni epoca tende a viverli come “naturali”, incapace di «vedere come artificiale e storicizzato il paradigma cromatico dominante» (p. 118). Ad esempio, «per noi, oggi, l’età di Proust ha i colori pastello degli Autochrome, certi servizi sulle star del cinema anni Cinquanta la satura nettezza delle stampe carbro, le vacanze anni Cinquanta ci vengono tramandate dalle dominanti slavate e opaline delle pellicole Ferrania…» (p. 117). E tutto ciò indipendentemente dal fatto che sia o meno dovuto a particolari emulsioni utilizzate all’epoca o del decadimento inflitto loro dal tempo.
Smargiassi ricorda che non vi è realismo fotografico che non abbia preteso di togliere di mezzo lo stile ed, al tempo stesso, non vi è realismo che non abbia finito col produrre un proprio stile. Tornando all’esempio della fotografia dai colori ritoccati del funerale dei fratellini palestinesi realizzata da Paul Hansen, lo studioso invita a non perdere tempo sulla questione se sia o meno lecito ritoccare luce e colori, piuttosto le domande che ci si dovrebbero porre a proposito di una fotografia come questa dovrebbero essere: «cosa sto vedendo davvero? Era un funerale o un corteo politico? Perché non ci sono donne?» (p. 125) ecc. In altre parole ci si dovrebbero porre domande che «portano dentro una situazione concreta e complessa della storia contemporanea e non ad un dipinto (…) Se la scelta di uno stile molto invadente distoglie da queste domande, forse la fotografia ha preso una strada sbagliata» (p. 125).
In conclusione del suo intervento l’autore, riprendendo la distinzione proposta da André Gunther tra ritocco (intervento che si mimetizza nel corpo dell’immagine e si nasconde all’osservatore ma che vuol confermare l’apparente realismo) e filtro (intervento che si mostra palesemente), Smargiassi si chiede se oggi i filtri non finiscano per mimetizzarsi anch’essi nella cultura visuale in cui si immergono. «Benché evidenti sulla superficie dell’immagine, scompaiono nella percezione comune ormai assuefatta a immagini tutte uguali. La scena visuale di oggi è colma di immagini filtrate, saturate e desaturate, chiunque ne consuma e chiunque ne produce, dai ragazzini smartphonizzati ai politici sempre più twittati, ai giornali autorevoli» (p. 126). Quando uno stile diventa così pervasivo, tende ad essere percepito come “naturale”, pertanto occorre davvero prestare attenzione al fotogiornalismo che «combina forti dosi di alterazione nei contenuti e ruffiano adeguamento ai gusti formali di massa» (p. 126). Nella contemporaneità il filtro può davvero trasformarsi in ritocco.

L’intervento di Andrea Cortellessa affronta l’epica contemporanea analizzando la produzione di Giorgio Falco e di Sabrina Ragucci. La disamina parte dalla pubblicazione di Pausa caffè del 2004 di Falco, autore definito da Aldo Nove come un contemporaneo poeta epico del mondo del lavoro precario. Cortellessa sottolinea come, in tale autore, la coralità pare capovolta rispetto al modello epico antico: «in luogo della totalità tradizionale il mondo di Pausa caffè è quello della più disgregata frammentazione sociale, della frammentazione emotiva di ciascuno di noi, della frammentazione del tempo e dello spazio» (p. 128), dunque, sostiene lo studioso, non poteva che ricorrere ad una tecnica narrativa fondata sul frammento. Non si potrebbe pertanto parlare di coro in quanto, continua lo studioso, «ogni singola tessera di quel mosaico [è] rigidamente monologica» (p. 128).
Nella seconda opera di Falco, L’ubicazione del bene, del 2009, i frammenti della rappresentazione modulare si accampano nel loro desolato isolamento senza presentarsi in unità di senso autonome. Tutto ciò viene a collocarsi in una contrada immaginaria, Cortesforza, una sorta di universo chiuso costituito da tanti non-luoghi. Nel descrivere l’universo messo in scena da Falco, Cortellessa ricorre alle parole di Peter Sloterdijk, e lo definisce “dentro il capitale”: «totalmente avvolto da una pellicola di merci e prezzi, incapaci di percepirsi (…) da una qualsiasi prospettiva esterna» (p. 130). Un unico ed eterno presente, senza un fuori e nemmeno un dentro; è la fine del mondo descritta tante volte dalla fantascienza ma qua ambientata nel presente e non in un lontano futuro.
Cortellessa sostiene che la fotografia risulta per certi versi sempre presente nei testi di Falco, anche quando materialmente non è direttamente presente sulle pubblicazioni; «più che della fotografia in quanto testo iconico sarà il caso di parlare, a proposito dei testi di Falco, dell’atto fotografico (…) ossia di quell’insieme di pratiche che ci consentono di parlare della fotografia come processo» (p. 133), nonché, continua lo studioso citando Philippe Dubois (L’Acte photographique, 1983 – L’atto fotografico, 1996), al tempo stesso come di una «vera categoria del pensiero». Dunque, secondo Cortellessa un pensiero fotografico, un’etica della fotografia, è alla base della narrativa di Falco e, continua lo studioso, la scrittura utilizzata ne L’ubicazione del bene può essere confrontata con la produzione dei New Topographics volta ad applicare al man-altered landcape lo stesso rigore che Ansel Adams riservava alla Wilderness. Falco sembrerebbe aver applicato alla sua scrittura la dislocated perspective dei New Topographics.
Già nel caso di L’ubicazione del bene è ravvisabile il contatto tra lo scrittore e la fotografa Sabrina Ragucci (sua l’immagine di copertina), la collaborazione tra i due prosegue, come ad esempio nel racconto Lo sguardo giù dal basso siamo noi (in Racconti, 2010), lungo una serie di produzioni sempre più sinergiche e sempre più strutturate, come nel caso di Condominio Oltremare (2014), ove risulta impossibile separare il testo di Falco dalle immagini di Ragucci. In questo ultimo caso, sostiene Cortellessa, «la scrittura non si presenta (…) quale didascalia dell’immagine, né viceversa l’immagine può essere considerata mera illustrazione del testo» (p. 137).

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Chi ricorda Debrà Libanòs? Come un falso mito cancella la memoria storica https://www.carmillaonline.com/2015/09/23/chi-ricorda-debra-libanos-come-un-falso-mito-cancella-la-memoria-storica/ Wed, 23 Sep 2015 21:30:38 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25059 di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità [...]]]> di Armando Lancellotti

1Come sanno tutti coloro che si occupano e si interessano dell’argomento trattato dal libro di Simone Belladonna – Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015, l’ultimo e più recente lavoro uscito sulla questione – solo nel 1996 il generale Domenico Corcione, Ministro della difesa dell’allora governo Dini, ammise l’uso di gas e di aggressivi chimici da parte delle truppe italiane impiegate nella guerra d’Etiopia del 1935/’36. A sessant’anni esatti da quei tragici e criminosi fatti, le autorità e le istituzioni italiane, seppur in modo troppo blando e tardivo rispetto alla gravità dell’accaduto, prendevano una decisione di fatto non più differibile, visti i cospicui risultati raccolti nel frattempo dalla ricerca storica nonostante i numerosi ostacoli incontrati e, spesso, da quelle stesse istituzioni frapposti, e abbandonavano, quindi, quell’imbarazzante atteggiamento omertoso che aveva contribuito in modo decisivo a censurare e ad allontanare dall’orizzonte della memoria collettiva italiana i crimini coloniali ed in particolare quelli commessi in A.O.I. (Africa Orientale Italiana). Ben tre interpellanze parlamentari e il lungo ed aspro, nonché noto, confronto polemico, consumatosi a mezzo stampa, tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli avevano finalmente acceso e puntato i riflettori di una parte almeno dell’opinione pubblica sul passato coloniale italiano, su pagine di “storia patria” in buona sostanza sconosciute o quasi a molti italiani. Il successore alla Difesa di Domenico Corcione, cioè Beniamino Andreatta, ministro del primo governo Prodi, si trovò ad affrontare nel 1997 lo scandalo dei crimini commessi dai soldati italiani in Somalia durante la missione ONU nota come Restore Hope, a cui l’Italia partecipò con un impiego di uomini, denominato Missione Ibis, inferiore solo a quello statunitense e con cui non si lasciò sfuggire l’occasione né di rimettere piede in una sua ex colonia del Corno d’Africa, né di macchiarsi di violenze e crimini contro civili, come già accaduto in epoca fascista.

2Si potrebbe pertanto supporre che a partire da queste vicende della metà dagli anni ’90, ricostruite ed analizzate nel dettaglio anche da Simone Belladonna nel suo libro, sia andato via via aumentando l’interesse per l’imperialismo italiano e soprattutto per gli aspetti peggiori e criminali di esso (o “più criminali”, si potrebbe dire, essendo un’aggressione coloniale già in quanto tale definibile, oggi, come un crimine contro l’umanità, se si applica l’art.7 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998) e che all’infaticabile e meritorio lavoro di ricerca storica di Angelo Del Boca innanzi tutto, che già a metà degli anni ’60 faceva uscire il suo primo libro sulla guerra d’Abissinia, e di Giorgio Rochat in secondo luogo, si siano aggiunti gli sforzi di altri storici e ricercatori. Ed in parte è quanto è accaduto, poiché al maggior africanista italiano e all’esperto studioso di storia militare sopra citati si sono affiancati, sia prima sia dopo le ammissioni governative del 1996, altri storici che con i loro lavori hanno di molto ampliato ed arricchito, per quantità e qualità, la conoscenza sia della guerra d’Etiopia e dell’uso di gas e armi chimiche in particolare, sia, più in generale, di altre pagine cupe della nostra storia recente: l’imperialismo italiano nel suo complesso e i crimini dalle nostre truppe commessi non solo in Abissinia, ma anche in Libia, oppure nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale; i campi di internamento per civili su suolo italiano o nelle zone di occupazione militare, ecc. Per citarne alcuni, con la consapevolezza di, involontariamente, dimenticarne altri, si possono ricordare i lavori di: A. Aruffo, L. Borgomaneri, D. Bidussa, A. Burgio, I. Campbell, S. Capogreco, M. Dominioni, F. Focardi, N. Labanca, G. Oliva, D. Rodogno, E. Salerno ed anche S. Belladonna, il cui libro da poco dato alle stampe costituisce l’occasione per la stesura di queste riflessioni.

3Ma se dall’ambito ristretto degli addetti ai lavori, degli storici e dei lettori interessati al passato coloniale italiano otto-novecentesco ci spostiamo in direzione dell’opinione pubblica, da intendersi in questo caso come consapevolezza e conoscenza diffuse dell’imperialismo italiano, delle sue guerre e delle sue politiche di repressione e occupazione, allora lo scenario cambia bruscamente e si delinea un quadro di sostanziale ignoranza, formatasi nel corso degli ultimi settant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla perdita dell’impero; insipienza che va addirittura oltre l’amnesia o il ricordo sfocato e impreciso di un passato che inevitabilmente si allontana sempre più, perché consiste in una sostanziale non conoscenza di quel passato, cioè di un pezzo della nostra storia lungo una sessantina d’anni, quelli che separano l’Italia di Depretis da quella di Mussolini e del secondo conflitto mondiale, in quanto fu a partire dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla guerra d’Etiopia e conseguente proclamazione dell’impero del 1935/’36 che l’Italia interpretò a più riprese una politica imperialistica di conquista coloniale dell’agognato “posto al sole” in terra d’Africa.
E non si trattò, come la vulgata più diffusa vorrebbe, di un colonialismo minore, più proclamato che praticato, ovvero, addirittura, bonario e benevolo, nonché – come ogni colonialismo occidentale ha sempre preteso di essere – civilizzatore. Per ambizioni e finalità, non ebbe molto da invidiare a quello di altre potenze europee del tempo e il suo carattere “tardivo” fu motivato dall’altrettanto tarda unificazione nazionale, un po’ come accadde all’imperialismo tedesco, bismarckiano prima e guglielmino poi. Prese le mosse, la conquista italiana di un “posto al sole”, negli anni ’80 dell’Ottocento e conobbe un momento apicale con la guerra italo-turca per la Libia del 1911/’12 e, quindi, nella sua fase “liberale” e non ancora fascista, si sviluppò negli stessi decenni in cui, per fare qualche esempio, la Francia si impossessò di Tunisia, Indocina, Marocco e l’Inghilterra prese il controllo di Suez e dell’Egitto, tasselli essenziali e strategici dei rispettivi imperi. Certamente i risultati italiani furono di ben minore portata, ma questo lo si dovette soprattutto a rapporti di forza nello scacchiere internazionale ed africano nei quali l’Italia era la parte debole, non certo alle intenzioni dei governi italiani, della classe dirigente liberale e dei settori del mondo economico coinvolti, soprattutto dai tempi di Crispi in poi. Per farsi largo tra le potenze del tempo, l’Italia intraprese due grandi guerre coloniali, che aggiunsero ulteriori elementi di criticità ai già incrinati e logori rapporti dei rispettivi scenari internazionali, che, pochi anni dopo l’una e l’altra guerra italiana, avrebbero condotto ai due conflitti mondiali: si tratta della già citata guerra di Libia e, ovviamente, di quella d’Etiopia. Ma il numero delle guerre potrebbe raddoppiare se si considera che tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, l’Italia – già fascista – fu impegnata nella riconquista di Tripolitania e Cirenaica e che quella del 1935/’36 fu, in realtà, la seconda guerra per l’Abissinia, preceduta da quella crispina, conclusasi con la disfatta di Adua del 1896, che costò più vittime di tutte le guerre risorgimentali messe assieme. La mussoliniana aggressione dell’impero etiope, poi, fu realizzata con un dispiegamento di uomini, mezzi, forze mai visto prima in una guerra africana o coloniale, tanto che, come ricorda Belladonna (S. Belladonna, cit, p.19) sulla scorta delle analisi di G. Rochat, si deve parlare di una guerra “nazionale”, non solo coloniale. «Guerra coloniale voleva dire un corpo di spedizione piccolo con molte truppe africane, obiettivi limitati e tempi lunghi, poca pubblicità e scarso coinvolgimento dell’opinione pubblica (come la riconquista della Libia). Mandare centinaia di migliaia di soldati invece voleva dire toccare direttamente tutti gli ambienti: ogni rione, ogni parrocchia, ogni villaggio avrebbe avuto i suoi “ragazzi di leva”. Voleva dire mobilitare la grande macchina propagandistica del regime, tutti i giornali, le scuole, i parroci, le industrie. Appunto una guerra “nazionale” […]» (G. Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino, 2005, pp.25-26).

E pertanto non solo per aspirazioni ed obiettivi politici o per mezzi ed uomini impiegati quello italiano non fu un colonialismo “minore”, ma anche per coinvolgimento, via propagandistica, dell’opinione pubblica e dell’intero paese. Se il caso etiope, sopra ricordato da Rochat, è il più evidente, poiché architettato e messo in opera dalla macchina della propaganda di un regime totalitario, per sua natura avvezzo al modellamento coercitivo del pensare collettivo e pubblico, non meno importante fu il caso della sbornia nazional-colonialistica degli anni attorno alla guerra di Libia, che forgiò i capisaldi dell’ideologia nazionalistica che poi traslò nell’interventismo del 1914/’15, e di seguito nel fascismo e che ripropose, sostanzialmente immutate, le sue parole d’ordine anche nel 1935/’36.

Sulla scorta di queste, seppur sbrigative, considerazioni, verrebbe da chiedersi perché allora quello italiano sia dagli italiani stessi considerato un colonialismo di rango inferiore e magari un po’ “straccione” o perché, peggio ancora, esso sia così poco ricordato e conosciuto.
Se poi si apre il capitolo dei crimini coloniali italiani le cose peggiorano ulteriormente e una spessa coltre di nubi sopraggiunge ed avvolgendoli nasconde i fatti più incresciosi e i comportamenti più violenti e criminali di cui si sono rese responsabili le forze armate italiane nelle colonie. E’ come se un fitto ed impenetrabile muro di nebbia impedisse alla coscienza collettiva degli italiani di vedere il proprio passato e le permettesse di vivere pacificata nella serena ignoranza della propria storia rimossa. A tal proposito basta gettare uno sguardo all’editoria scolastica, per rendersi conto come dei crimini di guerra italiani, dei gas in Etiopia, e prima ancora dei campi di concentramento libici in cui fu deportato il 50% della popolazione della Cirenaica, della brutale repressione contro la resistenza prima libica poi abissina, dei campi di internamento nei Balcani aggrediti e occupati insieme all’alleato nazista, ecc quasi non ci sia traccia. Pochi i manuali di storia che dedicano più di qualche riga o paragrafo a questi argomenti e quasi mai entrando nelle questioni con sufficiente profondità di prospettiva e accuratezza di analisi.

4E le cose non migliorano se passiamo dalla manualistica scolastica ad altri mezzi e prodotti culturali e di informazione: giornali, televisione, produzione documentaristica e cinematografica.
E allora gli studenti e gli italiani in generale conoscono qualcosa – sempre troppo poco, certo, ma comunque qualcosa – di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine, ma ignorano per lo più la strage di Debrà Libanòs, in cui la furia di fascisti e soldati italiani si scatenò in una rappresaglia che fu una vera e propria mattanza, per punire l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il generale Graziani, viceré di Etiopia dopo il rientro di Badoglio a Roma a guerra conclusa: prima venne la popolazione civile di Addis Abeba, che subì un pogrom squadrista che durò tre giorni; poi i notabili dell’etnia amhara, fucilati o deportati nei campi di concentramento, in particolare a Nocra in Eritrea e a Danane in Somalia; poi i cantastorie e gli indovini, accusati di propagare notizie anti italiane di villaggio in villaggio, che vennero arrestati e uccisi ed infine i monaci, i docenti di teologia, gli studenti del convento copto di Debrà Libanòs, considerato il centro nevralgico della resistenza abissina ed anche il luogo in cui gli attentatori fuggiaschi avrebbero trovato rifugio ed aiuto. [Per i fatti di Debrà Libanòs si veda, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005]

Se ci limitiamo anche solo all’episodio culminante del monastero, il numero delle vittime va da un minimo di 1400 circa a un massimo di 2000 circa, eliminate secondo modalità e logiche che non presentano sostanziali differenze da quelle delle cosiddette “eliminazioni caotiche” degli Einsatzkommandos nazisti sul fronte orientale e contro gli ebrei sovietici, o da quelle delle rappresaglie stragiste dagli stessi tedeschi utilizzate per reprimere la resistenza partigiana nell’Europa occupata ed anche in Italia. Questa la sequenza delle fasi principali dello sterminio: controllo militare del luogo, rastrellamento e concentramento delle vittime, trasporto con camion delle stesse in un luogo prescelto per l’esecuzione di massa, la piana di Laga Wolde non lontana dal monastero, uccisione tramite fucilazione e ammassamento dei cadaveri in fosse comuni. E non solo il modus operandi, ma anche la logica e le finalità che mossero i fascisti e i soldati italiani in Etiopia non differivano da quelle che avrebbero mosso i nazisti qualche anno dopo: repressione vendicativa della popolazione civile rea di collaborazione con i resistenti, rottura dei collegamenti tra partigiani e civili, governo e controllo del territorio tramite il terrore, dimostrazione di forza brutale.
E ancora, risulta difficile rilevare essenziali differenze tra gli ordini impartiti, tra gli altri, dal colonnello Herbert Kappler alle Fosse Ardeatine e le decisioni prese dal governatore del Regno del Montenegro, generale Alessandro Pirzio Biroli, che nel giugno del 1943, come rappresaglia per l’uccisione presso Podgorica da parte dei partigiani di 9 italiani del 383° reggimento di fanteria, fece fucilare 180 ostaggi, secondo una proporzione di 1 a 20, il doppio di quella applicata a Roma dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo1944. Ma di queste “Fosse Ardeatine jugoslave”, che ci vedono coinvolti in qualità di carnefici e non di vittime, non c’è memoria. [Per la repressione italiana della resistenza partigiana in Jugoslavia si vedano, tra gli altri: A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit; G. Oliva, “Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani 1940-43, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006; D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino, 2003]

E, per aggiungere un altro ed ultimo esempio tra i tanti possibili di questa sperequazione della memoria storica, è grosso modo noto a tutti gli italiani, anche grazie alla ricca ed ottima produzione cinematografica americana, l’uso massiccio da parte statunitense di defoglianti durante la guerra del Vietnam, ma pochi in Italia sanno che una trentina di anni prima il Regio Esercito italiano avvelenò la popolazione, gli animali e la vegetazione dell’Etiopia con tonnellate di ordigni caricati con iprite o arsina.

5Ma quali sono allora le cause e i motivi di questa sperequazione della memoria, come poco sopra è stata definita, che porta la coscienza collettiva di un popolo, quello italiano, a conoscere e commemorare, come è doveroso e fondamentale, i crimini di guerra subiti, ma ad allontanare dal piano del proprio orizzonte visivo quelli compiuti?
Che cosa, dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi, ha impedito e continua ad impedirci di impostare un rapporto con il nostro passato recente che sulla base di una verità storica seriamente ricostruita permetta di fare di quel passato stesso, per quanto scomodo o spiacevole possa essere, un tassello, un mattone per costruire un’identità storica collettiva consapevole e critica?
La ricerca storica procede nel suo lavoro di scavo e di ricostruzione, di indagine, di spiegazione e comprensione, ma non riesce a fare breccia nella coscienza collettiva, non è capace di sedimentarsi in essa perché si scontra con l’ostruzionismo pervicace di un mito collettivo, di una leggenda a cui, consciamente o inconsciamente, teniamo più che ad ogni altra immagine di noi stessi: la leggenda del “buon italiano”, degli “italiani, brava gente”. [Si vedano a tal riguardo, tra gli altri, A. Del Boca, Italiani, brava gente?, cit.; S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004]

Si tratta di una rappresentazione collettiva ampiamente auto assolutoria e rassicurante secondo la quale l’italiano – per indole, carattere o storia – non sarebbe capace di atti efferati, di crudeltà e crimini e, pertanto, anche in tempo di guerra, sarebbe mite, bonario e tollerante, sempre ben disposto anche nei confronti del nemico, se non addirittura sentimentale e comunque sempre umano. Uno stereotipo in piena regola, costruito su misura come un abito sartoriale, tagliato e cucito da mani esperte per le migliori occasioni e per le foto in posa.
Un’autorappresentazione fantasiosa, tanto deformata quanto a sua volta deformante – di cui in seguito verranno indicate per sommi capi genesi e ragioni – che dal dopoguerra è andata progressivamente radicandosi, innervandosi per divenire infine contenuto e forma essenziali dell’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso.
Da simili premesse, quali conseguenze? Numerose e tutte venefiche, in quanto travisano la realtà e producono, nell’ordine, falsità, oblio ed ignoranza. E pertanto il colonialismo italiano sarebbe stato un “colonialismo umanitario”, che costruiva ponti, pozzi e strade, quasi più missionario che conquistatore, che esportava – non violava – civiltà. Proprio come vuole il più inattaccabile degli stereotipi a supporto dell’ideologia imperialistica, quello della missione civilizzatrice, del “fardello dell’uomo bianco”, che nelle sue varianti ha resistito, e resiste, ben oltre l’età storica del colonialismo. Sullo sfondo di una visione così edulcorata della presenza italiana in Africa non c’è posto per crimini, violenze o stragi, che risultano conseguentemente minimizzati, quando non totalmente rimossi. E il paradigma di pensiero si sposta facilmente dall’Africa all’Europa, ai Balcani o al fronte russo, dove, ancora una volta i crimini compiuti vengono dimenticati o addirittura – è il caso dell’ARMIR – responsabilità e ruoli vengono capovolti e i soldati italiani da “invasori” diventano “vittime”. [Si veda a tal proposito Th. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Laterza, Roma-Bari, 2009]

Storture e travisamenti diventano riduzionismo e sfiorano il negazionismo quando si tocca la delicata questione del razzismo, che non riguarderebbe, se non limitatamente e in forme sempre blande, l’indole italiana, senza che di questa edulcorata lettura del fenomeno si possano trovare riscontri, dati e fatti comprovanti e a fronte, invece, delle Leggi razziali e antisemite del ’38 e dei provvedimenti legislativi segregazionisti e razzisti introdotti in A.O.I nel 1936 e 1937, che non solo mostrano come l’atteggiamento degli italiani in Etiopia fosse tutt’altro che fraterno e benevolo nei confronti della popolazione africana, ma anche dimostrano, scavalcando e confutando facilmente le interpretazioni minimaliste del razzismo italiano che immancabilmente lo vorrebbero spiegare come diretta emanazione e imposizione di Berlino su Roma, che esso conobbe invece una genesi e sviluppi propri e complessivamente autonomi dall’antisemitismo tedesco e collocabili per l’appunto in terra africana. [Si consulti E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari, 2003]

E allora anche il ricorso ai campi di concentramento non rientrerebbe nelle modalità propriamente italiane di esercitare il potere, reprimere e combattere i nemici, nonostante la costruzione di campi, per condizioni di internamento terribili, in Libia prima ancora che sul territorio nazionale o nelle zone di occupazione in Jugoslavia. Il lager diventa quindi una esclusiva dei nazisti, che, per bilanciamento complementare del mito del “buon italiano”, assurgono a mito negativo, quello del “tedesco malvagio”, per indole o per tratto etnico-nazionale. [Si consultino, tra gli altri, E. Collotti, L. Klinkhammer, Il fascismo e l’Italia in guerra, Ediesse, Roma, 1996; F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Laterza, Roma-Bari, 2013]

6-1Di fronte ad un così ben articolato armamentario di distorsioni e banalizzazioni storiche, i tentativi non tanto di fare luce sui crimini coloniali italiani, da questo punto di vista un cospicuo lavoro è già stato e continua ad essere svolto, ma piuttosto quelli di divulgare i risultati della ricerca, affinché possano divenire parte essenziale di una autocoscienza storica nazionale consapevole e critica, sembrano quasi sempre destinati alla sconfitta. Tale è la resistenza opposta dal meccanismo di rimozione censoria del “buon italiano”. Ovviamente quello italiano non è l’unico caso di memoria storica collettiva di problematica incubazione e di distorta e gravemente parziale formazione: ne sono un esempio le memorie conflittuali che in Spagna si confrontano davanti al passato franchista e ai crimini dai nazionalisti compiuti, e poi negati, durante la guerra civile ed immediatamente dopo, in un paese in cui la fine del regime si è associata alla continuità istituzionale per mezzo della monarchia. Ma il confronto più significativo va fatto con la Germania, che, pur avendo dovuto fare i conti subito dopo la fine della guerra con il macigno dell’allora recente passato nazista e dei suoi crimini contro l’umanità, aveva mantenuto e coltivato per decenni un proprio mito, anch’esso auto assolutorio e rassicurante, quello del “blasone immacolato” della Wehrmacht. A partire dall’immediato dopoguerra era stata ripetutamente proposta la teoria secondo cui l’esercito si sarebbe comportato onorevolmente e sarebbe uscito “pulito” dal secondo conflitto mondiale e, soprattutto, dal nazismo. Esso non avrebbe fatto altro che adempiere al proprio dovere e non si sarebbe sostanzialmente macchiato di crimini o di atrocità, che, pertanto, sarebbero stati compiuti solo da SS e Waffen-SS, dalla Gestapo e dal partito. In questo modo un’istituzione forte dello stato – l’esercito – e il grosso della popolazione tedesca coscritta e inviata sui fronti a combattere erano privi di colpe particolari e venivano sottratti al sospetto di aver commesso atti efferati, mentre l’esclusiva dell’orrore veniva attribuita al regime, al partito e ai corpi di polizia da esso dipendenti. [Tra gli altri, si consultino F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli editore, Roma, 1997]

Fu una mostra sui crimini della Wehrmacht organizzata dal Hamburger Institut für Sozialforschung tra il 1995 e il 1999 (Vernichtungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944 – Guerra di sterminio. Crimini della Wehrmacht dal 1941 al 1944) e poi dal 2001 al 2004 (Verbrechen der Wehrmacht. Dimensionen des Vernichtungskrieges 1941–1944 – I crimini della Wehrmacht. Le dimensioni della guerra di sterminio 1941-1944) a creare scompiglio e a mettere in discussione l’assunto di fondo della leggenda del “buon soldato tedesco”. La prima mostra attraversò 33 città in Germania ed Austria per un totale di 800.000 visitatori e la seconda fu portata in 11 città tedesche, a Vienna e in Lussemburgo e raccolse 420.000 visitatori. [Sito ufficiale della mostra]
Le dimensioni e il successo di pubblico della Wehrmachtsausstellung e il dibattito e le polemiche che ne scaturirono evidenziano come fosse difficile per molti tedeschi misurarsi con un’immagine di sé diversa da quella fino a quel momento coltivata, come fosse impegnativo dover rinunciare all’idea di un esercito complessivamente estraneo alle inumane pratiche del regime e del partito e dover ampliare considerevolmente l’area del coinvolgimento attivo nei crimini del nazionalsocialismo fino a farvi rientrare, appunto, l’esercito nel suo complesso. Coinvolgimento generalizzato del popolo, dello stato, dell’intera società, degli apparati economici nella costruzione e realizzazione del regime e nelle sue imprese, dalla guerra alla Shoah, che la ricerca storica aveva già ampiamente appurato e dimostrato, sempre più abbandonando letture “hitleriste” e, dagli anni Settanta in poi, virando verso approcci di tipo strutturalista, ma nell’opinione pubblica il mito della “Wehrmacht pulita” aveva resistito ben più a lungo.

Anche in Italia, il mito degli “italiani, brava gente” trovò terreno fertile in cui attecchire nell’immediato dopoguerra, perché lo vollero un po’ tutti. Agli ex fascisti, che intendevano a tutti i costi evitare di dover rendere conto dei crimini compiuti, risultava utile far passare l’immagine buonista del soldato italiano, che, associata alle censure capillari operate dal regime negli anni precedenti su argomenti quali, per esempio, i gas in Etiopia di cui ovviamente non c’era traccia nella cospicua memorialistica coloniale, gettava fumo negli occhi e contribuiva ad avvalorare il teorema innocentista ed auto assolutorio. Tutto questo però, si badi bene, al costo di un tanto paradossale quanto totale capovolgimento dell’immagine dell’Uomo Nuovo fascista che il regime aveva teorizzato, propagandato e costruito per vent’anni. Di quell’idealtipo fascista l’esempio più fulgido era stato proprio Rodolfo Graziani, il “macellaio degli arabi” – secondo la definizione che ne avevano dato i libici – non certo l’immagine auto denigratoria e derisoria confezionata ad hoc di un soldato italiano forse un po’ bislacco e pasticcione, magari non efficiente come altri nel combattere, ma che compensa tali deficienze marziali con cameratismo, umanità e compassione anche verso il nemico.
Ma interessava anche al maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, che si proponeva di conseguire il fine della riconciliazione popolare, della armonizzazione nazionale, attraverso un rapporto col recente passato che privilegiasse più la continuità che la rottura ed evitando l’epurazione della classe dirigente e militare precedente. A tal fine era quanto mai utile costruire una rappresentazione “vittimistica”, quindi assolutoria, di un popolo italiano interamente e sostanzialmente buono, che aveva subito e non voluto o condiviso il fascismo, corpo estraneo o parentesi malata, per dirla con Croce, nella storia del paese.
Ma anche ai partiti della sinistra e in particolare al Partito comunista la favola del buon italiano tornava comoda. Attraverso di essa era possibile sottolineare ed amplificare i meriti dell’Italia partigiana e di quella forza politica che più delle altre antifasciste l’aveva combattuta, il Pci appunto, contrapponendo un popolo buono ad un regime feroce. Si poteva impostare l’equazione, politicamente legittimante lo stesso partito, tra Resistenza e popolo italiano, il cui risultato sarebbe stato quello di un partito comunista parte integrante della nazione e forza politica nazionale, anche a costo di rinunciare alla necessaria epurazione e alla doverosa punizione dei maggiorenti e dei criminali del precedente regime. Il tutto culminò, come è noto, nell’amnistia da Togliatti stesso voluta per il conseguimento – per dirla con le parole del segretario del Pci – “della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani”.
E diedero il loro contributo a questa mitopoiesi postbellica anche gli Alleati, per i quali l’Italia, paese strategico e confinante con la “cortina di ferro” e da governarsi più in continuità con il passato che attraverso traumatiche rotture, era così importante da meritare un trattamento diverso da quello dei suoi alleati del Patto Tripartito, con i quali aveva scatenato e combattuto la seconda guerra mondiale e così non vennero mai istruite una “Norimberga italiana” o una “Tokio italiana”. I criminali di guerra richiesti dalla Jugoslavia, dalla Grecia o dalle ex colonie africane non furono mai consegnati e le pene inflitte da tribunali italiani furono poche, lievi e incommensurabilmente inadeguate ai crimini perpetrati.

Ma se tutto questo spiega il passato, perché ancora oggi, quando ci separano dalla guerra di Etiopia ottant’anni esatti, quando le ragioni del dopoguerra sono ormai soltanto analisi storica, parlare dei gas in Abissinia e di altre atrocità continua a suscitare come automatica reazione la riproposizione della formula magica del “buon italiano”?
Possibile che quelle motivazioni, così strettamente legate al periodo fascista e coloniale, alla sua fine e alla problematica costruzione di una nuova identità nazionale, in un paese prima aggressore e poi aggredito, prima nemico degli Alleati poi in parte cobelligerante, spaccato in due territorialmente e politicamente, attraversato dalla lotta partigiana e dalla guerra civile, tessera fondamentale nel nuovo mosaico europeo della guerra fredda, ecc, possibile – ci si chiedeva – che ancora oggi mantengano un senso?
O dobbiamo forse, più semplicemente, rassegnarci ad ammettere che, al di là di tutte le considerazioni di ordine storico e politico sopra abbozzate ed indipendentemente da esse, a noi italiani piacciono questi panni? Ci sentiamo bene in essi? Ci rassicura l’immagine un po’ da commedia e un po’ da tragedia di un italiano sempre succube degli eventi della Grande Storia che lo sovrastano, ma capace anche di ricostruirsi un proprio piccolo mondo privato, nella famiglia, nel borgo o quartiere, con gli amici o i commilitoni, dove è in grado di conservare e coltivare quel lato umano che lo caratterizzerebbe comunque e sempre e che gli consente, quando poi dalla Grande Storia è chiamato alla guerra, di combattere con onore, ma mai con brutalità e talvolta di fraternizzare pure col nemico e di fare all’amore con le donne dei paesi invasi, mai, ovviamente, di violentarle?
Qualunque sia la spiegazione, è certo che tale falsa e sciocca, menzognera e meschina autorappresentazione collettiva è così radicata in noi che riemerge ad ogni occasione buona e contribuisce, oggi come in passato, a mantenere umido e pronto il terreno per la semina dei più nefasti revisionismi e giustificazionismi, atti a riabilitare un passato vergognoso attraverso il potente fertilizzante dell’ignoranza della storia.
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Immagini, in ordine dall’alto al basso:
– manifesto della R.S.I, Vogliamo essere comandati dai negri? Giammai! Italia, 1944
– copertina di A. Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-41, Feltrinelli, Milano, I edizione, 1965.
– copertina di S. Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015
Gruppo di militari italiani intorno a una bomba C.500.T caricata a iprite
– cartolina coloniale, Armamenti, 1935-‘36
La raccolta dei cadaveri della rappresaglia fascista, Addis Abeba, febbraio 1937

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